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Autore: Nicola Rabbi

Il clic che ti cambia la vita: la storia di Juri e Simona

di Juri Roverato e Simona Torelli, danzatori e insegnanti

“A volte un clic ti può cambiare radicalmente la vita”: questa può sembrare una frase banale e può sembrare un vero e proprio spot, in verità è letteralmente ciò che è successo ai protagonisti di questa storia.
Dopo essersi conosciuti casualmente su un Social Network, si sono conosciuti di persona, si sono piaciuti e, dopo alcune traversie, hanno deciso di crescere e collaborare insieme.
Pur proveniente da un mondo assolutamente diverso da quello di Juri, Simona, che fino a poco tempo fa faceva la benzinaia, è stata calamitata dalla stranezza e dalla poca affidabilità del mondo artistico, di cui faceva parte Juri, e si è buttata senza paracadute in un’avventura che, due anni dopo, si sta rivelando un’avventura da favola. Juri, danzatore e insegnante di Danceability, affetto da tetraparesi spastica, sempre svolazzante e sempre alla ricerca di altro, ha trovato in Simona un punto di riferimento concreto. In questo modo le sue energie sono state canalizzate e direzionate, senza disperderle più in mille progetti di cui se ne concretizzavano due, tre all’anno, sciupando spesso o almeno non sfruttando al massimo un’innata dote artistica e d’insegnamento.
Prima hanno iniziato a collaborare in punta di piedi, Simona organizzava e Juri teneva i corsi, poi piano piano si sono piaciuti, hanno provato a danzare insieme e anche a insegnare insieme. Simona sta scoprendo una dote naturale di vedere come vanno le cose e di avere delle idee geniali per migliorare le situazioni; Juri, proprio grazie a questo, ha la possibilità di prendere su di sé tutto il lavoro, sapendo che la parte organizzativa e i dettagli sono curati da una persona di cui si fida.
L’esperienza con Juri non manca, dopo 13 anni trascorsi in innumerevoli gruppi, situazioni di tutti i tipi e una buona esperienza anche a livello internazionale o con personaggi noti; la passione che contraddistingue le persone che hanno appena iniziato non viene meno con Simona che si vuole mettere in gioco ovunque e dà costante alimento alla scommessa di entrambi. Una fusione di competenze che porta a una completezza sinergica su molti aspetti tecnico-lavorativi.
La grande passione messa da Simona e il ruolo “anomalo” di Juri, visto che i luoghi comuni fanno pensare quasi sempre che una persona con disabilità sia un peso e non una risorsa sociale, fanno sì che ci sia quanto meno curiosità attorno a loro due, in particolare in Emilia, dove tale tecnica e tipo di lavoro non è conosciuto. Loro due, in ogni caso, non disdegnano nemmeno alcun contatto esterno e sperano di poter diffondere il loro lavoro praticamente ovunque sia possibile.
Fondamentalmente ciò che colpisce tutti sono le emozioni che vengono trasmesse, sia quando li si vede danzare sia quando si va ai loro corsi, corsi che coinvolgono dai bambini agli adulti di ogni età, perché tutti abbiamo un corpo e tutti possono emozionare ed emozionarsi, se ci si mette realmente in gioco.
Di per sé, la Danceability è una tecnica di danza che permette a persone abili e disabili d’incontrarsi per danzare insieme, trovando un linguaggio comune che possa far incontrare le persone, dando la possibilità a tutti di esprimere, attraverso il corpo che si ha a disposizione, qualsiasi esso sia, le emozioni che si hanno. Non è assolutamente una terapia, ma soltanto un percorso artistico accessibile a tutti.
