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Autore: Nicola Rabbi

12. Ligetil, semplicemente un servizio pubblico

di Helle Trolle-Christensen, redattrice

In Danimarca esiste un servizio di informazione on line che realizza notizie facili da leggere cinque giorni su sette, il servizio fa parte addirittura dell’emittente radiofonica pubblica.
Dal 2010 l’emittente pubblica danese (DR, Danmarks Radio) fornisce questo servizio di informazione facilitata on line; è un progetto che abbiamo ereditato come giornale cartaceo (“På Let Dansk”) da altri gruppi che ci hanno chiesto di ampliare l’iniziativa e di svilupparla ulteriormente. Il comitato di direzione ha cercato dei fondi per trasformarlo in un servizio on line. I finanziamenti sono arrivati dal Ministero dell’Educazione e dal Ministero dell’Integrazione.
Ligetil, che significa “semplice” in lingua danese, è stato collocato prima all’interno dell’agenzia stampa danese Ritzau, poi è passato all’emittente danese. Attualmente siamo finanziati sia dai due ministeri sopradetti che dall’emittente danese.
Abbiamo appena ottenuto altri due anni di finanziamento e così stiamo pensando di espandere i nostri servizi di informazione anche al fine settimana, visto che oggi pubblichiamo solo nei giorni feriali notizie di carattere nazionale, esteri, sport e attualità.
Oggi produciamo quotidianamente un servizio di informazione on line (www.dr.dk/ligetil) che vuole raggiungere un tipo particolare di audience. Il nostro pubblico è composto da adulti dislessici  e stranieri arrivati da poco tempo in Danimarca. Inoltre abbiamo un numero crescente di adulti con difficoltà di lettura ma senza la diagnosi di dislessia. Ci sono anche semplici lettori che preferiscono il nostro modo di fare informazione. Il nostro servizio è anche usato nelle scuole che possono così dare delle notizie facili da leggere e di attualità.
La redazione, che realizza i testi usando una scrittura controllata (seguendo cioè alcune regole) è composta da giornalisti che vengono aiutati nella scrittura controllata da esperti in dislessia e insegnanti che lavorano con persone che hanno difficoltà di lettura. Da queste persone apprendiamo i bisogni e i problemi che hanno le persone con difficoltà di lettura.

Ligetil
DR Danmark, Webcenter København
DR-Byen, Opg. 1-3
Emil Holms Kanal 20
0999 København C
www.dr.dk/ligetil

11. 8 SIDOR: otto pagine per raccontare il mondo

di Malin Crona, responsabile di redazione

Il settimanale svedese viene finanziato per il 50% dal Ministero della Cultura e da quello dell’Educazione e il resto lo raccolgono con gli abbonamenti. La redazione si rivolge a circa il 25% della popolazione e vuole sviluppare sempre di più la loro piattaforma sul web.
Il nostro giornale si chiama “8 SIDOR” che significa 8 Pagine. È nato nel 1984 come un settimanale in abbonamento che veniva distribuito ogni mercoledì attraverso il servizio postale. Attualmente abbiamo anche un’edizione web del giornale (www.8sidor.se) dove gli articoli pubblicati non sono esattamente gli stessi di quelli che pubblichiamo sulla rivista cartacea.
Ne stampiamo circa 9 mila copie ogni settimana e i nostri abbonati sono per lo più biblioteche, scuole e centri per persone disabili, questo fa sì che i nostri lettori siano molti di più, almeno 100 mila ogni settimana.
L’edizione web viene invece visitata da circa 4 mila persone quotidianamente; si tratta per lo più di persone che cercano di imparare la lingua svedese.
Sia l’edizione su carta che quella on line sono disponibili in formato audio.
I nostri lettori sono tutte quelle persone che hanno bisogno di leggere uno svedese “facile”; sono circa il 25% della popolazione. Persone con disabilità differenti, studenti della lingua svedese, bambini, teenagers con scarso rendimento scolastico, persone che non sono abituate a leggere…
Abbiamo molte regole di scrittura; discutiamo ogni giorno su come scrivere e abbiamo anche degli incontri periodici per migliorare il nostro linguaggio.
Comunque ecco alcune regole: 

1) usare solo parole comuni 

2) non usare parole composte 

3) scrivere in forma attiva 

4) spiegare sempre i termini o le frasi più difficili 

5) scrivere in ordine cronologico 

6) ogni notizia, infine, dovrebbe essere letta e capita senza dover fare delle inferenze.

Ciascuno di noi, per sicurezza, legge la propria notizia a un altro redattore prima della pubblicazione finale. La nostra redazione è composta da tre giornalisti, un fotografo e un direttore, tutti abbiamo delle esperienze professionali in campo giornalistico.
Per quanto riguarda i finanziamenti, il Parlamento svedese ha creato una Fondazione che gestisce l’iniziativa. Fin dall’inizio siamo stati finanziati dal Ministero della Cultura e da quello dell’Educazione che coprono il 50% dei costi. Il resto viene finanziato dalle sottoscrizioni.
In futuro vogliamo raggiungere tutte quelle persone che hanno bisogno di un giornale facile da leggere. Vogliamo anche sviluppare la comunità on line dei nostri lettori. Adesso abbiamo 1.500 amici su Facebook e cerchiamo sempre di lavorare con loro; ci mandano foto e testi che poi pubblichiamo. Creeremo uno spazio per i commenti sul sito accessibile a tutti, commenti anche multimediali. Vogliamo sempre più diventare una piattaforma aperta rivolta a tutti coloro che hanno difficoltà di lettura.

8 SIDOR
Box 9145
102 72 Stockholm
Långholmsgatan 27
8sidor@8sidor.se

10. Wablieft: può ripetere per favore?

di Ilona Plichart, Coordinatrice Wablieft – Centrum voor Duidelijke Taal

Anche l’esperienza belga- fiamminga nasce dall’esigenza di alcuni insegnanti di trovare testi leggibili per adulti in difficoltà, ma poi l’iniziativa si espande e ora coinvolge un pubblico molto variegato. Due le versioni del giornale, una più semplice dell’altra.“Wablieft” viene ideato nel 1985; la parola in olandese significa “Pardon” ed è il “Mi scusi” che si dice a qualcuno quando non si capisce qualcosa.
L’idea nasce dal bisogno di alcuni insegnanti che non riuscivano a trovare testi comprensibili per gli studenti adulti che avevano difficoltà nella lettura. I docenti non volevano lavorare con i testi pensati per i bambini ma riscrivevano gli articoli presi dai giornali. Poi cominciarono a scrivere loro stessi le notizie, non limitandosi alla semplice riscrittura e a darle ad altri insegnanti che facevano un lavoro simile.
La rivista inizialmente era semplicemente fotocopiata mentre ora è un settimanale di 12 pagine, stampato come un normale giornale. Dal 2011 poi siamo passati al colore. Attualmente abbiamo circa  9.000 lettori, ma fra i nostri abbonati abbiamo scuole e altre istituzioni, il che fa pensare a un numero ben maggiore di persone che leggono “Wablieft”.
Attualmente produciamo oltre al settimanale “Wablieft”, il bisettimanale “Kleine Wablieft” di 20 pagine in formato A4. In questo periodico riportiamo gli articoli più importanti dalle ultime due edizioni del giornale principale scritti in un modo ancora più semplice. “Kleine Wablieft” non è un vero e proprio giornale visto il formato; ogni frase inizia in una nuova riga e un articolo è fatto di circa 10-15 frasi.
Sul nostro sito web pubblichiamo anticipatamente gli articoli che saranno pubblicati nelle edizioni successive del giornale. A volte anticipiamo certi eventi che temporalmente avvengono tra le due edizioni di “Wablieft”, in questo modo, dando subito la notizia, i nostri lettori non sono costretti ad aspettare le edizioni su carta.
Abbiamo anche una versione digitale di “Kleine Wabkieft” che viene spedita in formato pdf alle persone che hanno pagato per questo servizio (questo permette anche la sintesi vocale del giornale, modalità questa spesso utilizzata nelle scuole).
Le idee fondamentali e le regole di scrittura che noi utilizziamo le possiamo così riassumere:

  • è possibile scrivere in olandese semplice ogni tipo di argomento
  • bisogna scrivere su un tema pensando di farsi capire anche dal “vicino di casa” che non ne sa nulla sull’argomento
  • le frasi devono essere brevi e non superare le 10-15 parole
  • occorre usare parole semplici e, se è necessario usarne di difficili, bisogna spiegarle
  • spiegare bene le news: anche se i nostri articoli sono brevi, noi dobbiamo dare più spiegazioni di quelle che vengono date nelle news normali che privilegiano solo gli elementi che rappresentano la novità i nostri lettori sono lettori “totali”: anche le persone che non sanno leggere o scrivere bene vogliono sapere ciò che accade nel mondo. Quindi occorre spiegare l’intera storia in modo completo: semplificare non significa ridurre, anzi è proprio l’opposto. Non bisogna rinunciare a spiegare le cose difficili, tralasciandole.

La nostra redazione è costituita da persone con formazione differente: due persone hanno studiato giornalismo, altri due lingue (e uno di loro si è specializzato proprio nei problemi della lettura e sul tema dell’analfabetismo), un altro ha studiato storia. Assieme a noi, in questo momento, non lavorano operatori sociali.
Il nostro lettore ideale è molto vario; quando scriviamo il lettore a cui pensiamo si può suddividere in questo modo:
– bambini dagli 8 ai 12 anni e giovani che iniziano a lavorare a 18 anni
– giovani immigrati appena arrivati in Belgio e che sono obbligati a studiare l’olandese (alcuni di loro leggono Wablieft in gruppo)
– adulti con un basso grado scolastico che sono interessati a un settimanale che gli racconti che cosa succede in Belgio e nelle vicinanze
– anziani in case di riposo
– molte altre persone, anche “normali”, che non vogliono leggere un quotidiano ma vogliono essere informate
– disabili ma anche operatori sociali, logopedisti…
Per quanto riguarda le entrate economiche, alcuni redattori sono pagati con un sussidio statale, altri dagli abbonamenti al giornale e dalle altre attività di “Wablieft” (formazione sulla comunicazione, servizi redazionali…).
Quali sono le nostre prospettive future? Entro il 2020 in sintonia con l’Agenda Digitale europea, dovremo sviluppare molto di più i nostri servizi on-line e promuovere l’alfabetizzazione digitale

Wablieft
Vovco vzw
Kardinaal Mercierplein 1
2800 Mechelen
www.wablieft.be

9. Selkosanomat: messaggi chiari

di Leealaura Leskelä, Responsabile de The Plain Language Centre di Helsinkiù

In Finlandia esiste un bisettimanale di facile lettura finanziato in parte direttamente dal Governo. L’attenzione per la scrittura chiara porta a redarre delle news che si basano su criteri non solo giornalistici, ma che, oltre al criterio della novità, dedicano più spazio alle spiegazioni. Il diritto di tutti i cittadini a essere informati.
L’esperienza di produzione di materiale Easy to read (ETR) in Finlandia inizia negli anni ’80. Le persone cui inizialmente ci siamo rivolti erano quelle disabili ma ben presto ci siamo accorti che anche le persone con problemi di memoria, gli immigrati e tutte quelle persone che studiavano il finlandese, potevano trarre beneficio dall’ETR. Tutti i cittadini dovrebbero essere una parte attiva della società anche quando hanno problemi nel comprendere e nel produrre linguaggio. Gli Enti locali specialmente devono tener conto che i cittadini sono diversi tra di loro e hanno bisogni diversi in termini di informazione.
La nostra esperienza si è sviluppata su base multidisciplinare e multi-professionale. Negli anni ’90 abbiamo cominciato a prendere in considerazione l’intero testo e non solo la singola frase. Nello stesso tempo ci si è resi conto che non è solo la lingua che rende più facile la lettura ma anche le scelte grafiche. Recentemente poi sono stati criticati anche alcuni principi dell’ETR, che non possono essere presi pari pari e applicati ai differenti generi di testo che rendiamo leggibili. Le news in ETR devono essere scritte in modo differente rispetto alla scrittura letteraria e alle comunicazioni  istituzionali che provengono dai Comuni.
I nostri destinatari non sono cambiati, ma la nostra comprensione dei loro bisogni è più accurata. Cerchiamo adesso di adattare i principi di ETR anche al linguaggio parlato.
Pubblichiamo il giornale ETR “Selkosanomat” in finlandese e ne facciamo anche una versione svedese per la piccola minoranza che abita in Finlandia. “Selkosanomat” è anche una pubblicazione web (www.selkosanomat.fi), solo in lingua finlandese.
Il giornale viene stampato due volte alla settimana, ha 8-12 pagine ed è suddiviso nelle seguenti sezioni: Interni, Esteri, Sport, Approfondimento e Intrattenimento.
Scriviamo secondo le regole dell’ETR che abbiamo adottato in Finlandia. Non sono regole ma linee guida. Le linee guida internazionali più vicine a noi sono quelle fornite dalla IFLA (International Federation of  Library Associations) del 2010.
Nel nostro giornale cerchiamo di scrivere non solo basandoci sui principi dell’ETR ma teniamo conto anche del fatto che la maggior parte dei nostri lettori ha bisogno di informazioni di base su tutto quello che sta accadendo nella società di cui si scrive. Molte delle nostre notizie hanno queste continue spiegazioni che non si riscontrano nei normali giornali finlandesi, dato che non diamo mai per scontato nulla.
In redazione siamo due giornalisti e un direttore; tutti abbiamo una formazione da giornalisti. Ci sono anche liberi professionisti di diversa formazione (insegnanti soprattutto).
Quando scriviamo ci rivolgiamo alle persone con disabilità, agli anziani con problemi di memoria, ai giovani in età scolare che hanno problemi di lettura e alle persone immigrate che stanno studiando il finlandese.
Per quanto riguarda le nostre risorse, siamo finanziati dal Governo finlandese e dalle sottoscrizioni private (l’abbonamento annuale costa 23 euro all’anno), anche se l’80% dei testi del giornale sono pubblicati liberamente sul nostro sito web.

Selkosanomat
Viljatie 4 A
00700 Helsinki
selkokeskus@kvl.fi
www.selkosanomat.fi

8. Che storia! La storia italiana raccontata in modo semplice e chiaro


Gabriele Pallotti, linguista (assieme allo storico Giorgio Cavadi) ha scritto un intero libro di facile lettura, non sacrificando però la piacevolezza della scrittura a un’eccessiva semplificazione e sottolineando aspetti della storia che di solito non troviamo nei libri scolastici.

Perché hai scritto questo libro e a chi è rivolto?
Il libro è stato scritto inizialmente pensando a dei lettori che non hanno l’italiano come lingua materna, residenti in Italia e all’estero. Poi, sempre più persone mi hanno fatto notare che sarebbe stato utile anche per parlanti nativi dell’italiano, sia con particolari difficoltà scolastiche o deficit nella comprensione, sia senza particolari svantaggi, ma semplicemente un po’ smemorati di storia e forse con qualche cattiva esperienza alle spalle di studio di questa bellissima materia. Il libro così ha preso una piega un po’ diversa: forse un po’ meno facile, ma di lettura più piacevole e scorrevole per il lettore italiano medio.

