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Autore: Nicola Rabbi

Blues Run The Game

 di Ghighi Di Paola

È il Blues a comandare il gioco, questo pensa il ragazzo americano mentre sta andando a Londra. Non è un ragazzo ordinario, è un chitarrista cantante: Jackson C. Frank.
Nome assolutamente sconosciuto nel mondo del rock e poco noto anche ai più fedeli ascoltatori di folk e blues. Eppure… eppure Jackson C. Frank ha tutto per diventare un mito della musica: una chitarra e una voce, una vita dissoluta, sfigata, tragica, epica, triste e dolorosa. Diversa. Tutta da raccontare insomma. 1954, Cheektowaga, Stato di New York, nella scuola elementare della città esplode una caldaia che ustiona Jackson per metà del corpo, uccidendo la maggior parte dei suoi compagni di classe. Gravemente ferito viene ricoverato all’ospedale, dove nei giorni seguenti il suo maestro porta con sé una chitarra con l’intenzione di distrarlo.
Ma accade di più, la chitarra diventa la sua compagna, le lezioni del maestro di scuola lo aiutano enormemente nel complesso recupero psicologico.
La passione per il folk lo sostiene per tanti anni, scrivere canzoni significa per il giovane Jackson entrare nei circuiti musicali che lo affascinano così tanto.
I suoi pezzi piacciono, la sua voce sfumata e malinconica lascia il segno, inizia a farsi concreta l’idea che il futuro potrebbe essere quello di musicista. Le incognite di una vita da artista però non lo convincono e, senza abbandonare la sua fedele chitarra, si iscrive all’Università per una più pragmatica laurea in giornalismo.
Mentre la fantasia galoppa però, un evento sconvolge i suoi piani: ha 21 anni e riscuote il monumentale rimborso dell’assicurazione per le lesioni subite nell’incendio.
Ricchissimo, la vita dello schivo e timido Jackson cambia ancor più drammaticamente, si dà alla pazza gioia, alcool e droghe, compra macchine costosissime – sembra che la Jaguar fosse la sua preferita – e frequenta tutti i locali e i club di blues americani.
Siamo a metà degli anni ’60 e le sue due passioni, la musica e le auto, lo portano in Inghilterra dove conosce e incontra alcuni tra i principali esponenti della scena folk inglese.
L’esuberanza del periodo, la vivacità di Londra contagiano nuovamente il giovane Jackson e sarà un altro americano come lui, nientemeno che Paul Simon, a rimanere incantato dalle canzoni di questo introverso e silenzioso connazionale. E Simon gli propone di produrre un disco.
È in quei giorni del 1965 che prende forma un capolavoro musicale: l’unico album mai registrato da Jackson C. Frank, omonimo, un concentrato di ballad affascinanti e malinconiche, con la voce calda di Jackson che snocciola pensieri e intimità varie.
Il tono è introspettivo, la chitarra segue gli umori dell’artista e l’inquietudine armonica del brano Blues Run The Game conquista il pubblico inglese e altri famosi cantautori del calibro di Nick Drake o John Renbourn che la suoneranno spesso.
Le vendite del disco però vanno male, l’assegno dell’assicurazione si consuma tra macchine e alberghi e, poco tempo dopo la pubblicazione dell’album, Jackson comincia a soffrire anche di disturbi psichici.
Decide di tornare in America ma a questo punto il ’68 è alle porte, ed è il rock e la rivoluzione giovanile a sconvolgere il mercato discografico, mentre le suggestioni più intime, l’introverso folk di Jackson C. Frank, sono di colpo diventate preistoria
E la tragica storia di Jackson C. Frank riprende il suo corso fatale.
Va a vivere a Woodstock, si sposa, per mantenersi lavora in un piccolo giornale e diventa papà di due figli. Ma il figlio maschio si ammala, muore e insieme al matrimonio crolla anche il suo delicato equilibrio.
Pochi anni più tardi John Renbourn, il mitico maestro del folk britannico fondatore dei Pentangle, riceve una lettera da Jackson in cui confusamente racconta che durante la scrittura e la registrazione del suo secondo album, affari personali e privati lo hanno costretto a fermarsi, che è stato sfortunato, che ha sentito che Renbourn sta suonando ancora i suoi pezzi e che sarebbe felice di incontrarlo.
L’indirizzo, scoprirà Renbourn, commosso dalla lettera, corrisponde a un istituto di cura di Woodstock.
Frank è scivolato in una profonda depressione.
Renbourn lo cerca, gli raccontano che sì, c’era un ragazzo che corrisponde alla sua descrizione ma che era davvero strano anche per gli standard di Woodstock.
Finirà per incontrarlo di nuovo solo negli anni ’90, a Buffalo, dove Jackson era nato e dove era tornato a vivere con i genitori: “è stato uno shock vederlo”, racconterà l’artista britannico, “era molto sovrappeso, sembrava davvero distrutto, i suoi occhi erano folli, ma ci siamo seduti insieme, tutti i ricordi ci son venuti dietro e lui si è tranquillizzato”.
A metà anni Ottanta Jackson aveva cercato anche di trovare aiuto a New York dal suo amico Paul Simon, ma finisce a vivere per strada continuamente ricoverato in ospedali psichiatrici.
Qui il destino si fa ancora più crudele, un’insinuazione di lieto fine s’affaccia: introvabile per anni, un suo vecchio fan lo rintraccia, lo convince a trovare le energie per incidere nuove canzoni e lo aiuta ad accettare un nuovo ricovero.
Mentre Jackson lo sta aspettando vicino alla panchina dove ha dormito negli ultimi giorni ci sono dei bambini che giocano con un fucile ad aria compressa e lui, colpito, rimane cieco da un occhio.
Freak Antoni, il poeta, lo diceva spesso, la fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo.
Jackson C. Frank muore senza casa e senza soldi a cinquantasei anni, il 3 marzo del 1999. È stato un grande cantautore ma ha inciso un solo album, un vinile che una piccola etichetta inglese ha ristampato lo scorso anno: cercatelo, è proprio bello.

Su Sofia Rocks, la web serie che propone altri sguardi

di Stefano Toschi

Beati noi
Spesso, navigando sul web in cerca delle ultime notizie dal sociale o dal variegato mondo della disabilità, riesco ad andare oltre i soliti volti noti (e le solite “carrozzine note”!) e mi imbatto in persone altrettanto interessanti, che si fanno portavoce di messaggi degni della mia attenzione. L’ultima volta, quasi per caso, mi sono imbattuto in Sofia Rocks, video blogger “su quattro ruote”, autrice di alcune puntate di una web serie in cui tocca temi legati alla disabilità.
La mia curiosità è stata attirata, inizialmente, dal nome (Sofia, per un filosofo, è sempre significativo, inoltre ho una cara amica la cui figlia si chiama allo stesso modo, ed è altrettanto… rock). Secondariamente, io sono un cultore del vivere slow, mi prodigo in elogi della lentezza (non potrei fare diversamente, visto il ritmo a cui parlo, mangio, tento di fare qualche movimento, ecc.) e il confronto con qualcuno che si dice rock già nel nome mi incuriosiva.
Sofia è una giovane donna che ha diverse cose in comune con me: bolognese d’adozione (veneta d’origine), laureata in Filosofia, è disabile da quando, a 5 mesi, a causa di un intervento al cuore andato male ha definitivamente perso l’uso delle gambe. Come spesso accade, da una conoscenza casuale si scoprono affinità con chi non si sarebbe mai aspettato di incontrare. La sua immagine, invece, è decisamente diversa dalla mia, posato intellettuale (!) di mezza età (!!!!!!!).
Sofia è decisamente grintosa: borchie, trucco nero, abiti di pelle, suona la chitarra elettrica, è vegana e campionessa di sci alpino. Nella sua presentazione, la disabilità non viene nemmeno citata: solo seguendo le puntate della web serie si evince la sua condizione. Come me, combatte per cambiare la mentalità delle persone, dei datori di lavoro, degli amministratori locali, degli insegnanti. Dai suoi brevi documentari emergono idee che condivido in pieno e altre che non mi trovano d’accordo. Condividiamo, ad esempio, la positiva esperienza da studenti di Filosofia dell’Università di Bologna. Come me, si è sentita accolta e senz’altro Sofia è stata anche aiutata dall’età. Ai miei tempi non esisteva un ufficio così efficiente per studenti disabili e molto del lavoro di aiuto e supporto lo hanno fatto, con me, i miei genitori e colleghi di studio (tuttora miei grandi amici!). Oggi mi pare tutto più “istituzionalizzato”, con i pro e i contro di ciò. Non godere di strade battute mi ha aiutato a stringere amicizie solide e durevoli, a saper apprezzare notevolmente qualità che, prima, non sapevo neppure di avere, a godermi ogni piccola conquista e a fare da precursore a tanti altri studenti gravemente disabili. Anche per Sofia, l’Università di Bologna, oltre agli esami, ai corsi di studio, alle Facoltà, offre di più: vere esperienze di vita e un trampolino di lancio verso il futuro.
Condividiamo, poi, l’importanza che attribuiamo ai traguardi, spesso modesti o scontati per i normodotati, che ci fanno sentire persone complete e “abili”, ognuno di noi con le proprie caratteristiche peculiari.
Sul tema del lavoro, condividiamo la posizione secondo cui, posta la necessità di un ambiente aperto e accogliente alle diverse abilità e datori di lavoro predisposti a valorizzare anche i dipendenti con deficit, la differenza vera la facciamo noi stessi. Non ha senso aspettare qualcuno che ci risolva i problemi: sta a noi riuscire a capire in cosa siamo abili – e diversi da chiunque altro – e saper valorizzare le differenze, mettendole a disposizione della società, degli altri, del nostro lavoro, dei colleghi. Dobbiamo essere i primi consapevoli di noi stessi: se non ci valorizziamo noi, chi lo potrà fare? L’assistenzialismo non è la via maestra per l’integrazione. A maggior ragione oggi, in un’epoca in cui la tecnologia, la tecnica, la scienza ci aiutano a semplificarci la vita, abbiamo molti meno “alibi” di una volta e non possiamo proprio più puntare al compatimento. Ora abbiamo anche molti più esempi positivi e virtuosi di persone disabili di successo, anche in campi che una volta erano primariamente preclusi, ad esempio lo sport. Superare limiti che sono tali anche per la gran parte delle persone cosiddette normali consente di raggiungere una forte autostima e andare oltre limiti che sono più psicologici e sociali che fisici.
Ho trovato molto delicato anche lo stile di trattazione dei temi dell’affettività e della sessualità per le persone disabili. L’argomento è complesso, tuttavia non riesco a condividere la sua posizione sulla figura dell’assistente sessuale. Continuo a trovare umiliante per la persona disabile ricorrere a un aiuto pagato dallo Stato invece di fare le proprie esperienze come tutti, scontrandosi con la realtà di avere le proprie sconfitte e le proprie soddisfazioni. Conosco tante persone con deficit che hanno o hanno avuto relazioni soddisfacenti, che, laddove la disabilità glielo consenta, sono diventati genitori appagati, pur fra tante difficoltà e pregiudizi. Vivere anche la sessualità come un diritto istituzionalizzato, a mio avviso, toglie importanza alla nostra sfera di humanitas nel suo complesso, relegando alla soddisfazione di un bisogno fisico ciò che costituisce, invece, la vera e profonda natura relazionale dell’uomo.
A Sofia vorrei proporre un altro tema per una prossima puntata della sua web serie: il rapporto tra disabilità e religione. Comunque la si pensi, l’ambito spirituale è importante, sia perché il volontariato cattolico svolge un ruolo fondamentale nella vita di molti disabili, sia perché  la domanda sull’esistenza di Dio e sulla sua bontà coinvolge le persone che si ritengono svantaggiate in questa vita. Leggendo la sua autobiografia mi sono trovato perfettamente d’accordo con l’affermazione che le persone disabili non sono diverse dalle altre: io direi che ogni persona è contemporaneamente diversa e uguale a tutte le altre e che la normalità non esiste o, se esiste, sta proprio in questa apparente contraddizione. Un altro aspetto che mi ha colpito del racconto della sua vita è che, pur essendo diventata disabile a causa di un errore medico, non ha mai coltivato rabbia, ma è riuscita a vedere la bellezza della sua carrozzina. Questo dimostra che la disabilità può essere vista in maniera positiva, anche da chi, suo malgrado, ne è protagonista, e non soltanto come una disgrazia che rovina la vita. Questa è anche la mia esperienza: io ci sono arrivato grazie a un lungo cammino di fede oltre che umano e mi piacerebbe confrontarmi con la giovane e grintosa Sofia su questo punto.
Insomma: la vita è bella anche con qualche deficit e tutto dipende da come ognuno di noi guarda questa prospettiva, o meglio, da come viene educato a guardarla: anche le persone che ci circondano (familiari, amici, ma anche soggetti istituzionali, colleghi, datori di lavoro, medici, vicini di casa, ecc.) giocano un ruolo fondamentale nella nostra consapevolezza di essere abili a qualcosa. La disabilità non è una questione che riguarda soltanto il singolo individuo, ma tutta la comunità in cui egli è inserito e cresce. Per questo io, come Sofia, ho dedicato la mia vita a lottare per chi non ha avuto la fortuna di avere la nostra grinta, le nostre possibilità, il nostro carattere, affinché a cambiare non sia la nostra condizione, ma gli occhi di chi ci guarda. Spero che Sofia legga questo articolo e che magari voglia iniziare un dialogo con un suo collega filosofo.

Io sono Mateusz

di Andrea Mezzetti

Chi lo avrebbe mai detto che sarei finito su una rivista a parlare di cinema? Certo, il cinema è una delle mie passioni, lo frequento spesso e mi piace molto farmi stimolare da ciò che vedo. Pur essendo abbastanza riservato, ho accettato volentieri di condividere con voi i miei pensieri su alcuni film che reputo di particolare interesse.
Io sono Mateusz è il lungometraggio di cui vi parlo in questo numero. Dico subito che si tratta di un film particolarmente intenso. Mateusz è una persona gravemente disabile, considerata inizialmente incapace di relazionarsi, avrà la possibilità solo una volta adulto di uscire dal suo guscio di incomunicabilità.
La vicenda vede il protagonista ingabbiato dai canoni sociali e medici predominanti, che lo vorrebbero non in grado di intendere e comunicare al mondo esterno, quindi prigioniero del suo stesso corpo. La relazione che si instaura con lui è di tipo puramente assistenziale, ma an- che in questa funzione il tipo di assistenza prestata non è del tutto adeguata, perché troppo “meccanicistica”.
La valvola che permette di andare oltre e più in profondità, scardinando ogni fredda e apparente analisi conclusiva, è rappresentata dall’empatia mostrata dapprima dall’amore materno, poi da una volontaria della struttura in cui era accolto. Tutto ciò non bastava perché c’era ancora da scontrarsi con le convenzioni di una società, nello specifico quella polacca dei primi anni 2000, che contrastava ogni novità di approccio.
La caparbietà discreta del protagonista, perdonatemi questo ossimoro, permetterà di attirare l’attenzione di altri assistenti della struttura quali la logopedista, la psicologa, fino a una giornalista tutta intenta a voler raccontare in un suo libro la storia di Mateusz permettendo quindi di aprire più canali di dialogo con il mondo che lo circondava, sia nella struttura che al di fuori di essa.
Ho parlato prima di empatia perché credo che sia quello lo strumento che permette a tutti di mettersi in relazione in modo paritario: tra disabili e non, tra un presidente e il suo subalterno, tra un sindaco e un operatore ecologico, solo per fare alcuni esempi, superando e arricchendo di contenuti conoscitivi in grado di svelare altri punti di vista, prospettive e aspetti prima sconosciuti anche ai più esperti della materia. È quello che accade appunto tra la volontaria e Mateusz quando questa comprende come dialogare alla pari, intuendo di dover imboccarlo in modo più adeguato fino a diventare la sua ragazza (anche se per un periodo relativamente breve).
Ancora più evidente è l’empatia che sorge tra Mateusz e la logopedista, la quale scopre la capacità dell’assistito di riconoscere le immagini e abbinarle a determinate parole, articolando frasi in grado di aprire alla comunicazione e, di conseguenza, al dialogo con le altre persone.
Questa esperienza riesce a svelare ai più esperti della struttura quanto le capacità intellettive dell’essere umano siano misteriose e in grado di spiazzare ogni conoscenza raggiunta.
Tale scoperta darà la possibilità a Mateusz di poter accedere a una struttura più adeguata alle reali capacità intellettive che finalmente si erano riscontrate.
Nonostante questo, però, ogni decisione veniva comunque demandata, per ordine di forza superiore, ad altri. Molto spesso, come nel caso del protagonista del film anche nella vita reale, è il disabile che dovrebbe sentire su di sé ogni responsabilità di decisione, scegliendo la strada più adatta da perseguire, cambiare o, più ancora, desiderare e raggiungere. Una società in crescita verso vette più civili e, per questo, più includenti, dovrebbe permettere tutto questo prestando tutti gli strumenti adatti a realizzare, in concreto, ogni aspirazione.
Il film è a tratti pesante, in particolare per alcune scene molto forti e soprattutto per come mette in luce la condizione del ragazzo. Ma questo è anche il suo pregio, non nasconde nulla, offre agli spettatori tutta la durezza di una vita piena di difficoltà, permettendo quindi di conoscere un po’ di più ciò che prova chi vive una condizione di disabilità grave.
Una condizione così forte, quella del protagonista, che mi ha portato a commuovermi e ad arrivare con fatica alla fine del film. Anche io sto in carrozzina, per cui certi aspetti li ho sentiti molto vicini. Tra questi quello che più mi ha colpito è l’atteggiamento dei genitori: da una parte mi sono sembrati comprensivi e attenti alle esigenze del figlio mentre dall’altra a volte scocciati, soprattutto l’atteggiamento della madre, quasi scontrosa nei confronti del figlio. Ma anche in questo caso ho apprezzato la sincerità del racconto che rende il film una rappresentazione fedele della realtà che molte persone vivono ogni giorno.