Juri, anche grazie agli stimoli datigli dall’incontro con Simona e per tutto ciò che hanno vissuto insieme, ha il desiderio di andare oltre e di essere accompagnato in questo grosso passaggio proprio da Simona. Pur non disdegnandoli assolutamente, non bastano più i percorsi artistici: c’è un enorme desiderio di andare oltre, utilizzando le competenze di danza di Juri e la naturale conoscenza che ha di come funziona un corpo “disabile” per utilizzare la Danceability come strumento che possa avere un risvolto medico. Il desiderio è di dare alle persone disabili più o meno gravi e alla persone che lavorano con loro una nuova conoscenza di un corpo affetto da disabilità e dare magari degli strumenti per usarlo in modo diverso.
Grazie allo studio che Juri ha fatto quotidianamente su di sé da quando ha avuto la consapevolezza del proprio corpo e della propria situazione e grazie alle ricerche e agli studi scientifici che ha fatto, cerca di rispondere anche ai problemi degli altri. La cosa, quindi, non è assolutamente improvvisata, ma ha un substrato solido, dato che sono anni che Juri propone e tiene questo tipo di corsi; la cosa nuova è che ora sono in due e hanno finalmente la possibilità di documentare i loro percorsi. Braccio e mente che si interscambiano continuamente, dando a tutti risposte anche scientifiche, senza tralasciare l’aspetto di umanità e di divertimento che caratterizza e caratterizzerà per sempre il loro lavoro.
Propongono inoltre dei percorsi nelle scuole e nelle strutture dove ci sono persone disabili, nel tentativo di dire che attraverso il corpo si possono fare esperienze meravigliose, perché il corpo, qualsiasi esso sia e qualunque movimento o non movimento abbia, è comunque ciò che ci tiene in contatto con l’esterno e ci permette di sperimentare ciò che accomuna noi tutti: l’avventura della vita.
In Emilia stanno collaborando con una neonata associazione culturale di Rubiera, l’associazione Per Mano, con un progetto innovativo dal nome “Danziamo insieme”, in cui tutti hanno la possibilità di mettersi in gioco e di comunicare attraverso il proprio corpo.
L’idea di Simona e Juri è di rendere la loro immensa passione una professione, ma con l’obiettivo di anteporre a tutto la qualità di vita di tutte le persone. Consapevoli che troppo spesso non basta vivere, ma serve vivere bene, puntano a dare qualità a tutto ciò che fanno, hanno l’obiettivo di dare emozioni a chi frequenta i loro corsi o vede le loro performance o spettacoli. Il loro messaggio si pone l’ambizioso obiettivo di arrivare a tutti, anche a chi viene spesso escluso dalla società per i motivi più diversi. Non è una missione, ma solo un modo di vivere, talmente interiorizzato da Simona e Juri che sarebbero loro stessi sorpresi a non fare proprio questo.
Cavalca quest’onda anche il loro primo spettacolo “Alovaf, favola al contrario”, spettacolo per bambini con una morale da adulti, di cui trovate un promo su Youtube: www.youtube.com/watch?v=gyNRXu3lRVQ. Le vere favole sono date dalla vita vera, quella che ha problemi quotidiani e che ogni giorno deve risolverli per andare avanti; la vera crescita non si ha mai con una vita serena e senza problemi, ma solo con una vita che abbia difficoltà quotidiane vere che richiedono ai protagonisti della propria vita il fatto di mettersi completamente in gioco per risolverle e vivere una vita reale.
Ed è un po’ questa l’intera storia di Simona e Juri: magari al contrario, magari veramente strana, magari distorta, ma un incontro e una vita veramente da favola.