Quali sono i contenuti e in che modo si discosta dai normali libri di storia?
Il libro tratta della storia italiana da Roma ai giorni nostri: più di duemila anni di storia in 150 pagine. Come abbiamo fatto? Abbiamo ridotto moltissimo le informazioni nozionistiche: nomi di re, imperatori, papi, politici, eroi e generali, date, luoghi, terminologie tecniche. Il libro cerca di far capire le dinamiche sociali, politiche ed economiche di un’epoca, senza approfondire i dettagli del chi, cosa e quando. Questa estrema riduzione di un certo tipo di contenuti ci ha consentito di dare informazioni che invece non si trovano di solito nei libri di storia. In particolare, abbiamo approfondito molto la storia sociale: come si viveva, lavorava, mangiava in diverse epoche, chi comandava, chi era comandato, perché si litigava e si combatteva. Spesso si parla di denaro: quanto costava andare alle terme al tempo dei Romani? Quanto guadagnava un pittore nel Rinascimento? Come spendeva lo stipendio un operaio dell’800? È un argomento che di solito tutti trovano interessante, e che dà un’idea concreta di tante dinamiche sociali di un’epoca, favorendo anche il confronto con l’oggi. Questa è un’altra caratteristica del libro: dove opportuno, il lettore viene invitato a notare corrispondenze tra fatti del passato e del presente. Ad esempio, il clientelismo che affligge l’Italia di oggi ha radici antiche di duemila anni. Il sistema feudale del Medioevo sopravvive nell’università italiana, e così via.

La tecnica di scrittura che hai utilizzato su quali requisiti poggia? Quali regole hai seguito?
Non parlerei di vere e proprie regole. Ci sono dei principi che si basano sui numerosi studi di psicologia della lettura che hanno dimostrato quali aspetti di un testo rendono la lettura più difficile. In base a questi principi, uno cerca di evitare le difficoltà gratuite: frasi complesse, lessico non di base, impliciti e difficoltà nell’identificazione dei referenti. Però il nostro modo di scrivere risulta un po’ più difficile di quello di altre pubblicazioni classificate “di facile lettura”.

Perché? Non volevate correre il rischio, con una scrittura troppo semplice, di non riuscire a catturare l’attenzione del lettore?
Dopo una prima redazione, in effetti molto facile, ho pensato che essa risultasse troppo monotona, noiosa, poco gradevole per i lettori nativi. Allora ho, sempre in modo controllato e consapevole, introdotto alcune caratteristiche nel testo che comportano una difficoltà di comprensione leggermente maggiore, ma che rendono l’effetto finale molto più piacevole. Ad esempio, ho tolto un po’ di ripetizioni e ridondanza, ho usato qualche parola non proprio di base ma più espressiva o precisa, ho allungato qualche frase perché così suonava meglio.
Non credo che esista un solo modo di scrivere semplice e chiaro: la nozione chiave di “controllo” della scrittura va applicata sempre in relazione a un destinatario e uno scopo. Per un certo periodo ho sostenuto che non esiste il “troppo facile”. Ora penso che riformulerei questa affermazione. Un livello di facilità adeguato per un bambino molto piccolo, uno straniero appena arrivato, una persona con un livello di istruzione minimo o con un deficit cognitivo, può risultare troppo facile per altre persone con maggiori competenze, che troverebbero il testo faticoso, frammentario, poco stimolante. Non dimentichiamoci che per leggere serve anche la motivazione: se un testo non piace, uno non lo legge. L’estetica ha un ruolo, è un fattore da considerare. Poi, sempre in modo consapevole e razionale, uno può decidere, e con buone ragioni, di sacrificare l’estetica in nome della comprensibilità, ma ci sono  altre ragioni che possono portare a fare il contrario. Certo, per documenti di utilità pubblica, darei sempre la precedenza alla comprensibilità.

Gabriele Pallotti, Giorgio Cavadi, Che storia! La storia italiana raccontata in modo semplice e chiaro, Roma, Bonacci editore, 2012

7. My opinion My vote: la comunicazione politica accessibile a tutti

Riscrivere i testi dei programmi dei gruppi politici europei con una scrittura facile da leggere perché tutte le persone disabili possano partecipare: è questo lo scopo del progetto europeo rivolto allo 0,1 % dei cittadini europei con disabilità intellettiva. Ne parliamo con Anna Contardi, responsabile del progetto per conto dell’AIPD.
In appendice  l’esperienza dei “Laboratori per le autonomie”.

Che cos’è il progetto My opinion My vote?
M.O.TE – “My Opinion My Vote” è un progetto multilaterale, finanziato dalla Commissione Europea, Direzione Generale per l’Educazione, la Cultura e gli Audiovisivi, Programma di educazione permanente, Sottoprogramma Grundtvig realizzato dall’Associazione Italiana Persone Down (AIPD) in partenariato con associazioni ed enti di Danimarca, Spagna, Irlanda, Malta e Ungheria. Lo scopo del progetto è sostenere le persone con disabilità intellettiva a essere cittadini attivi, anche attraverso il voto. Lo 0,1% dei cittadini europei ha una disabilità intellettiva. La maggior parte delle persone con disabilità intellettiva non prende parte come elettore alla vita politica, di conseguenza non esercita il suo diritto di voto. Tale situazione può essere dovuta alla mancanza di:

  • consapevolezza ed educazione delle persone con disabilità intellettiva
  • consapevolezza da parte dei familiari e operatori
  • facilitazioni da parte delle autorità pubbliche.

Come si è sviluppato?
Per affrontare quanto prima espresso il progetto ha svolto le seguenti azioni:

  • un’attività di ricerca per esaminare la diffusione dell’esercizio dei diritti politici nei sei stati rappresentati nel progetto. Sondare l’auto-percezione di “cittadini” europei/nazionali/locali nelle persone con disabilità intellettiva e individuare esempi di “buona pratica” in questo campo già sperimentati anche con altri gruppi di riferimento 
  • progetto, sviluppo e verifica (con la collaborazione di un gruppo pilota europeo e gruppi di sperimentazione nazionali) di un programma educativo (con persone con disabilità intellettiva e operatori) consistente in due moduli contenenti dieci unità didattiche
  • 2 campagne di sensibilizzazione rivolte alle persone con disabilità intellettiva, agli operatori, ai responsabili del settore e ai partiti politici.

Quali documenti riscrivete per renderli più chiari? Tutti o solo una particolare tipologia?
Durante il progetto abbiamo tradotto in alta comprensibilità i testi dei programmi dei gruppi politici europei alle ultime elezioni europee. Sono stati poi scritti in alta comprensibilità i depliant per le due campagne e i materiali per i percorsi educativi.

A quale pubblico vi rivolgete?
Il progetto è nato pensando alle esigenze delle persone con disabilità intellettiva.

Quali tecniche di scrittura avete utilizzato per trascrivere i documenti?
Ci riferiamo alle tecniche dell’alta comprensibilità o easy reading.
In sintesi queste ne sono le regole.

  • Le parole: si utilizza un lessico comune, attingendo il più possibile dal vocabolario di base, cioè l’insieme minimo di parole che garantisce la possibilità di comunicare;

di fronte a una coppia di sinonimi si sceglie quello meno forbito (ad es. “andare” piuttosto che “ recarsi”); si preferiscono le parole concrete alle espressioni astratte (meglio “impiegati” che “risorse umane”); non si usano possibilmente acronimi o abbreviazioni; si limita l’uso di termini tecnico-specialistici e si spiegano con parole semplici quelli di cui non si può fare a meno

  • Le frasi: si dà una struttura semplice, soggetto, verbo, complemento; si prediligono le frasi brevi (max 20-25 parole) e non si dice con molte parole ciò che si può dire con una (invece di “alla luce di tutto ciò” basta “quindi”); non si mettono troppe informazioni in un’unica frase; si legano le frasi con rapporti di coordinazione piuttosto che di subordinazione; si predilige la forma attiva a quella passiva, quella affermativa a quella negativa, l’indicativo al congiuntivo, i verbi ai sostantivi corrispondenti
  • Il testo: le informazioni non vengono presentate in ordine casuale, ma secondo un criterio logico o cronologico che aiuti a seguire il filo del discorso; l’informazione principale precede di solito i dettagli, le conclusioni sono fornite prima delle motivazioni; il testo è frammentato in paragrafi (titolo, sottotitoli, parole evidenziate orientano il lettore); si usano elenchi numerati o puntati per ordinare le informazioni; si usano congiunzioni e avverbi che esplicitano i rapporti tra i vari concetti; si utilizzano esempi e riassunti
  • L’aspetto del testo: la ricerca ha evidenziato anche alcune caratteristiche della grafica dei documenti che ne favorisce la leggibilità: caratteri grandi, almeno corpo 12; caratteri con grazie come il Times new roman sono più leggibili ad esempio dell’Arial perché le grazie guidano lo sguardo; meglio l’allineamento a sinistra che il testo giustificato; le varie parti del testo sono separate da spazi bianchi che fanno respirare pagina e lettore; tabelle e grafici favoriscono la comprensione; uno stile sobrio senza eccesso delle varie forme di messa in rilievo offerte dalla videoscrittura; mai troppi colori; coerenza delle scelte grafiche nell’intero documento.

Ovviamente la garanzia che un testo sia effettivamente leggibile è dato soprattutto dall’attività di testing su un campione di lettori con caratteristiche analoghe a quelle dei lettori cui esso è destinato. Alcuni linguisti hanno anche elaborato degli indici di leggibilità cioè delle formule matematiche per determinare la facilità di lettura di un testo i cui limiti però sono legati al fatto che valutano il testo soprattutto sotto un profilo quantitativo e non qualitativo, come la lunghezza di parole e frasi, mentre la chiarezza di un testo si gioca soprattutto sul piano dei contenuti e della loro organizzazione. Il test è quindi il sistema di validazione più efficace.

I documenti riscritti vengono controllati dagli autori?
Di solito noi “scriviamo” piuttosto che “riscriviamo”. Nel caso dei manifesti dei partiti abbiamo comunque inviato i nuovi testi ai gruppi e alcuni li hanno approvati e messi sul loro sito.

Quello che avete fatto per la comunicazione politica non potrebbe essere rifatto anche per altri ambiti? Per fare solo un esempio la comunicazione tra la Pubblica Amministrazione e il cittadino.
Assolutamente sì. La scrittura altamente comprensibile dovrebbe essere uno stile di scrittura che caratterizza tutte le comunicazioni con un pubblico ampio. Non si tratta solo di rivolgersi alle persone con disabilità intellettiva ma di migliorare la comprensione per tutti. Sicuramente persone con basso livello di istruzione o scarsa conoscenza della lingua ne possono trarre particolare utilità.

Come si evolverà in futuro questo progetto?
Stiamo cercando di dare “stabilità” a un centro risorse che stimoli e sostenga la partecipazione politica delle persone con disabilità cercando fondi con altri progetti.

“Laboratori per le autonomie”
Intervista ad Anna Contardi, condirettore dell’iniziativa pubblicata dalle edizioni Erickson.

Che cos’è la collana “Laboratori per le autonomie”?
La collana nasce dal desiderio di ampliare strumenti e occasioni per far crescere l’autonomia delle persone con disabilità intellettiva e non solo. Si affrontano temi legati alla vita quotidiana dentro e fuori casa. I testi si rivolgono a persone con disabilità intellettiva, ma anche stranieri, persone poco informate su quel tema, bambini e ragazzi senza disabilità. Ogni volume ha nella contro copertina un fascicolo di accompagnamento per educatori e genitori.

Quali sono i titoli che avete prodotto fino ad oggi?
Contardi A, Castignani D., Coltelli e fornelli, Trento, Erickson, 2008
Contardi A., Castignani D., Da soli in città senza mamma e papà, Trento, Erickson, 2009
Berarducci M., Cadelano F., Valigia e biglietto, un viaggio perfetto, Trento, Erickson, 2010
Contardi A.,Castignani D., Berarducci M., Fare spese senza sorprese, Trento, Erickson, 2012

Che tipo di scrittura avete utilizzato?
Ci siamo sempre rifatti alla scrittura altamente comprensibile.

Per migliorare la comprensione avete puntato anche sulle immagini e gli elementi grafici?
Abbiamo usato icone per sottolineare alcuni passaggi, immagini di illustrazione, fotoromanzi, sottolineature attraverso l’uso del colore.

Che tipo di riscontro avete avuto da parte dei lettori?
Un buon riscontro. Il libro di ricette è stato molto apprezzato in generale anche da chi semplicemente non sapeva cucinare e ne ha apprezzato facilità ed esaustività.

Esistono altre collane simili alla vostra in Italia ma anche all’estero?
No che io sappia. Esistono testi semplici o semplificati, ma non conosco collane analoghe.

6. Pathways II: leggere, ascoltare, vedere e… comprendere ogni informazione

“Il linguaggio facile da leggere va bene per tutti e non fa male a nessuno”: così recita lo slogan di questo progetto europeo che ha portato alla produzione di una serie di guide rivolte a insegnanti, formatori, disabili. Il loro obiettivo è assicurare, attraverso la formazione permanente, la piena partecipazione delle persone con deficit intellettivi.
Abbiamo intervistato Maria Cristina Schiratti* e Roberta Speziale**, formatrici nazionali del progetto.

Come nasce il progetto Pathways II, quali sono le motivazioni e da chi è stato promosso?Pathways II, “Creazione di percorsi di formazione permanente per persone con disabilità intellettiva” è un progetto sul linguaggio facile da leggere e la formazione permanente degli adulti con disabilità intellettiva promosso da Inclusion Europe, un’associazione europea che opera in difesa dei diritti delle persone con disabilità intellettiva e i cui associati sono organizzazioni nazionali di 36 Paesi, tra i quali anche l’Anffas.
Il progetto Pathways II, al quale hanno aderito associazioni di diversi Paesi (Italia, Croazia, Estonia, Lettonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Slovenia, Spagna e Ungheria) nasce per dare un seguito al precedente Pathways I, sviluppato nel 2009, con partner di Paesi diversi rispetto agli attuali. Entrambi i progetti sono cofinanziati dal programma di formazione permanente dell’UE.
Pathways I ha prodotto diversi documenti utili e linee guida sull’uso del “linguaggio facile da leggere” per l’accesso all’informazione e alla formazione permanente delle persone con disabilità intellettiva e, data l’ottima riuscita dell’iniziativa e del materiale realizzato, Inclusion Europe ha voluto riproporre il progetto ad un nuovo insieme di associazioni, includendo tra queste anche l’Anffas (il solo partner italiano).
Lo sviluppo di Pathways II, e precedentemente di Pathways I, si colloca all’interno di un percorso, non solo europeo, ma internazionale, di difesa e promozione dei diritti umani e della non discriminazione delle persone con disabilità: nel 2006 infatti, è stato approvato il testo della “Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità” che definisce un modello di disabilità basato sui diritti umani ed è volto a rimuovere tutte le forme specifiche di discriminazione.
La Convenzione Onu, attualmente ratificata da 123 Paesi (in Italia fu ratificata con la Legge 3 marzo 2009 n.18) vuole infatti combattere ostacoli, barriere e pregiudizi, spesso profondamente radicati nella cultura, nelle pratiche e nelle politiche delle Comunità, intervenendo in tutti i campi della vita (dal diritto alla vita, alla partecipazione a tutti i contesti sociali in condizioni di inclusione sociale, fino al diritto alla vita privata, autonoma e indipendente).
Nello specifico, l’iniziativa di Pathways per una formalizzazione e diffusione del linguaggio “easy to read” ha l’obiettivo di dare concretezza alle proposizioni definite dall’articolo 21 della Convenzione Onu, attraverso il quale si ribadisce il diritto di tutte le persone con disabilità ad avere accesso all’informazione e alla comunicazione, nonché all’istruzione e alla formazione continua per l’intero arco della vita e di partecipare anche in prima persona alla vita sociale, pubblica e politica e ai “contesti” nei quali si prendono decisioni che le riguardano.
La documentazione prodotta e la formazione a cascata prevista dal progetto che si sta realizzando attraverso tutto il network di Anffas Onlus promuovono un passaggio culturale, nonché un utile strumento per l’inclusione sociale e l’auto-rappresentanza delle persone con disabilità intellettiva.