Più Accessibilità Sensibilità Semplicità per l’inclusione di tutti

di Martina Gerosa

Con l’aumento del tempo libero nella società contemporanea – chiamata anche “civiltà del tempo libero” (Joffre Dumazedier) – e con l’incremento della consapevolezza di aver diritto di partecipazione alla vita sociale e culturale da parte delle persone in condizione di disabilità, si apre decisamente la sfida di rendere accessibili e fruibili Conoscenza, Cultura, Arte… da parte di tutti, eliminando non solo le barriere fisiche, ma anche quelle sensoriali.
Quando tra la gente comune si pensa alle barriere, è più facile focalizzare l’attenzione su gradini, pavimentazioni irregolari e su tutto ciò che può costituire un ostacolo a chi si muove sulle ruote. Più raramente si presta attenzione alle barriere invisibili contro cui va a sbattere chi non vede e/o non sente bene oppure chi vede e/o sente per nulla. O agli ostacoli che si possono incontrare nella comprensione di testi espressi con parole difficili e con uno stile complesso per chi ha delle limitazioni di linguaggio o di tipo cognitivo.
Nella platea di potenziali spettatori, fruitori, visitatori rientrano non solo le persone con disabilità e in modo particolare sensoriali, ma anche stranieri, anziani… L’accessibilità alla cultura e all’informazione, non solo la mobilità accessibile, è un diritto basilare sancito dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità; è divenuta norma in oltre 150 Paesi del mondo, l’80% di quelli che fanno parte dell’ONU, in Italia è la legge numero 18 del 2009. Ci viene detto chiaramente negli articoli 9 e 30 che l’accessibilità è un principio ineludibile e che bisogna trasformare la realtà così che diventi inclusiva, accessibile a tutti, in ogni ambito del vivere collettivo: nella vita culturale e ricreativa, negli svaghi e nello sport. Che significa concretamente? Banalmente poter vedere un film o un video, andare a teatro, prendere parte a un convegno, accedere a un servizio pubblico, visitare un museo, usufruire delle informazioni da internet, partecipare alla vita sociale e anche politica…
Per eliminare le barriere sensoriali possono essere necessari interventi aggiuntivi come l’inserimento di strumenti e tecnologie o di particolari sistemi e applicazioni o, in altri casi, quando le tecnologie sono già previste nella dotazione di un determinato spazio (ad esempio una sala per spettacoli), basterebbe prestare cura e attenzione fin dalla fase di progetto e far supervisionare l’allestimento degli impianti tecnici da parte di esperti di accessibilità culturale, per far sì che siano adeguati allo scopo di rendere fruibile quello che vi accadrà.
In altri casi l’abbattimento delle barriere sensoriali richiede semplicemente un cambio di mentalità e di atteggiamento, come quando si comprende che non è sufficiente predisporre – in un qualsiasi URP, Ufficio Relazioni con il Pubblico – un tradizionale numero telefonico, ma che sia bene predisporre un sistema multimodale affinché il servizio sia accessibile attraverso canali comunicativi diversi. Già anni fa, un Comune alle porte di Milano introdusse la possibilità per ogni cittadino di scegliere la modalità che gli era più congeniale per rapportarsi alla Pubblica Amministrazione: fax, telefono, e-mail, sms, chat, video chat…
Un elemento che rende difficoltoso definire le soluzioni che consentano di rendere accessibili servizi, eventi e iniziative a tutte le persone e in particolare a quelle con disabilità sensoriali è legato al fatto che chi ha un deficit visivo e/o uditivo funziona in modo sempre particolare (a ben pensarci le differenze sono anche tra chi si muove sulle ruote: può essere o no autonomo nel dirigere la propria carrozzina). Così non è automaticamente garantita l’accessibilità di un convegno a tutte le persone con disabilità uditive se s’introduce un servizio di interpretariato di lingua dei segni piuttosto che un sistema di sottotitolazione in diretta: sarebbe bene garantire entrambi i sistemi di accessibilità. Ma di volta in volta, in presenza di risorse limitate, è da verificare cosa sia preferibile, rispondendo oltre che ai criteri dell’accessibilità universale, inclusiva diremmo, anche al principio, enunciato nella convenzione ONU, dell’accomodamento ragionevole, definito come l’“insieme delle modifiche e degli adattamenti necessari e appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo, adottati ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.
Rendere accessibile uno spettacolo teatrale così come un percorso museale non è cosa banale. Perché tanti sono gli aspetti da tenere in considerazione, l’ottimale in questi casi è lavorare in team multidisciplinari, affinché sia garantita “una pluralità di modalità comunicative e un uso appropriato delle tecnologie, facendo ricorso alla multisensorialità, all’interattività degli strumenti” come recita il “Manifesto della cultura accessibile a tutti” formalizzato nel 2012 a Torino. Occorre raggiungere un equilibrio tra ridondanza e semplicità: entrambe necessarie se si punta a un’“accessibilità inclusiva” che consideri ogni forma di disabilità, in particolare quelle legate ai sensi ma anche altre come ad esempio quelle collegate alle sindromi autistiche e cognitive.
Di strada in questi anni se ne sta facendo, ma molta è ancora da fare.
Nel nostro Paese iniziative e percorsi culturali accessibili stanno sviluppandosi, ma si tratta di iniziative di cui chi potrebbe esserne interessato spesso e volentieri non ne viene a conoscenza… Così è stato creato PASSin (www.passin.it) uno spazio web dove si raccolgono informazioni su iniziative culturali accessibili alle persone con disabilità sensoriali, con difficoltà di vista e/o di udito, ma non solo. Si tratta di uno strumento per l’inclusione e la partecipazione di tutti in cui l’attenzione è focalizzata sui canali di accesso e non sulle tipologie di disabilità, con la consapevolezza che uno strumento o un approccio possa agevolare diverse categorie di persone, anche tra i cosiddetti “normodotati”.
L’idea di PASSin è nata dall’incontro di alcuni amici che nel 2014 si sono trovati, un giorno di novembre, in un teatro, per partecipare insieme a un bellissimo spettacolo accessibile alle persone con disabilità uditive grazie alla sottotitolazione e alla lingua dei segni.
PASSin ha visto la luce nell’anno di Expo 2015, grazie al Comune di Milano – Settore Politiche sociali che ha dato, tramite un bando finalizzato all’abbattimento delle barriere sensoriali, un finanziamento alla cooperativa Accaparlante per l’avvio del progetto sviluppato fin dal principio con il supporto dell’azienda BitCafè. Tale progetto è stato realizzato grazie a persone con competenze professionali diverse: un ingegnere, un informatico, una disability manager, un giornalista e un’artista. Attualmente il progetto PASSin è in via di sviluppo grazie al sostegno della fondazione Pio Istituto dei Sordi e si stanno ricercando nuovi fondi per implementarlo ulteriormente e renderlo interattivo.

Manifesto PASSin
PASSin si rivolge a chi è interessato alla Cultura e all’Arte senza barriere, per cercare di rispondere a un bisogno informativo di una parte sempre più ampia della popolazione.
PASSin è uno spazio del web dove si raccolgono informazioni su iniziative accessibili alle persone con disabilità sensoriali, con difficoltà di vista e/o di udito, ma non solo, per l’inclusione e la partecipazione di tutti.
PASSin nasce dalla conoscenza degli ostacoli invisibili come quelli che s’incontrano quando si va a vedere un film senza udire e capire le parole o a visitare un museo senza vedere quadri e sculture con gli occhi.
PASSin raccoglie le notizie relative agli eventi che accadono in area milanese, e non soltanto lì perché c’è da imparare dall’esperienza di chiunque lavora per rendere il mondo più accessibile e migliore per tutti.
PASSin scopre e valorizza i luoghi dove si sperimentano tecnologie straordinarie o a volte semplicemente sensibilità e atteggiamenti diversi, attenti a chi fa fatica a discriminare con le orecchie o a comprendere con la vista.
PASSin si realizza grazie a un laboratorio in cui si sono messe in gioco persone con competenze professionali diverse, in rete con esperti dedicati ai temi dell’accessibilità e dell’inclusione nella vita culturale e sociale, in ogni parte d’Italia.
PASSin è un cantiere aperto alla partecipazione di tutti coloro che sono interessati a sviluppare conoscenza e informazione su tutto quello che aiuta a supera- re le barriere della comunicazione attraverso la multisensorialità.

(S)guardi e ri-guardi Il calore della lampadina spenta

 di Ma.ca.co.

“Non sappiamo più guardare! Viviamo in un universo saturo d’immagini ma è come se fossimo ciechi!
Dobbiamo tornare a interrogarci sulla percezione e la memoria visiva. Solo così potremo riconquistare la capacità di guardare il Mondo!”.
(Bilal)

Ogni giorno, in ogni istante siamo investiti da una massa abnorme di informazioni, una quantità di comunicazioni nuove, monouso, a basso costo, dalle quali corriamo il rischio di essere sommersi.
L’emergenza legata allo smaltimento di parole, frasi, immagini, testi in gran parte non utilizzati ci impone un cambiamento di prospettiva capace d’indirizzarci verso un’eco-comunicazione.
La rubrica “(s)guardi e ri-guardi” si propone come esercizio di sosteni(A)bilità basato sul riuso/riciclo, sul ridare vita, utilizzo altro/diverso, opportunità ulteriore ad articoli, parole, interviste, frasi, pubblicità, foto, disegni, pagine internet, social, altrimenti destinati alla “discarica della comunicazione”.
Sarà nostra cura differenziare i prodotti, incorporare materiali riciclabili, ridurre la quantità di scarti, usare una modalità di confezionamento riutilizzabile affinché il lettore/fruitore possa acquisire suggestioni emotive e forse anche metafore didattiche che gli permettano di aumentare la propria efficienza energetica (fare meno fatica per…), facilitare l’accesso alla manutenzione (considerare altri punti di vista…), ripensare a un nuovo rapporto con le cose, i vissuti, gli altri, considerando non i problemi ma le risorse e, nell’apparente inutilità scoprire opportunità di creAzione.
Sfidare il senso comune del valore dell’informazione crediamo significhi cercare un rapporto nuovo con la comunicazione e la capacità/possibilità di autorappresentarsi nei contesti collettivi essendoci in prima persona, sfiorandosi, entrando in contatto.
Nell’editare la rivista, Quintadicopertina ha utilizzato caratteri, interlinee e spaziature che hanno reso più comoda la lettura approfondendo una sorta di ergonomia tipografica che ben si adatta all’identità di “HP-Accaparlante”.
Alla luce di questi approfondimenti risulta più che mai necessario compiere un passaggio, rivoluzionario per la quotidianità contemporanea, che consiste nel passare dal fare cose di comodo” al sentirsi comodi nel fare cose: occorre apportare al processo culturale e al movimento associazionistico, elementi di etica ed estetica della comodità (del benessere, del sentirsi bene… non “a disagio”, ecc.) individuando gli assi portanti di un’epistemologia dell’inclusione operativa.
Per implementare queste trasformazioni occorre incentivare il pensiero creativo imparando a considerare le cose non solo per quello che sono ma anche per quello che potrebbero essere. Occorre superare il ricorso esclusivo a una logica sequenziale (che presuppone la soluzione diretta di un problema partendo dalle considerazioni più ovvie) e ricercare l’acquisizione di sensibilità, punti di vista alternativi: idee, intuizioni, spunti fuori dal dominio della conoscenza e delle rigide catene della logica.
Famoso è il rompicapo de “l’elettricista pigro e i tre interruttori” di Edward De Bono. In una stanza chiusa è contenuta una lampadina a incandescenza; in una seconda, non direttamente visibile dalla prima, ci sono tre interruttori. Solo uno di questi interruttori accende la lampadina. Potendo azionare i tre interruttori a proprio piacimento e potendo andare nella stanza chiusa solo una volta per verificare lo stato della lampadina, come si può determinare l’interruttore in grado di accenderla?
Le condizioni iniziali sono: lampadina spenta e interruttori in posizione off. Come esempio per l’utilizzo dell’intelligenza creativa De Bono propone la seguente soluzione: si mettono due interruttori (che chiameremo 1 e 2) su ON, si attende qualche minuto e se ne spegne uno (noi diremo il numero 1), quindi si va a controllare la lampadina: se la lampadina è accesa l’interruttore giusto è il numero 2; se la lampadina è spenta ma calda l’interruttore giusto è il numero 1; se la lampadina è spenta e fredda l’interruttore giusto è il numero 3. L’approccio diretto al problema si rivela impossibile: da un punto di vista puramente logico una lampadina può essere solamente accesa o spenta quindi essere in uno di due stati. L’unico modo per risolverlo è utilizzare una ulteriore condizione parallela “fisica” (una lampadina accesa si scalda) che permetta di aggiungere un terzo stato differente dai due.
La nostra scommessa è quella di provare a farvi sentire, con una minuscola rubrica il calore di quella lampadina spenta.
“Non vediamo le cose come sono le vediamo come siamo”.
(Anaïs Nin)

Valori di scena. Il teatro di 3ème Rideau e i suoi protagonisti con disabilità mentale

di Massimiliano Rubbi

Europa Europa
Il teatro che vede e rende protagonisti persone con disabilità mentali ha ampiamente compiuto il passaggio dai laboratori in centri specializzati ai più prestigiosi palchi mainstream – in Italia come in Francia, dove il Festival di Avignone ha ospitato sulle sue plance nel 2012 gli attori con Sindrome di Down di Disabled Theater e nel 2016 Ludwig, un roi sur la Lune portato in scena dalle persone con disabilità di Atelier Catalyse. Resta nondimeno interessante, di questo che è or- mai un genere teatrale, seguire le esperienze “di base” (difficoltà incluse), specie quando combinano protagonismo fattivo delle persone con disabilità, tensione alla qualità artistica e impegno a una sensibilizzazione non pietistica. È il caso della compagnia 3ème Rideau, attiva da alcuni anni nella città alsaziana di Mulhouse, il cui progetto, secondo il fondatore Joel Roth, “si riassume nel valorizzare le persone toccate da un handicap mentale tramite l’angolazione della scena”.
Il nome di “Terzo Sipario” è così spiegato dalla compagnia: “in un teatro ci sono sempre due sipari: il più noto è il sipario boccascena che separa il palcoscenico dalla sala e indica l’inizio e la fine di uno spettacolo. Il secondo è il sipario fondale o tela, il sipario che chiude la decorazione della scena, in lontananza. Noi ci proponiamo di scoprire un terzo sipario, ancora più distante da noi (si può pensare), quello che rivelerà i personaggi come te e me ma segnati dalla differenza, dall’handicap, dalla disabilità… Un sollevamento di sipario che alla fine non sarà su nessuna di queste differenze che segnano le persone, un sollevamento di sipario che ci farà dimenticare l’handicap sociale, mentale o fisico. Dietro il Terzo Sipario si nasconde forse ciò che non viene mai mostrato, l’umano piuttosto che l’attore, l’uomo piuttosto che la storia”.

Collettivo teatrale
3ème Rideau nasce nel 2010 dall’impegno di Joel Roth, educatore tecnico specializzato, e si costituisce in associazione autonoma, aperta alla partecipazione di tutte le persone con deficit mentale della regione di Mulhouse, nel 2013, più o meno contemporaneamente alla messa in scena del primo spettacolo, Et avec ceci? (E con questo?). Le “due direzioni complementari” della filosofia della compagnia sono così descritte da Roth: “promuovere il posto delle persone portatrici di un handicap nella società, favorendo il loro riconoscimento”, e “valorizzare le persone cosiddette handicappate”.
Gli spettacoli nascono da un lavoro graduale e non predeterminato da parte di tutta la compagnia: “anzitutto, i nostri spettacoli sono senza testo, tutto sta nel movimento, negli atteggiamenti, su un sottofondo musicale. Per due ragioni, prima di tutto per non mettere in difficoltà i nostri attori, e poi per rispetto del pubblico: quando ci si deve concentrare per capire un attore, ci si allontana dalla qualità che vogliamo per le nostre realizzazioni. Creiamo quindi tutte le scene insieme, in squadra; solo la messa in scena non è collettiva, per il resto, il tema, le idee, la musica, tutto si svolge con tutta la troupe”. L’obiettivo resta “mostrare uno spettacolo di qualità”, le rappresentazioni si aggirano intorno a un’ora di durata, e per questo si lavora “con un certo rigore: essere amatoriali non significa non poter avere tecniche di scena come una troupe professionale”. Tuttavia, la creazione collettiva dello spetta- colo consente di integrare anche gli apporti personali più difficili da definire e meno prevedibili: “uno degli attori non parla, non si sa mai che cosa farà, come reagirà. Eppure, quando recitiamo è diverso dalle prove, si trova completamente nel suo ruolo di attore e arriva a far applaudire il pubblico – è anche rimasto sul palco mentre doveva uscire, tanto era felice”.

Non essere “una compagnia in più”
Mulhouse è una città media in una regione periferica, in una nazione come la Francia in cui la centralità culturale della capitale è assai marcata. Ciononostante, per 3ème Rideau non si parla per ora di tournée, “essendo la preoccupazione il tempo a disposizione per realizzare il nostro progetto. Preferiamo recitare quando siamo pronti, e occorre tempo per creare insieme i nostri spettacoli”. Le modalità collettive e amatoriali della scrittura scenica non abbreviano il processo: dopo Et avec ceci?, “ci abbiamo messo un po’ più di due anni per creare e preparare un nuovo spettacolo, la mancanza di finanziamento ci obbliga a prenderci ancora più tempo per la produzione di costumi e per le esigenze tecniche”. Roth appare inoltre molto attento a che il progetto non si sovrapponga alle altre compagnie attive nel contesto locale, con cui pure a volte esistono contatti: “non prendiamo in alcun modo il posto di un’altra compagnia sulla scena culturale. Sul palco non c’è nessun attore cosiddetto ‘normodotato’, questa particolarità e il fatto di non avere attività commerciale non ci pone come un concorrente per le compagnie sul luogo. Non siamo venditori del nostro spettacolo allo stesso titolo di una troupe di professionisti, recitiamo solo per noi, al fine di permetterci di soddisfare le nostre esigenze”.
Questa ritrosia non impedisce a 3ème Rideau di curare una comunicazione, minimale per scelta e non per necessità, che costituisce una delle caratteristiche più interessanti del progetto e che si estende volutamente al di fuori della scena. Secondo Roth, “qualunque cosa si faccia, le nostre azioni devono andare nella direzione di una valorizzazione, poniamo una cura precisa in una comunicazione semplice”. Per questo, ad esempio, sui manifesti degli spettacoli non sono messi avanti i profili degli attori con il loro handicap, “per invitare il pubblico a venire a vedere uno spettacolo ‘normale’ e non di persone con disabilità”, mentre sui social network vengono pubblicate solo foto in cui i protagonisti siano “a proprio agio”, “belli e soprattutto non ridicoli”.
Per questa valorizzazione delle persone con disabilità, agli spettacoli si affiancano altri mezzi comunicativi come fotografia, video e interventi in scuole e luoghi pubblici. In questo senso va la mostra fotografica tratta dallo spettacolo Et avec ceci?, che 3ème Rideau ha potuto realizzare raccogliendo 900 Euro in donazioni, nei primi mesi del 2015, sulla piattaforma di crowdfunding Ulule. Immagini e testi mostrano le diverse fasi di realizzazione dello spettacolo come “avventura umana”, utilizzando il cliché fotografico per affrontare il cliché sulla persona cosiddetta ‘handicappata’”. Roth spiega che così “la scena può farsi invitare in una scuola, un altro luogo di esposizione, per essere vista da un pubblico altro rispetto a quello che va a vedere gli spettacoli. È un modo per avvicinare più persone possibili. Certo c’è l’aspetto di promozione della troupe, ma ciò che ci interessa è dimostrare che in scena non c’è differenza, la mostra lo permette proprio come uno spettacolo ma non per lo stesso pubblico e non con lo stesso supporto”.
Il prossimo spettacolo della compagnia, En trois mots (In tre parole), sarà in scena a luglio e ottobre 2017. Roth anticipa che in una scena saranno concentrati di- versi elementi “tristi” che gli attori hanno portato nel lavoro preparatorio a partire dalla propria esperienza, in base a “una delle cose che facciamo meglio: raccontare la ‘vita’ piuttosto che inventare storie a partire da niente”. Se non passate da Mulhouse, potete comunque seguire il lavoro della troupe su http://3emerideau.blogspot.it/ o tramite Facebook o Twitter.