Per contatti:
juri_roverato@yahoo.it
simonatorelli75@gmail.com
cell. di Simona: 342/326.83.63§
blog: http://juriroverato.blogspot.com/

L’albero della sfida

Una notizia che ha attirato di recente la mia attenzione riporta il fatto che a Bologna è stata sperimentata l’arrampicata sugli alberi per ragazzini con disabilità. Sul momento, mi ha fatto molto sorridere l’immagine di questi ragazzi disabili sugli alberi, visto che Darwin ha fatto… scendere l’uomo dall’albero giusto un secolo e mezzo fa. E noi, che siamo ben strani, abbiamo ora l’ambizione di risalire sugli alberi! Poi ho pensato che sì, Darwin era proprio quello che parlava di selezione naturale. Due anni fa un insegnante di conservatorio scrisse su Facebook che era necessario il ritorno alla Rupe Tarpea, essendo venuta meno la selezione naturale per i disabili, cosa che aveva, a suo avviso, portato a un netto decadimento della specie. Nello stato di natura, effettivamente, le persone con qualche deficit non sarebbero sopravvissute. Ma l’uomo, appunto, si è evoluto. La cultura è stata in grado di fargli superare gli ostacoli che una natura inevitabilmente fallace aveva posto. Pensate a tutti quelli che, considerati veri geni, secondo questo criterio avrebbero dovuto, invece, essere gettati dalla rupe. Si pensi a Stephen Hawking, il fisico, matematico e cosmologo britannico che è riuscito a spiegare al mondo l’esistenza dei buchi neri dalla sua carrozzina high tech. Si pensi a Beethoven, Ray Charles, Van Gogh, Frida Kahlo, allo stesso Einstein o ai tantissimi personaggi famosi che presentano evidenti tratti autistici, per esempio. Ognuno di questi “grandi” aveva la propria disabilità ma ognuno, nel suo campo, è stato geniale e insostituibile. Riflettete sulla possibilità che tutti costoro fossero stati “geneticamente selezionati” e scartati perché imperfetti, oppure che fossero stati gettati, in fasce, dalla Rupe Tarpea. Allora sì che, senza di loro, l’umanità si troverebbe “al buio”, privata di questa ricchezza e del progresso nella scienza e nelle arti di cui tante persone con deficit sono state fautrici. Tutto ciò accade perché la “cultura” ha la capacità di superare la “natura”. Una carrozzina è uno strumento semplicissimo. Ormai, è banale pensare che un’invenzione così elementare abbia fatto superare le difficoltà motorie a tante persone con handicap. Certo, nella savana non sarebbe facile sfuggire al leone seduti su una carrozzina. Ma, fortunatamente, nella savana ci stanno le gazzelle e non i disabili. Ho letto su una rivista scientifica che la selezione degli embrioni dovrebbe essere un diritto di ogni genitore. Si tratta di selezione innaturale, più che di selezione naturale. Avere un figlio sano non può essere un diritto. Il diritto del malato è curarsi, accedere alla sanità migliore, usufruire dei progressi in campo medico-scientifico, ma non il fatto di essere sano in sé. Anche perché, spesso, il deficit non è una malattia, bensì una caratteristica. Dunque, non c’è principio, a mio avviso, in nome del quale sacrificare un’esistenza come la mia in virtù di una perfezione fisica apparente, che può comunque precludere alla malattia, del corpo ma anche dello spirito. A coniare il termine eugenetica fu Galton, cugino e allievo di Darwin. Il figlio di quest’ultimo addirittura, che succedette al padre e a Galton, avanzò la proposta di impedire con la forza alle persone