Che cos’è per voi una “scrittura facile da leggere”?
La scrittura facile da leggere è uno strumento che si propone di rendere maggiormente accessibili a tutti le informazioni.
Individua l’informazione utile e indispensabile all’interno di una vasta e ricca comunicazione e, attraverso alcune regole condivise e frutto dell’esperienza di vari Paesi sul tema, la rende accessibile a tutti, soprattutto a chi ha difficoltà nella comprensione delle informazioni, come ad esempio persone con disabilità intellettiva, ma anche anziani, stranieri, persone con poca istruzione scolastica…
La scrittura facile da leggere mette al primo posto la comprensibilità delle informazioni in qualche caso anche a discapito dell’“estetica” della comunicazione, specie nella lingua italiana, che gode di una ricchezza, varietà e complessità di termini, forme e strutture.
Al tempo stesso però rappresenta un utile strumento per garantire pari opportunità e non discriminazione, soprattutto dal punto di vista dell’accesso all’informazione e della formazione per moltissime persone.

Quali sono le linee guida per scrivere in modo comprensibile alla maggior parte delle persone?
Le associazioni dei Paesi partecipanti al progetto hanno creato delle linee guida che regolano la produzione di materiali in linguaggio facile da leggere.
Diverse sono le regole generali da utilizzare, poi declinate per le varie tipologie di informazione: scritta, audio, video ed elettronica.
Le linee guida propongono di utilizzare parole facili da comprendere e nel caso in cui si debbano usare parole difficili, di cercare di spiegarle, anche con l’aiuto di esempi per chiarirne il significato.
Inoltre, per fare qualche esempio, è sconsigliato l’uso di metafore e di parole in lingua straniera, di sigle e abbreviazioni, di percentuali e numeri grandi.
Altre indicazioni riguardano l’uso di frasi brevi e di ripetizione delle informazioni importanti. È inoltre consigliato di prediligere il senso positivo invece che negativo delle frasi e usare i verbi in forma attiva piuttosto che passiva.
Nell’informazione scritta, è sconsigliato usare formati difficili, è bene prediligere formati A4 e A5, non scrivere documenti di grandi dimensioni, piuttosto dividerli in più parti. Non usare sfondi che rendano la lettura difficile, tipo foto, e non scrivere a colori. Usare caratteri di scrittura semplici, come Arial e Tahoma, e con una misura grande. Non usare caratteri Serif, il corsivo, caratteri con effetti speciali, note a fondo pagina. Accompagnare le frasi con disegni, foto o simboli chiari che possano aiutare nella comprensione delle frasi.
Queste e altre sono le regole enunciate dalle linee guida, che permettono di sviluppare un documento facile da leggere, ma seguirle non basta. Infatti, si richiede sempre la controprova, proponendo i documenti elaborati ai “lettori di prova”, persone con disabilità intellettiva che hanno seguito una formazione sul linguaggio facile da leggere, e che quindi possono notare le difficoltà nella comprensione dei documenti e proporre soluzioni alternative. Il coinvolgimento diretto delle persone con disabilità intellettiva nel controllo e nella produzione di informazioni in linguaggio facile da leggere e da capire è veramente innovativo in quanto finalmente le persone con disabilità stessa sono sì destinatari delle informazioni ma anche e soprattutto supervisori delle stesse.

Non solo informazione scritta ma anche informazione audio, video e tramite le nuove tecnologie: quali regole per ciascuna? Come ottenere un mix ideale tra tutte queste possibilità per comunicare a tutti? 
Le regole generali e quelle per l’informazione scritta vanno utilizzate anche nell’informazione audio, video ed elettronica.
Infatti, le frasi riportate sulla custodia dei DVD o i sottotitoli nei video, o i documenti presenti sui siti internet devono attenersi alle regole generali per l’informazione scritta.
In più, esistono delle regole specifiche.
Per quando riguarda il web è necessario progettare siti internet con grafica chiara, senza effetti speciali, con testi chiari e grandi da cliccare per cambiare pagina, barra di navigazione con massimo 7 o 8 titoli principali, con link che vanno sottolineati e, se sono troppo lunghi, nascosti dietro una parola facile.
Nei video non bisogna parlare troppo velocemente, la voce di sottofondo deve parlare solo delle cose che le persone vedono sullo schermo, video e suono devono essere di alta qualità, i sottotitoli devono essere chiari, perché molto utili per le persone con problemi di udito e devono rimanere sullo schermo il più a lungo possibile per dare il tempo sufficiente alla lettura.
Nell’informazione audio, la voce della persona parlante deve essere molto chiara, avere un tono alto, una buona pronuncia e parlare lentamente. Le informazioni vanno ripetute più volte, non bisogna interrompere la comunicazione, per esempio con della pubblicità, ed è bene annunciare l’informazione con un suono speciale.
Le regole generali fanno da filo conduttore per le varie tipologie di comunicazione, per poi essere più puntuali e specifiche in ognuna.
L’utilizzo, anche congiunto delle varie tipologie di informazione, può essere utile per realizzare documenti maggiormente accessibili: uno stesso documento, presentato in video con immagini, audio e sottotitoli può essere accessibile sia a persone con difficoltà nella lettura, che per esempio non sanno leggere, ma anche nella visione e nell’ascolto, come ad esempio le persone con disabilità sensoriali oltre che intellettiva.

Chi sono i vostri lettori, a chi vi rivolgete con questo linguaggio?
Il linguaggio facile da leggere nasce all’interno di un percorso di difesa dei diritti delle persone con disabilità intellettiva, volendo operare verso la rimozione delle discriminazioni e la promozione delle pari opportunità, in chiave inclusiva.
Il target principale è quindi composto dalle persone con disabilità intellettiva, che nell’inaccessibilità delle informazioni vedono una significativa barriera verso l’inclusione sociale. 

 Esistono anche stadi intermedi di pubblico, persone che pur non avendo un deficit intellettivo però necessitano di un linguaggio più chiaro (persone anziane, persone con poca cultura, immigrati recenti, …); pensate che debbano esistere dei formati solo per loro?
Il linguaggio facile da leggere può essere utile non solo alle persone con disabilità intellettiva.
Infatti, rendendo più accessibili e comprensibili le informazioni, si può rivolgere a tutte le persone che possono avere problemi nella comprensione di documenti, come ad esempio le persone anziane o non di madrelingua.
Inoltre, uno degli slogan del progetto recita che “il linguaggio facile da leggere va bene per tutti e non fa male a nessuno”, intendendo che produrre “buone informazioni” può essere un elemento che semplifica la comprensione e l’utilizzo dei documenti per tutte le persone. Basti pensare alla difficoltà di documenti ufficiali, comunicazioni amministrative… che risulterebbero accessibili nell’immediata lettura a tutti, se fossero accompagnate da una versione “facile da leggere”.

Che ruolo ha la formazione permanente in questo discorso?
Lo scopo del progetto Pathways è proprio quello di rendere i programmi di formazione permanente più facili da frequentare da parte delle persone con disabilità intellettiva.
Al momento, è difficile che una persona con disabilità intellettiva prenda parte a programmi di formazione permanente, perché l’inaccessibilità delle informazioni rappresenta una barriera significativa in tal senso e spesso insormontabile. Questo amplifica gli svantaggi e rende difficoltosa l’effettiva partecipazione e inclusione delle persone con disabilità, a partire ad esempio dall’inclusione lavorativa.
I materiali facili da leggere ed eventi formativi ripensati in chiave accessibile possono facilitare la fruizione della formazione permanente anche a chi ha una disabilità intellettiva, e non solo.

Quali sono i prodotti di questo percorso (guide manuali)?
Oltre alle Linee guida europee “Informazioni per tutti” per rendere l’informazione facile da leggere e da capire per tutti, i partner del progetto hanno elaborato altri 3 opuscoli.
L’opuscolo “Non scrivete su di noi senza di noi” definisce come coinvolgere le persone con disabilità intellettiva nella produzione o traduzione di testi in linguaggio facile da leggere. Nessun testo dovrebbe mai essere scritto senza che le persone con disabilità intellettiva siano coinvolte: esse sanno di cosa hanno bisogno per capire le informazioni e possono diventare esperte nel controllare la facilità di comprensione dei documenti.
Il secondo opuscolo “Insegnare può essere facile” è stato scritto per aiutare gli insegnanti a rendere i loro corsi più accessibili, dando alcune idee ed esempi su come sviluppare i corsi: il modo di parlare, i materiali di supporto utilizzati, documenti scritti e contributi video, le modalità di coinvolgimento degli studenti durante la presentazione e la comunicazione verso le persone con disabilità presenti.
Il terzo opuscolo “Formare i formatori” dà consigli sulla formazione dei formatori e degli insegnanti su come scrivere documenti che siano facili da leggere e capire. Si consiglia come organizzare le giornate di formazione, quali strumenti utilizzare, gli esercizi da proporre…
Inoltre sarà presto disponibile una lista di controllo online, utile per verificare, attraverso step definiti, l’accessibilità del materiale prodotto.
I tre opuscoli e le linee guida sono scritti in linguaggio facile da leggere e adesso, grazie alla partecipazione di Anffas a questo progetto, sono disponibili in lingua italiana. Possono essere scaricati gratuitamente dal sito www.anffas.net nella sezione dedicata al progetto.

In futuro come porterete avanti questa esperienza?
Entro novembre 2013 è prevista una serie di incontri nazionali e territoriali, per promuovere l’iniziativa e la documentazione realizzata e per sollecitare sia all’esterno che all’interno dell’associazione e del movimento delle persone con disabilità, la formazione e l’utilizzo del linguaggio facile da leggere.

Il progetto ha infatti consentito la formazione di 9 formatori che entro luglio prossimo realizzeranno dei primi incontri sui territori. Inoltre sono previste iniziative di carattere nazionale, con il coinvolgimento dei cosiddetti “decision maker”.

Pathways II
www.anffas.net/Page.asp/id=604#.UNx0-ncTTwK

5. “Informazione Facile”… l’unica in Italia

Gabriella Barilari, logopedista attiva a Torino, ci parla dell’unica esperienza di scrittura controllata attiva oggi in Italia: un settimanale che, pensato per le persone afasiche, ora si rivolge a un pubblico ben più vasto.
In appendice i Criteri per la stesura di testi a scrittura controllata di Maria Grazia Menegaldo.

Per quale motivo è nata “Informazione Facile”?
“Informazione Facile” (IF) è nata in ambito logopedico per un duplice motivo.
Da un lato avvertivo l’esigenza di proporre testi adatti a una popolazione adulta che per diversi motivi si trova ad affrontare un percorso riabilitativo per problemi nella comprensione di testi; dall’altro volevo offrire a chi – per patologia o per problemi socioculturali – ha difficoltà a comprendere l’informazione offerta dalla stampa tradizionale, uno strumento che consentisse di ridurre le barriere comunicative e informative che il deficit nella comprensione dei testi porta con sé.
Il progetto Informazione Facile nasce nel 2003. In un primo periodo si chiamava “Alta Frequenza”, poi nel 2006 è diventata “Informazione Facile”.

A chi si rivolge?
IF è stata studiata, in prima istanza, per persone afasiche e, più in generale, per persone adulte che hanno deficit nella comprensione di testi per via di patologie neurologiche.

Chi effettivamente legge IF?
I lettori di IF appartengono a una popolazione meno specifica e più ampia di quanto il gruppo di lavoro aveva immaginato.
IF è utilizzato dai servizi di logopedia e di neuropsicologia come strumento di riabilitazione, da persone afasiche che hanno terminato il loro iter terapeutico, ma è anche diventato uno strumento usato nelle RSA per attività di gruppo. È letta e usata anche da insegnanti di sostegno, sordi, insegnanti di lingua italiana, stranieri, popolazione carceraria.
Noi ovviamente siamo molto contenti di questo uso più ampio, perché è una dimostrazione del fatto che IF risponde a un bisogno.

Che periodicità ha e come è strutturata la rivista?
IF esce una volta la settimana. Il giorno era il martedì, ma ora probabilmente slitterà al giovedì.
È suddivisa in sezioni con obiettivi e difficoltà variabili. 

  • “Notizie in breve” offre in poche righe le informazioni sui fatti principali accaduti in Italia e nel mondo
  • “Notizie per parlare” raccoglie notizie di cronaca, scienza e spettacolo scritte in modo da renderle comprensibili e narrabili
  • “Notizie per guarire” presenta argomenti di attualità e prevenzione medica
  • “Notizie da vedere” presenta le novità cinematografiche. È realizzata in collaborazione con AIACE
  • “Spazio aperto” pubblica quello che le persone con problemi comunicativi ci inviano
  • Infine “Parole crociate e giochi linguistici” che rispettano i criteri che rendono IF fruibile in situazioni di difficoltà o handicap

Inoltre, quotidianamente sul sito www.informazionefacile.it esce la notizia (o le notizie) del giorno, mentre una volta la settimana viene inserito un nuovo video.

Chi sono i redattori di IF e che professionalità hanno?
Nel 2003 “Alta Frequenza” (AF) aveva uno sponsor e a quel tempo la redazione era formata anche da giornalisti.
Noi logopedisti rivedevamo i testi. Il nostro lavoro consisteva nel verificare l’applicazione delle regole della scrittura controllata.
Nel 2006 abbiamo perso lo sponsor e i finanziamenti. A quel punto, dopo un certo periodo, comprensibilmente i giornalisti si sono ritirati dal progetto.
Adesso redigono i testi un piccolo gruppo di logopedisti, insegnanti, medici, cioè persone che tutti i giorni si trovano ad affrontare nel loro lavoro le difficoltà di comprensione di informazioni complesse. 