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente claudio@accaparlante.it

Caro Claudio,
sono Elena Colombo, figlia di Antonia e Paolo. Frequento il terzo anno di Design del Prodotto Industriale e quest’anno affronteremo come tema generale di tesi il cibo e la sostenibilità. Dobbiamo quindi progettare un device, un servizio o un prodotto riguardante questo tema tramite ricerca, contatto con le persone, prototipazione e progettazione.
Partendo da questo vasto argomento io ho deciso di dedicarmi al cibo in relazione alle disabilità.
All’inizio avevo pensato di fare un progetto per le nuove realtà di ristorazione che vedono come protagonisti le persone disabili mentali e Down ma parlando con i professori non convinceva molto l’idea. In seguito a ciò mi è stato consigliato di vedere la disabilità nei suoi punti di forza, giocando attraverso cibo e sensi, per esempio pensare a quei sensi che sono più sviluppati in persone che hanno problemi di vista o di sordità (cene al buio, ecc.), oppure allargando il campo della disabilità a problemi di lingua come il turismo nelle grandi città che provoca problemi di comunicazione o ancora dedicarsi a uno specifico problema di disabilità che ha delle problematiche legate al cibo.
Mi farebbe quindi piacere sapere cosa ne pensi, sapere la tua relazione con la nutrizione e conoscere il tuo punto di vista. In attesa di una tua risposta ti ringrazio per la disponibilità.
Cari saluti, Elena Colombo

Ciao Elena,
grazie per avermi scritto, il tema che porti è interessante e benché ogni giorno ci coinvolga direttamente non se ne parla infatti così spesso. Per cominciare ti butto lì una piccola immagine, così ci rifletti: un uomo di mezza età che viene imboccato da un altro uomo di mezz’età. L’atto di imboccare, si sa, è cosa comune quando si incontra una persona con disabilità grave, semplicemente perché costituisce una prima necessità. Imboccare tuttavia non è un’azione qualsiasi, è un fatto che comporta una relazione, una relazione molto stretta e a volte sbilanciata, non a caso di solito siamo abituati a pensare a chi imbocca come a una mamma che nutre il proprio bambino.
Guardandola da questo punto di vista è facile cadere nel medesimo cliché e istituire cioè una dipendenza diretta tra chi dà il cibo e chi lo riceve, da lì all’equazione disabile uguale bambino il passo è breve.
All’interno di questa riflessione credo tuttavia che trovi spazio anche un’altra parola: responsabilità. Guardandomi spesso in giro noto come ancora di questi tempi dar da mangiare a qualcuno che potrebbe rischiare di affogarsi con l’acqua o che fa fatica a deglutire, può essere visto come un pericolo e non come un’opportunità di crescita da parte di entrambi i protagonisti coinvolti. Trovare del personale disposto a prendersi questa responsabilità da un lato, e una persona con disabilità capace di esplicitare i propri bisogni dall’altro, può perciò alle volte risultare difficile.
Quando mi confronto a proposito della parola responsabilità, su ciò che questa comporta in termini di azione e relazione, mi rivolgo sempre sia ai disabili che a chi li affianca e cito a tal proposito un episodio. Una volta mi è capitato, mentre ero a casa durante un pomeriggio di relax, di chiedere a una mia amica la cortesia di mettermi davanti alla televisione. Prontamente la mia amica ha preso la mia carrozzina e l’ha posizionata davanti alla tv. Benissimo, dirai tu, la tua amica è stata gentile, e ti ha correttamente messo dove chiedevi. Peccato che io non avessi specificato che ipotizzavo di guardare la tv da accesa… Avete capito bene, mi sono ritrovato davanti a una tv spenta di fronte alla quale la mia amica immaginava volessi passare l’intero pomeriggio. Risate seguenti a parte, ti pongo cara Elena, questa domanda: la responsabilità in questo caso di chi era? Mia o sua? Lei avrebbe potuto capirlo, certo, ma non è infrequente che una persona voglia semplicemente prendersi un momento per riposare nell’angolo preferito di casa sua, quindi una simile opzione, anche da parte mia, non era del tutto improbabile.
Ecco allora che la responsabilità è chiaramente di entrambi, sua, per aver eseguito senza mettersi in dialogo con me, mia per non essere stato chiaro nella richiesta. Il passaggio tra azione e relazione, non mi stancherò mai di ripeterlo, è infatti il fondamento di ogni rapporto, educativo e non solo.
Vale ovviamente anche per il cibo, a volte si ha un bel dire a spingere la persona con disabilità verso l’autonomia quando ci si ritrova a dipendere completamente da altri, si innescano facilmente dinamiche di potere, seppur inconsapevoli che mettono chi riceve il cibo sempre in una dimensione di “richiedente”, alle volte pesante o fastidiosa. Ciò non toglie che non è possibile entrare nella testa di tutti e che tutto passa attraverso la conoscenza. Far conoscere, esplicitare e così affermare la propria personalità e identità è compito di chi necessita di una mano, allo stesso modo agevolare questa dinamica lo è da parte di chi si mette in gioco alla pari dell’altro.
Non dimentichiamo poi che il cibo è piacere, mangiare bene fa parte del benessere, qualcuno sostiene addirittura della felicità. Meglio, sostengo io, farlo divertendosi, in compagnia, nei luoghi che preferiamo e mangiare sempre quello che ci piace!
Detto ciò, buon appetito! Un caro saluto e buona vita

 

Carta dei diritti e dei doveri dello spettatore

DIRITTI DOVERI
Svago e divertimento

 

Avere a disposizione un luogo caldo, dove cioè si respira del “calore umano”, sia nel rapporto con gli altri spettatori che nel rapporto attore-pubblico

 

Avere a disposizione un luogo di conoscenza e di cultura

 

Entrare in un altro mondo in punta di piedi

 

Evadere dalla routine quotidiana per entrare in vite altrui

 

Silenzio

 

Pausa tra un atto e l’altro/Abolire le pause

 

 

Potersi alzare, se necessario, durante lo spettacolo

 

 

Avere la possibilità di scegliere il proprio posto a sedere a seconda delle proprie abilità e caratteristiche fisiche (altezza etc.)

 

Una buona acustica

 

 

 

 

 

Bagni attrezzati e a norma di legge

 

 

 

Prezzo del biglietto accessibile o a offerta libera

 

 

 

Accoglienza informale

 

 

Essere spettatore a trecentosessanta gradi e poter esprimere la propria opinione in diversi contesti

 

Poter dire serenamente “questo spettacolo non mi è piaciuto”

 

Poter parlare direttamente con gli attori e confrontarsi con loro quando uno spettacolo ci piace su come si sono preparati/hanno vissuto la preparazione dello spettacolo o lo studio sul personaggio

 

Poter andare a teatro anche in jeans e maglietta

 

Spontaneità

 

 

Caos

 

 

 

Rimanere a teatro anche a fine spettacolo, senza la fretta di dover uscire subito, per confrontarsi a caldo sullo spettacolo

 

Abolire le differenze in termini di costi alla prenotazione dei biglietti che assicurano una fruizione migliore a chi può permettersi di pagare di più

 

Vivere uno spazio in cui non ci sia solo un teatro ma anche altri spazi di condivisione e conoscenza reciproca per il pubblico (bar, librerie, spazi da vivere e per creare)

 

 

Sentirsi meglio

 

Clima di disponibilità

 

Armonia

 

Conoscere

 

Piacere

 

 

Sentirsi vivi

 

 

Saper vivere e assaporare l’attesa

 

Puntualità

 

 

 

 

Rispetto dei luoghi (mantenere la pulizia etc.)

 

Spegnere il cellulare

 

Lasciarsi andare

 

 

Mantenere il silenzio durante lo spettacolo

 

Mettersi in gioco

 

 

Diritto a non partecipare, libertà di scelta se essere o meno coinvolti fisicamente durante lo spettacolo

 

Non alzarsi durante lo spettacolo

 

 

 

Far crescere l’inatteso e coltivare la bellezza e le scoperte che abbiamo fatto, sforzandoci, anche se siamo stanchi, di non perdere le occasioni offerte dallo spettacolo così come non dimenticarci di vivere fino in fondo i nostri interessi

 

Passaparola

 

Pensare il teatro come un’istituzione per la propria città o il proprio paese

 

 

Esprimere le proprie emozioni durante lo spettacolo

 

Concentrarsi e farsi coinvolgere dalla storia

 

 

 

Perdersi

 

 

Non essere reperibile per nessuno

 

 

 

 

 

Far durare l’applauso come una liberazione

 

Dare soddisfazione agli attori e a chi ha lavorato allo spettacolo

 

Sperare sempre in una svolta, anche quando lo spettacolo non ci piace

 

 

Devi essere sempre pronto a essere coinvolto

 

 

 

Rompere gli schemi tradizionali

 

 

 

 

Entrare/mettersi in relazione con gli altri spettatori

 

 

Partecipare

 

Imparare a essere più allegri e spiritosi

 

 

 

Coccolarsi

 

Rilassarsi

 

Mettersi in dialogo con la propria intimità

 

 

Reincantare” quello che ci circonda

7. Le utopie di Dioniso. Sitografia e consigli di lettura

Link utili
Accaparlante http://laquintaparete.accaparlante.it www.accaparlante.it>

I teatri
www.itcteatro.it www.teatrocasalecchio.it www.arenadelsole.it www.testoniragazzi.it www.teatrodelleariette.it
Esperienze http://inclusiveartsnetwork.com http://3emerideau.blogspot.it www.altrevelocita.it
Audience development www.beniculturali.it http://ec.europa.eu ww.mhminsight.com www.theaudienceagency.org www.fitzcarraldo.it

Letture
Altre velocità (a cura di), Un colpo, Angelo Longo Editore
R. Barthes, Sul Teatro, Meltemi
B. Brecht, Scritti teatrali, Einaudi
P. Brook, La porta aperta, Einaudi
A.M. Cascetta, Elementi di drammaturgia, Pubblicazioni I.S.U. Università Cattolica di Milano
F. Cruciani, Lo spazio del teatro, Laterza
F. De Biase (a cura di), Audience development, audience engagement, FrancoAngeli
M. Gualtieri, Senza polvere, senza peso, Einaudi
M. Marino, Lo sguardo che racconta, Carocci
M. Marino, Teatro da mangiare?, Teatro delle Ariette
B. Munari, Verbale scritto Corraini
B. Munari, Il cerchio, Corraini
K. Smith, Risveglia la città, Terre di Mezzo

 

6. A luci accese

Quando uno spettacolo finisce di solito si accendono le luci, gli attori escono sulla ribalta e scattano gli applausi… Benché alcuni studiosi di oggi non lo ritengano strettamente necessario, per noi l’applauso si è rivelato sempre un grande momento liberatorio, oltre che, ci piace ancora pensare, una forma di gratitudine e di rispetto nei confronti del lavoro degli artisti.
Il tempo dell’applauso, se goduto, è infatti un momento speciale per tutti, è l’attimo in cui l’attore e lo spettatore scaricano le tensioni, in cui si vedono in faccia, è l’attimo della complicità, dello sguardo d’intesa che si scambia con un amico con cui ci si capisce senza parlare.
Non sempre tuttavia, la società ci lascia il tempo per alimentare queste belle sensazioni.
Al giorno d’oggi quando per esempio andiamo a vedere una mostra, un film o a teatro, siamo spesso costretti a scappare via, a inserire l’appuntamento con la cultura in mezzo a flussi di azioni e di eventi molto diversi tra loro che, quasi sempre, finiscono per impegnarci sullo stesso livello. La stanchezza che ne deriva, lo sappiamo, è grande.
Sarà per queste elucubrazioni, ma spesso nel fuggi-fuggi verso automobili e mezzi che di solito segue agli spettacoli mi è capitato di pensare alla Seggiola delle visite brevi di Bruno Munari (sì, ancora lui), una seggiola pensata per l’appunto per stare “in prestito”, né dentro la casa di qualcuno né fuori. La seduta che è a metà tra il sedersi e lo stare in piedi, ideale da poggiare al muro, l’ha resa infatti nel tempo una perfetta sedia da pianerottolo dove ci si saluta e si conversa compatibilmente al buon senso, pena le lamentele dei vicini.
Le pubbliche relazioni che coltiviamo negli spazi della cultura, ci siamo accorti, si poggiano spesso su seggioline così.
Con il Progetto Calamaio tuttavia, complice la necessità di non dimenticare giacche, cappelli e borse, ci vuole sempre un po’ più di tempo. Nel mezzo di quelle attese si scherza, ci si guarda intorno, gli attori si fermano per rispondere a eventuali domande anche dopo le interviste ufficiali… Il tempo dell’uscita insomma risulta sempre più dilatato.
Questo fermarsi a parlare, che abbiamo speso con direttori artistici, critici e artisti alla fine di ogni spettacolo, è stato tuttavia quello che ci ha permesso di fermarci a riflettere sulle reciproche peculiarità, di immaginare dei percorsi insieme e soprattutto di godere di un tempo calmo e dilatato che nasceva prima di tutto dal bisogno delle persone con disabilità.
Ne sono successivamente nati convegni, partecipazioni a spettacoli, ulteriori incontri, relazioni e scambi che qualcuno ha poi deciso di coltivare in autonomia, soprattutto c’è chi, come Diego, quando il teatro lo ha visto ha chiesto anche di farlo. È successo con l’incontro con la compagnia di rifugiati Cantieri Meticci, incrociati ormai tre anni fa durante la preparazione dello spettacolo Il violino del Titanic di Pietro Floridia. Quel miscuglio di ragazzi stranieri della sua età, tra i 20 e i 30 anni, che parlavano male come lui ma che sembrava non fosse un problema, lo ha spinto a provare a seguirne i laboratori. L’accoglienza calorosa che ha ricevuto, pur necessitando di qualche mediazione e portando in luce delle difficoltà, ha dimostrato un ulteriore scarto di accessibilità, confermando che a teatro non è necessario parlare la stessa lingua se ci si mette in reciproco ascolto. Il corpo ci ricorda che si può anche stare zitti, basta usare i vocaboli dell’immaginazione, colmare una distanza. Perché il teatro – ci ha insegnato il laboratorio di educazione alla visione “La Quinta Parete. Lo spettatore è uno sguardo che racconta” – è sempre essere attori e spettatori insieme.
Ed ecco allora che il nostro cerchio si chiude, riportandoci a Barthes, al coro, al theatron en plein air con cui abbiamo aperto il nostro racconto.
Sia che vi sentiate più spettatori inattesi o più habitué, speriamo di avervi appassionato o quanto meno spinto a esplorare questo mondo con maggiore fiducia.
Per concludere, un piccolo regalo, un dialogo corale, annusando il vento e interrogando le stelle, ai confini del cerchio, nel nostro teatro scoperchiato:
Buio. Cicale
TIZIANA: Che poi il teatro…
FRANCESCA: Che sia proprio questa cosa qui?
STEFANIA MIMMI: Va beh, è difficile spiegare…
DIEGO: Un pochino
CLAUDIO: Cioè?
MARIO: In fondo è un desiderio primigenio
LORELLA: Non sentirci soli ci ha fatto stare bene
TATIANA: È inebriante anche quella sensazione di inconcluso
STEFANIA BAIESI: Un solo sguardo ed è un poter dire
TRISTANO: Essere continuamente
PATRIZIA: Vita e morte
LUCA: Morte e vita
ROBERTO: Senza polvere
SANDRA: Senza peso
LUCIA: Come parole lisce…
MANUELA: … Ritmate sul respiro
ERMANNO: Oh! Che gioia!

Il Progetto Calamaio vi aspetta a teatro ma vi esortiamo a scriverci su http://laquintaparete.accaparlante.it o a rivolgervi a lucia.cominoli@accaparlante.it per ulteriori informazioni.

Nel frattempo… Buone future visioni a tutti!

5. La formazione del pubblico. Esperienze di audience development

5.1 Cosa fanno i teatri. Conversazione con Micaela Casalboni, attrice di ITC Teatro di San Lazzaro di Savena (BO)
Il percorso che abbiamo intrapreso insieme con La Quinta Parete ci ha portati a focalizzare lo sguardo dall’accessibilità alla cultura in senso lato sul ruolo e l’esperienza a teatro dello spettatore con disabilità. Un ruolo e un’esperienza che abitano prima di tutto una presenza. Partirei proprio da qui. Presente è “qualcuno che è nello stesso tempo nel quale si parla” e ciò coinvolge la persona in termini di fruizione ma, facendo un passo indietro, anche in termini di accesso a. Quanto è frequente oggi la presenza della persona con disabilità in platea? È cambiato qualcosa rispetto al passato?
Qui all’ITC è cambiato sicuramente, basti pensare che quando abbiamo iniziato, nel lontano 1998 nella platea appena messa a posto c’era una sedia! Da allora, quando si incrociavano spettatori con disabilità in linea di massima alla fine dei saggi, la situazione è decisamente migliorata. Oggi ci capita molto spesso di avere tra il pubblico spettatori in carrozzina o non udenti, con alcuni dei quali, come voi e Fondazione Gualandi, abbiamo attivato percorsi specifici, relativi allo scambio dei saperi e alla fruizione dello spettacolo stesso attraverso per esempio la sovratitolazione.
Sto pensando ora alla parola “presenza” che hai usato… Una parola interessante perché la presenza è anche una caratteristica specifica del teatro, in cui è tutto lì, gli attori sono nella stessa stanza del pubblico, prima di tutto nei loro corpi. La presenza è una questione molto, molto importante che quando ci fa interfacciare con nuovi pubblici alle volte ci fa sentire inadeguati, desideriamo accogliere tutti e ci chiediamo continuamente se facciamo abbastanza. Ogni volta ci mettiamo in gioco, imparando mano a mano, e lo facciamo non solo nei confronti della disabilità, lo facciamo in direzione di un’accessibilità in senso lato, inserendo per esempio una cartellonistica in più lingue per i migranti con cui lavoriamo da diversi anni, conservando l’ambizione di rendere il nostro sito bilingue, con una prima versione italiano-inglese, impegnandoci per offrire agli studenti, fin dalle prime superiori, ingressi a 1 euro per agevolarne la partecipazione autonoma.
Come attori e registi invece sperimentiamo l’accessibilità anche nella realizzazione stessa dello spettacolo, in alcuni dei quali, come nel caso di Le Parole e la città, lo spettacolo itinerante con cui abbiamo celebrato i 20 anni del Teatro ITC con il coinvolgimento di tutte le realtà cittadine che hanno collaborato con noi, abbiamo sperimentato una traduzione simultanea in più lingue, di testi registrati che il pubblico poteva ascoltare in italiano, inglese e arabo per esempio, grazie a delle cuffie con sensori che si attivavano non appena ci si avvicinava ai singoli palchetti, mentre lo spettatore assisteva alle azioni dei performer. In altri casi, come ne La magnifica illusione, abbiamo immaginato uno spettacolo senza parole, solo agito, con un forte gioco di luci, capace così di coinvolgere persone con disabilità sensoriali, adulti, adolescenti, bambini, di far convivere insomma nello stesso spazio presenze diverse.
Lo stesso metodo de Le Parole e la città lo abbiamo usato anche incontrando il mondo del volontariato di Bergamo con il progetto “Arcipelaghi” che ne raccoglie le storie all’interno dello spazio di un ex-carcere. Tutto questo per dire che la riflessione sul pubblico con disabilità porta con sé quella sugli altri pubblici, se migliori l’accessibilità per la prima, facilmente lo farai anche per gli altri, e viceversa.

Ogni persona e quindi ogni potenziale spettatore porta con la propria autenticità, lo fa nel rapporto con l’attore ma anche nei confronti del pubblico. Grazie al vostro spettacolo Diario di una follia di Stato ci siamo liberamente ispirati alle Istruzioni alla servitù di Jonathan Swift e agli esercizi mattutini di obbedienza e normalità eseguiti dagli attori, i ragazzi di Crossing Paths, per ricostruire le tappe della nostra entrata a teatro. Ne è nato un ironico vademecum “Sconquasso, istruzioni per l’uso”. Quanto vi siete riconosciuti in quanto casa ospitante nelle tappe di questo passaggio di accoglienza negli spazi del teatro?
L’esperienza di avervi qui ci ha fatto vedere a noi stessi noi stessi. Uso questo gioco di parole per dire che spesso abbiamo sentito di aver ricevuto molto di più di quello che avevamo dato, ci avete fatto notare, attraverso le vostre visioni, cose a cui non avevamo pensato ma in cui ci siamo fortemente riconosciuti. Lo sconquasso per esempio, che da noi è sempre benvenuto, non ci sembrava un problema, ci sentivamo predisposti ad accogliervi, sapevamo di avere la rampa, che superato il numero di 3 e 4 carrozzine sarebbe stato necessario fare un punto organizzativo e magari dotarsi di una maschera in più, insomma niente di che. Le dinamiche però su cui voi avete giocato e ironizzato hanno messo in discussione l’entrata di tutti gli altri spettatori, inevitabilmente contagiati da una prossimità forse non del tutto attesa, una cosa che non avevamo considerato. Quando ho letto quel vademecum, oltre a riportarmi con affetto a un percorso educativo molto caro, quello con gli adolescenti di Crossing Paths, ho riso moltissimo, avrei voluto appenderlo all’entrata, nel foyer e, ti dico, forse prima o poi lo farò! La stessa sorpresa l’ho avuta leggendo la restituzione sul nostro Teatrobus… Le immagini che gli avete costruito intorno erano le stes- se da cui noi siamo partiti quando abbiamo deciso di sperimentare questa nuova avventura, quella cioè di costruire un teatro su un autobus. Uno spazio, lo sappiamo, molto poco accessibile ma che non vi ha fermati, vi è bastato chiedere aiuto per salirci su. Un bello schiaffo a certe preoccupazioni che a volte gli artisti si fanno perché in quel caso di fare piani organizzativi non c’è stato proprio il tempo! Io, devo ammettere, sono una specialista nelle preoccupazioni ma lo sono di più in veste di attrice. Quando ho interpretato Ofelia in Tiergartenstrasse 4 per dirne una, in cui raccontavo la storia una disabile con un ritardo mentale che stava per essere coinvolta nel programma di sterminio previsto durante il regime nazista, ero piena di dubbi. Per interpretare Ofelia in passato avevo studiato modi di parlare, gestualità e corporeità di un certo tipo di disabilità. La sera in cui sapevo che voi sareste stati tra il pubblico, mi ripetevo continuamente “con che faccia mi trovo ora a rappresentare io tutto questo?”. L’ansia, la paura, sono trappole in cui si rischia di cadere, succede anche con il pubblico che applaude e basta, ti chiedi se avrà davvero capito, se avrà davvero apprezzato. Il teatro però ti insegna a vivere l’incontro in maniera empirica e ciò che ti dà forza è prima di tutto l’incontro umano. Questo è fare teatro, e io me lo porto sempre dietro. Quando mi chiedono che cosa faccio, non rispondo mai “faccio l’attrice”, rispondo sempre “faccio teatro” ed è accaduto anche a voi: non vi abbiamo semplicemente proposto uno spettacolo, abbiamo “fatto insieme teatro”.