geneticamente “deboli” di procreare. Inutile dilungarci su quello che è facilmente intuibile, ovvero sul fatto che sono state proprio queste teorie a portare alla folle idea di selezione della Germania nazista. A dispetto di questo, tuttavia, l’esperienza di vita, più che la filosofia, mi ha insegnato che il corpo è imperfetto e corruttibile, con il tempo si sgretola, mentre l’anima con il tempo si può addirittura irrobustire. Certo, questo avviene solo se siamo noi stessi gli artefici di questo cambiamento, ma noi, che la selezione naturale l’abbiamo già superata nella pancia della nostra mamma, nascendo, abbiamo il dovere di affermare la nostra superiorità sugli animali e sugli esseri irrazionali, curando la nostra anima, quella che ci fa essere, appunto, persone. Questo pensiero mi ha fatto superare quello delle mie imperfezioni. Uno dei brani del Vangelo che preferisco è quello delle famose Beatitudini, poiché, nel discorso della montagna, Gesù indica chi sono i santi, dunque i vincenti. E non si parla di eroi perfetti, ma si elencano solo persone imperfette, a cui manca qualcosa. Non i virtuosi e gli irreprensibili, ma quelli che hanno fame e sete, quelli che hanno qualche deficit. Non si tratta di una compensazione per i poveri e gli imperfetti nell’Aldilà, come molti pensano. Si tratta, invece, della consapevolezza tutta terrena di essere imperfetti in quanto uomini, chi più, chi meno, chi fisicamente, chi nello spirito. L’uomo “desidera”, cioè aspira a qualcosa che gli manca. Sempre, per sua natura. All’uomo manca costantemente qualcosa, è scritto nel suo DNA. Allo stesso tempo, capita che tutti arriviamo a sentirci ricchi di qualcosa, non necessariamente di beni materiali. In quel qualcosa ci sentiamo forti, e questo pensiero di relativa abbondanza rischia di farci dimenticare le altre imperfezioni, le altre carenze, di farci sentire pieni e invincibili, quindi di avere la presunzione di cavarcela bene anche da soli, senza Dio e senza gli altri uomini. Ecco perché siamo beati laddove ci manca qualcosa, nelle nostre debolezze, perché questo ci ricorda sempre chi siamo e che abbiamo bisogno degli altri.
Arrampicarsi sull’albero può forse fornire un certo senso di libertà, soprattutto a un ragazzino disabile abituato a stare con i piedi ben ancorati per terra. Ma l’uomo è sceso dall’albero da molto tempo, per dimostrare a se stesso che, anche nella sua imperfezione, può migliorarsi, che non è perfetto, ma perfettibile e che, con i piedi ancorati al terreno, o alla carrozzina, si può fare tanta strada. Luca, nel suo Vangelo, ci racconta che il pubblicano Zaccheo desiderava tanto vedere Gesù a Gerico. Ma era molto piccolo di statura, dunque, per vedere meglio fra la folla, pensò di salire su un grande albero, su un sicomoro. Gesù lo vide e lo fece scendere dall’albero, facendosi addirittura invitare a casa sua: l’impedimento alla vista di Zaccheo non era la sua statura, ma una incapacità tutta spirituale di vedere quale fosse il Bene più grande per lui. La salita sull’albero di Zaccheo, tuttavia, gli fa onore: denota la volontà di ricerca del Bene, di capire e di conoscere. Allora, se può servirci a capire quanto vale e quanto sia prezioso, in realtà, il nostro deficit, e quale sia il bene più grande per noi, saliamo pure sugli alberi: sarà bello vedere, poi, che saranno in tanti a tendere la mano per aiutarci a scendere. 