Che tecniche di scrittura usate? Come avviene la semplificazione del testo e che regole avete in redazione?
La rivista è riconducibile, dal punto di vista scientifico, alla ricerca di De Mauro e della Piemontese sui criteri per controllare la comprensibilità dei testi.
IF rispetta queste regole:

  • usare il Vocabolario di base di Tullio De Mauro. Quando si usano parole difficili, se ne dà la spiegazione
  • rendere esplicite le conoscenze che il testo richiede, ma spesso sottintende, evitando al lettore la fatica che l’inferenza comporta
  • organizzare in modo chiaro l’argomento così da evidenziare i passaggi logici e trasformare le idee in frasi chiare
  • rivedere i testi utilizzando indici di leggibilità statisticamente definiti (indice Gulpease progettato e tarato per la lingua italiana, che segnala il grado di leggibilità del testo secondo il livello di scolarizzazione)
  • adottare criteri e accorgimenti volti a far superare deficit visivi e/o visuo-percettivi.

Un’eccessiva semplificazione non porta a un testo scialbo e poco interessante? Come evitare questo difetto?
Questa è una difficoltà di cui siamo consapevoli. Il più delle volte i nostri testi, effettivamente, sono monotoni. Ciò è dovuto, a mio avviso, non alle regole che ci siamo dati, ma al poco tempo che abbiamo per redigere i testi. Ancora una volta, il problema è il tempo e, quindi, il denaro.

Chi sceglie e quali criteri avete nella scelta delle notizie? Vi ponete problemi di tipo politico e sociale nella scelta delle notizie?
Cerchiamo di coprire le notizie più importanti di politica e cronaca nazionale ed estera.
Cerchiamo di proporre temi che sollecitano il dibattito e possibilmente appassionino, perché – essendo utilizzata IF in attività di gruppo – speriamo che, coinvolgendo emotivamente le persone, gli argomenti favoriscano la voglia di comunicare e di confrontarsi con gli altri.
Cerchiamo di essere abbastanza neutri nel dare le notizie, ma riconosco che spesso non ci riusciamo.

Non solo persone con deficit ma anche larghe fasce della popolazione sono soggette in Italia a un progressivo impoverimento culturale e a una diminuita capacità di lettura, vi rivolgete anche a loro? Non occorre adottare livelli diversi di complessità di scrittura a questo punto?
Questa affermazione è assolutamente vera e condivisibile. Infatti il nostro desiderio sarebbe quello di riuscire a dare vita a un giornale non di nicchia, ma per il largo pubblico. Certamente per un pubblico più largo occorrerebbe ricalibrare la complessità dei testi e anche modificare l’impaginato.
Questo giornale sarebbe da una parte uno strumento di informazione, ma dall’altra uno strumento di alfabetizzazione civile e sociale.
Intendo dire che sarebbe uno strumento utile per rendere i lettori cittadini consapevoli che conoscono – ad esempio – la Costituzione italiana e come funziona lo Stato.
L’informazione che noi vorremmo è un’informazione che non si basa sulla seduzione (nel senso di condurre a sé) ma sulla in-formazione di sé.
“Informazione Facile” come strumento di democrazia! È un delirio di onnipotenza, me ne rendo conto, ma se riuscissimo a unire un po’ di forze, forse qualcosa di buono si potrebbe fare…
Abbiamo, ad esempio, nel cassetto un bel progetto di una versione di IF per la scuola dell’obbligo…
Vedremo, mai dire mai!

Quanto costa la vostra operazione e chi vi finanzia?
In un primo periodo avevamo uno sponsor, che era il mio datore di lavoro di allora. Pierfrancesco Camerlengo credeva in questo progetto e lo aveva finanziato.
Quando le nostre strade lavorative si sono divaricate, ho preferito andare per la mia strada anche con “Informazione Facile”.
Da allora abbiamo partecipato a due Bandi di CRT (Cassa di Risparmio di Torino) Vivo Meglio che ci hanno consentito di andare avanti.
Inoltre collaboriamo con la Fondazione Carlo Molo Onlus con la quale portiamo avanti alcuni progetti di ricerca.
La gestione del sito è curata da una realtà torinese, attiva nell’e-learning, e-mentor, che gestisce il sito in forma gratuita.

Progetti per il futuro?
Abbiamo arricchito il sito di “Informazione Facile” con una voce sintetica che legge i testi ma l’ambizione sarebbe di arrivare a produrre una vera web-radio.
Grazie alla Fondazione Carlo Molo, inoltre, stiamo portando avanti un progetto di ricerca, secondo noi, molto bello.
Stiamo cercando di individuare quali sono le regole di “scrittura” (cioè inquadrature, montaggio,…) che aiutano la comprensione del linguaggio filmico.
Presso il Laboratorio Sperimentale di Afasia della Fondazione abbiamo realizzato una sperimentazione con alcuni gruppi di afasici (quelli che hanno già partecipato a uno o – meglio – due cicli di lettura di IF).
A questi gruppi, una logopedista – Angelica Trovarelli – proponeva la visione di corti di Charlie Chaplin; una prima volta senza alcuna modificazione e una seconda volta con alcune modificazioni che, nelle nostre intenzioni, rendevano la pellicola più comprensibile. Verificavamo poi le differenze di comprensione con test di avvenuta comprensione.
È un lavoro che ha dato ottimi risultati e che stiamo riproponendo.
Su quest’argomento è stata affidata una tesi a uno studente del Corso di Laurea in Logopedia dell’Università di Torino, che noi stiamo seguendo.
Un altro progetto cui teniamo moltissimo e sul quale ci stiamo impegnando con tutte le nostre risorse, avendo avuto ancora un contributo da Vivo Meglio di Fondazione di CRT è la progettazione di un comunicatore.
Di questo progetto, però, scaramanticamente, non dirò nulla se non che esiste.

Informazione Facile:
www.informazionefacile.it

4. La cultura degli italiani e la scrittura controllata

La scrittura controllata non è una scrittura più semplice da realizzare, anzi richiede uno sforzo ben maggiore e un atteggiamento di umiltà in chi scrive che deve mettersi nei panni del suo lettore.
Le nuove tecnologie non impoveriscono la scrittura ma pongono nuove modalità. I giovani leggono di più dei loro genitori ma in generale la società italiana non è all’altezza delle nuove richieste di prestazioni linguistiche che la società oggi richiede. Intervista a Maria Emanuela Piemontese.
In appendice l’Indice Gulpease  che calcola i criteri di leggibilità di un testo.

Che cos’è la scrittura controllata?
La scrittura controllata è un insieme di tecniche di scrittura nate prevalentemente intorno all’esperienza di “dueparole”. La scrittura controllata viene spesso identificata con la semplificazione linguistica, cioè con un metodo di controllo della lingua usata per farsi capire. La scrittura controllata vuole essere qualcosa di più: un insieme di tecniche, oggettive e consapevoli, cioè che si possono imparare e quindi insegnare, per adeguare le scelte linguistiche dei testi ai diversi tipi di destinatario. In questa seconda e più ambiziosa accezione la scrittura controllata è il modo di scrivere un testo basato sul controllo della difficoltà/facilità di lettura che esso può presentare ai destinatari. Questo controllo consente di dosare (e governare) il grado di difficoltà del testo, sempre in rapporto al tipo di destinatario, al contenuto e all’obiettivo, giocando sulle variazioni, di volta in volta possibili, tendenti verso l’alto o verso il basso.
Per scrittura controllata intendiamo perciò il risultato della capacità di smanettare la lingua e di arrivare alla definizione del grado al quale collocare le nostre scelte linguistiche e di organizzazione logico-concettuale a seconda dei destinatari ai quali ci rivolgiamo. Quindi “controllata” per noi  vuol dire più rispettosa del destinatario. La scrittura semplificata è una delle possibili realizzazioni della scrittura controllata: non è l’unica, ma certo è la più difficile da realizzare perché rappresenta il caso di controllo estremo, il più oltranzistico, dei testi, privilegiando in modo netto la comprensibilità da parte del destinatario.

Se dovesse elencare le regole di scrittura per scrivere in maniera controllata quale sarebbe il suo decalogo?
La regola principale che guida la nostra scrittura è quella del buon senso. Il buon senso nel fare le cose, di norma, non si trova “in natura”.  Bisogna imparare a riconoscerne innanzitutto il valore, poi a costruirselo e a imparare a metterlo a frutto. In altri termini, voglio dire che per scrivere testi chiari per fini didattici o informativi, basterebbe poco: sarebbe sufficiente chiedersi continuamente, mentre scriviamo, cosa capirà di quel che stiamo scrivendo chi ci leggerà, come ci insegna Italo Calvino. Se chi scrive, infatti, fosse meno autocentrato e pensasse di più ai suoi destinatari reali gli verrebbe naturale chiamare con semplicità pane il pane e vino il vino. Va detto che la nostra cultura – tranne poche e notevoli eccezioni – non ha mai avuto il culto della semplicità. La semplicità è sempre stata vista come roba da poveri o come una scelta di vita “alternativa”, in stile S. Francesco d’Assisi. Quando scriviamo, temiamo che essere semplici possa significare spogliarci delle nostre (presunte) ricchezze e farci apparire poco colti, tendenti alla banalizzazione.
Come riuscire a capovolgere, anche nell’arte dello scrivere, quest’idea tutta nostrana della semplicità? Da autorevoli fonti e autori abbiamo imparato alcuni concetti chiave: che la semplicità  non è né rozzezza né semplicioneria, ma piuttosto chiarezza delle idee; che la chiarezza che non è banalizzazione o negazione della complessità,  ma trasparenza del pensiero prima che delle parole;   che la trasparenza del pensiero non è inconsistenza di idee e di contenuto, ma il loro specchio in cui noi li vediamo prendere forma. Noi abbiamo provato innanzitutto su di noi a cambiare quest’idea fallace di semplicità e crediamo di esserci pure, in qualche modo, riusciti. Questo processo di revisione di un modo di essere e di pensare nel “fare cose con la lingua”, è stato accompagnato, non di rado, da incomprensioni e ironie, disinteresse  e, a volte, intolleranza da parte di molti sapienti doc.
Il problema sta nel fatto che, quando noi scriviamo, tendiamo naturalmente a pensare che il mondo sia fatto “a nostra immagine e somiglianza”. In pratica non ci poniamo il problema di chi sia il nostro destinatario e di quanto egli riuscirà a capire di quel che gli diciamo. La mancata comprensione, d’altra parte, è sempre stata, esplicitamente o implicitamente, imputata a chi legge e alle sue presunte carenze (di lingua, di interesse, di specializzazione…).
La redazione di “dueparole” si è basata su criteri di scrittura precisi che noi amiamo chiamare di buon senso in quanto dettati innanzitutto dalla nostra preoccupazione maggiore: farci capire. In effetti, mi rendo conto che dire che sono criteri di buon senso può essere fuorviante e far pensare a modi di scrivere ovvi e irriflessi. Per noi “buon senso” vuol dire esattamente il contrario: pensare e ripensare a un testo finché esso risulti, non solo a noi, ma a chi ci rivolgiamo chiaro e comprensibile. Con questa priorità, il pensiero rivolto ininterrottamente ai nostri destinatari e grazie alle tecniche di scrittura insegnate e applicate da don Lorenzo Milani, abbiamo definito, testato, messo ripetutamente in discussione e rivisto i nostri criteri di scrittura controllata.
Uno dei nostri criteri base è scrivere frasi e testi brevi per essere più facilmente comprensibili. Una frase troppo lunga, superiore cioè alle 15-20 parole, rischia sempre di contenere troppe informazioni, incistate l’una nell’altra per cui, alla fine, non si capisce bene né la gerarchia delle informazioni né cosa vogliamo dire davvero. Quindi fare frasi brevi, possibilmente con una sola informazione principale e solo qualche informazione secondaria, è un primo criterio per rendere più agevole la lettura e la comprensione ai lettori.
Va detto, a scanso di equivoci, che la brevità dei testi e delle frasi non è il risultato dello spezzettamento meccanico di testi e frasi lunghe in testi e frasi più brevi. Si tratta, invece, del modo stesso di ideare e costruire il testo nelle sue varie parti, seguendo cioè una precisa gerarchia di idee, sviluppando un certo ragionamento logico (coerenza) e traducendolo in parole tra loro ben collegate (coesione).
Di fondamentale importanza è poi la scelta delle parole che devono essere le più comuni, cioè quelle che tutti conoscono, usano e capiscono.
Non è un caso che ci venga spesso rimproverato di usare un linguaggio troppo semplice nei nostri testi. Basterebbe chiedersi: “Troppo semplice per chi?” e riflettere sulla risposta.
Noi pensiamo che quando una persona legge o ascolta qualcosa o qualcuno impara in proporzione a quello che riesce a capire e a memorizzare. Se utilizziamo un linguaggio troppo complesso rispetto alle possibilità di certi lettori, questi rischiano di non capire e non imparare nulla. Secondo il neuropsichiatra infantile Gabriel Levi richieste troppo elevate, fatte a certi tipi di destinatari, rischiano di danneggiarli perché costoro, oltre a non capire, accumulano senso di frustrazione e impotenza che li blocca e li porta a rifiutare di leggere altro. C’è chi pensa che un testo di una certa complessità possa aiutare, invece, il lettore a sforzarsi di capire e quindi a migliorare la sua comprensione. Noi siamo del parere opposto: chiunque legga, se legge e non capisce, non può imparare, memorizzare e riutilizzare concetti e contenuti. Il lettore è stimolato ad approfondire ciò che legge solo se capisce ciò che sta leggendo e, in modo autonomo o con l’aiuto di altri, cerca di saperne di più.
La nostra aspirazione non è perciò eliminare, azzerare la complessità delle cose da dire, impresa per altro impossibile, ma ridurla e dosarla nei limiti consentiti dagli strumenti posseduti dai nostri lettori e dai loro livelli d’età affinché non si sentano sopraffatti.

Non c’è il rischio che questo tipo di scrittura risulti scialba e poco interessante da leggere?
Precisiamo che qui stiamo parlando solo della lingua della comunicazione quotidiana, non della lingua per usi letterari e artistici. Stiamo parlando di scrittura di testi prevalentemente informativi o formativi. Quella che noi proponiamo di usare, per questi tipi di testo, è la lingua comune, quella che tutti, mediamente, conoscono, usano e capiscono.
Noi ci occupiamo di efficacia della comunicazione. Se parliamo di lingua della comunicazione, questa deve essere dunque semplice, chiara e precisa affinché i destinatari sappiano cosa fare o non fare, quando, dove, come e perché. Tuttora, la comunicazione pubblica continua a usare spesso un linguaggio inutilmente complesso, contorto e confuso perché ai burocrati appare più elegante e raffinato o più adeguato al livello delle istituzioni di appartenenza.
Occorre intendersi, mettersi d’accordo sulle parole e su che cosa significhi eleganza, che cosa significhi più interessante… Italo Calvino, che abbiamo già ricordato, diceva che, quando si parla di lingua della comunicazione, occorre scrivere, imparando a leggerci, sapendoci mettere cioè al posto dei nostri destinatari. Per noi è elegante ed interessante, ma anche più civile e democratica la lingua di chi riesce a farsi capire e non quella di chi spande fumo, senza nessuna considerazione dei destinatari e spesso perfino di se stesso.