Come attrice e regista sei stata più volte coinvolta nell’incontro con gli educatori e gli animatori con disabilità del Progetto Calamaio, nella fase di preparazione alla visione dello spettacolo come in Diario di una follia di Stato ma anche leggendo il riscontro seguito alla visione di Tiergartenstrasse 4. Un giardino per Ofelia. Cosa ti ha lasciato questo scambio? C’è qualcosa in particolare che porti ancora con te?
Quello che mi ha colpito è stata senza dubbio la capacità spontanea di andare alla radice, ogni volta in maniera diversa. In certi casi le restituzioni riassumono lo spettacolo in tre parole con grande semplicità, in altri il tutto è reso più complesso e ti fa notare aspetti del tuo modo di recitare o di dirigere a cui non avevi pensato. Ciò che resta è senza dubbio la dimensione poetica, il dono di un incontro. Nella restituzione di Ofelia, di cui conservo ancora il disegno di Attilio Palumbo sul mio dekstop, ho sentito fortissima la percezione di questa dimensione, che anch’io, che avevo lavorato con grande umiltà, avevo ricercato nella rappresentazione con l’idea cioè di lavorare su un doppio binario, di oltrepassare la mimesi dell’attore e di arrivare più all’interno per disegnare un personaggio poetico. Ofelia, quando guardo il disegno ci penso ancora, mi ha costretta a un esercizio di verità, non di realismo ma di verità, che è un’altra cosa. Ofelia che inizia da me, finirà con qualcosa di diverso da me. La disabilità, forse, ti porta a confrontarti con un meccanismo piuttosto simile. Dei nostri incontri di preparazione agli spettacoli poi ricordo senza dubbio Lorella, ne ha sempre una per ogni argomento e, un po’ come Ofelia, deve sempre dire quello che pensa, anche se inopportuno. In quell’occasione io e i ragazzi ci siamo divertiti moltissimo e, sarò onesta, non pensavo che sarebbe accaduto, immaginavo di dover- mi concentrare molto nel capire e nel dover farmi capire. Invece siamo stati accolti benissimo, Stefania Baiesi, Mario e tutti gli altri presenti si sono aperti con un atteggiamento di grande protettività nei confronti dei ragazzi, ci si parlava tra fratelli umani e l’insieme, tra tutte quelle risate, affrontando temi seri, è stato un po’ toccante.
Un’altra cosa che mi ha colpito è stata la vostra partecipazione all’incontro organizzato in Università dalla professoressa Zanetti, insieme al Teatro Testoni Ragazzi e all’oggi Teatro Laura Betti nell’ambito del convegno “I diritti dei bambini e delle bambine a una piena cittadinanza culturale”, c’eravate tu, Sandra e Tatiana. Ricordo l’ironia con cui dialogavate con Tatiana, il gioco del “avete capito?” quando Tatiana, che ha difficoltà nel linguaggio, parlava, una sorta di rimbalzo di battute alla Totò e Peppino, delicate ma decisamente comiche, perfette per rompere il ghiaccio. A partire dalla disabilità, ci avete riportati a una dimensione di quotidianità, a una dimensione di allegria e spronato a capire che non si può sempre parlare solo di “sfiga”!

L’accessibilità, così come il tema della sessualità, sottolinea provocatoriamente il giornalista con disabilità Claudio Imprudente, sta sempre di più diventando una moda. Claudio ne sottolinea questo aspetto, soprattutto relativamente al fatto che spesso a chi oggi affronta queste tematiche mancano dei passaggi di conoscenza sulla disabilità in senso stretto. Una riflessione un po’ scomoda che però ci offre l’opportunità per ampliare una domanda di fondo. Che cosa rende accessibile un teatro? Come porsi dunque di fronte alle specificità di un pubblico sempre più variegato?
È necessario, come anche voi sottolineate, che i pubblici comincino a guardarsi tra di loro. L’audience development sta lavorando in ambito europeo proprio su questo: come far sentire le persone accolte in un processo dinamico che non cambia di luogo in luogo ma da individuo a individuo, indipendentemente dalle categorie di appartenenza. Bisogna ragionare in termini di mescolanza e di spazi terzi che possano favorire i tempi dello scambio, della conoscenza e della socializzazione in apertura alle specificità.
In Danimarca, Svezia, Francia, Germania e Inghilterra si ragiona da tempo su questi aspetti e anche nei teatri tradizionali sono previsti altri spazi deputati a questi momenti, i foyer sono concepiti come le zone del salotto di una casa, ci sono angoli per leggere, per mangiare e bere per chiacchierare e rilassarsi, darsi un tempo prima e dopo la visione.
Che ci sia una moda, come ci stuzzica Claudio, è possibile, ma mi dico anche che se poi la moda ci porta a rendere accessibili degli spazi ben venga! Penso che dipenda dai casi, che non si possa fare di tutta l’erba un fascio, distinguere per esempio il concetto di accessibilità da quello di teatro sociale è un primo passo per non cadere in certi tranelli.

Il lavoro degli ultimi tre anni del Teatro ITC si sta soffermando moltissimo proprio sull’audicence developement, in direzione anche di modifiche strutturali, di una revisione degli spazi e di un ripensamento complessivo del luogo teatro, qualcosa che va oltre alla definizione di “luogo dello sguardo” per spostarsi sempre di più sul piano della relazione e dell’educazione con e per il pubblico. Cosa nascerà? Quali sono le utopie del prossimo futuro?
Sì, come teatro ci piacerebbe molto aderire agli spazi europei sopracitati e a sviluppa- re in questa direzione i suggerimenti dell’audience development, la Compagnia dell’Argine sta bene all’ITC ma indubbiamente è ormai uno spazio stretto. A questo proposito, grazie a un aiuto esterno, presto avremo la possibilità di acquistare un tendone da Circo, una vera e propria nuova sala che sarà posta nella piazza esterna accanto al teatro, che, oltre a essere totalmente accessibile in termini architettonici, ci permetterà di condurre in uno spazio teatrale i nostri laboratori come quello, per re- stare in tema, ormai diventato consuetudine con “Gli amici di Luca”, che coinvolge le persone reduci da esperienze di coma de La Casa dei Risvegli, uno spazio che può essere aperto anche ad aperitivi, eventi itineranti, incontri o ulteriori spettacoli.
A ciò si aggiunge il progetto Futuri Maestri, una riflessione che coinvolgerà oltre tremila bambini e ragazzi, di cui mille sulla scena, su ciò che è il mondo contemporaneo, a partire dalle parole-chiave lavoro, amore, crisi e immigrazione. Nel 2008 l’ITC ha mutato forma giuridica, da teatro è passato a cooperativa sociale, mi piace che a un certo punto abbia il coraggio di dire quello che oggi è.
Il teatro non è uno spazio vecchio dove va gente vecchia, bisogna togliere polvere prima di tutto alle idee, mischiare gli sguardi, aprire le porte, metaforiche e non.

5.2. Educare alla visione a scuola con “Crescere spettatori”. Conversazione con Agnese Doria di redazione Altre Velocità

Che cos’è “Crescere spettatori”?
È un progetto che è nato in maniera ancora più strutturata nel 2015 quando Altre Velocità ha ricevuto il finanziamento ministeriale del MiBACT (Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo), accreditandoci tra gli enti che si occupano in Italia della formazione del pubblico. Il nostro lavoro ha radici più antiche ma questo riconoscimento, oltre a permetterci una maggiore strutturazione, ci ha concesso di ottenere a livello nazionale una riconoscibilità forte.
“Crescere spettatori” sono i laboratori che noi teniamo in orario curriculare all’interno delle scuole ormai di quasi ogni ordine e grado, a partire dalle elementari attraverso le secondarie di primo e secondo grado, nelle ore quindi che alcuni insegnanti di diverse materie, come per esempio italiano e storia dell’arte, offrono al laboratorio. Il fatto che non si tratti di laboratori opzionali extrascolastici ma che gli incontri rientrino nel monte ore obbligatorio è per noi molto importante perché pone i ragazzi di fronte all’inaspettato. Molte volte infatti quando entriamo in classe i ragazzi non sanno bene chi siamo e che cosa siamo venuti a fare, a volte non lo sanno neanche le insegnanti, la cosa bella però è che quando si rompe il ghiaccio ed entriamo e raccontiamo quello che facciamo, spesso quei ragazzi o ragazze che mai avrebbero scelto un laboratorio di educazione allo sguardo si ritrovano a essere in qualche modo incuriositi e affascinati da questa nuova prospettiva, che non li convoca a “fare” ma semplicemente a “osservare”. I più piccoli ci hanno molto stimolato in questa direzione, abituati cioè alla dimensione fattiva che fa parte della vita scolastica, in cui c’è molto “esterno” che entra quotidianamente nelle classi richiamandoli per l’appunto alla dimensione laboratoriale della concreta attività e del teatro recitato.
In questo caso noi agiamo in maniera differente, li richiamiamo allo sguardo e all’ascolto con un posizionamento che loro percepiscono come nuovo, complice una tradizione pedagogica che da Ciari, Munari e Freinet ha sempre spinto verso l’artigianato. Noi non abbiamo pedagogicamente nulla contro questi approcci ma pensiamo semplicemente che un posizionamento sullo sguardo e su “il non fare” sia oggi altrettanto indispensabile.
Sono dunque laboratori sullo sguardo in cui noi, a seconda delle età dei ragazzini, usufruiamo di una cassetta degli attrezzi diversa che è uno strumentario per saper iniziare a guardare uno spettacolo ma soprattutto per cominciare a saper fare domande all’opera d’arte. Spesso domandiamo che cosa ci sta chiedendo l’opera, quali domande fa al pubblico e viceversa quali sono quelle che il pubblico fa all’opera, spronandoli a chiedersi quindi che cosa loro cercano nell’opera e ad argomentare motivazioni che vadano a fondo, in direzione di una complessità.
Avendo ricevuto il riconoscimento del Ministero, della Regione Emilia Romagna e della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna ovviamente si è creata una rete di partnership regionali ed extraregionali che ci permette oggi di entrare in diversi contesti scolastici. Con il Teatro Arena del Sole entriamo in tutte le scuole di Bologna e provincia, con il Teatro delle Briciole entriamo nelle scuole medie del parmense, insomma iniziamo ad avere una mappatura piuttosto vasta che vorrebbe poi costituire una ricerca sul campo a livello sociologico, affinché in futuro diventi una pubblicazione che possa dare voce a quella che per noi che sta diventando una metodologia di intervento e naturalmente ai suoi protagonisti.
D’altronde noi ci siamo inseriti in un periodo storico che proviene dall’eredità della grande animazione teatrale in cui finalmente il teatro è stato portato nelle scuole e che ha avuto una grande stagione, una stagione però che sembra essersi un po’ dissolta nell’aria.
Noi raccogliamo quell’eredità trasformandola dal punto di vista della spettatorialità anche perché storicamente siamo spettatori tutti i giorni, dal secondo che viviamo alle pagine Facebook e ai siti che andremo a visualizzare, in tutto questo mare magnum bisogna restare vigili, capire come orientarsi, quali sono le domande da porre, quali le fonti attendibili. Cerchiamo di dare degli strumenti che sono dedicati alla visione di uno spettacolo ma allargando lo sguardo ci piacerebbe che fossero strumenti per saper guardare l’arte in generale e, per allargarlo ancora di più, in maniera utopica ma presente, per saper guardare il mondo.

Tornando per un attimo all’interno della dimensione di inaspettato da cui, dicevi, prende avvio il vostro dialogo con le classi, c’è stato qualcosa che ha colto di sorpresa anche voi, che ha rovesciato cioè il vostro modo di guardare all’universo dei bambini e dei ragazzi di oggi?
È una domanda bella e a cui è difficile rispondere perché ogni classe è un microcosmo a sé e ha talmente tante peculiarità che è impossibile generalizzare. Ci capita spesso tuttavia che i ragazzi siano entusiasti di andare a teatro e anche qualora non siano dei grandi frequentatori trovano comunque che la possibilità che la scuola gli offre di accedere allo spettacolo, anche usufruendo di eventuali scontistiche, sia pur sempre un’esperienza positiva.
Parlando di scuole superiori, poi, bisogna considerare che quando si raggiunge un’età biografica in cui il ragazzo inizia a operare delle scelte se non sulla vita almeno sui suoi hobby, tendenzialmente non sceglie di andare a teatro, un po’ perché ha dei costi elevati un po’ perché gli spettacoli sono di sera. Il cinema resta più accessibile, spesso ci scontriamo con loro infatti su un lessico e delle aspettative più legate al grande schermo che alla visione dello spettacolo dal vivo. Quando però poi lo incontrano, raramente ne escono scontenti. Inoltre sono termometri sempre in azione e ce lo dimostrano non appena ci mettiamo a dialogare.
La prima cosa che chiedo loro all’entrata in classe è se sono spettatori, se vanno a teatro e in quali teatri, quali sono cioè i contesti che frequentano e in cui si riconoscono nel panorama territoriale. Mi è capitato una volta che fossero loro a farmi conoscere una realtà che non conoscevo, dichiarandosi spettatori del “Festival 20-30” e grazie a loro ho scoperto un mondo. I ragazzi sono sempre dei grandi motori, hanno le antenne, hanno un fiuto da cui è giusto farsi trasportare.

In diversi paesi europei il teatro è portato e vissuto all’interno della scuola come disciplina di pari dignità insieme alle altre materie scolastiche. Avviene lo stesso anche in Italia?
No perché non c’è la struttura, e nonostante oggi ci sia una proposta di legge per far entrare il teatro come materia curriculare siamo ancora lontani da una definizione. Questo apre sicuramente delle riflessioni. In un momento dove tutto si sta smaterializzando, il teatro rappresenta una grande forza, è tutto, rappresenta il corpo, le temperature della voce, hai un tuo simile in un contatto visivo attore-spettatore insostituibile… Vero è che rispetto a questo noi ci interroghiamo ancora sul che cosa significhi entrare in classe. Noi siamo delle meteore nelle vite dei ragazzi, il nostro progetto può durare da due a un massimo di sei ore. Come relazionarci all’habitat e alle dinamiche che regnano nella classe? È giusto disarcionarle o no? È giusto en- trare in dialogo o no? In tutto questo in cui ci sentiamo ancora in un percorso in fieri, mi sembra che il fatto che qualcosa rimanga esterno non è del tutto negativo. È un motore comunque pazzesco che un ragazzo decida di andare a fiutare fuori e che questo accada al di là della famiglia e della scuola, in quanto lui si sente finalmente autore di decidere quello che vuole andare a fare, perché sempre minore è per i ragazzi anche la scelta di spazi di ozio, che si rivelano sempre più assottigliati. In quel luogo, vivaddio, non si sa bene che cosa si faccia ma qualcosa si muove, che sia teatro, musica o incontri, lì finalmente qualcosa accade.
È chiaro che la domanda si sposta su un piano politico. Quali sono quei luoghi vivi dove qualcosa accade e dove i ragazzi possono trovare qualcosa che sia di qualità e in cui siano liberi di andare? Questo era ai miei tempi un ruolo assolutamente rivestito dai centri sociali. Ci deve essere un territorio di libertà. Portarlo dentro così come è, soprattutto in una scuola che oggi va sempre di più verso i tecnicismi, è sicuramente importante; detto ciò credo anche che a un certo punto si possa dare ai ragazzi una scintilla che, se vogliono, possono portare avanti da soli, con forme che si devono inventare e che noi adulti non possiamo prevedere.

Dai licei alle elementari. Che strumenti avete usato per avvicinare i bambini all’ascolto?
La sperimentazione con le elementari la stiamo ancora affinando ma abbiamo trovato degli escamotage. Abbiamo per esempio una griglia di riferimento, che usiamo anche alle superiori, che racconta la scena a partire dagli elementi tecnico-formali, dal visibile cioè, come la scena, le luci, gli attori, i video, eccetera, con cui andiamo ad analizzare anche l’invisibile, quello che invece sulla scena non si vede. Con i bambini facciamo esattamente questo, rendendolo però materico, mostriamo loro la visibilità, entrando in classe con un performer, poi mano a mano la astraiamo. Dopo di che ci sono degli esercizi fisici di sguardo, diverse modalità per guardare una cosa, un piccolo training in cui li costringiamo a mettersi in movimento.

Hai mai incontrato alunni con disabilità nelle classi che hai incrociato?
Se ti riferisci a un handicap conclamato non mi è mai successo, anche se alle superiori ho incrociato dei ragazzi seguiti da un sostegno. Per quanto riguarda medie e elementari abbiamo incontrato classi con una percentuale molto alta di BES ma francamente se non me lo dicono personalmente non me ne accorgo… Per come sono organizzate le nostre attività anche i bambini più “lenti” trovano spazio per dare il proprio contributo, anzi spesso le insegnanti notano con piacere come emergano personalità che in genere fanno fatica a esprimersi, essendo le nostre lezioni molto partecipative e soprattutto collaborative.
Il modulo che va per la maggiore è quello di quattro ore, due ore prima dello spettacolo e le due ore successive, accade sempre che quando iniziamo a teorizzarlo, chi si dimostra molto vivace nella prima parte stia poi zitto nella seconda e viceversa, questo perché mentre prima occorrevano degli strumenti di razionalizzazione, a seguito dello spettacolo, grazie agli strumenti concreti e visibili che il teatro offre, anche chi ha delle difficoltà riesce più facilmente ad accendersi e a infervorarsi.
A volte, chi ha voglia, prende degli appunti e li deposita su carta ma lo fa liberamente, senza obblighi e costrizioni. Proviamo così a ribaltare etichette, posizioni e ruoli prestabiliti in cui hai la massima libertà d’azione quando l’insegnante non c’è, perché si crea un territorio in cui puoi muoverti su regole nuove; questo sarà probabilmente il passaggio a cui tenderemo in futuro.

Insieme al Progetto Calamaio ci hai introdotto al bellissimo spettacolo di Giuliana Musso, La fabbrica dei preti. Che cosa ricordi di quell’incontro? Ti capita spesso di incontrare persone con disabilità in platea?
Ammetto di essere piuttosto abituata a vedere persone con disabilità tra gli spettatori. Mi capita all’Arena del Sole ma anche in occasione di festival che si stanno aprendo in questa direzione, come per esempio con Gender Bender. Rispetto al nostro incontro ricordo invece di essere stata un po’ frontale, proponendo una lezione piuttosto classica in cui forse avrei potuto lasciare più spazio agli interlocutori, mi piacerebbe poter tornare oggi con il bagaglio d’esperienza che ho conquistato nelle classi con “Crescere spettatori”. Ricordo tuttavia un grande entusiasmo, soprattutto al momento dello spettacolo, all’arrivo a teatro, una comunità in movimento, capace di spostare energia, una cosa che si percepiva sia nei ragazzi sia in chi li accoglieva.