Una straordinaria quotidianità

Priscilia, Cyril, Johan et les autres è un documentario semplice, lineare, che ha l’intento, esplicitamente dichiarato, di raccontare la vita quotidiana, e i principi che ne determinano ritmi e caratteristiche, così come si svolge nei centri di Allagouttes e Surcenord, in Francia. Qualità, quelle della chiarezza e non artificiosità espositiva, che ci sono di grande aiuto per avvicinarci a un modo di intendere la relazione e il lavoro con persone disabili per certi versi inedito in Italia, almeno sulla base delle esperienze conosciute da chi scrive.
L’Istituto Medico Educativo dell’Associazione “Le Champ de la Croix” opera nella regione dell’Haut-Rhin dal 1968, mettendo in opera, vivendo e cercando di far evolvere continuamente la pedagogia “curativa” proposta da Rudolf Steiner (rispetto alla quale, si rimanda per ulteriori approfondimenti alla curiosità dei lettori).
I due centri accolgono e ospitano bambini, adolescenti e adulti che presentano deficit vari e multipli. Il documentario ci permette di vivere i gesti quotidiani delle persone che abitano in queste residenze, gesti che, diversamente da quanto accade nella maggioranza dei casi, hanno la possibilità di applicarsi a una varietà di situazioni sorprendente. Le interviste agli utenti, ai loro genitori e alle figure educative di vario genere che lavorano presso questi centri ci permettono di capire il valore di questa eterogeneità di attività e mansioni, l’una, si passi il termine, funzionale all’altra, all’interno di un disegno articolato e composito.
Alla base c’è un approccio alla persona intesa nel suo complesso, ovvero nella sua complessità irriducibile. Una visione dell’uomo “globale” (per rifarsi a un termine utilizzato da uno degli operatori), che determina l’attenzione a non schiacciare la persona su piani e modelli già determinati, già scritti, previsti, magari sulla base del tipo di disabilità che questa presenta. Un tentativo, quindi, di spezzare l’ovvietà spesso innaturale del vincolo causa-effetto, troppo stretto e cieco per costruire (per noi stessi, in primo luogo) un’immagine credibile e, in ultima istanza, effettiva della persona, di ogni persona, che presenti un deficit o meno.
La varietà delle pratiche che si possono svolgere in questi centri è diretta conseguenza di questo approccio: si passa da quelle scolastiche, psicomotorie, laboratoriali, espressive, a quelle legate alla gestione comune della quotidianità (la preparazione dei pasti, della tavola, ecc.), a quelle, ancora, di dichiarata ricerca artistica: quest’ultima privilegiata, tra tutte, per la sua connaturata capacità di mettere la persona nella condizione di acquisire coscienza delle cose del mondo.
La musica, la pittura, gli spettacoli (previa costruzione delle stesse) di marionette, la manipolazione di materiali di diverso tipo: ognuna di queste forme artistiche, in base a caratteristiche intrinseche, attiva parti della persona e crea, per la stessa, la possibilità di intraprendere un percorso nel senso della trasformazione (un elemento, questo, che non a caso ritroviamo molto spesso tra gli obiettivi dei laboratori integrati o delle compagnie che operano in ambito teatrale con persone disabili).
Ma il valore dell’espressività e della creatività, che la frequentazione, persino “passiva”, dell’arte attiva, mette in movimento, permette di capire in modo più nitido anche le vere aspirazioni e le capacità latenti di ogni singolo utente, anche, e questo è un passaggio fondamentale, in vista di un impiego lavorativo, ovvero della costruzione di abilità professionali. Il lavoro è una parte fondamentale all’interno di questi centri, declinato prevalentemente come lavoro agricolo, di giardinaggio, di cura (anche disinteressata) degli animali: tre ambiti professionali che richiedono competenze, attenzione, puntualità, dedizione quotidiana, fatica.
In questo senso si capisce l’importanza che viene riconosciuta al rispetto del ritmo delle stagioni e, soprattutto, del ritmo della giornata (ai quali accordarsi in quanto elemento primordiale): si può essere più o meno d’accordo, ma, ad avviso di chi scrive, uno degli errori in cui più spesso si incorre in relazione a chi presenta deficit di vario genere è pensare la loro vita come qualcosa che dalla “pressione” della quotidianità possa prescindere (in termini di orari, mansioni, desideri) o che da quella non venga toccata, interessata. Senza vincoli di tempo.
Qui, al contrario, il contatto con il mondo, con i suoi ritmi, le sue cadenze viene facilitato, così come viene riconosciuta l’importanza di un accesso corporeo al mondo stesso, dimensione cui, in modo spesso colpevolmente inconsapevole, la vita di molti si distacca. Il rispetto di questi ritmi è il dato che la regista decide di proporre per primo, nella sequenza dei racconti degli operatori, quasi a proporcelo come una delle chiavi di lettura basilari dell’esperienza che di lì in avanti scopriremo. Principio rafforzato dal contesto in cui le residenze si trovano, una natura ricca, rigogliosa, che si impone con dolcezza sulla presenza umana. È dal rapporto con il mondo naturale che prende le mosse il racconto, per poi proseguire descrivendo le altre attività più strutturate e costruite, nelle quali, però, l’attenzione all’accesso sensoriale alle cose (e alle persone, all’altro) ricopre un ruolo fondante.
Il film inizia con una lunga introduzione priva di elementi narrativi esterni, i suoni e i rumori sono quelli prodotti dalla natura o dalle attività svolte da utenti e operatori: ci viene illustrata una giornata-tipo, dal momento del risveglio a quello del riposo serale. I momenti di vita in comune, quelli in cui le mansioni e gli impegni si diversificano, le pause. Il seguito è l’alternarsi delle immagini descrittive di quanto si svolge all’interno dei centri e delle testimonianze delle persone a vario titolo coinvolte. La presenza della regista, Anne Burgeot, è discreta, sensibile, capace di catturare momenti inattesi e spontanei, anche conflittuali. E sa tenersi a distanza da intenti celebrativi, fornendo piuttosto materia per una riflessione non solo educativa o riabilitativa, ma che può riguardare ognuno di noi nel rapporto con noi stessi e con quanto, da noi, è, o sembra soltanto essere, “fuori”, altrove.

Priscilia, Cyril, Johan et les autres
(Francia, 2009)
V.O. in lingua francese
Durata: 50’
Regia: Anne Burgeot (anne.burgeot@orange.fr)
IMP-IMPRO Association Le Champ de la Croix

Non lo sapevo. Giorgio Morandi quello delle bottiglie?