Chi scrive sui quotidiani oggi o sui mezzi di informazione in generale, ha una certa attenzione per il lettore oppure no?
Nelle redazioni dei giornali e delle case editrici, come altrove, ci sono persone più attente e persone meno attente ai loro destinatari. Mediamente l’attenzione al destinatario non sembra essere la preoccupazione principale di chi scrive. Ma mai generalizzare!
Negli ultimi venti anni l’attenzione è andata crescendo rispetto ai decenni precedenti. Infatti ora si tende a dare un po’ meno per scontate tante cose che prima, invece, non erano considerate un problema di chi scriveva (o parlava) ma di chi leggeva (o ascoltava).
Quanto sia cambiato di fatto la cultura italiana nell’affrontare questi problemi non è facile dire. C’è ancora una forte variabilità individuale nelle diverse situazioni in cui si usa la lingua per motivi professionali. Non abbiamo (né aspiriamo a farla) una graduatoria di giornali più o meno leggibili o di autori più o meno comprensibili, ma come lettori sappiamo apprezzare le differenze. Quando leggiamo qualcosa tutti siamo capaci di renderci conto se stiamo capendo oppure no, se chi scrive sa quello di cui parla o se ha le idee confuse. La chiarezza e la comprensibilità dei testi dipendono anche dal tempo che chi scrive è stato disposto a impegnare per chiarirsi le idee prima di parlare o scrivere e poi anche dalla volontà, dal tempo (e dall’umiltà. Sì proprio umiltà!) per continuare a limare il testo finché non siano sciolti tutti i possibili nodi della comprensione. Molti ritengono che “scrivere di getto” sia, invece, la modalità più efficace, oltre che la più spontanea e gratificante. Ogni bravo scrittore, giornalista, insegnante, autore di testi di ogni genere, sa bene che, invece, non è così e che la fatica da fare è enorme.
Scrivere bene, cioè in modo chiaro, semplice e preciso, richiede, oltre a un addestramento e a un esercizio continuo, un enorme lavoro, impegno di tempo e pazienza e un grande senso di responsabilità professionale. 

Da questo punto di vista come si presenta la scrittura sul web?
Anche per la scrittura per il web vale il discorso appena fatto, sia pure con qualche differenza. Il mezzo usato e i tempi rapidissimi di viaggio e consumo delle informazioni fanno certo la differenza. Ma su questo argomento si trova di tutto e di più sulla rete. Occorre fare molta attenzione. Per fortuna ci sono anche siti e blog molto professionali come quello di Luisa Carrada (www.mestierediscrivere.it), di Alessandro Lucchini (www.magiadellascrittura.it), Giacomo Mason (www.intranetmanagement.it) e di altri blogger che meritano attenzione sia per i contenuti trattati sia per la forma utilizzata.

La qualità della scrittura per il web dipende, ovviamente, anche dalle motivazioni e dagli obiettivi di chi ha bisogno di usare la scrittura. Chi scrive sul web e per il web con motivazioni serie, competenza e chiarezza di obiettivi impara presto quanto sia preziosa e, nello stesso tempo, volatile l’attenzione dei lettori/naviganti, se non trovano scritto in modo chiaro e immediatamente comprensibile ciò che cercano e serve loro. Perciò i professionisti della scrittura per il web conoscono il mezzo, le regole che lo governano e cercano, sempre nel rispetto di queste regole, una forma di scrittura vivace, diretta, senza fronzoli e sbrodolamenti.
Sul web possiamo apprezzare molti stili di scrittura che sono varianti più di un parlato-scritto che di uno scritto-scritto, secondo l’articolazione proposta da Giovanni Nencioni. Basta visitare qualche blog, sito o pagine di Facebook creati per avere scambi veloci, scherzosi, a volte, anche troppo disinvolti, tra amici, colleghi (più raramente parenti) per rendersi conto degli usi diversi e molto approssimativi della scrittura. In molti casi non viene rispettato neppure il criterio minimo di formalità della scrittura. Questi usi scritti della lingua, che s’avvicinano molto di più al parlato irriflesso e meno controllato, sono tutt’altra cosa rispetto alla scrittura per il web di siti istituzionali, aziendali, commerciali, politici…

I lettori italiani di oggi: che tipo di cultura, di istruzione e di educazione alla lettura hanno?
Una risposta più precisa e articolata a queste domande può trovarle in due volumi veloci, ma ben documentati, e cioè la seconda edizione del volume di Tullio De Mauro, La cultura degli italiani curato da Fancesco Erbani (2010) e il volume di Giovanni Solimine, L’Italia che legge, del 2011.
Oggi siamo un popolo mediamente più istruito di quanto non lo fossimo in passato. All’epoca  dell’Unità di Italia, solo 150 anni fa, a mala pena il 2.5% della popolazione conosceva e parlava l’italiano; gli analfabeti erano il 78.5%. Oggi abbiamo circa l’1% della popolazione (secondo il censimento Istat) che si autodefinisce analfabeta. Di sicuro la capacità di usare la lingua italiana comune è oggi molto più alta di una volta, quando la quasi totalità della popolazione parlava quasi esclusivamente in dialetto.
L’italiano comune è da alcuni anni patrimonio condiviso da quasi il 95-96% della popolazione (e il 45% conosce e usa ancora un dialetto, oltre all’italiano). Quando ho iniziato ad andare io a scuola,  nella seconda metà degli anni Cinquanta, ero in una classe di 38 bambine: di queste 2-3 parlavano esclusivamente italiano, meno di una decina parlavano/parlavamo sia il dialetto che l’italiano (ma con differente propensione personale per l’una o l’altra lingua), tutto il resto della classe parlava solo il dialetto. Per i due terzi della mia classe l’italiano era una lingua sconosciuta, poco e male imparata sui banchi di scuola, studiata davvero come una lingua straniera, come sosteneva il linguista Peruzzi. Non a caso alle medie arrivammo a iscriverci molto meno della metà, quasi un terzo, dell’iniziale classe delle elementari.
La buona notizia è che oggi è sicuramente aumentato il livello di alfabetizzazione degli italiani; la cattiva notizia è che non sempre questo aumento del livello di istruzione riesce a garantire il possesso sicuro e disinvolto della lingua per fronteggiare crescenti e sempre nuove richieste sociali. In pratica siamo sicuramente più alfabetizzati, ma la capacità di dominio sulla lingua, non solo parlata ma anche scritta, non è sufficiente per fare fronte alla vita quotidiana, come dimostrano i dati citati da Tullio De Mauro nel suo volume, a cominciare dai lavori curati da Vittoria Gallina.
A questi dati fanno riscontro quelli presentati e discussi da Giovanni Solimine: in Italia permane un’abitudine di lettura scarsa e ben inferiore alla media europea.
Accanto ai dati che parlano di fatti, ci sono poi i luoghi comuni che circolano – non di rado – anche tra insospettabili. Si dice che oggi i giovani non sappiano più parlare in italiano, che scrivano male o peggio dei loro coetanei delle generazioni precedenti perché usano gli sms e leggono poco. Sono affermazioni che meriterebbero di essere analizzate una per una e smontate pazientemente: le fasce giovanili leggono mediamente molto di più delle fasce anagraficamente più anziane; la lingua da loro usata negli sms serve per scrivere in modo veloce, risparmiando tempo e soprattutto spazio. Non dimentichiamo che il ricorso alle abbreviazioni è nato per la limitata disponibilità di caratteri dei cellulari delle prime generazioni.
Ma non è questo il problema o, meglio, non è questa la causa della lamentata scarsa dimestichezza dei giovani (ma di quali?) con la lingua italiana. Il problema è un altro: capire cosa c’è dietro all’uso del xke al posto di perché in testi che non siano sms. Innanzitutto come si fa ad affermare che i giovani ricorrano sempre alla forma abbreviata anche quando non scrivono sms? Solo dopo che abbiamo accertato che i giovani sappiano/non sappiano distinguere un mezzo dall’altro, gli usi formali da quelli informali della lingua scritta, possiamo allora cominciare a discutere. In qualche momento della loro formazione linguistica, qualcuno deve pur spiegare loro che scrivere xke nello scambio di sms tra amici e parenti è accettabile, perché funzionale al mezzo e al risparmio di spazio e tempo, ma non lo è più in contesti formali, come sono un compito a scuola, un esame scritto all’università o un messaggio di posta elettronica a un docente, o una domanda di lavoro e così via.  Il contesto d’uso, con il destinatario e l’obiettivo della comunicazione, fa la differenza. È inutile perciò caricare i nuovi mezzi di comunicazione di responsabilità che non hanno, così come è sbagliato caricarli di aspettative eccessive, quasi palingenetiche. Sono mezzi e mezzi rimangono. A questo punto il discorso si farebbe troppo lungo e ci allontanerebbe dal nostro discorso. In conclusione, possiamo dire che solo chi sa usare bene la lingua, scritta e parlata, sa sfruttare al meglio anche le notevoli possibilità offerte da nuovi mezzi di comunicazione. Non è detto, invece, che saper smanettare i nuovi mezzi possa significare sempre e per chiunque possesso e uso sicuro dei diversi usi della lingua.

La società oggi richiede maggior prestazioni linguistiche al cittadino?
Oggi per poter esercitare il diritto di piena cittadinanza dobbiamo avere sempre maggiori e migliori capacità d’uso della lingua. Riempire un modulo, affrontare la lettura di una circolare ministeriale, saper interpretare le istruzioni per la raccolta differenziata, sono alcune delle richieste (non sempre banali) che ci troviamo quotidianamente davanti. Ogni giorno siamo chiamati a fronteggiare nuove situazioni comunicative sia come destinatari sia come produttori. Questo richiede a ciascuno di noi il dominio sicuro delle capacità di lettura e di scrittura.
Fare la dichiarazione dei redditi, accedere ai servizi del sistema sanitario nazionale, iscrivere un figlio al nido alla scuola materna, fare gli esami per la patente, pagare una multa… sono tutte azioni che richiedono un’elevata capacità di saper fare cose con la lingua scritta e parlata. Le richieste di saper fare tutte queste cose sono strettamente collegate all’estensione e all’ampliamento dei diritti democratici dei cittadini delle società avanzate e complesse. Oggettivamente la vita è molto più complessa oggi, sul piano dell’organizzazione sociale, rispetto a quella di cinquant’anni fa. I nostri nonni non avevano effettivamente troppe pratiche da sbrigare. Sembra una buona notizia, ma non lo è affatto. Il motivo è presto detto: non c’era il servizio sanitario nazionale, non c’erano ospedali, non c’erano asili comunali, pochissimi arrivavano a mandare i figli all’università…
Ricordiamoci che alle maggiori richieste sociali corrisponde, di norma, un allargamento dei diritti e dei doveri dei cittadini. Occorre quindi essere tutti più attrezzati linguisticamente se vogliamo vedere realizzati, rispettati e condivisi i diritti sanciti dalla nostra Costituzione per noi e per le generazioni future.

L’Indice Gulpease e il vocabolario comune
L’Indice Gulpease è un indice di leggibilità di un testo tarato sulla lingua italiana. Rispetto ad altri ha il vantaggio di utilizzare la lunghezza delle parole in lettere anziché in sillabe, semplificandone il calcolo automatico.
Definito nel 1988 nell’ambito delle ricerche del GULP (Gruppo Universitario Linguistico Pedagogico) presso il Seminario di Scienze dell’Educazione dell’Università degli studi La Sapienza di Roma, si basa su rilevazioni raccolte tra il 1986 e il 1987 dalle cattedre di Filosofia del linguaggio e di Pedagogia dell’Istituto di Filosofia.
L’Indice di Gulpease considera due variabili linguistiche: la lunghezza della parola e la lunghezza della frase rispetto al numero delle lettere.
La formula per il suo calcolo è la seguente:

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I risultati sono compresi tra 0 e 100, dove il valore “100” indica la leggibilità più alta e “0” la leggibilità più bassa. In generale risulta che testi con un indice inferiore a 80 sono difficili da leggere per chi ha la licenza elementare, inferiore a 60 sono difficili da leggere per chi ha la licenza media, inferiore a 40 sono difficili da leggere per chi ha un diploma superiore.
Complementare all’Indice Gulpease è la valutazione del “vocabolario comune” utilizzato nel testo, ovvero la “notorietà” dei singoli termini utilizzati.
Il “vocabolario comune” è un vocabolario che misura la leggibilità di un testo considerando il grado di comprensibilità e la frequenza di uso dei termini utilizzati. In base alla frequenza e al grado di comprensibilità, le parole sono divise in sottoinsiemi concentrici. Quello più ampio è rappresentato dal vocabolario di base che nella lingua italiana contiene circa 7.000 vocaboli generalmente compresi e usati dalle persone che hanno conseguito la licenza media inferiore.
I termini del vocabolario di base sono ulteriormente ripartiti in funzione del relativo grado di diffusione e uso in “vocabolario di alta disponibilità” (circa 2.300 termini appartenenti alla vita quotidiana, ben noti ma che capita raramente di dire o di scrivere), “vocabolario di alto uso” (circa 2.750 termini usati con altissima frequenza), “vocabolario fondamentale” (circa 2.000 termini che chi parla una lingua ed è uscito dall’infanzia conosce, capisce e usa).
(Questo testo è tratto dalla combinazione delle voci “L’Indice Gulpease” e il “Vocabolario comune” tratti da Wikipedia)

3. L’esperienza della rivista “dueparole”

Intervista a Maria Emanuela Piemontese docente alla Facoltà di Filosofia, Lettere, Scienze Umanistiche e Studi Orientali dell’Università di Roma. Assieme a Tullio De Mauro ha ideato e realizzato alla fine degli anni ’80 la prima rivista a scrittura controllata in Italia; si chiamava “dueparole” ed era un’esperienza all’avanguardia in Europa.