5.3 Dall’estero. L’esperienza inglese di IIAN e quella francese di Troisième Rideau
“La cultura è un elemento positivo che può facilitare l’inclusione sociale rompendo l’isolamento, favorendo l’espressione di sé, supportando la condivisione di emozioni e portando un’‘anima’ nelle misure messe in campo nell’affrontare le privazioni ma- teriali. Come mostra l’evidenza, la partecipazione culturale può avere grande impatto sul benessere psicologico delle persone.
Così citano le prime pagine del Report dell’OMC (Open Method of Coordination) dell’Unione Europea nell’ambito del Piano di Lavoro per la Cultura 2011-2014, a proposito delle politiche e delle buone pratiche di recente proposte sul piano euro- peo dalle arti pubbliche e dalle istituzioni culturali a favore di un migliore accesso e di una più estesa partecipazione alla cultura.
Il Report è del 2012 e l’Inghilterra, insieme a Francia, Italia, Germania, Spagna, Svezia e Danimarca, era ancora annoverata tra le esperienze degne di nota.
Cambiamenti sullo scenario politico a parte, l’Inghilterra, che porta con sé una favolosa tradizione teatrale, è sicuramente oggi con la Francia uno dei paesi più attenti al coinvolgimento e alla formazione dei pubblici. Tra questi anche quello con disabilità.
Lo scorso 7 marzo 2015 ci è capitato di presentare come Accaparlante il lavoro svolto con “La Quinta Parete. Lo spettatore è uno sguardo che racconta” al Festival Visioni di Futuro de La Baracca Teatro Testoni Ragazzi. Insieme a noi, sul palco, c’era un giovane ragazzo con disabilità, Daryl Beeton, uno dei fondatori di IIAN (International Inclusive Arts Network). Daryl è un attore e un regista che da anni si occupa a Londra e in giro per il mondo di circo teatro e teatro ragazzi prima di tutto in quanto artista e acrobata, dedicando particolare attenzione, anche in base alla sua esperienza, al tema della diversità e dell’accessibilità.
Oltre ad aver realizzato bellissimi spettacoli per i più piccoli come il recente A Square World in cui ha affrontato il tema delle barriere architettoniche utilizzando con ironia, poesia e profondità alcune forme geometriche, Daryl si è impegnato moltissimo nella realizzazione di un network internazionale rivolto senza distinzioni ad artisti e spettatori, lo IIAN per l’appunto, a favore dell’accessibilità dei pubblici, in particolar modo quello con disabilità.
 Altra esperienza che merita una menzione è senza dubbio quella francese di Troi sième Rideau a Mulhouse in Alsazia, di cui ci parla in maniera approfondita Massimiliano Rubbi nella sua rubrica di «Hp-Accaparlante» Europa Europa: un gruppo di attori con disabilità che non solo sono autori e protagonisti dei propri spettacoli ma che cercano con varie azioni di restituire al pubblico il processo delle prove, attraverso un diario di bordo in fieri che li porta a mettersi in gioco, a porsi domande che mirano alla realizzazione dello spettacolo ma che si interrogano anche sul senso che questo potrà avere o non avere per il pubblico e i modi in cui, qualora ci sia una disabilità, possa esserne fruito, uno scambio alla pari molto vicino all’approccio del Progetto Calamaio, che potete visionare sul loro blog: http://3emerideau.blogspot.it.
Per chi desiderasse documentarsi ulteriormente a fine volume troverà alcuni link utili e una breve bibliografia. I siti e i portali che oggi raccolgono le azioni a favore della partecipazione culturale sono molti e si evince come, perlomeno in Europa, la comunità internazionale stia prendendo direzioni condivise nella ridefinizione di norme, progettazioni e prassi.
Al di là di questi passaggi fondamentali, l’approccio più interessante tuttavia resta per noi ancora quello indicato da Simona Bodo, lo sguardo cioè sui terzi spazi in cui si sviluppa quel “patrimonio culturale immateriale” fatto di strumenti, oggetti e know-how tramandati da generazioni, che consentono di ricreare costantemente le culture nelle relazioni che passano attraverso il confronto tra i gruppi e le comunità.
Si potrebbe dire che, anche se si sa che il teatro fatto e visto fa bene sul piano pratico, non basta. Le comunità di appartenenza, le occasioni, restano infatti quello che più di tutto ancora condiziona l’apertura o la chiusura dei processi, e spesso una normativa illuminata non è fondamentale.
Resta il fatto che, come sottolineava Agnese Doria, chi trasmette la cultura ha un compito limitato: possiamo accendere una scintilla ma la scelta, di coltivarla o meno, spetterà pur sempre al singolo e questa libertà non può e non deve essere un comportamento prevedibile.
Ce ne parla a suo modo, nel prossimo intervallo, Alessio Plona, volontario del Servizio Civile Nazionale 2015-2016, qui alla sua prima esperienza di spettatore all’ITC Teatro con l’Hamlet travestie di Punta Corsara

Intervallo n 4. La mia prima volta a teatro. Un racconto di Alessio Plona, volontario del Servizio Civile Nazionale 2015-2016
Arrivare a Bologna, la dotta o la rossa a seconda delle preferenze, senza essere mai andato a teatro potrebbe suscitare un po’ di vergogna, e in effetti… Se da un lato le condizioni contestuali (venire da un piccolo paese, scuole superiori a indirizzo commerciale, amicizie “non troppo appassionate” al tema) non mi hanno aiutato molto, c’è da dire che la mia pigrizia e il mio poco spirito decisionale non mi hanno mai fatto incrociare questa strada, seppur avessi sempre voluto. Quindi quale occasione migliore di poterci andare se non all’interno del Servizio Civile? Ambiente formativo, protetto e in cui poter crescere… Ammetto, ero leggermente teso ed emozionato come credo che capiti quando per la prima volta si affronta qualcosa. Dico “affronta” col senno di poi, perché se dovessi pensare a una parola con cui definire questa mia esperienza direi “vulcano” di energia. Non ho sicuramente le competenze adatte per fare una valutazione artistica/tecnica sullo spettacolo, ma poco importa. Quegli attori di Punta Corsara per me sono stati eccezionali, un fiume in piena che ti travolge. Posso dire che sono uscito dall’ITC scosso, in senso positivo ovviamente, perché non mi aspettavo così tanta energia, così tanta vigoria sproporzionata, usando un termine calcistico. Non è facile descrivere le sensazioni provate: felicità, stupore, anche un pizzico di disorientamento…Emozioni contrastanti? Forse, chissà….Non sono mai stato bravo in effetti, ma penso sia “semplicemente” un qualcosa che ti muove, che non ti permette di staccare dalla realtà per un lasso di tempo sufficiente a dire “Ops, ma è già finito?”. Sarà stato lo spettacolo in napoletano, quindi vivo, caloroso, divertente e accogliente, che mi facilita in questa descrizione di quanto provato? Non so, però di una cosa sono certo: a teatro ci voglio tronare anche se non so ancora quando ne avrò il tempo!

 

 Intervallo n.3. Descrivere l’essenza. Due chiacchiere nel foyer con Attilio Palumbo, illustratore

Il teatro è un’arte antica che ha la peculiarità di svolgersi in presenza, che vive cioè nell’atto performativo, nella relazione attore-spettatore. Un’esperienza dunque, unica e irripetibile, difficile da documentare essendo la dimensione dell’incontro per sua natura sempre diversa. Come restituire questa caratteristica attraverso il disegno?
Per rappresentare un’esperienza teatrale prendo in considerazione gli elementi estetici e astratti come l’atmosfera, le luci e le ombre, i gesti, le musiche e le espressioni del corpo degli attori. Tutto questo si fonde e diventa l’input iniziale per realizzare le immagini. Seppur astratti diventano segno e colore. L’illustrazione non deve, a mio parere, raccontare o riassumere uno spettacolo bensì descriverne l’essenza, quella perlomeno che lo spettatore ha percepito come tale.

Tiergartenstrasse 4. Un giardino per Ofelia e La Fabbrica dei Preti sono gli spettacoli cui hai assistito in veste di spettatore oltre che di illustratore. Quanto ha inciso il tuo sguardo personale su quello artistico?
Ha inciso molto. Soprattutto in Tiergartenstrasse 4. Un giardino per Ofelia i temi trattati da sempre mi emozionano e coinvolgono particolarmente, lo sguardo personale ha prevalso condizionando il lavoro dell’illustratore.

Cosa ti ha colpito di più negli spettacoli che hai visto?
Ho un ricordo molto chiaro delle scenografie molto essenziali e delle luci non invadenti che mettevano in risalto l’azione delle attrici di Un giardino per Ofelia. Nel momento in cui ho realizzato le illustrazioni ho voluto riempire questa atmosfera, a tratti cupa, con fondi floreali e tinte pastello.

Che rapporto avevi con il teatro prima di partecipare al percorso? Eri abituato a frequentarlo come luogo di svago e divertimento o privilegiavi altri contesti?
Non ho avuto molte occasioni per andare a teatro in passato. Ho preferito sempre il cinema. Partecipare a questi spettacoli mi è piaciuto molto perché mi ha permesso di scoprire un tipo di teatro interessante, meno classico. Sarebbe stato bello se avessi potuto scoprirlo prima e avessi avuto la possibilità di imparare ad amarlo.

Pensi che il disegno e più in generale l’illustrazione possa agevolare l’incontro con altre esperienze artistiche per chi ha delle difficoltà cognitive e/o sensoriali?
Certamente. Le illustrazioni, partendo dalle emozioni vissute, raccontano in modo sintetico un’esperienza. Questa sintesi permette anche a chi ha difficoltà di comprensione di non perdersi in troppi elementi. Il messaggio, anche se a volte può essere metaforico, è maggiormente accessibile.

4. La Quinta Parete. Lo spettatore è uno sguardo che racconta”. Il Progetto Calamaio a tu per tu con lo spettacolo dal vivo

4.1 Prendere posto
Vi ricordate le domande con cui abbiamo aperto la nostra monografia? Ecco, tenetele in serbo e prendetevi tutto il tempo necessario per prestare ascolto anche a queste: dov’è il teatro? A che ora inizia lo spettacolo? Quanto dura? Chi mi viene a prendere? Chi mi porta a casa? Senti tu mia madre? Io vorrei venire ma non so se ce la faccio con gli orari… Quanto costa? Il biglietto lo prendi tu, vero? Ma è difficile? E se devo andare in bagno? A chi chiedo? Faccio in tempo prima a mangiare? Ci mettono davanti o dietro? Ci saranno bei ragazzi e belle ragazze tra gli attori? Le uscite di sicurezza sono ben segnalate? Metti caso che poi abbia bisogno di uscire… Potremmo continuare in eterno… Sono infatti questi dubbi, ansie, richieste e perplessità che spesso le persone con disabilità motoria e/o cognitiva si pongono prima di ogni uscita e, soprattutto se non sono abituate, prima di entrare in un luogo che non conoscono.
La gestione del corpo e dei suoi spostamenti resta ovviamente per molti la preoccupazione maggiore, un’ansia che spesso nasconde la frustrazione del dover sempre dipendere dalle decisioni altrui. Qualora poi i desideri della persona con disabilità e dell’accompagnatore non coincidano, il che è legittimo, entrare in conflitto, in famiglia come sul lavoro, è quasi sempre un passaggio obbligato. Lo sperimentiamo anche noi, ogni giorno, all’interno del Calamaio, alle volte con un po’ di alti e bassi e qualche sana litigata, partendo sempre dal presupposto che ognuno di noi porta con sé il proprio bagaglio di gusti, passioni, nodi irrisolti e abilità personali.
Questo, senza falsi buonismi, lo scenario di backstage su cui gli educatori e gli animatori con disabilità del Progetto Calamaio hanno cominciato a sperimentare l’incontro con lo spettacolo dal vivo nel laboratorio di educazione alla visione “La Quinta Parete. Lo spettatore è uno sguardo che racconta”.
Protagoniste diciassette persone in tutto, dai 20 ai 48 anni, senza contare il prezioso contributo di volontari e tirocinanti, che si sono lasciate condurre per poi auto- condursi in un percorso a tappe dedicato alla visione di alcuni spettacoli teatrali proposti sul territorio, un percorso depositato nel blog http://laquintaparete.accaparlante.it che ne ha documentato le fasi, a partire dall’entrata nello spazio dell’edificio teatrale.
L’entrata a teatro è stata infatti il primo passo per acquisire alcune consapevolezze che se da un lato ci hanno fatto scontrare con dei limiti di partenza, dall’altro ci hanno permesso di andare subito a fondo e di rendere la persona partecipe di un percorso in cui la disabilità in sé e per sé non è mai stata centrale, all’interno piuttosto di un’esperienza e di un’occasione festiva ugualmente condivisa da tutti.
Può sembrare banale ma questa presa di consapevolezza ha permesso ad alcune persone di prendersi delle piccole responsabilità, come per esempio quella di calendarizzare gli appuntamenti, di coinvolgere più serenamente i propri contesti di accompagnamento, di rivendicare il valore e l’importanza dell’esperienza culturale come un proprio diritto.
Un processo lungo ma condiviso, che è stato alla base della successiva libertà che ci siamo concessi nella visione e nella restituzione delle opere in sinergia con i teatri che ci hanno ospitato sul territorio bolognese, quattro in tutto, dal centro alla periferia.
Cominciamo allora dalla periferia, dai margini, come si suol dire. Bologna, rispetto ad altre città italiane, vanta infatti due territori di confine che sono due veri fiori all’occhiello per il territorio in termini di spazi, di qualità della proposta e di formazione del pubblico. Si tratta dei comuni di San Lazzaro di Savena e di Casalecchio di Reno, i poli opposti della città su cui campeggiano rispettivamente le sale del Teatro ITC di San Lazzaro e dell’oggi Teatro Laura Betti di Casalecchio di Reno.
L’accoglienza che abbiamo ricevuto in questi contesti, già abituati a interfacciarsi con pubblici molto differenti di bambini, migranti e anziani, ci ha subito permesso di sentirci a nostro agio e anche quando ci siamo trovati di fronte a delle barriere (foyer troppo piccoli, scalini, bagni non a norma) abbiamo avuto la possibilità chiedere la compartecipazione di tecnici di sala, maschere, direttori artistici, attori e registi che si sono spesi, molte volte con le loro braccia, per aiutarci a risolvere eventuali difficoltà.
Il passaggio dall’azione alla relazione è stato istantaneo, gli animatori con disabilità del Calamaio, già abituati a interfacciarsi in pubblico come formatori, si sono subito proposti con il consueto approccio schietto e allegro, a favore della conoscenza reciproca e di un’entrata negli spazi calda e familiare per tutti.
È successo anche con i teatri del centro città, come Arena del Sole e Teatro Testoni Ragazzi, il primo con un particolare slancio e cura da parte delle maschere, il secondo con il desiderio di agire, grazie alla nostra presenza, anche sugli spettatori disabili più piccoli.
La sorpresa di trovare un cospicuo numero di persone con disabilità, spettatori talvolta di spettacoli di teatro contemporaneo di ricerca, ha in realtà destabilizzato di più il resto del pubblico che il personale dei teatri. Enigmatici sorrisi alle porte d’entrata si sono spesso istintivamente rivolti al nostro gruppetto, che sarà forse apparso curioso, poco catalogabile e un po’ bizzarro.
L’entrata di una persona con disabilità in uno spazio di forte prossimità corporea infatti, anche se sempre più frequente, non sarà mai del tutto neutra: c’è un corpo con caratteristiche peculiari che si muove a suo modo, c’è la carrozzina, si producono suoni, mugolii e rumori “molesti”, componenti che condizionano inevitabilmente l’esperienza della visione degli altri.
Il papà del Progetto Calamaio, il già citato giornalista con disabilità Claudio Imprudente, racconta sempre quanto la disabilità ti costringa a muoverti, a cambiare la tua posizione di partenza, perché “se non c’è movimento – afferma Claudio – non c’è integrazione” .
Un bello spunto da cui partire ma, ci siamo chiesti, è davvero così? Gli altri sono disposti a lasciarsi andare così come lo siamo noi a fidarci di loro? Come possiamo verificarlo con i nostri mezzi di spettatori partecipanti?
Gli educatori e gli animatori con disabilità del Calamaio non si sono dati per vinti e hanno provato a rispondere stilando una lista di istruzioni, degli esercizi di accessibilità seguiti alla nostra prima esperienza di entrata nello spazio teatrale, un ironico vademecum che desideriamo rivolgere al pubblico disabile e non.

Ecco che cosa abbiamo combinato tra il foyer e la sala del Teatro IT

Sconquasso, istruzioni per l’uso. Esercizi di accessibilità a teatro
di Progetto Calamaio
Liberamente ispirato a Istruzioni alla servitù di Jonathan Swift e agli esercizi mattutini di obbedienza e normalità, eseguiti dagli ospiti del Castello di Diario di una follia di stato per la regia di Micaela Casalboni con i ragazzi del progetto europeo “Crossing Paths Sentieri che si incrociano”.
Esercizio n.1  Non appena raggiunta la destinazione d’arrivo assumete la posizione di un cerchio aperto al centro del foyer, cercando di occuparlo trasversalmente da destra a sinistra.
Esercizio n.2  Infognate il biglietto nella zip del portamonete del vostro portafoglio nuovo che non avete ancora imparato ad aprire. Nel farlo, ponete la massima attenzione affinché quest’ultimo sia posizionato sul fondo della borsa, coperto da fazzoletti e altre cose imbarazzanti che sicuramente vi cadranno di fronte a un’illustre personalità quando le maschere vi chiederanno di estrarlo.
Esercizio n.3  Prima di tutto assicuratevi che dietro di voi ci sia una lunga fila. A questo punto cominciate ad attaccare bottone con le maschere, raccontate loro ogni dettaglio sul vostro viaggio d’arrivo, fategli dei complimenti e soffermatevi sulle più significative vicende della vostra vita personale. Cercate di farvi dare, sempre e comunque, il loro numero di telefono.
Esercizio n.4  Non ascoltate mai nessuno quando dovete prendere posto. Vagate in autonomia per la sala e posizionatevi dove desiderate, possibilmente vicino al palco, così che anche gli attori vi possano vedere (non si sa mai cosa può succedere), lontano dalle uscite di sicurezza e accanto a persone ben vestite e pettinate dall’aria di chi la sa lunga ma è lì per puro caso.
Esercizio n.5  Sorridete a chi vi è seduto accanto, dietro o davanti. Se il sorriso non viene ricambiato presentatevi, scambiando due parole su quello che vi aspettate dallo spettacolo.
Esercizio n.6  Quando la luce cala, siate sicuri che il vostro accompagnatore sia nel bel mezzo di una fila centrale e mandatelo a controllare se avete dimenticato qualcosa fuori dalla sala non appena l’attore muove il suo primo passo sulla scena e l’attenzione del pubblico è totale.
Assicuratevi che l’accompagnatore debba far alzare per lo meno quattro o cinque persone durante l’intera operazione.
Esercizio n.7  Abbandonatevi allo spettacolo. Ridete, gridate, saltate sulla sedia, piangete, così come vi viene. Vedrete come il ben vestito che vi è seduto accanto vi seguirà a ruota.
Esercizio n.8 Se lo spettacolo vi è piaciuto applaudite a piene mani con tutta la forza che avete in corpo, ora in piedi ora seduti, al grido di “bravi, bravi!”. Viceversa, se lo spettacolo non vi ha convinto, parlatene nel viaggio di ritorno a casa e continuate nei giorni a seguire, ancora e ancora, spiegando perché.