Com’è nata la rivista “dueparole” e come si è evoluta?
La nostra rivista è nata per rispondere a varie esigenze e cercare così di colmare un vuoto culturale, lamentato da varie parti ma da nessuno adeguatamente ascoltato e considerato.
Innanzitutto vale la pena ricordare che, negli anni Settanta, il Parlamento italiano ha approvato una serie di misure “rivoluzionarie” sull’integrazione degli alunni disabili nella scuola.
“Due parole” nasce quindi dall’incontro tra le trascurate, se non ignorate, esigenze formative e informative di allievi con certe caratteristiche e l’onda positiva generata dalla legislazione sull’integrazione delle persone con varie forme di disabilità nelle scuole. Nasce così la figura dell’insegnante di sostegno che doveva affiancare – nelle varie classi – i ragazzi con qualche tipo di problema (svantaggiati sociolinguisticamente, portatori di forme varie disturbi dell’apprendimento ecc.) nei processi di apprendimento. Nasceva però un problema: una volta finiti gli anni della scuola dell’obbligo, questi ragazzi non avevano più né la mediazione di un insegnante che li aiutasse ad accedere ai mezzi di informazione, dal telegiornale al giornale radio, dal quotidiano al periodico, né trovavano testi, scritti e parlati, adeguati al loro livello di comprensione. Non c’era un giornale che questi ragazzi potessero leggere autonomamente, senza registrare ulteriori frustrazioni nella comprensione, né c’era un giornale radiofonico o televisivo capace di informare, senza dare per scontata una miriade di informazioni che non tutti possono già avere.
È stato così che, all’inizio degli anni Ottanta, molti genitori e operatori sociosanitari si siano rivolti a Tullio De Mauro (allora docente di Filosofia del linguaggio nell’Università La Sapienza di Roma) ponendogli la domanda: “Cosa possiamo far leggere ai nostri figli, ai nostri allievi, una volta usciti dalla scuola dell’obbligo? Cosa li può tenere informati su quello che succede intorno a loro, man mano che diventano adulti?”. La domanda fatta a De Mauro fu trasformata immediatamente in un progetto piccolo, ma ambizioso assai: provare, insieme ai genitori e agli operatori sociosanitari, poi con i nostri allievi dei corsi di Filosofia del linguaggio, a scrivere testi accessibili per quel particolare tipo di destinatario.
Dai primi tentativi di produrre testi molto semplici, dal punto di vista linguistico e dell’organizzazione logico-concettuale per destinatari con qualche forma di problema della comprensione, è nato nel 1989 “due parole. Mensile di facile lettura”, con una storia già lunga alle spalle. Fin dall’autunno del 1983, infatti, docenti e ricercatori della cattedra di Filosofia del linguaggio hanno organizzato a La Sapienza corsi di scrittura per gli studenti, ben prima che venissero istituzionalizzati i corsi di scrittura funzionale o professionale nati dopo la creazione dei corsi di studio in (poi facoltà di) Scienze della comunicazione.
L’obiettivo iniziale dei nostri corsi era cercare di capire se e come si può ottimizzare la scrittura di testi didattici, di lettura e di informazione adulta, in considerazione di destinatari specifici. Questi corsi hanno trovato continuità a La Sapienza in un seminario durato dal 1983 al 1989, tenuto da Tullio De Mauro, Massimo Vedovelli e da chi scrive. In quegli anni abbiamo iniziato a sperimentare i nostri criteri di scrittura in centri di formazione professionale ai quali accedevano, dopo la scuola dell’obbligo, molti ragazzi con problemi. A questa nostra sperimentazione hanno partecipato, oltre ad alcuni operatori sociosanitari, alcune docenti di sostegno della scuola dell’obbligo, come M. Teresa Tiraboschi e Angela Saponaro, gli studenti iscritti al seminario. In questo modo siamo diventati tutti redattori di “dueparole”.
Durante gli anni di progettazione e realizzazione dell’iniziativa, avevamo già capito che, prima o poi, ci saremmo trovati di fronte a un allargamento notevole dei tipi di destinatario. Ad apprezzare “dueparole” non erano, infatti, solo le persone con ritardo mentale o con forme di svantaggio socioculturale, ma anche persone con  problemi di lettura e comprensione dei testi (soprattutto anziani) e con problemi di vista. Il fatto che “dueparole” avesse scelto un certo tipo di corpo tipografico e una dimensione superiore a quella utilizzata da tutti i giornali italiani e l’uso di molto spazio bianco per dare alla pagina leggerezza grafica e agli occhi dei lettori un po’ di respiro, facilitavano notevolmente la lettura a molte persone. Infatti il giornale si presenta sobrio nelle scelte grafico-tipografiche e molto controllato nel modo in cui sono scritti i testi. In sintesi, “dueparole” richiedeva una serie di attenzioni e competenze precise (grafiche, giornalistiche, linguistiche…), ma richiedeva anche redattori disposti ad abbandonare l’abitudine di scrivere per sé e a imparare a scrivere in modo più oggettivo, controllato, senza sentirsi sminuiti. La scrittura controllata è un punto di arrivo (e di ripartenza continua) che non ha nulla in comune con la cosiddetta scrittura personale, creativa, e ancor meno con quella comunemente definita “di getto”.
Forse si fa fatica a credere che per fare un giornale come “dueparole”, che aveva solo 8 pagine e mediamente 2 o 3 articoli a pagina, impiegavamo un mese e oltre.

Qual è la differenza fra il modo di scrivere “dueparole” e la free press, i quotidiani gratuiti, che per snellezza e brevità degli articoli possono avere una qualche somiglianza?
No, non c’è alcuna somiglianza tra “dueparole” e la free press e spiego subito perché. Mi sento di poterlo affermare con tanta nitidezza perché ho seguito numerose tesi di laurea sui quotidiani che cadono sotto l’ombrello della free press.
La free press riprende, per lo più, le notizie così come date dalle agenzie stampa, senza cioè rielaborarle. “dueparole” prendeva spunto dalle notizie più importanti del mese riportate nei bollettini, allora cartacei, dell’agenzia Ansa, messi a nostra disposizione dal direttore dell’epoca, Sergio Lepri. Dopo lo spoglio dei bollettini, la redazione procedeva collegialmente alla selezione delle notizie, privilegiando quelle di interesse più generale (politica interna, estera, cultura, spettacoli, vita in casa) e utili all’autonomia personale dei nostri lettori. Per esempio, abbiamo fatto quasi ogni anno articoli sulla legge finanziaria: in essi davamo priorità a ciò che cambiava nell’assistenza sanitaria e ai riflessi diretti di questi cambiamenti sulla vita dei nostri lettori, come il costo dei ticket, i cambiamenti nelle prestazioni sanitarie… 

Come mai questa esperienza è terminata?
Intanto non direi terminata, ma – scaramanticamente – sospesa. Nessuno di noi redattori ha mai smesso di credere nella validità della nostra esperienza e quindi tutti speriamo, prima o poi, di tornare “più belli e più forti che pria”. Ciò premesso, non è facile elencare quali e quante cose abbiano reso difficile, dopo l’entusiasmante fase di progettazione e realizzazione, la continuazione, negli anni, dell’esperienza di “dueparole”.  Provo a elencarne qualcuna, cercando di non arrivare a usare toni polemici.
Innanzitutto la nostra era una redazione di volontari e non di “professionisti” (come sono, invece, i colleghi dei nostri gemelli nordici). Vale a  dire che i redattori inizialmente erano giovani studenti, poi sono cresciuti e diventati adulti, quasi tutti con un loro lavoro a tempo pieno, una loro famiglia e relativi problemi. Ciò nonostante, per anni, essi hanno continuato a garantire il loro contributo, volontario e sempre entusiastico, all’iniziativa sia negli anni del formato cartaceo (1989-1997) sia successivamente per la versione on line (2001-2006), anni, questi ultimi, in cui qualche gettone siamo pure riusciti miracolosamente a garantirlo.
In secondo luogo, “dueparole” era un mensile. Avevamo perciò un’esigenza tutta nostra, a causa della periodicità: trattare quasi solo notizie di attualità i cui effetti durassero nel tempo. Noi la chiamavamo – con un ossimoro – attualità permanente. La periodicità mensile del nostro giornale costituiva però un vincolo troppo grosso. Il nostro obiettivo (o sogno) era farlo diventare presto settimanale, come “8 Sidor” , per uscire dalle strettoie della periodicità mensile. Ma questo passaggio richiedeva o avrebbe richiesto: a) un certo numero di persone a tempo pieno o a tempo parziale, b) in qualche modo pagate con tariffe professionali e non più costrette a fare una forma di volontariato eterno; c) una sede fisica, attrezzata ed efficiente; d) una sponda editoriale “forte”,  capace cioè di far farsi carico della diffusione e distribuzione del giornale, per farlo conoscere e crescere. Abbiamo provato con ben due editori che hanno fatto, a loro detta, tutto quel che hanno potuto. Non abbiamo motivi per non crederci, ma non abbiamo superato il numero di abbonati sufficienti per pagare solo le spese di tipografia e spedizione. Abbiamo provato a seguire, per anni, anche altre strade, bussando evangelicamente a molte porte. Molte ci sono state aperte per farci raccontare la nostra esperienza e il nostro progetto, ma tutte si chiudevano immediatamente alle nostre spalle, appena usciti. Sui nomi scritti sulle targhe di queste porte taccio.
Ai fini della sospensione dell’iniziativa più determinanti delle prime due difficoltà appena ricordate sono stati: probabilmente l’essere arrivata troppo in anticipo rispetto alla  cultura e sensibilità comune su questi temi, in Italia; la sordità e il disinteresse unanime dei nostri politici, in altre faccende affaccendati, anche di quelli preposti alle cariche teoricamente più vicine, più specifiche,  per avere motivo di prestare attenzione non tanto alla nostra iniziativa, quanto ai bisogni e alle richieste di una bella fetta della nostra società, trascurata, dimenticata, quella fetta alla quale “dueparole” ha cercato, con i suoi pochi mezzi, di rispondere.
Non possiamo far passare qui sotto silenzio però che “dueparole” ha visto la luce solo grazie alla fiducia da sempre accordataci e poi a un finanziamento straordinario assegnatoci, nel 1989, dal mai abbastanza compianto rettore de La Sapienza, Antonio Ruberti. Solo l’Università di Roma La Sapienza ha supportato il nostro progetto, riconoscendo la valenza formativa per i nostri studenti del nostro seminario sulla scrittura e, nello stesso tempo, l’utilità sociale dell’iniziativa da esso nata.

Maria Emanuela Piemontese
emanuela.piemontese@uniroma1.it

2. Ma a chi serve la scrittura controllata?

Non sono solo le persone con un deficit intellettivo che possono avere dei problemi a comprendere un testo scritto sui quotidiani e sui mezzi di informazione in generale; non sono solo le persone dislessiche o con patologie dello sviluppo che possono perdersi nel tentativo di comprendere il significato di un avviso comunale o nel compilare un modulo per ottenere una prestazione sanitaria. La difficoltà di lettura riguarda un numero ben più alto di cittadini e comprende le persone immigrate in Italia che non conoscono bene la lingua, le persone con un titolo di studio basso o che magari hanno anche il diploma ma che poi “si lasciano andare” dal punto di vista culturale, comprende infine molte persone anziane che mal si adattano ai cambiamenti e che non sanno più far fronte alle nuove richieste sociali (terminologie specifiche, ricerca di documenti che attestano…).
Se ragioniamo in questo modo le semplici statistiche sugli indici di analfabetismo in Italia non bastano più a dare spiegazioni, né a rincuorarci visto il loro andamento positivo. Dati alla mano, si è passati dal 1861 con il 77% della popolazione analfabeta all’1% del 2011 (nel 1990 erano il 2,9% della popolazione): ma cosa si nasconde dietro a questa cifra?
Tullio de Mauro, il più noto linguista italiano vivente (è stato ministro della Pubblica Istruzione nel Governo Amato II dal 2000 al 2001), in un incontro pubblico svoltosi nel 2011 ha affermato che il 71% della popolazione italiana si trova al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura di un testo di media difficoltà. Solo il 20% invece possiede le competenze minime “per orientarsi e risolvere, attraverso l’uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana”.
David Bidussa, storico e giornalista, commentando i dati sul livello di istruzione degli italiani, afferma che “Il 38% dei nostri cittadini è fuori dalla Costituzione che prevede l’obbligo del possesso di almeno otto anni di scolarità”.  In effetto le cifre ci dicono che sono 17 milioni gli italiani che hanno solo la licenza media, mentre 23 milioni sono privi del tutto di un titolo di studio o possiedono la licenza elementare.
Questa è la situazione di un paese dove i suoi cittadini godono di un benessere materiale invidiabile dalla maggior parte dell’umanità. In questo caso l’analfabetismo non è un indicatore della povertà, anzi, sostiene Bidussa “L’analfabetismo non riguarda solo la miseria, riguarda anche l’idea che collettivamente associa l’istruzione all’utile sociale”. In altre parole non diamo la giusta importanza all’istruzione, alla formazione continua.
Un’altra prova di questa affermazione la si riscontra nel fatto che l’Italia, per quanto riguarda l’abbandono scolastico, la percentuale dei laureati e la formazione permanente, è decisamente indietro rispetto alla media della UE: è quanto emerge da un rapporto della Commissione Europea sui progressi compiuti nell’UE nel campo dell’istruzione e della formazione in base agli obiettivi fissati per il 2010.
Quindi i dati sull’analfabetismo vanno ripensati visto che non stiamo parlando di individui che non sanno leggere e scrivere ma di individui che sono incapaci di usare correttamente queste abilità. Si parla allora di analfabetismo funzionale. Chi è un analfabeta funzionale? È quella persona che pur con un titolo di studio non è in grado di scrivere in modo corretto un curriculum, che non riesce a compilare un documento amministrativo per via della difficoltà di comprensione di un testo (anche se breve).
Poter leggere e informarsi è un vero e proprio diritto ma, se un testo è incomprensibile, viene meno questo diritto. Per poter essere dei buoni cittadini ma anche per saper far fronte alle nuove richieste sociali, abbiamo bisogno che questo diritto venga rispettato. Oggigiorno l’amministrazione pubblica richiede delle competenze di lettura e scrittura enormemente superiori rispetto a soli 30 anni fa (lo spiega molto bene Emanuela Piemontese nell’intervista che le abbiamo fatto in questa rivista).
Ecco che, dopo quanto abbiamo detto, si capisce bene l’importanza della scrittura controllata, una scrittura che si adegua al livello del suo lettore.
La scrittura controllata, sia ben chiaro, non è un modo per ovviare alle lacune nell’istruzione e nella formazione in Italia ma deve essere solo una strategia per recuperare dei cittadini, per farli partecipare alla vita lavorativa e pubblica, per non perdere nessuno.