4.2 Il prima, il durante e il dopo lo spettacolo
Gli spettacoli cui abbiamo assistito sono stati scelti dall’équipe del Progetto Calamaio in stretta relazione con i teatri e sulla base di una mia conoscenza pregressa come critica teatrale presso alcune redazioni del settore, grazie alle quali ho maturato la conoscenza del lavoro di alcuni artisti ormai periodicamente ospitati nelle stagioni del territorio.
A supportare le scelte sono stati di volta in volta i codici, i contenuti e i linguaggi utilizzati nei singoli spettacoli, che, pur inconsapevolmente, si sono dimostrati un veicolo all’accessibilità in senso lato, motivo per cui abbiamo privilegiato lavori che, anche nel caso della ricerca più contemporanea e performativa, mantenessero alto il tasso di coinvolgimento sensoriale e relazionale e proponessero tematiche di interesse collettivo anche qualora legate al dato biografico dell’artista.
Prima di ogni spettacolo perciò gli animatori e gli educatori, coadiuvati da volontari e tirocinanti, sono stati condotti, talvolta con l’intervento di artisti e critici teatrali, a “prepararsi” allo spettacolo prima della visione.
Momenti di scoperta e di discussione, in cui abbiamo incontrato le storie e le poetiche di artisti come Giuliana Musso, Punta Corsara, Teatro delle Albe, Marta Cuscunà, Marcello Chiarenza, Teatro Gioco Vita, Teatro Sotterraneo e Teatro delle Briciole, Compagnia dell’Argine, César Brie, Le Belle Bandiere, Mimmo Cuticchio, Teatro delle Ariette, Cantieri Meticci e Ascanio Celestini.
Se ragioniamo in termini di accessibilità metaforica, intendendo con questa la possibilità di farsi interpreti di un’opera e di farla vivere dentro di sé anche dopo l’incontro in presenza, il lavoro di questi artisti è stato per noi paragonabile a quello dei grandi pittori della Storia dell’Arte, artisti cioè che sanno parlare su più livelli e in cui ciascuno di noi può trovare quell’immagine o “quella frase che” – come direbbe la scrittrice Annie Ernaux – “pronunciata in silenzio ti aiuta a vivere”.
Ci sono poi le percezioni a pelle, quelle che nascono al momento dell’incontro e che lasciano il segno, anche quando non comprese alla lettera.
Non dimenticherò mai la reazione della mia collega con disabilità Lorella di fronte a César Brie che ci raccontava il suo modo di intendere il teatro: “Non so se ho capito bene – mi disse – ma quest’uomo è diverso dagli altri, quest’uomo è un poeta!”. Allo stesso modo Mattias, che di fronte alle luci di Maurizio Viani, proprio quella volta che aveva dimenticato a casa gli occhiali durante l’Antigone de Le Belle Bandiere, ha esclamato: “l’atmosfera era scura ma era perfetta, quelle luci rimbombavano dappertutto e il rosso sul fondale… sembrava venuto da chissà dove, una cosa sola con le voci, i gesti e gli spazi di questa tragedia electro-rock!”. Oppure Tatiana, che ha parlato per giorni di quanto Daniel Romila, clown di Parada e protagonista dello spettacolo di Marcello Chiarenza Casa dolce casa, fosse un giocoliere così bravo e simpatico nonostante gli mancassero delle dita nelle mani.
Gli spettacoli cui abbiamo assistito, almeno 30, ci hanno così portati di volta in volta a conoscere le biografie degli autori e, parallelamente il loro modo di intendere il teatro. Abbiamo fatto delle ricerche e cercato all’occasione di capire insieme che cosa sono il teatro di narrazione, i pupi siciliani, il teatro d’ombre, il circo ma anche la Commedia dell’Arte, i classici di Molière e di Dostoevskij, la tragedia greca, il contemporaneo, tutti quei generi, sfumature e consuetudini che rendono la scena molto più ricca di quanto avremmo mai immaginato.
Per farlo abbiamo usato strumenti diversi, video, musica, libri, elementi materici, impostato giochi di ruolo e attività che potessero farci entrare al meglio nell’atmosfera dello spettacolo.
Ogni anno poi, prima di cominciare il laboratorio, accoglievamo i nuovi arrivati con un’entrata di benvenuto che abbiamo chiamato “Il teatro come ti pare e dove ti pare di Ariane Mnouchkine”.
Di volta in volta così il gruppo sceglieva un luogo dove avrebbe voluto erigere il suo teatro immaginario. L’ultimo è stato un teatro viaggiante per mare, una nave-teatro insomma, che abbiamo disegnato e su cui abbiamo creato delle caselle con delle piccole tasche. Ad ogni futuro spettatore chiedevo di scegliere dove prendere posto, infilandosi in una delle tasche, complice un’immagine scelta tra alcune carte senza parole prese a prestito dal gioco di società Dixit, un’immagine che doveva rappresentare che cosa per loro significasse entrare in un teatro e l’esperienza della visione in se stessa.
Un gioco che, idealmente, ha richiamato il cartellone posto all’entrata del Théâtre du Soleil, fondato dalla Mnouchkine nel 1964 e dal 1970 situato alla Cartoucherie de Vincennes, uno spazio privo di numeri, in cui gli spettatori possono ancora oggi scegliere dove posizionarsi prima dell’inizio dello spettacolo. Un esperimento che, nella restituzione condivisa, ci ha fatto capire la differenza tra il cinema e il teatro, spingendoci a riflettere sulle peculiarità di un’esperienza fruitiva diversa dalle altre, la stessa per la quale ci vestiamo meglio, percepiamo fatica e noia durante la rappresentazione ma anche gioia esplosiva, calore, fino a ricondurre le radici di tutto questo nel corpo.
Il corpo infatti, compreso il nostro, non certo perfetto, è stato lo strumento privilegiato con cui durante gli spettacoli ci siamo confrontati con la visione, a volte spaventandoci, a causa di rumori, di effetti speciali o di entrate in scena improvvise, altre volte esaltandoci e sobbalzando sulle poltrone per le risate, altre volte ancora, quando non riuscivamo a vedere bene quello che stava accadendo, lasciandoci andare agli altri sensi, a percepire l’atmosfera generale e la tensione palpabile, il nesso tra noi e gli attori.
Una partecipazione totale, la nostra, e, forse anche per questo, quasi mai silenziosa, colpa delle voci, del volume molto alto, degli automatismi del corpo, fatti di scatti, versi e mugolii che inevitabilmente si amplificano nel buio della sala. Pensate per esempio a un colpo di tosse. Da uno a dieci quanto è fastidioso a teatro? Siate sinceri. Non vi è mai capitato di cercare di trattenere uno starnuto per non disturbare il resto del pubblico?
“Silenzioso e concentrato… ecco il teatro del pubblico impegnato!”, esclamò una volta la nostra collega con disabilità Stefania Baiesi.
Che siano queste o meno le richieste attuali, di certo il pubblico non è sempre stato così. La disabilità con il suo carattere di imprevedibilità ed extra ordinarietà ci riporta infatti ai grandi momenti di fioritura della scena, alla Commedia dell’Arte, al Teatro Elisabettiano, dove il pubblico parlava con i personaggi, urlava, commentava, lanciava ortaggi e chi più ne ha più ne metta se lo spettacolo non si rivelava di suo gradimento.
Gli artisti però lo sanno che dietro a tutte le pareti, portanti, divisorie e scorrevoli anche oggi c’è sempre il NOI di Piergiorgio Giacché. Ed ecco allora che quando lo spettacolo desidera davvero dialogare con te, te lo fa sentire con tutti i mezzi che ha, a partire da quello che vediamo sulla scena.
Luci, scenografia, costumi, e più in generale tutti gli elementi che caratterizzano l’impianto dello spettacolo sono stati così i primi termini di paragone per provare a orientarci nella visione in vista di una restituzione successiva. Cercare di ricordare, saper dire che cosa è accaduto, essere consapevoli di che cosa effettivamente siamo stati testimoni è qualcosa di molto difficile per alcuni di noi anche nella quotidianità. C’è chi si ricorda sempre tutto minuziosamente, chi solo gli oggetti o un fatto tra tanti, chi magari si fa distrarre da un suono, ma da lì, da quel particolare, è sempre possibile avviare insieme nuove creazioni.
Abbiamo imparato per esempio che a teatro esistono tre tempi: il prima, il durante e il dopo lo spettacolo, la cui qualità condizionerà il vissuto dell’intera esperienza visiva e la sua durata nella memoria.
Tuttavia è lì, nell’incontro con l’attore, che accade davvero qualcosa di imprevisto, qualcosa che, come in un viaggio verso un paese lontano, può portarti “dove non sei stato mai”.
Potrebbe allora capitarvi, come a Tatiana, di trovarvi spettatori sul palco, a cercare di capire da che parte state, di dimenticare a casa gli occhiali, come a Mattias, oppure di ritornare con il corpo alle emozioni che i colori vi davano da bambini come invece è successo a Lorella.
È accaduto allo spettacolo Report dalla città fragile di Gigi Gherzi, durante Antigone de Le Belle Bandiere e sulle orme-ombre di Cane Blu di Teatro Gioco Vita.

Tocca a te, spettatore! Pensieri in libertà su Report dalla città fragile, uno spettacolo di Gigi Gherzi – ITC Teatro di San Lazzaro di Savena (BO)
di Tatiana Vitali
Fin dall’inizio, quando ci si appresta a entrare nella sala del Teatro ITC per assistere a Report dalla città fragile si comprende che quella che stiamo per vivere non sarà un’esperienza dai contorni regolari.
Si entra a piccoli gruppi e un’atmosfera di curiosa attesa, non appena il primo scaglione scompare nel buio, invade rapidamente il foyer. Finché non è il nostro momento e arriva Gigi Gherzi, il regista con Pietro Floridia dello spettacolo, ad accoglierci personalmente nel corridoio per condurci piano piano nei meandri del teatro. Gigi ci parla come se ci avesse incontrato per la strada e volesse svelarci un segreto. Un atteggiamento anomalo, mi son detta, che a teatro non avevo mai visto…
Di solito c’è sempre una certa distanza tra chi è sul palco e chi è in platea, mentre ora, che per di più non siamo in nessuno di questi luoghi ma in un corridoio, lo spettacolo è già iniziato e io, che non so bene il perché, mi sento spaventata e coinvolta.
Gigi ci prepara così, dandoci del tu, avvicinandosi ai nostri sguardi e indicandoci una teca di immagini, costruzioni e parole, preludio, scopriremo, al racconto del suo viaggio alla ricerca delle storie e delle voci di quelle che lui chiama le “persone fragili”.
Facciamo il giro della sala e saliamo sul palco, dove tutto quello che vediamo lo possiamo osservare, toccare… C’è un museo di tante, tantissime teche in mezzo a cui perdersi… sembra un bosco. Ci chiedono poi di toccare ed esplorare questa misteriosa scenografia, il protagonista chiacchiera con noi… Quello, lo si capisce già, sarà proprio il nostro spettacolo! Ci sediamo sulle panche in semicerchio, come nel teatro greco, e Gigi ci invita a dire la nostra sul suo racconto e, prendendo spunto di volta in volta dai frammenti delle sue interviste alle persone fragili della città e dell’ex ospedale psichiatrico milanese Paolo Pini, scriviamo dentro alle teche, lasciamo messaggi, i nostri messaggi, ogni sera diversi come diverso sarà anche lo spettacolo che Gigi ci racconterà. Le vite dei personaggi e quella di Gigi scorrono e così le nostre matite sulla carta, reperti di un passaggio graduale, del prima e del dopo e del nostro essere lì, sul palco, pronti a riconoscere, insieme, anche quello che nella nostra città vediamo e viviamo ogni giorno. A un certo punto ci viene chiesto di scegliere una teca e di posarla a terra. Sarà il pezzo di una nuova mappa, quella del pubblico presente sulla scena, nuovo microcosmo, nuova piccola città fatta di fragilità
Report dalla città fragile è davvero uno spettacolo dello spettatore, ogni sera coautore insieme a Gigi della storia che verrà. Non immaginavo che questo fosse possibile, né tanto meno di poter salire su un palco per vivere uno spettacolo senza recitarlo. Eppure, ho scoperto che anche noi, spettatori, possiamo essere e fare moltis- simo, anche per cambiare le cose, a partire anche solo da lì, dal teatro. Per esempio condividere le nostre fragilità e partecipare in questo modo più attivamente alla vita, proprio come abbiamo fatto sul palco del Teatro ITC.

Signore e signori, si raccomanda di togliere gli occhiali… Una visione sensibile di Antigone de Le Belle Bandiere – Teatro Laura Betti di Casalecchio di Reno (BO)
di Mattias Fregni
Nonostante questa sera abbia dimenticato a casa gli occhiali, la vivace danza di globi luminosi e suoni su sfondo nero che hanno accompagnato la tragedia di Antigone della compagnia Le Belle Bandiere, mi ha completamente incantato. Anzi, vi dirò di più: proprio grazie a questa mia sbadataggine, mentre mi abbandonavo al flusso dello spettacolo, sono stato raggiunto da tante piccole scariche elettriche luminose e posso dire d’aver assistito a uno scenario unico, irripetibile, che non ho paura di chiamare “fantastico”. Quelle scariche non erano altro che le mie emozioni che passavano attraverso la voce e il corpo di un certo genere di fantasmi, gli attori, e che improvvisamente mi sono arrivate dritte dritte allo stomaco senza chiedermi tanti perché.
La storia di Antigone è una storia difficile, anche se partita in fondo da un desiderio semplice, quello cioè di una sorella di seppellire il proprio fratello, di cui se non ho afferrato tutti i dettagli conservo però ancora l’odore e soprattutto la musica… che, beh, a tratti era proprio rock! Non avrei immaginato che in una tragedia ambientata nell’antica Grecia avrei potuto scovare i Dream Theatre e della musica elettronica e invece è andata finire che, nonostante la serietà del dramma, mi sono persino divertito…
Il giorno dopo una mia collega mi ha raccontato che al Teatro Arena del Sole di Bologna c’è un uomo che da anni va a vedere quasi tutti gli spettacoli in stagione e che quest’uomo è completamente cieco… beh, non stento a crederlo!
Ho apprezzato tantissimo l’ambivalenza, già insita nel dramma, di momenti sonori dolci e delicati alternati a momenti quasi frenetici, evidenziandola nei recitativi e là dove il ritmo narrativo faceva prender velocità a tutta la performance. Si adattava perfettamente al mio pensiero del momento e alla mia partecipazione nei confronti dei personaggi… Sembrava che tutto fosse fatto appositamente per me, Mattias, e sentivo che anche per gli altri spettatori che mi erano seduti accanto era lo stesso… Come ho fatto a capirlo non lo so, lo sentivo e basta. Sarà perché non portavo gli occhiali che sono diventato così sensibile e attento? Chissà… Una cosa però è certa: io a teatro gli occhiali non li metto più.

Un Cane Blunerosso. Tra colori di Cane Blu di Teatro Gioco Vita –Teatro Laura Betti di Casalecchio di Reno (BO)
di Lorella Picconi e Lucia Cominoli
Sono molte le persone, gli studiosi, scienziati e artisti che si sono interrogati, hanno scritto, disegnato e discusso sulle proprietà dei colori. In Cane Blu la compagnia Teatro Gioco e Vita non ci parla direttamente dei colori ma li usa quasi come se fossero dei personaggi, delle entità vive che mano a mano accompagnano le azioni, le voci e i segreti dei protagonisti e ne fanno parte, circondandoci con tutta la loro luce, di emozioni sempre diverse, proprio come nei sogni, che il più delle volte sono in bianco e nero ma qualche volta possono anche essere colorati.
E così c’era il BLU.
Colore calmo e tranquillo, colore saggio di cane, blu tutto, piccolo, grande, sul pavi- mento, sul soffitto, voce che non chiede spiegazioni, voce paziente.
E così c’era il ROSSO.
Colore passione, colore imprevisto di amicizia e d’ira, di contesa e passaggio, spaesamento, azione, abbraccio non richiesto che ingloba, infuoca, mi infuoca.
E così c’era il NERO.
Colore terrore, colore cupo, ombra, vuoto, paura che non mi lascia in pace, sconfitta, lotta che non si arrende, bosco, scoperta, riposo.
Sono ancora qui e mentre osservo Cane Blu non ho più paura di mischiare i colori, perché mi guardo intorno e quando le luci invadono il soffitto del teatro un sussulto di stupore mi scappa fuori dalla bocca. Forse è sempre un sogno ma, questa volta, mi piace di più. Mi ricordo di quando ero bambina… e lassù, sul soffitto, ci sono altri come me.

4.3 Il deficit come risorsa creativa per la rielaborazione
Vederci poco, sentire male, non deambulare, far fatica a prestare attenzione, spaventarsi con facilità, sono tutte mancanze che possono condizionare la visione dello spettacolo, limitandone in certi casi la comprensione.
Il teatro tuttavia, lo abbiamo visto, è provvisto di segni, come gli elementi scenici, che possono aiutare a orientarsi in maniera piuttosto immediata su quella che è l’atmosfera generale dello spettacolo, segni che, messi in relazione al corpo dell’attore, al suo modo di utilizzarlo, alle parole e alla temperatura della voce si fanno per lo spettatore importanti indicatori di senso. Eppure c’è di più.
Al di là della comprensione generale che, potremmo dire, mette in campo il nostro cervello, c’è ne è una ancora più interna, irrazionale ed emotivamente instabile che appartiene alla sfera dello stomaco, detto non a caso “il secondo cervello”, che, nell’esperienza teatrale, tende a spingere in fuori le nostre pulsioni animali, i ricordi e l’inconscio.
Inutile dire che il “sentire di pancia” si sia dimostrato per noi un altro inconsapevole veicolo di accessibilità all’esperienza teatrale.
Detto ciò è capitato spesso tuttavia che alcuni colleghi con disabilità del Progetto Calamaio abbiano vissuto durante lo spettacolo momenti di forte empatia ed emozione che non sono più stati in grado di restituire a parole al termine della visione. Ciò non significa che l’emozione provata non fosse mai esistita ma che semplicemente il racconto tradizionale non era il mezzo adatto ad esprimerla.
Il Calamaio, va specificato, benché a un certo punto si sia giocosamente definito “redazione”, non ha infatti mai inteso riproporre al pubblico dei teatri delle recensioni, ha invece cercato, sul blog http://laquintaparete.accaparlante.it, di restituire degli sguardi che potessero dare allo spettacolo il valore aggiunto di un’ulteriore esperienza. Lo ha fatto attraverso disegni, associazioni di idee, canzoni, costruzioni con materiali di riciclo, che di volta in volta ci sembrava si avvicinassero “di pancia” alle suggestioni offerte dalla visione degli spettacoli.
E così, come potrete vedere nel dossier al centro del volume, abbiamo sperimentato con Diego e Lorella delle impressioni cucite, nate dalla visione dello spettacolo Come una Perla, protagonisti i lavoratori cassintegrati dell’azienda emiliana; insieme a loro Samuele, Filippo e Nicolò, i figli dell’educatore Tristano, ci hanno aiutati a costruire un pupo siciliano dopo O a Palermo o all’Inferno di Mimmo Cuticchio; l’illustratore Attilio Palumbo invece ci ha permesso con i suoi disegni di descrivere l’essenza degli spettacoli Tiergartenstrasse 4 e La fabbrica dei preti mentre con Francesco e Sara tentavamo di costruire una macchina piena di chiavi e lucchetti con cui cambiare il mondo, proprio come nell’ultimo spettacolo di Andrea Paolucci che abbiamo visto a ITC Teatro, La magnifica illusione.
Qualcuno si è cimentato anche nella scrittura, creativa però, come Emanuela e Patrizia, che in rima ci hanno condotto per la discarica di Casa dolce casa, o come Diego che nel bisogno di gridare i propri diritti dei lavoratori de La Perla ha riconosciuto anche i suoi, o ancora come Ermanno, che dopo la visione de La fabbrica dei preti ha pensato di inventarsi una storia nuova di zecca, dove un bambino, seminarista e futuro prete, riceve una lettera nientepopodimenoche dal Papa per esortarlo a una grande missione… E poi c’è lui, il Dizionario dello spettatore, che potete consultare sul blog e che con i suoi strampalati lemmi ci ha permesso di orientarci nella parte più nascosta della scena, la nostra.

Finalmente a Casa Dolce Casa! Dentro lo spettacolo di Marcello Chiarenza con una  canzone – Teatro Arena del Sole di Bologna
di Emanuela Marasca e Patrizia Passini
Eccoci arrivati a Casa dolce casa! Siete stanchi della dura giornata e non vedete l’ora di mettervi in pantofole? Di mangiare un piatto caldo e stendervi soli soletti sul divano?
Allora, sembrano dirci il regista Marcello Chiarenza e il suo gruppo di coinquilini bislacchi, ci dispiace, ma siete finiti nel posto sbagliato. All’Arena del Sole questa volta si entra a piedi nudi, si mangiano topi in salmì e ci si arrampica sui rifiuti dei sogni. Perché….

Casa dolce casa fa sì
che anche tu in
un battibaleno stai col naso in su.
Se ti lasci trasportare dalle melodie
potresti
poi scoprirti in un mondo di follie.
Là in una discarica della città,
trovi, ahimè, gli scarti di una società.
Ma chi può sopravvivere a siffatta realtà?
E
sono proprio loro: un gruppo di clochard.
In
un angolo di mondo ben poco ordinato,
accadono eventi che mai hai immaginato.
Succede là di tutto, ma con creatività
gli oggetti prendon vita con genialità.
Clown,
equilibristi, saltatori e giocolieri,
riescono a scombinare persino i tuoi pensieri.
Non puoi meravigliarti se all’improvviso,
sei chiamato in scena a tendere il tuo viso.
Ecco poi arrivare dall’Est un forte vento,
che solleva ombrelli in un portentoso evento.
Piovono
le stelle, rimani a bocca aperta:
che magico mondo! È tutto una scoperta.
Tutto è raccontato con delicata ironia
e pure la Morte diventa poesia!
Questo che ti ho detto è solo un assaggio
di quel che puoi vedere, dai: forza e coraggio!