1. Semplicemente

La scrittura è una tecnologia, è cioè un “insieme di capacità da praticare e affinare con l’esperienza”. La scrittura non s’impara naturalmente, non si ha il dono innato della scrittura (semmai la predisposizione), ma la sua acquisizione è un processo lento e complesso (sempre di più visto il tipo di società in cui viviamo).
Scrivere in modo controllato significa porsi la domanda di chi sia il destinatario cui ci rivolgiamo, il suo grado di cultura, le sue difficoltà di comprensione; poi, nello stesso momento, chiarire cosa vogliamo dire e i nostri obiettivi nel farlo; infine dobbiamo prendere in considerazione il contesto in cui operiamo che comprende, fra le altre cose, anche lo strumento che utilizziamo per comunicare (periodico su carta oppure on line, audio oppure video).
Se dovessimo riscrivere la spiegazione di scrittura controllata utilizzando la stessa scrittura controllata, non potremmo certo produrre un testo così breve che dà per scontato molte conoscenze che il lettore dovrebbe possedere; no, sarebbe un testo molto diverso ma in questa monografia di “HP-Accaparlante” abbiamo utilizzato una scrittura più difficile dato che ci rivolgiamo a un certo pubblico.
Vi sono terminologie diverse per indicare il nostro tema; noi abbiamo usato per lo più il termine di “scrittura controllata”, ma le persone che abbiamo intervistato, soprattutto quelle non italiane, usano modi differenti; possiamo così incontrare altre espressioni che pongono più l’accento sull’atto della scrittura (plane writing, scrittura facilitata…) o sull’atto della lettura (materiale Easy to read – ETR), ma andando alla ricerca dei principi o delle linee guida che li regolano, troviamo alla fine che i punti fondamentali sono comuni e condivisi.
Ma perché scrivere un’intera monografia sulla scrittura controllata?
Dare la possibilità a tutte le persone di capire e interpretare il mondo che le circonda è un diritto da assicurare; questo diritto è la motivazione che ci ha spinto a scrivere questa indagine. E non stiamo parlando solo di persone con deficit intellettivi (anche se da loro e dalle relative associazioni provengono gran parte delle esperienze realizzate in Italia) ma di un numero ben maggiore di individui come gli immigrati che non conoscono la lingua del paese dove vivono, gli anziani che hanno maggiore difficoltà di comprensione del mondo che li circonda, i giovani usciti precocemente dai circuiti scolastici… Come vedremo nell’articolo successivo non si può dimenticare nessuno e non solo per motivi etici ma anche per motivi di un migliore sviluppo economico e civile delle società in cui viviamo.
La nota dolente che abbiamo riscontrato strada facendo nel nostro lavoro è che questa consapevolezza in Italia non c’è mai stata, nonostante l’autorevole esperienza portata avanti da Tullio De Mauro e Maria Emanuela Piemontese già negli anni ’80 all’interno dell’Università La Sapienza di Roma. Negli stessi anni analoghe esperienze si stavano sviluppando nell’area scandinava (in rete tra loro e con quella italiana) ma, a distanza di più di vent’anni, la realtà ci mostra (come vedremo negli interventi che troverete nella rivista) degli strumenti di informazione “facile” con cadenza settimanale, bisettimanale o addirittura quotidiana, estesi a livello nazionale e finanziati dai Ministeri in Norvegia, Svezia, Finlandia, Danimarca, mentre in Italia l’illustre esperienza si è conclusa nel 2006 per… mancanza di fondi!
Il lavoro che troverete nelle pagine successive è diviso in tre parti: nella prima sono riportate le esperienze italiane di scrittura controllata di natura molto differente; si va dai periodici informativi come “dueparole” e “Informazione Facile”, a progetti per la scrittura semplificata dei testi dei programmi politici europei, fino ad arrivare a un libro di storia “semplificato”. Abbiamo dedicato uno spazio di documentazione nella seconda parte, dove troverete delle pagine tratte dalle riviste “dueparole” e “Informazione Facile”; le abbiamo volute riprodurre fedelmente come esempio di scrittura controllata che passa non solo attraverso l’uso delle parole e delle frasi ma anche l’uso oculato dei font, degli spazi bianchi, della grafica in generale.
Nella terza parte invece abbiamo raccolto le esperienze di periodici di informazione ETR in Finlandia, Svezia, Danimarca, Belgio e Inghilterra.
Dal punto di vista metodologico abbiamo intervistato – in Italia – direttamente le persone (in tre casi abbiamo realizzato delle interviste video che saranno utilizzate per la realizzazione di un e-book), oppure tramite il telefono o via e-mail. Per quanto riguarda le esperienze estere, le interviste sono state fatte tramite telefono o via e-mail.
Infine una piccola nota sul “bello scrivere”, la scrittura letteraria e la scrittura controllata. Spesso ritorna una domanda quando si tratta di questo tema: ma che tipo di scrittura avremo alla fine, non sarà troppo scialba, monotona e poco interessante? Dove vanno a finire le infinite e quasi magiche possibilità che può offrire la scrittura letteraria?
Soprattutto in Italia una domanda come questa ricorre, visto che siamo un paese dove la scrittura di tipo letterario ha influenzato un ambito, quello giornalistico, che per antonomasia dovrebbe invece utilizzare una scrittura di tipo funzionale (all’informare), ovvero una scrittura semplice, chiara e sintetica. Andando a leggere certi editoriali scritti dai direttori dei maggiori quotidiani nazionali, vi accorgerete che i lettori che riescono a comprendere questi pezzi così elaborati e che comportano continue inferenze sono una piccola percentuale degli italiani (il 10%?).
Oltre al consiglio che i giornalisti dovrebbero pensare ai loro lettori non solo in termini di notizie che li possono interessare ma anche in termini di chiarezza e semplicità nell’esposizione, la risposta alla domanda sopra posta è che… ci stanno tutte e due le modalità di scrittura! Dobbiamo e possiamo pensare a lettori diversi, strati di lettori con un patrimonio culturale diverso. In un certo senso ogni tipo di scrittura dovrebbe essere controllata, nel senso che si deve pensare a chi si scrive, alle sue capacità di comprensione. In questo modo ci sarà spazio per il lettore esperto e aggiornato così come per quelle persone, tante, che sono escluse perché comprendono solo una scrittura facile da leggere e che perdono in questo modo dei diritti e delle possibilità: a loro abbiamo pensato scrivendo questa monografia.
E la scrittura letteraria che posto ha? Ce l’ha, ce l’ha ancora nella nostra società, come strumento importante di conoscenza; leggete questa frase di Winfried Georg Sebald (Austerlitz), composta da 98 parole (nella scrittura controllata se ne consigliano dalle 15 alle 24) e  ditemi se non è… bella!
“A mio giudizio, disse Austerlitz, noi non comprendiamo le leggi che regolano il ritorno del passato, e tuttavia ho sempre più l’impressione che il tempo non esista affatto, ma esistano soltanto spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda della loro disposizione d’animo, e quanto più ci penso, tanto più mi sembra che noi, noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti l’aspetto di esseri irreali e visibili solo in particolari condizioni atmosferiche e di luce”. 

L’ausilio giusto è intorno a te

Ci sono risultati che, quando raggiunti, danno grandi soddisfazioni perché sono il riconoscimento di un percorso voluto e perseguito con impegno.
Ecco, scrivere per “HP-Accaparlante”, per me, è uno di quei risultati.
Due parole per presentarmi. Mi chiamo Tatiana Vitali, sono laureata in Scienze dell’educazione e ho fatto un master universitario proposto dalla facoltà di Scienze della formazione dal titolo “Tecnologie per la qualità della vita”. Lavoro attualmente al “Progetto Calamaio” all’interno della cooperativa “Accaparlante” in qualità di animatrice disabile, da ormai sette anni. Ho una paralisi cerebrale infantile con la conseguenza di una tetraparesi spastica. Ho difficoltà di linguaggio e sono ipovedente.
Era una mattina di novembre, quando i miei colleghi mi hanno proposto di curare una rubrica per “HP-Accaparlante” sugli ausili, mio grande interesse sia per studio che per necessità personale. Decido che il tema verrà trattato da un punto di vista generale, cercando di offrire spunti di riflessione sul significato, il valore e la varietà degli ausili. Essendo gli ausili i nostri inseparabili compagni di vita, inizierò partendo da esperienze quotidiane, intervistando persone con disabilità per comprendere come tali strumenti possano migliorare la qualità della vita, cioè in che modo rispondano al loro obiettivo primario. Quale posto migliore, da cui partire, se non il Centro Documentazione Handicap e i miei colleghi animatori.
Proviamo, come prima cosa, a definire cos’è un ausilio. In sintesi, si tratta di uno strumento che ci permette di ridurre l’handicap. Gli ausili poveri o creativi sono semplici oggetti creati e modificati con materiali di uso quotidiano. Gli ausili tecnologici sono invece strumenti realizzati utilizzando alta tecnologia, come suggerisce il nome stesso.
Ma passiamo ai fatti, alle esperienze dirette che testimoniano l’influenza positiva (o meno) degli ausili sulle nostre vite.

Stefania, una storia di ausili
“Gli ausili che ho utilizzato per la mobilità sono il passeggino, la carrozzina elettrica e la bicicletta modello triciclo, con le ruote laterali molto grandi. Da adulta invece sono passata alla carrozzina normale a spinta con cui mi muovo tutt’ora.
Negli anni Ottanta, all’età di 11 anni, sono stata sottoposta a un intervento chirurgico alle gambe, una volta tolti i gessi, ho cominciato a usare durante la notte un paio di tutori con il piede per poi passare a un deambulatore rettangolare, un ausilio povero ma estremamente comodo. Si tratta di un grande rettangolo con un’asta divisoria tra le gambe e un sedile imbottito in gomma piuma, che mi permetteva di mettermi comodamente a sedere in completa autonomia senza dover chiedere aiuto a mio padre. Questo ausilio infatti era atto a mantenere l’equilibrio perduto durante l’intervento chirurgico così da recuperare le forze, il coordinamento nonché l’equilibrio corporeo.
Oggi, uso in modo continuativo la carrozzina manuale, il busto, la sedia comoda e il sollevatore a bandiera per la mobilità, legata cioè agli spostamenti e alle azioni quotidiane della giornata, dal vestirmi all’andare in bagno e a letto.
Al lavoro in sede, invece, usufruisco di ausili tecnologici tra cui il computer con tastierino numerico laterale con accesso facilitato (al posto del mouse) mentre come periferica uso una semplice chiavetta usb, un altrettanto semplice disco esterno per salvare tutti i miei documenti e una stampante. Quando invece partecipo ai convegni esterni porto sempre con me un mini registratore, così da non perdere nulla”.
La storia di Stefania mostra come gli ausili accompagnino ogni tappa della vita di una persona. Siano essi quelli poveri oppure quelli tecnologici, che aiutino nella mobilità oppure nella cura personale, che permettano di lavorare oppure trascorrere un piacevole tempo libero, ciò non importa.
Quello che è fondamentale è che l’utilità di un ausilio è data dalla concordanza tra la sua funzione e i bisogni specifici della persona. Tale concordanza si può raggiungere solo attraverso un percorso di conoscenza che permetta di andare oltre la disabilità, non valutando la persona solo per il proprio deficit ma vendendola nella globalità delle sue funzioni, possibilità, desideri, sogni.

Mattias usa gli ausili?
“La mia disabilità è interamente acquisita a seguito di un incidente avvenuto nel maggio del 2001, a cui è seguito un coma irreversibile della durata di sei mesi. Sulle conseguenze di questo mio avvenimento imprevisto è sorta la mia entrata nel mondo degli ausili in quanto, per un certo periodo, ho avuto come inseparabile (mi ha addirittura chiesto la mano!) compagna di vita una carrozzina.
Ora la mia disabilità si è stabilizzata e grazie a tante giornate trascorse in spiaggia e a tanta riabilitazione, cammino in modo autonomo e non necessito più della carrozzina. Permangono una certa scompostezza nella mia andatura, un leggero deficit nel linguaggio e uno visivo, nel senso che ora uso gli occhiali, un comodissimo ausilio povero. I miei occhiali mi consentono di avere una vista nitida anche durante la visione di un film, altrimenti impossibile. Con questo ausilio mi trovo bene anche perché lo trovo fine ed elegante, il che asseconda il mio desidero di darmi un tono e distinguermi dagli altri.
Un altro ausilio che è entrato (a dir la verità ha trovato l’uscio spalancato, perché ero e sono un gran svampito!) nella mia vita è stata l’agenda per gli appuntamenti, grazie alla quale non manco più (quasi) nessun impegno, e riesco a organizzare e pianificare  maggiormente ogni appuntamento”.
Si possono chiamare ausili quelli che usa Mattias?
Certo, se l’ausilio è uno strumento che aiuta, migliorando la vita di una persona, allora anche un’agenda o gli occhiali, possono essere definiti ausili. Questa affermazione corre il rischio di portare a pensare che tutti gli oggetti siano ausili. Ciò però non è esatto. Si considera ausilio, infatti, l’oggetto che entra in relazione con il deficit. Possiamo concludere, allora, che non tutti gli oggetti sono ausili ma tutti gli oggetti possono diventarlo. La differenza la fa la nostra capacità di andare oltre e con un po’ di fantasia non attendere dall’alto ausili che risolvano i problemi, ma risolvere i problemi trovando l’ausilio giusto intorno a te.
Il mio contributo finisce qui, è il primo di una serie attraverso cui desidero offrirvi una panoramica, non scontata, sul mondo degli ausili, raccontando esperienze, personali e non che permettano un approfondimento su un tema ancora poco conosciuto.

A ritmo di Afroeira…

Da un’intervista a Elena Rasia, giovane percussionista bolognese di 21 anni, che fa parte del gruppo “Afroeira”.

“Per me la musica è davvero tutto. Quando suono e quando ascolto musica, fin dalla mia infanzia, sono felice. Suonare mi dà energia e quando suoniamo per un pubblico ancora di più.
Amo la musica in tutti i sensi, quando ho un po’ di tempo libero vado ai concerti di qualsiasi genere, perché secondo me la musica è musica. Dipende poi se piace o no certo, ma può essere bella una canzone degli anni ‘70 anche per un giovane di 20 anni come me! In casa, la radio accesa o i cd non mancano mai!
Questa mia passione mi ha spinto, all’età di sei anni, ad avvicinarmi a uno strumento: il pianoforte; tuttavia non è andata tanto bene, perché avevo difficoltà a utilizzare le mani sulla tastiera.
Secondo me suonavo bene anche con un dito solo, seguendo gli spartiti, ma per i miei insegnanti il pianoforte non si doveva suonare in quel modo e non mi sentivo incoraggiata per niente.
Ho fatto anche un saggio, ma subito dopo ho abbandonato lo strumento.
Ma la mia vera passione fin da piccolissima sono state le percussioni, per cui alle scuole medie ho iniziato a fare lezioni di batteria. Ho continuato per quattro anni, anche se mi sono sentita spesso prendere in giro, forse perché è raro vedere una batterista in carrozzina; tuttavia visto che molti batteristi, che mi avevano sentito, mi hanno sempre detto che ho il ritmo “dentro” ho continuato… Avrei continuato comunque nonostante tutto!
Abbiamo studiato un modo, anche con le mie educatrici, per mettere ogni strumento della batteria nella posizione migliore per le mie braccia, perché appena ho iniziato a suonare, ho riscontrato difficoltà ad allungarmi. Abbiamo cercato inoltre il modo per incastrare il tutto, lasciando lo spazio necessario per la carrozzina, perché di solito i batteristi usano uno sgabello piccolissimo e senza schienale. La cassa è stato l’altro grosso problema quindi, appena iniziato col mio primo maestro, si è scelto di lasciarla da parte. I due anni successivi, cambiando maestro, sono stati i migliori per me; sono andata avanti molto velocemente, migliorando giorno dopo giorno sempre di più, riuscendo a fare stacchi, ritmi e assoli. Il maestro, quando serviva, suonava la cassa per me col doppio pedale.
Se si parla di diversità riguardo alla musica, per me la diversità non esiste! La musica riesce sempre a darmi felicità. È riuscita a farlo anche quando un insegnante di batteria di una scuola, nella quale ero andata a chiedere informazioni per iniziare un corso, non mi ha nemmeno fatto prendere in mano le bacchette, mi ha solo detto: ‘io non insegno a persone come voi’.
Quando ho deciso di intraprendere questo percorso musicale le persone a me vicine mi hanno sempre incoraggiata, sono riuscita a superare le difficoltà perché la mia famiglia mi ha sempre sostenuta; un grazie lo devo anche al mio maestro di batteria e, ovviamente, al mio gruppo.
Ecco… non vi ho ancora parlato del gruppo musicale di cui faccio parte ora…
Da luglio 2012 sono entrata in “Afroeira” sotto la direzione artistica e didattica del “mestre” Paolo Caruso, lì ho iniziato a suonare l’agogò, uno strumento a percussione della famiglia degli idiofoni, originario della Nigeria e successivamente diffusosi in Brasile. È formato da due o più campane di ferro senza batacchio di dimensioni conico allungate e grandezze diverse, unite alla base da una connessione che funge anche da impugnatura. Lo si suona reggendolo in mano (per attutire le vibrazioni) e percuotendolo con il lato di una bacchetta in legno o in ferro alla ricerca dei punti di migliore sonorità. Adesso lo sento proprio il mio strumento trovandomi benissimo. Ogni lunedì provo col mio gruppo divertendomi tantissimo!
Quando mi esibisco con “Afroeira” sento che il pubblico si lascia travolgere e si diverte tanto! Io suono da sempre per passione ma il mio sogno sarebbe fare della musica una professione”.