Cercasi sostituto. Una parabola semiseria da La fabbrica dei preti di Giuliana Musso – ITC Teatro
di Ermanno Morico
Tommy era un bambino di 8 anni che viveva in un seminario nel nord dell’Italia. Studiava, leggeva e pregava “Amen Amen Amen” moltissimo per diventare prete, musulmano, ortodosso o chi lo sa… Insomma, un bel miscuglio! La sua vita in collegio trascorreva in modo movimentato e vivace, aveva molti amici e si dedicava a tante attività. Un bel giorno Tommy ricevette una lettera papale. Tommy non stava più nella pelle, il Papa in persona scriveva a un bambino! Chissà che voleva? Boh? Quando aprì la lettera esclamò “Uau!” Il Papa gli stava confidando di essere ormai diventato un po’ vecchio e acciacatello e di non farcela più a lavorare da solo, tanto che stava pensando di lasciare il suo mandato per andare in pensione. C’era bisogno di un aiutante o meglio di un vero e proprio sostituto, di un giovane e bravo prete nuovo. “Per cominciare dovresti riempire un bello zaino grande” – scriveva il Papa – “e andare in Sud America o in India a curare i lebbrosi, gli storpi, la peste, i bambini poveri o in difficoltà e chi più ne ha più ne metta”.
Così, messi via i vestiti e la sua roba con il beautycase e lo spazzolino elettronico nella valigia grande, Tommy prese il treno per andare a Rio de Janeiro, in Brasile. Dormi e sveglia, dopo dieci giorni di viaggio in cuccetta Tommy scelse di cambiare mezzo di trasposto e decise di scendere dal treno per prendere il traghetto.
All’aereo il bambino non aveva neanche pensato perché era un avventuriero e sceglieva sempre la via più difficile anche per raggiungere cose semplici. Così, sul traghetto, in cabina, un giorno Tommy sentì improvvisamente il suono di un campanello “Din-Don”, che sembrava una delle campane che il futuro pretino era abituato a sentire in chiesa. Il suono risuonò forte. Subito arrivò un signore grande e grosso, un vero e proprio marcantonio d’uomo che chiese a Tommy: “Hai chiamato?”. Già, proprio come il Lurch della famiglia Addams!
Tommy a quel punto ne approfittò e gli disse. “Mi faresti un piacere? Mi puoi aiutare a mettere sopra sul portabagagli la mia valigia che è molto pesante?”.
Lurch, che era un vero e proprio armadio, mise subito a posto la valigia sul portapacchi e si fermò a riposare insieme a Tommy.
Ci misero giorni e giorni ad arrivare a destinazione, giorni che i due trascorsero chiacchierando, giocando a carte, a briscola e a tressette per non annoiarsi. Tommy era molto bravo perché al seminario ci giocava spesso e, se si può dire, era un vero e proprio asso di carte!
Passava il tempo, finché un mattino il traghetto non si attraccò in un porto. A quel punto Tommy si accorse di non essere in Brasile ma a Mumbai, in India! A quel punto, con grande gioia, Tommy e Lurch, uscirono dal porto e presero un altro treno, più piccolo, per andare tutte e due a Calcutta, in collina, dove abitava Madre Teresa. I due amici salirono per tortuosi cunicoli e saliscendi, per di qua e per di là, dopo un lungo viaggio e una lunga camminata arrivarono alla città di Calcutta in India.
Tommy e Lurch raggiunsero a piedi la collina e si trovarono improvvisamente di fronte a un convento con un portone enorme e di legno massiccio così fatto contro le intemperie, la pioggia e il vento.
Timidi e un po’ curiosi i due tirarono una corda all’ingiù per suonare il campanello che fece un rumore così forte che persino un sordo avrebbe potuto sentirlo.
A quel punto il portone si aprì, “Chi sei?” – disse una voce di uomo. Quando lo vide Tommy pensò di essere di fronte a Luciano Pavarotti in persona, pronto pronto per l’opera… Era invece un prete indiano, che indossava una giacca grigia scura ricamata d’oro che faceva risaltare una lunga e bellissima barba nera.
Tommy rispose: “Sono il sostituto che stavate aspettando e sono arrivato fino a qui perché ho con me una busta papale. Non c’è più Madre Teresa?”.
Il prete indiano scosse la testa e provò a sbirciare e poi aprì la lettera per vedere che cosa c’era scritto. Tommy non diceva bugie era in missione per conto del Papa, caspiterina!
L’indiano che somigliava a Pavarotti gli disse: “Miserere!” – esclamò – “Io sono un amico di vecchia data di Madre Teresa che ormai è andata in giro per altri mondi… Anche per me, caro Tommy, è giunto il momento di ritirarmi, me ne torno dal mio gruppo, a Roma. Adesso tocca a te!”.
Tommy non capiva più se era lì per fare il prete o Indiana Jones con tanto di cappello e di frusta… Lurch a quel punto fece un gran sorriso, disse: “Beh, caro Tommy, credo il mio compito sia finito. Ora sei tu che ti devi dar da fare, grazie di tutto e del bel viaggio, spero che tu possa diventare un bravo prete! Io ora me ne torno a casa…”.
Tommy sapeva che Lerch era un po’ povero… Per questo mise la mano a terra e prese dalla giacca abbandonata dell’indiano, che se l’era data a gambe levate, un po’ d’oro e glielo regalò in cambio del tempo trascorso insieme.
Lurch, commosso, gli lasciò in dono una bella scatola con trenta mazzi di carte! Poi gli indicò alcuni bambini come lui tutti sporchi e molto magri che lì vicino guardavano fisso nel vuoto.
Tommy fece di sì con la testa e non ci pensò due volte.
E così, a Calcutta, sul nuovo bar della collina, con la sua scatola di carte, Tommy trascorse la sua missione con gli amici e le altre persone che era venuto a curare, giocando a rubamazzo, tre sette e a briscola, soprattutto la sera dopo il lavoro.
Perché è viaggiando, facendo fatica, giocando e prendendosi cura degli amici che uno diventa un bravo prete e, secondo me, pure una brava persona.

La canzone del NOI – I lavoratori dello spettacolo Come una Perla ci insegnano a difendere i diritti – ITC Teatro di San Lazzaro di Savena (BO)
di Diego Centinaro
NOI… Vogliamo essere autonomi e indipendenti NOI… Abbiamo diritto di divertirci anche fuori casa
NOI… Siamo giovani e abbiamo diritto di lavorare e di farci una vita come tutti
NOI… Abbiamo voglia e bisogno di andare in vacanza
NOI… Non stiamo zitti
NOI… Facciamo cultura
NOI… Esistiamo per comunicare
NOI… Non vogliamo teste chiuse
NOI… Siamo simpatici…
Ma anche no NOI… Parliamo di diversità
NOI Non ci saremmo se non fossimo mille più uno… O forse anche di più.

S come “specchio”
di Francesca Aggio, Diego Centinaro, Mario Fulgaro, Lorella Picconi, Tatiana Vitali
Lo specchio è l’anello che congiunge profondità e cambiamento, l’accettare con il modificare. Rintracciabile facilmente in natura, lo specchio può prendere la forma di un bicchiere o di una pozzanghera a seconda di chi qui va cercando la propria immagine. Vanitoso, seducente e confuso, lo specchio è riflesso o meglio ancora riflessivo, permette di comunicare con il labiale e di rendere uno spazio piccolo grande e arioso. A volte si finisce per litigare con lo specchio e allora non sei più in due ma sei uno solo. Lì davanti non c’è scampo quando ti rendi conto che ci sei anche tu.

4.4 Mediare ma non filtrare. L’incontro con critici e artisti
Abbiamo visto come il nostro “sentire di pancia” ci abbia aiutati nella creazione di un’eco duratura a fine spettacolo. È successa la stessa cosa anche nell’incontro con i critici e gli artisti, che, inevitabilmente, sono stati contagiati dalla spinta del gruppo.
I critici, come Massimo Marino di «Corriere della Sera» di Bologna e Agnese Doria de «L’Unità» di Bologna e redazione «Altre Velocità», hanno avuto il pregio di renderci partecipi dei temi degli spettacoli con contestualizzazioni storiche precise e poetiche al tempo stesso.
Le nostre domande, dal canto loro, li hanno costretti a semplificare i propri concetti per arrivare a riviverne loro stessi i presupposti.
“Mi è piaciuto il progetto – racconta Marino – la costanza nel guardare, nel cercare e approfondire quello che c’è prima dello spettacolo, la ricerca di espressione nonostante quelli che possono essere i limiti fisici delle persone. Ho sentito una grande intelligenza che bisognava ascoltare, con pazienza, perché spesso celata sotto parole articolate con fatica, in certi casi difficili da capire per chi le ascolta senza una consuetudine con le persone con disabilità fisica. Mi ha colpito il tono generale degli interventi, leggero ma profondo, capace di porsi domande essenziali senza soggezioni, desideroso di capire”.
Poter esprimere la propria opinione, interrogarsi, mettere in crisi, farsi interpreti del proprio presente, partire dai temi offerti dallo spettacolo senza pensare necessariamente alla disabilità è stata per molti una grande occasione di crescita e per altri l’occasione per esprimere competenze pregresse che non sempre, a causa del deficit o di situazioni familiari complesse, è possibile coltivare in autonomia e piena libertà.
È stato il caso di Mario Fulgaro, autore del bellissimo excursus tra Pasolini e l’Orlando per raccontarci i pupi siciliani di Mimmo Cuticchio, seguito allo spettacolo O a Palermo o all’Inferno.
Dell’incontro con gli artisti vi proponiamo invece la lettera che Lorella ha dedicato al clown Daniel Romila di Associazione Parada, protagonista di Casa Dolce Casa, la cui storia non poteva certo essere dimenticata, e un’altra lettera a cura invece dell’educatore e scrittore per l’infanzia Roberto Parmeggiani dedicata a Ofelia, l’eroina di Tiergartenstrasse 4.
Prima di lasciarvi alla lettura però, condividiamo con voi della posta ricevuta, il riscontro cioè che ci hanno mandato alcuni artisti dopo aver preso in visione le nostre restituzioni sul blog.

Così Fabrizio Montecchi della compagnia Teatro Gioco e Vita di Piacenza:
“Sono Fabrizio Montecchi, regista di Cane Blu.
Devo confessarvi che la vostra sorpresa e meraviglia di fronte a Cane Blu è niente rispetto a quello che ho provato io leggendo le recensioni sul vostro sito. Sono come una boccata d’aria fresca, sono la ragione per la quale uno fa (o cerca di fare) questo mestiere. Non c’è pregiudizio critico, non c’è prima e dopo storico, c’è solo lo stare lì, in teatro, e vivere quello che sta succedendo. È una critica senza “critico” ma solo con spettatore.
Non posso dunque che complimentarmi con voi, per questo progetto che oltre alla sua utilità terapeutica sa anche offrire a noi teatranti uno sguardo diverso su quello che facciamo.
Il mio augurio è dunque che continuiate a seguirci con lo stesso amore, e passione, dimostrato in questa occasione.
Grazie ancora”.

E il gruppo di Teatro Sotterraneo di Firenze-Pistoia:
“Tutto il teatro che facciamo ruota intorno a un pensiero sulla civitas, sull’esercizio di cittadinanza che uno spettatore compie nel venire a teatro e sul senso della sua esperienza di visione all’interno di una comunità, per cui la vostra attività si sposa in pieno con quelle che sono le nostre tensioni nella ricerca artistica. E l’apertura ai pubblici più disparati, il confronto con uno sguardo altro che non sia quello di un habitué è sempre per noi un enorme regalo: sì, assolutamente il teatro dovrebbe essere luogo di aggregazione e condivisione, apertura mentale, e il lavoro che fate crediamo che centri in pieno questa prospettiva. È meraviglioso che esistano progetti del genere! Grazie ancora e un saluto collettivo”.

Le riscoperte – Tra Ariosto e Pasolini con O a Palermo o all’Inferno di Mimmo Cuticchio – Teatro Arena del Sole di Bologna
di Mario Fulgaro
La visione in TV del film di Pasolini Che cosa sono le nuvole aveva già suscitato in me bambino grande curiosità circa l’universo, a volte onirico, altre volte nostalgico, dei pupi siciliani. Poco tempo dopo ho avuto la grande opportunità, in vacanza con i miei genitori, di recarmi in Sicilia. Come souvenir di quel viaggio, mi si offriva davanti agli occhi l’acquisto di un pupo siciliano tra svariati pupi. I vari venditori pub- blicizzavano ciascuno i propri prodotti, conferendo loro nomi leggendari, quali Orlando o Angelica o Ruggero e tanti altri nomi, per me, fiabeschi. Non ho però assistito a nessuno spettacolo teatrale in quella circostanza di villeggiatura, né pensavo potessero esisterne in grande o piccolo stile. Anche se bambino, mi rendevo conto di come quel mondo potesse appartenere solo a un ambito ristretto di cultori, come tutto potesse essere stato incasellato in un passato remoto per farlo riemergere e darne testimonianza storica ai turisti curiosi, anche in forma di semplice cimelio ancestrale da conservare. Invece tutto quel mondo, al contempo incantato e disincantato, esiste tuttora e rivive di fulgida potenza grazie all’opera di chi, come Mimmo Cuticchio, inscena periodicamente in tutta Italia, e in particolare in Sicilia, rappresentazioni teatrali che hanno per l’appunto come protagoniste queste simpatiche “marionette”. O a Palermo o all’Inferno è il titolo dello spettacolo portato in tour per il “bel Paese” e che tratta dello sbarco dei Mille in Sicilia. Già il tema, in modo più che naturale e istantaneo, finisce, volente o nolente, col rimuovere vecchie e recenti conoscenze storiche, apprese a scuola o alla TV o, ancor più radicate in ognuno, dettate dai giudizi preconcetti. Sul palco si alternavano in modo simultaneo l’attore Cuticchio con i vari personaggi della vicenda, interpretati dai pupi siciliani, la cui voce veniva loro prestata dallo stesso Cuticchio in presa diretta. È stato bello scoprire, man mano che tutta la storia trovava una sua forma compiuta, le diverse tecniche di recitazione utilizzate. Il dialetto siciliano stretto, parlato per quasi tutta l’opera e in contrasto con quello torinese, aveva un valore ambivalente molto efficace. Infatti da un lato riusciva a catapultare il pubblico in un contesto più reale e genuino, attualizzando quasi tutto ciò che di nostro è stato un tempo, dall’altro evidenziava tutte le differenze culturali e sociali di un’Italia ancora embrionale, ma già presente solamente negli ideali di Patria Unita. A intervallare le diverse scene teatrali degli eventi è il cuntu, narrazione, questa volta in versi riassuntivi, di gesta e vicende delle battaglie susseguite nel corso di un decennio e oltre. L’errore di citazione commesso per un attimo di distrazione, forse studiato quindi voluto o forse casuale chissà, conferendo il nome di Francesco re Delle Due Sicilie a quello di Vittorio Emanuele re del nuovo Regno d’Italia, finiva col dare una forte connotazione di improvvisazione allo spettacolo. Non se ne poteva che rimanere stupiti e meravigliati. I confini ristretti del teatro, con i suoi canoni classici di recitazione e movenze, si allargavano al più ampio ambito di una agorà, intesa come luogo di incontro casuale per ascoltare cose inaspettate ma non per questo prive di interesse e conoscenza preziosa da trasmettere. Il cuntu, infatti, ha le sue radici più profonde e salde nella tradizione culturale dei cantastorie, cuntastorie, di piazza. Sorprendenti sono state le movenze del braccio, con spada impugnata bene in mano, e il ritmo di scansione delle parole pronunciate come in un canto sincopato. Ad accompagnare tale scansione della voce era il battere sincrono del piede sul pavimento del palco, a voler conferire maggiore forza ed enfasi a quanto già di importante veniva espresso. La spada, poi, indirizzata con la punta verso il pubblico, sembrava idealmente creare un largo solco dove andavano a incunearsi le frasi, le parole, i gesti del cantastorie. Ciascuno nel pubblico poteva così partecipare da spettatore attivo, sentendosi tirato direttamente in causa a darsi delle risposte su quanto accaduto un tempo, in relazione a quello che viviamo oggi e rispetto a tutto ciò che l’opera teatrale offriva, in termini di conoscenza storica e sociale di due Paesi (Regno di Sardegna e Regno delle due Sicilie, Nord e Sud Italia) che tentavano di unificarsi ma che, per la loro discrepanza culturale, hanno finito anche col differenziarsi e prevaricarsi. Infatti oggi questo stesso spettacolo teatrale, con tutti i suoi medesimi personaggi, parlerebbe forse della incompiutezza di una unità economico-sociale (gli storici parlerebbero di “modernizzazione”) di un paese che con forza e coraggio, quindi con sofferenza e, a volte, con intolleranza, sta ricercando le proprie radici comuni per superare i naturali ostacoli che una “avventura” di tale portata comporta.

Un naso rosso per uscire dall’oscurità. Dopo l’incontro con il clown Daniel Romila
di Lorella Picconi
Non dimenticherò l’incontro con questa persona speciale.
Sto parlando di Daniel Romila, in arte Dan, clown dell’Associazione Parada e uno dei protagonisti di Casa dolce casa.
Dan è un ragazzo (un bel ragazzo mi permetto di specificare), nato e vissuto in Romania in un periodo storico per il suo paese molto difficile, quando ,dopo la caduta del dittatore Ceauşescu negli anni ’90, molti bambini rimasti senza genitori sono scappati dagli orfanotrofi, riversandosi per le strade di Bucarest e trovando rifugio nelle fogne.
Dan ci ha parlato della sua condizione in Romania e di come è diventato un artista, grazie all’incontro con il clown Miloud Oukili e cominciando a inventarsi dei giochi… Lavorando cioè con gli strumenti del circo di strada per far divertire la gente. In questo modo, dimostrando agli altri che sapeva fare delle cose, Dan è riuscito a riscattarsi, ha cominciato il suo viaggio ed è arrivato fin qui.
Con lui ci siamo divertiti moltissimo, ha fatto dei giochi di prestigio con le carte, il numero della sigaretta (se l’è fatta passare da un orecchio all’altro!) e ha trasformato un’arancia in una bella candela. Così con questa lucina in mezzo alla tavola da pranzo abbiamo bussato alle porte di Casa dolce casa. Là dove tutto si può riciclare, esseri umani, lo avete letto, compresi.
Dan, ho poi scoperto durante lo spettacolo, è anche un bravissimo giocoliere. Che differenza c’è – gli ho chiesto – tra un giocoliere e un clown?
C’è che il primo lavora con gli oggetti mentre il secondo con le persone.
Non male come risposta. Dan è un tipo che arriva dritto al punto, proprio come me. Ma poi, perché un clown ci fa tanto ridere?
Perché lavora, ha aggiunto, sui propri fallimenti.
Beh, a questo punto, mi sono detta, è proprio vero… Tutto può succedere! Quando cominciamo?
Grazie Dan, conoscerti è stato un vero piacere. Un abbraccio da tutti noi!

Ofelia, dove sei? Una lettera in cerca dell’eroina di Tiergartenstrasse 4. Un giardino per Ofelia di Pietro Floridia – ITC Teatro di San Lazzaro di Savena (BO)
di Roberto Parmeggiani
Ciao Ofelia.
Di te mi rimane un’immagine.
Protesa verso l’alto, forse verso il cielo. Il tuo corpo, il tuo sguardo, i tuoi ricordi. In avanti, catturata da quel che verrà.
Dirai che i ricordi sono del passato. Indubbiamente, ma ci sono anche i ricordi del futuro, quelli che speriamo, che vorremmo vivere. Il desiderio di incontrare chi non possiamo più toccare o vedere.
Sei partita, all’improvviso, con un sacchetto di semi di girasole nascosto in tasca.
Un piccolo tesoro di cui ti starai prendendo cura come fai di solito con le persone, come hai fatto con Gertrud.
Sai, mi sono chiesto tante volte: chi ha salvato chi? Gertrud ha salvato Ofelia o viceversa?
Comunque sia qualcosa è cambiato, nella vita di entrambe. Non siete più le stesse, pur restando sempre Gertrud e Ofelia.
Come quando un seme diventa un fiore, è sempre lo stesso pur essendo diverso. Starai guardando i tuoi girasoli, adesso. Ma anche i tulipani, i gelsomini e le rose. Un grande prato pieno di fiori. E tante persone a bocca aperta, con le braccia alzate, che saltano. Felici, solo felici. Perché davanti a qualcosa di bello si può essere solo felici.
E tu? Tu sul ramo di un grande albero, protesa verso l’alto, forse verso il cielo. Il tuo corpo, il tuo sguardo, i tuoi ricordi. In avanti, catturata da quel che verrà.
P.S. Stamattina hanno suonato alla porta. Quando ho aperto non c’era nessuno, solo un girasole e un biglietto: “Salvare lei era salvare me”.

Intervallo n.2. La funambola. Impressioni appese a un filo dallo spettacolo Casa dolce casa di Marcello Chiarenza

 di Tiziana Ronchetti

Bologna, 26 gennaio 2013, Arena del Sole
Ho deciso
oggi faccio la funambola,
ché al circo ieri sera mancava.
Me ne sto in bilico, sul filo.
Faccio le capriole, sul filo.
Con una mano sola.
Con un piede solo.
Mi ci sdraio sopra.
Come se potessi.
Cammino sulle mie acrobazie.
A braccia aperte.
Concludo tutto con un bel salto finale.
Mi impegnerò a tal punto da lasciarmi andare.
Così da avere la sensazione.
Così da avere l’emozione.
Volare.

3. Oltre la scatola. Il terzo spazio e le nuove forme del partecipare

3.1 Portanti, divisorie, scorrevoli… A che cosa servono le pareti?
Dal teatro en plein air all’edificio così come lo conosciamo. Diciamocelo, se pensiamo allo spazio teatrale italiano la prima immagine che ci viene in mente non è il theatron ma è un palco con un bel sipario di velluto rosso. Sarà forse un caso? Non proprio. Non potendo mai prescindere dal rappresentare la società in cui abita, il teatro ha infatti nel corso del tempo cambiato molte volte forma e funzione, il che, come ha sottolineato lo studioso Fabrizio Cruciani, è stato un percorso graduale e controverso.

“Il passaggio dal ‘luogo’ al ‘teatro’ è il punto di arrivo di tensioni complesse e non univoche che danno esito, in Europa, alla sala barocca o all’italiana, sia nella definizione della scenografia che della sala e del palcoscenico; e da cui nascono i ‘mestieri’ dell’architetto teatrale e dello scenografo. Questa realtà delimitata è stata ipostatizzata e resta, nella cultura, lo spazio del teatro, nonostante le inquietudini e le fratture del teatro del Novecento”

Il nostro palco con sipario rosso insomma e i suoi dorati decori di stucco.
Un dato di realtà, quello che riassume Cruciani, che tuttavia non è stato del tutto impermeabile alle rivoluzioni del XX secolo.
Ad essere per lo più messi in crisi infatti non furono tanto gli elementi strutturali del teatro in sé e per sé ma tutti quegli elementi di convenzione che per anni hanno condizionato, ostacolato o limitato la visione del pubblico, sottolineandone una presa di distanza da quanto accadeva sulla scena. Tra questi la più nota è la cosiddetta quarta parte, quella parete immaginaria che nel teatro all’italiana del tardo Seicento cominciò a frapporsi costantemente tra l’attore e lo spettatore, figurine ora di una scatola ideale, in cui lo spazio della scena, delimitato dal palcoscenico, restava poggiato sulle tre pareti principali del fondale e delle quinte laterali.
Una divisione costretta dunque, che, benché immaginaria, si è fatta rappresentazione di una scissione tra le responsabilità di chi guarda e quelle di chi agisce sulla scena che non è sfuggita ai grandi registi delle Avanguardie e del dopoguerra.
Dagli anni Cinquanta in poi Brecht, Strehler, il Living Theatre, Grotowski e i loro successori si impegnarono con forza per abbattere la quarta parete, utilizzando gli strumenti della scena quali occasioni per modificare in termini fisici, percettivi e relazionali l’atto della visione, coinvolgendo lo spettatore nell’opera stessa, arrivando persino a toccarlo ma più in generale richiamandolo al suo ruolo di testimone, capace, proprio come nel teatro greco, di trovare nell’arte il momento privilegiato per partecipare emotivamente e politicamente della propria epoca.
Un Nuovo Teatro fu ciò che ne derivò, la cui nascita viene ufficialmente sancita dal Convegno di Ivrea nel 1967, spostando ulteriormente l’attenzione sulla dimensione politica e al contempo rituale dell’atto teatrale, per poi sovvertire ulteriormente gli schemi negli anni Ottanta e Novanta con i Teatri Novanta e il Postmoderno che hanno messo al centro l’atto performativo dell’attore, in un dialogo fortemente corporeo con lo spettatore e l’utilizzo delle nuove tecnologie quali partiture drammaturgiche di spettacoli che non necessariamente debbono avvalersi di un testo scritto per definirsi tali.
Tutti questi cambiamenti hanno ovviamente trovato risposta nel pubblico, che si è modificato parallelamente agli spazi, alle forme e alle funzioni che il teatro ha portato nella Storia con sé.
Da arte popolare per eccellenza a manifestazione statale della cultura aristocratica e borghese, il pubblico del teatro italiano aveva di fatto finito per cercare in quel luogo la conferma di uno status quo, più che una messa in crisi di sé. L’atto stesso di andare a teatro ha cominciato a diventare un lusso per pochi, portando in auge la diffusione di certi generi piuttosto che altri, primo tra tutti l’opera lirica. Ciò non toglie per fortuna che il teatro non abbia mai perso la sua natura rivoluzionaria. I registi, gli attori e i drammaturghi (compresi quelli dell’opera) non si sono mai risparmiati dall’indagare le proprie epoche, denunciandone con i mezzi a loro disposizione ambiguità, ingiustizie e mancanze, spesso riprese con forza anche dagli autori del Novecento e del Nuovo Teatro che di tutto questo hanno reso protagonista a pari merito il pubblico, la cui conformazione ha perciò cominciato a rifarsi più variegata. Il teatro sociale, così come le attuali riflessioni e aperture sui temi dell’accessibilità e della specificità dei pubblici, sono quindi eredi diretti delle esperienze del Nuovo Teatro che nel theatron e nell’esperienza rituale hanno ripescato i loro fondamenti teorici principali.
Se parliamo di disabilità tuttavia, parlare genericamente di ritorno alle origini non basta: la cultura che di volta in volta ne ha accompagnato e condizionato l’immagine, e di riflesso la partecipazione delle persone che la vivono all’interno della società, ne ha segnato prepotentemente nel tempo la presenza o meno in determinati contesti, con uno scarto decisamente maggiore rispetto ad altri tipi di pubblico. Le rappresentazioni che la Storia ci ha lasciato della disabilità sono infatti complesse e contraddittorie e lo stesso teatro non ha mancato di restituircele. Lo ha fatto con le opere che ha portato sulla scena, alle volte in termini tragici, facendo coincidere l’handicap con le colpe dei protagonisti, altre in termini comici, dalle battute alle acrobazie dei giullari; lo ha fatto persino in termini magici e morali, riservando così al personaggio con disabilità il potere di interpretare il destino e i comportamenti umani.
La disabilità sul palco dunque c’è sempre stata ma per lungo tempo è apparsa come portatrice di un’eccezionalità. L’arrivo del Nuovo Teatro invece ha sancito una presa di posizione diversa, soprattutto dalla fine degli anni Settanta in poi. L’attore disabile è ora il protagonista, sia fruitore di percorsi rivolti all’espressività e al benessere personale o artista tout court, egli è ora creatore dotato di un’autorialità sua propria, un passaggio fondamentale che dalla scena ha finito per contagiare anche il pubblico.
Aumentando le autonomie politiche di pari passo con il cambiamento nella percezione collettiva della parola “diversità”, anche i luoghi della cultura hanno cominciato a popolarsi di nuove presenze e così anche la dicotomia palco-platea ha finito per assottigliarsi.
Ciononostante il desiderio sincero di molte strutture di aprire oggi i propri spazi all’entrata di un pubblico con difficoltà motorie e/o cognitive si trova spesso ancora a fare i conti con le architetture del teatro all’italiana, che come ci faceva notare Cruciani, connota ancora la maggior parte degli spazi scenici del nostro paese, il che, soprattutto nei piccoli centri, rende l’accesso allo spettacolo piuttosto complicato. A mettersi in mezzo ci sono infatti difficoltà legate all’accessibilità e alla fruizione, a causa per esempio di gradinate sprovviste di rampa all’entrata o alla struttura ad alveare dell’edificio, sviluppata su platea, palchi e palchetti secondo un principio di separazione gerarchico che non rende unanime la visione. Reali problemi di sicurezza poi, fungono da barriere altrettanto imponenti, a causa di pendenze, spazi di passaggio ridotti e bagni non a norma.
Questa carenza tuttavia, benché storicamente legittimata, non è irrimediabile e potrebbe condurre a un ripensamento degli spazi che, pur restando in un’ottica di ristrutturazione conservativa e condivisa, sarebbero capaci di rispondere alla domanda degli spettatori su scala nazionale e non solo locale.
Paesi come Danimarca, Svezia, Inghilterra, Germania e Francia hanno da tempo inserito la relazione con il pubblico come parte integrante della propria quotidianità progettuale e anche lo spettatore con disabilità vi trova un ruolo specifico. Rispetto all’Italia, complessivamente ai primi esperimenti in tal direzione, c’è da chiedersi quanto i teatri siano effettivamente non solo accessibili per, ma realmente frequentati da persone con disabilità.
C’è chi non vede il problema, dichiarandosi abituato a condividere lo spettacolo con pubblici di tutti i tipi, c’è chi sottolinea un’assenza e infine chi pone il problema della modalità con cui viene scelto e poi fruito uno spettacolo dalla persona a seconda del tipo di disabilità, sensoriale, motoria e/o cognitiva che questa porterà.
Gli ultimi dati dell’Istat sottolineano nel quadro di statistica ufficiale La disabilità in Italia, che fino ai 24 anni la percentuale di persone disabili che ad oggi si sono recate a teatro è praticamente la stessa di quella del resto della popolazione normodotata. Dai 25 anni in su invece il divario aumenta sensibilmente, e in particolare si sottolinea come nella fascia 25-44, solo l’11,3% delle persone con elevata disabilità vada abitualmente a teatro, contro il 21% della popolazione non disabile con caratteristiche simili.
È la metà.
Un dato interessante, quello dell’Istat, che svela non solo le inclinazioni delle persone con disabilità ma come le loro autonomie e le possibilità di scelta cambino spesso in relazione ai contesti di accompagnamento che le circondano di pari passo con l’età.
Fino ai 24 anni infatti la maggior parte dei ragazzi che frequenta il contesto scolastico, compresa l’Università, si muove tendenzialmente con il supporto della sfera educativa e familiare.
Successivamente, in particolar modo se la persona possiede un deficit cognitivo, diventa sempre più difficile trovare occasioni non mediate per muoversi in una prospettiva di adultità, soprattutto quando non si tratta di inserimento lavorativo, percepito dalla collettività come legittimo, ma di svago, piacere, cultura e tempo libero. In quest’ambito, anche qualora la persona dimostri un interesse specifico verso qualcosa, a meno che la famiglia non si attivi per lei, la grande domanda sottesa resta infatti: con chi posso andare? O ancora, se la persona dimostra una sensibilità spiccata verso un ambito artistico ma non è in grado di reperire informazioni e scegliere da sola, chi la indirizza?
A provare a rispondere a queste domande ci sono le cosiddette uscite del tempo libero, in cui gli accompagnatori, prevalentemente volontari, propongono all’utente una rosa di possibilità, dalla pizza, al cinema, al bowling, dove al teatro viene dedicato spesso uno spazio marginale e purtroppo non sempre di qualità, privilegiando i nomi del piccolo schermo o sale parrocchiali che hanno il pregio dell’accessibilità ma che si rivolgono più specificatamente a bambini e ragazzi.
Portanti, divisorie, scorrevoli… Sembra che, ovunque ci si giri, le pareti da sfondare non siano mai finite.
I teatranti lo sanno bene e sarà forse per questo che “la quinta parete” è un titolo che è stato scelto da molti per declinare sotto varie sfumature progetti, convegni, messe in scena, qualcuno nella cerchia dei critici ci ha anche scherzato su, proprio a indicarne l’improvviso proliferare.
Coincidenze a parte è certo che l’esigenza di ampliare i consueti spazi dello spettacolo a nuovi pubblici e a nuovi modi di fruirne la proposta artistica risponde a una mancanza comunitaria sentita da tutti, complice il bombardamento e la schiavitù dei social, della politica detta e non agita, della distanza crescente nelle relazioni tra i singoli, della schizofrenia reale-virtuale.
Disabilità e teatro viaggiano però su un terreno diverso e con molte similitudini, come il fatto che quando li incontri non puoi fare a meno di confrontarti con la dimensione presente di un’esperienza condivisa.
Sulla base di tutti questi presupposti in parte ancora irrisolti, il laboratorio “La Quinta Parete. Lo spettatore è uno sguardo che racconta” ha provato a inserirsi nei processi in atto mettendo alla prova nel gioco partecipato della visione le attuali definizioni, target e complicanze senza allarmismi ma poco buonismo, lasciandoci andare al divertimento e ai suoi rovesciamenti.
Che ci sia forse un terzo spazio al di là delle pareti

3.2 Quel vuoto in mezzo a noi
Quando individui che provengono da gruppi di appartenenza diversa (etnica, religiosa, sociale…) provano a mettersi in dialogo all’interno di un contesto culturale rappresentativo del patrimonio storico-artistico di uno dei due, si cerca oggi di condurre i propri ospiti in percorsi che mirano a un’inclusione il più possibile partecipata, serena e accogliente.
Musei, teatri, biblioteche e qualunque altra istituzione culturale apra le porte del proprio spazio, lo fa infatti ormai quasi sempre con attività e visite guidate pensate per consegnare all’altro una narrazione di sé completamente comprensibile e fruibile, previa un’analisi delle competenze, delle credenze e dei codici degli interlocutori profonda e meditata.
Simona Bodo, ricercatrice e consulente in problematiche di diversità culturale e inclusione sociale nei musei, ha tuttavia sottolineato come questo meccanismo, benché nasca in buona fede, evidenzi in realtà una disparità di opportunità nel dialogo fra i soggetti. Chi accoglie tende infatti a rivolgersi all’altro con strumenti e identità sue proprie che spesso ci portano a far coincidere le strategie messe in atto a favore dell’integrazione con quelle dell’educazione.
Un’analisi pungente che rimette in discussione le dichiarazioni d’intenti di chi fa e trasmette cultura.
La ricercatrice, che prende in analisi in particolare il dialogo interculturale, osserva prendendo a prestito le parole di Richard Sandell, come le istituzioni culturali “siano inequivocabilmente coinvolte nelle dinamiche della (dis)uguaglianza e nei rapporti di potere tra gruppi diversi grazie al ruolo che essi giocano nella costruzione e nella diffusione di narrative sociali dominanti. Le istituzioni culturali non sono affatto neutre. Quello che decidono di rappresentare diventa fatto: si rafforzano stereotipo, si segmentano pubblici etc. Quindi la responsabilità è enorme. Promuovono certi valori a scapito di altri e quindi fanno trend. Essi hanno una precisa responsabilità di misurarsi con questioni di diversità e uguaglianza”
Il modo con cui ci approcciamo alla diversità dunque, ne condiziona la rappresentazione, il che, quando si parla di strutture custodi di patrimoni condivisi, può finire per spostare tendenze in una direzione piuttosto che in un’altra, contribuendo a ridisegnare o a cristallizzare la cultura con ricadute tangibili sulle scelte politiche, la vita sociale e il diritto.
Come fare allora a istituire un dialogo paritario tra i soggetti che compongono la nostra “multi-società”?
La risposta, secondo Simona Bodo, risiede nel terzo spazio, quello spazio vuoto cioè che intercorre tra due individui che si incontrano, uno spazio che non è ancora stato attraversato e che per questo può essere immaginato e ricreato insieme da zero. Saranno allora “spazi terzi” tutti quegli spazi in cui “gli individui siano in grado di oltrepassare i confini di appartenenza e diventare creatori della propria identità, invece di vedersela automaticamente attribuire in base a criteri univoci. […] Spazi in cui, riprendendo la definizione Unesco di patrimonio del 2003, i musei sono chiamati a riconoscere e accettare che il patrimonio possa essere costantemente ricreato da comunità e gruppi (inclusi quelli tradizionalmente emarginati dai circuiti consolidati della cultura) e non esclusivamente da una ristretta comunità professionale”
Quel vuoto in mezzo a noi, quello spazio che sta tra due individui che si incontrano è quindi la chiave per cominciare a ricreare e ad agire insieme la cultura. Un approccio che vale per i musei ma che vale anche per il teatro, quando per esempio propone a migranti, persone con disabilità o terza età, laboratori dagli esiti spettacolari obbligati che spesso rivelano autori e attori straordinari ma che tendono a circoscrivere la nascita di nuove e importanti relazioni all’urgenza del momento.
Un pensiero su cui i registi e gli attori del Teatro ITC di San Lazzaro si stanno interrogando da tempo, come ci ha raccontato l’attrice Micaela Casalboni nella conversazione che trovate più avanti nella monografia.
E da parte del pubblico? Cambia qualcosa? Per noi del Progetto Calamaio no, o almeno questa è la conclusione a cui siamo arrivati a seguito del nostro laboratorio di educazione alla visione. L’entrata a teatro e la successiva rielaborazione degli spettacoli da parte degli educatori e degli animatori con disabilità del gruppo ha infatti permesso di ripensare le visioni in chiave interpretativa a livello personale ma anche di farci conduttori nella formazione di critici e artisti sul tema dell’accessibilità, nelle sue tre componenti principali: ingresso, accoglienza, fruizione.
Fare per e fare con, una differenza che da trent’anni è il marchio di fabbrica del Progetto Calamaio e che ora, finalmente, comincia a trovare spazi istituzionali di confronto.
Un presupposto semplice ma a suo modo rivoluzionario, una spinta per contribuire a ricomporre lo scarto tra la comunità, non più incalzata a consumare passivamente prodotti culturali e gli spazi stessi, concepiti non più per essere visitati ma come luoghi di relazione, protagonisti di incontri e processi in continua evoluzione

3.3 Accessibilità. Pubblicità o progresso?
“L’accessibilità ormai è diventata una moda, quasi tutti i contesti, dalle palestre, agli spazi culturali, ai bar, agli alberghi, la usano per farsi pubblicità”.
Un’affermazione senza peli sulla lingua, come è nello stile di chi l’ha pronunciata. Sono parole, qualcuno di voi forse le avrà riconosciute, del giornalista con disabilità Claudio Imprudente, uno dei fondatori del Centro Documentazione Handicap di Bologna e del Progetto Calamaio, che settimanalmente affianco nella stesura dei suoi articoli.
Da un certo punto di vista, ho pensato, difficile caro Claudio darti torto… L’accessibilità è un valore aggiunto e apre senza dubbio l’ingresso a nuovi pubblici potenziali, confrontarsi con la disabilità è politicamente corretto e si potrebbe addirittura arrivare a trarre la conclusione che chi la mette in atto è qualcuno che “si comporta bene”. Adeguamento ai nuovi target ma nobili intenti. Un’ottima combinazione, certamente, per le strutture ospitanti che sembrerebbe mettere tutti d’accordo.
L’affermazione di Claudio tuttavia insinua un dubbio non tanto sugli intenti ufficiali ma su quanto tali strutture abbiano conoscenza e consapevolezza reali di quelle che sono le esigenze e i bisogni della persona con disabilità, che non sempre si limitano a un’entrata agevole, a un sorriso o a biglietti ridotti al cinema e a teatro.
Allo stesso modo si potrebbe rispondere che se la moda esiste è perché c’è stata negli ultimi anni una richiesta, che le persone con disabilità, soprattutto quelle giovani, come i dati Istat ci hanno dimostrato, fruiscono più di prima degli spazi cittadini e dei luoghi deputati al divertimento e allo svago, il che, va detto, è un grande progresso.
E poi, si sa, non esisterà mai uno spazio accessibile per tutti, parlare di disabilità è in fondo parlare di umanità, tante e sottili sono le diversità all’interno della stessa, e ciò che potrà andare bene per qualcuno sicuramente non lo sarà per qualcun altro. La differenza, per tornare al discorso di Simona Bodo, si misura a nostro parere nei luoghi della cultura soprattutto sul piano della restituzione, sul come cioè in termini di comunicazione, pratiche e approcci l’immagine della disabilità verrà poi esternalizzata.
Un aspetto che tocca nel profondo la questione formativa riguarda poi, per dirla con Silvia Mascheroni: “il salto di ruolo compiuto dai protagonisti dei progetti: da testimoni della loro comunità e dunque destinatari del progetto, a interpreti dei bisogni e delle istanze dei loro pari, con la consapevolezza e la responsabilità di poter diventare i risolutori di quel disagio, di quelle difficoltà vissute nell’esperienza dell’incontro con il patrimonio, poiché con la professionalità acquisita si promuove una comunicazione non più incompleta e incomprensibile all’interno degli spazi. La mediazione è forte di conoscenze esperte, ma attenta alla storia di ognuno, si arricchisce di altri percorsi e di altre narrazioni, costruendo una mappa sensibile condivisa, sollecitando uno sguardo critico e attivo”
Con quest’approccio il Progetto Calamaio ha fatto il suo ingresso a teatro, ricavandone l’occasione per creare un terzo spazio.