Paolo Caruso, il “mestre”
Inizia a studiare da autodidatta ritmi e strumenti a percussione dell’area Afro-Cubana e Brasiliana. Frequenta i corsi specializzati della Drummers Collective di New York, studiando con insegnanti quali Frankie Malabe (Peter Erskine group) e Cyro Baptista (David Byrne, Paul Simon). Entra a far parte della band del cantautore Luca Carboni, con il quale effettua diverse tournée in Italia e all’estero. Partecipa alla realizzazione delle musiche sullo spot “I giovani e le discoteche” trasmesso su Videomusic e Raitre. Partecipa al “Festival del Ritmo e delle Percussioni” esibendosi insieme ai batteristi Daniele Tedeschi (Vasco Rossi) e Walter Calloni (Lucio Battisti, PFM). Con il gruppo “Cantodiscanto” risulta tra i vincitori del Premio Recanati delle Nuove Tendenze delle Musica d’autore nel 1994, trasmesso su Rai Due.
Si esibisce e collabora con: il cantante Willy DeVille, il gruppo inglese Urban Cookies Collective, Frontera, Funky Company, Sambahia, Mario Lavezzi, Stadio, Daniele Fossati, Gang, Alberto Solfrini, Nomadi, Paolo Rossi, Tosca, Vinicio Capossela, Vinx, Airto Moreira, Bob Moses, tournée teatrale “Kiss me Jesus” con Andrea Roncato, Samuele Bersani, Bruno Lauzi, Kikkombo Group, Mietta, Neffa, Spagna, Ridillo, Gianni Morandi, Eumir Deodato, Iskra Menarini, Arthur Maia, Marivaldo Paim, Guinga, Liron Mann.
È stato finalista al concorso internazionale sulle percussioni “Perc Fest 2000” insieme a Roberto Rossi, con il quale, unitamente a Felice Del Gaudio, ha pubblicato un metodo edito dalla BMG Ricordi: “La Sezione Ritmica Brasiliana” (comprensivo di cd).
Dal 1997 dirige e coordina l’Accademia Do Ritmo Afroeira.

“Afroeira”: la scuola, gli spettacoli, le parate
Accademia do Ritmo Afroeira nasce nel 1997 a Bologna grazie all’impegno del percussionista Paolo Caruso, appassionato ed esperto conoscitore dei ritmi afro-latinoamericani.
Le famose “scuole di samba” brasiliane, che sfilano per le strade suonando e ballando, sono formate da centinaia di percussionisti e ballerini che praticano tutto l’anno quest’attività, rendendola unica al mondo; Afroeira si propone, nonostante le differenti caratteristiche culturali, di ricrearne l’atmosfera e il festoso approccio alla musica.
I percussionisti si incontrano ogni settimana per dar voce alla prima grande Accademia del Ritmo afro latino americano di Bologna, suonando insieme i ritmi della tradizione brasiliana, africana e cubana.
Chiunque abbia voglia può partecipare agli incontri, dove troverà a disposizione una serie di strumenti quali surdo, rullante, tamborim, agogò, chocalho, cowbell, caixa, cuica, djembè, repique, reco-reco, pandeiro, ganzà e apito, quest’ultimo è un semplice fischietto, ma se il maestro e i direttori di “bateria” non l’avessero il Carnevale non inizierebbe!
Gli spettacoli di Afroeira si svolgono in due modalità, “le parate di strada” dove i percussionisti e il direttore sfilano, senza necessità di amplificazione, creando uno spettacolo itinerante dal coinvolgimento assicurato, e gli “spettacoli sul palco” dove i musicisti presentano i brani contenuti nei 2 dischi finora realizzati dal gruppo, composizioni originali e rivisitazioni di ritmi e canti tradizionali afro-brasiliani.
Dalla sua fondazione, Afroeira si è esibita in oltre 250 concerti in Italia e in Europa, in occasioni quali il Carnevale di Venezia, il Carnevale di Cento, quello Ambrosiano di Milano, il grande Karnaval der Kulturen di Berlino, il Festival Samba réPercussion di Monleon Magnoac, il Festival Sentieri Acustici-Itinerari Musicali e il Festival Internazionale Muntagninjazz; ha suonato in locali importanti tra cui il Barfly di Ancona, l’Estragon di Bologna e il Bandiera Gialla di Rimini; ha partecipato a eventi come il Gran Premio di San Marino di Formula 1, il Motor Show di Bologna e il World Ducati Week 2012: il più grande Raduno Mondiale Ducati; ha preso parte alla trasmissione di Rai 1 “Italia che Vai”; ha avuto occasione di esibirsi in concerto con Gianni Morandi, di partecipare al Percussionistica World Rhythm Festival, al Festival Latinoamericando di Milano (Expo 2007 e 2009); e poi ha animato feste di piazza, convegni, carnevali, festival, spettacoli in teatri, discoteche… affermandosi come una delle migliori scuole di samba italiane.
Il gruppo ha realizzato e prodotto due dischi: Afroeira Live (2003) e Tambores (2007)

Per saperne di più:
info@afroeira.com 

Amalia e basta. Storia di una persona comune

Questa è la storia di Amalia, una trentenne come tante, laureata in Storia dell’arte e hostess all’interno di un museo. Questa è la storia di Amalia, una ragazza piena di amici dalle molteplici storie. Questa è la storia di Amalia, quella di cui si è innamorato Luca e che, mannaggia, non era previsto. Questa è la storia di Amalia, nata sorda.
Amalia e basta/Primo Studio è un monologo a più voci, lucido e drammaturgicamente densissimo che esplora con ironia e delicatezza la condizione dell’ipoacusia. Lo spettacolo, fortemente acclamato dal pubblico e segnalato dalla critica, si è aggiudicato, tra gli altri, il primo premio Monologhi “Sipario-Autori Italiani-2012”, il primo premio Testo Teatrale “InediTO-Colline Torino-2012” e il secondo premio del concorso nazionale di drammaturgia “Teatro e disabilità-2011”.
Ne abbiamo parlato con l’attrice, autrice e regista Silvia Zoffoli.
La sordità è una delle cosiddette “disabilità invisibili”, poco frequentata sulla scena se non in termini di linguaggio e di fruizione accessibili. Ma ad Amalia non basta. Amalia è una che si impunta. Amalia si alza dalla sua comoda poltrona, sale sul palco e si fa protagonista…
Sì, solitamente tematiche come la sordità sono messe in scena in termini di linguaggio e fruizione accessibili, ma io non sono un’esperta di teatro “per sordi” e, del resto, trovo interessante proprio poter portare questa tematica al di fuori di un pubblico di settore, facendola conoscere a tutti.
Amalia, è vero, racconta di una disabilità invisibile, ma non lo fa con ostentazione o arroganza, semplicemente lei è sorda. Fa i conti con la propria fragilità e in questo rappresenta l’archetipo di quel percorso di accettazione di sé con il quale tutti noi, prima o poi, ci confrontiamo: è forse anche questo a rendercela più vicina umanamente. Il pubblico si ritrova a scoprire quest’altro punto di vista sul mondo e sulla disabilità, pian piano pensando, vivendo, e sentendo come Amalia.

Che cosa ti ha spinto ad affrontare un tema come questo?
Il motivo di sempre: “l’urgenza” di mettere in scena qualcosa che ritengo stimolante raccontare e far conoscere.

Con chi ti sei confrontata durante il tuo percorso di ricerca?
Anch’io sono partita dal pregiudizio per cui credevo che i sordi fossero sordomuti, anch’io non sapevo che la sordità ha varie sfumature e che è una realtà molto complessa (ci sono, ad esempio, figli udenti di genitori sordi, coppie bilingue, sordità di vario grado e tipo, condizioni sociali e culturali che influiscono sul percorso di apprendimento, ecc.).
La mia ricerca, invece, è continuata ed è stata lunga e approfondita. Soprattutto prima di scrivere il testo mi sono documentata moltissimo, citare tutte le fonti sarebbe davvero difficile… Ho incontrato, parlato o anche solo scambiato mail con persone direttamente e indirettamente legate alla sordità. Il bello dello spettacolo è stato proprio questo, il percorso, è stata un’esperienza umana che mi ha arricchita profondamente soprattutto a livello personale.
Ad un certo punto, quando mi sono sentita “satura” e ho avuto la sensazione di avere tutti gli elementi per poter creare il mio personaggio, è nata Amalia, il testo. La ricerca, poi,  è continuata anche dopo la fase di scrittura, soprattutto per cercare di entrare a fondo nella psicologia di una persona sorda come Amalia e nel capire come interpretarla in scena, il più possibile con rispetto e delicatezza.
Sicuramente importanti sono stati gli incontri con Martina Gerosa, un architetto e donna straordinaria che mi ha suggerito una ricca bibliografia in merito, con la psicologa Enrica Repaci che ha creato un sito internet molto interessante chiamato “Arcipelago sordità”, con la dott.ssa Federica Morgantini e il dott. Roberto Lupo, che mi hanno fatto conoscere da vicino la parte più strettamente “clinica”, con Giulia Cicchetti per la lingua dei segni, e moltissime altre persone. È stato anche divertente vedere come, per una serie di coincidenze, poi tutto fosse collegato, anche gli incontri più casuali, in una sorta di “domino umano” davvero curioso.

Perché la pittura e l’arte in genere sono tanto importanti per Amalia?
Fra i tanti libri che ho incontrato durante il mio percorso di ricerca c’è stato Il pianista che ascolta con le dita (Ed. Archivio Dedalus), scritto da Paola Magi, in cui si parla del rapporto fra le arti e le disabilità sensoriali e nel quale viene raccontata l’esperienza di Daniele Gambini, con il quale mi sono poi confrontata direttamente sul rapporto tra sordità e musica, un binomio molto interessante da conoscere ma che, in realtà, non ho mai pensato di rendere centrale nel mio testo.
Non volevo che Amalia fosse un’artista, ma una persona comune e inoltre si stava facendo strada il desiderio di raccontare una storia positiva: una persona sorda che riesce a laurearsi, cosa che nell’immaginario collettivo sembra quasi impossibile. Nel frattempo mi sono resa conto che molte persone con questo tipo di disabilità sensoriale hanno una componente visiva decisamente sviluppata, sono attenti osservatori: quindi l’arte poteva essere un buono spunto.
Come solitamente faccio da quando ho intrapreso una strada “autoriale” (il mio precedente spettacolo è stato sull’amicizia fra Hannah Arendt e Mary McCarthy), ho scritto il testo già pensando di metterlo in scena (talvolta scrivo addirittura recitando) e poi c’era l’idea di lavorare con Leonardo Carrano alle scenografie: questo è stato un ulteriore elemento a favore della scelta della pittura come interesse privilegiato di Amalia. In seguito, meditando sulla regia, mi è venuto in mente di giocare su un mondo colorato e, in particolare, sui colori primari e sulla combinazione fra essi ed è stato poi quello il file rouge con il quale abbiamo lavorato con Leonardo alle scene e anche poi alle luci con Marco Maione.

Come hai lavorato, al momento della messinscena, dal punto di vista sensoriale?
Non lo so… Diciamo che io ci ho provato a modo mio. Scrivere il testo, farne la regia e interpretarlo significa vivere una storia fino in fondo, cucirsela addosso e, al tempo stesso, metterci tutta me stessa: un vero e proprio parto… Mi sono completamente donata, ho usato tutto di me, la camminata, i gesti, perfino i capelli, tutto il mio corpo… per mettermi completamente a disposizione del personaggio e dello spettacolo. Ho lavorato per mesi, varie ore al giorno da sola con la mia Amalia, io e lei: è stato un percorso molto intenso.

Amalia ha ricevuto molti riconoscimenti. Quali sono state le reazioni dei più diretti interessati?
Sì il testo ha ricevuto bellissimi riconoscimenti perché provenienti da giurie sia di addetti ai lavori della disabilità, sia della drammaturgia, oltre che da giurie popolari in certe fasi di selezione di alcuni premi. Tuttavia, la soddisfazione più grande è stata nell’incontro con il pubblico: non avrei mai immaginato una risposta così calorosa e i bellissimi commenti sulla pagina Facebook dello spettacolo. Le persone che non conoscevano questa tematica hanno apprezzato lo spettacolo, molti mi hanno detto di essersi sentiti “acculturati”, perché hanno imparato qualcosa in più che prima ignoravano. Mi ha poi stupito che alcuni siano venuti, in qualche modo, “allo scoperto”, raccontandomi che hanno un parente o un amico con questa disabilità sensoriale, segno che è molto più diffusa di quanto si possa immaginare e forse taciuta per un tabù difficile a credersi in un’epoca in cui molti altri sono decaduti. Ovviamente temevo la reazione delle persone sorde, perché riuscire a “rappresentarle” era una grande responsabilità, invece è stato bellissimo trovarle ad aspettarmi a fine replica con gli occhi pieni di emozione e con parole di ringraziamento. Amalia mi ha già donato tantissimo: in fondo faccio teatro perché mi interessa “arrivare” alla gente.

Cosa ci attende nel prossimo studio?
Ritengo che in un testo come questo ci siano ancora infiniti spunti di approfondimento. Un personaggio come Amalia è decisamente complesso da affrontare sia per la tematica trattata, sia per i diversi piani narrativi e temporali della storia: c’è il tempo del presente, della sala del museo, quello del passato, c’è l’Amalia adolescente, c’è l’Amalia che ricorda, c’è un’ora in scena da sola calibrando energie fisiche ed emotive, lavorando su percezione di sé (la voce interiore di Amalia)-percezione rispetto agli altri (la voce per così dire “da sorda”) e impersonando anche tutte le altre voci-personaggi della storia. In futuro mi piacerebbe lavorare più a fondo su alcune sfumature della protagonista e alcuni passaggi del testo. Inoltre ritengo che il modo migliore per far crescere uno spettacolo sia fondamentalmente “farlo”, perché un giorno di replica molto spesso vale più di molti giorni di prove: il teatro è sempre dialogo con un pubblico, anche quando è un monologo.

Per informazioni:
Associazione Culturale “Falesia Attiva”
cell. 327/873.44.15
falesiattiva@gmail.com
www.facebook.com/amaliaebasta