Non lo sapevo.
Questa è l’espressione che più mi ha fatto compagnia nell’incontro con Morandi, Giorgio, quello delle bottiglie.
In ordine sparso, non sapevo: che Giorgio Morandi avesse insegnato incisione presso l’Accademia di Belle arti e amasse Giacomo Leopardi quanto lo amo io; che la sua casa e il suo studio in via Fondazza siano ora visitabili; che una sua natura morta fosse il risultato di un processo creativo tanto vivo; che avesse tre sorelle; che la luce, per lui, avesse un tale valore; che dipinse più di mille quadri; che apprezzasse la lentezza di un carretto trainato dai muli; che i colori di Bologna lo avessero pervaso, condizionando perfino la sua anima.
Non lo sapevo, anzi, possiamo dire, che non sapevo praticamente nulla di Giorgio Morandi. La cosa folle, però, è che quel poco che sapevo – che era bolognese e che dipingeva nature morte, soprattutto bottiglie – aveva condizionato terribilmente il mio giudizio e affossato ogni mio desiderio di conoscenza del pittore. Come se questi pochissimi elementi potessero finire ciò che per sua natura è infinito, cioè la conoscenza dell’altro.
Non lo sapevo, finché una serie di incontri mi hanno portato, un pomeriggio di settembre, a varcare la soglia di Casa Morandi, la casa nella quale l’artista è vissuto fino alla sua morte nel 1964 e che, dal 2009, è un museo visitabile gratuitamente.
Quel sabato pomeriggio veniva presentato il libro Giorgio Morandi quello delle bottiglie? Una guida per ragazzi alla scoperta di un grande artista del ’900 (Ed. MAMbo). Tra le autrici del testo, oltre a Cristina Francucci e Silvia Spadoni, c’è anche Veronica Ceruti che conosco bene in quanto compagna e collega nella realizzazione di molti percorsi di animazione che intrecciano il tema dell’arte con quello della disabilità e, più in generale, della diversità.
Come le vere sorprese, inaspettate, quel pomeriggio fu l’occasione per un nuovo incontro, con un grande artista, con un lettore della luce, un narratore di storie.
Oltre alla visita alla casa-museo, che permette un’immersione nel quotidiano di Morandi, nelle sfumature della sua arte ma anche delle sue relazioni, scoperta è stato anche il libro che, come un microscopio, permette un viaggio nelle cellule dell’artista, un’indagine sul suo DNA, un incontro ravvicinato, quindi, con ciò che rende un bolognese di inizio novecento, un artista unico e affascinante.

Infiniti modi di comporre
“Giorgio Morandi dipinge moltissimi quadri, più di mille, ma gli oggetti che ritrae sono sempre gli stessi, quelli di cui si è innamorato e dai quali mai si separava. Eppure, ogni opera è diversa dall’altra. Il segreto è la composizione: i tanti, infiniti modi di mettere insieme i vari elementi”.
Quando ho letto questa frase che racconta il modo, allo stesso tempo semplice e complesso, in cui Morandi realizzava le sue opere, mi è sorta spontanea una domanda: cos’è la diversità, allora? Sono ormai parecchi anni che mi occupo di questo tema, da un punto di vista sociale e culturale, tentando di offrire una visione non scontata, improntata sulla conoscenza e, di conseguenza, sul superamento di infondati pregiudizi. Eppure, questa osservazione e, di conseguenza, la riflessione sul lavoro dell’artista, mi ha un po’ spiazzato.
Il rischio è di credere che la diversità si ha solo quando un elemento altro entra in un contesto regolato mentre, ce lo dice anche l’artista, diversità è anche quando un elemento del contesto stesso cambia ruolo.
Quanto è ancora rivoluzionario questo concetto, quanto ancora siamo ingabbiati nell’idea che la diversità sia costituita dall’altro, esterno, intruso, non convenzionale che entra e mette in crisi, che disturba, che obbliga a una riorganizzazione. Seppur questo sia vero, troppo spesso finiamo per trasformare l’occasione che ci viene offerta dall’inclusione nella creazione di una “natura morta”, eterna e immodificabile.
Proprio in questo spiazzamento, però, in questo momento di sospensione, come un bambino che dondola sull’altalena, trovo la risposta. Nell’ampliare il mio orizzonte, nel percepire il contesto in maniera dinamica, nella genialità di Morandi, nella sua capacità di ricreare contesti continuamente diversi, attraverso una diversa disposizione degli oggetti, dei partecipanti. Poco importa se, nel suo caso, si tratti di bottiglie, scatole, vasi, brocche.
“Morandi creava composizioni di oggetti da dipingere, disponendoli su un ripiano, un po’ come quando si apparecchia la tavola. L’artista però giocava con le cose, si divertiva a scambiare i posti e le posizioni…”.
Se provassimo anche noi a immaginare l’inclusione come un gioco? Un continuo esercizio di spostamento, di cambio di prospettive. Ci aiuterebbe a non etichettare le persone e le situazioni, ci spronerebbe a cambiare continuamente il nostro punto di vista, su noi stessi, sul contesto e sull’altro, ci garantirebbe la possibilità di sperimentarci in ruoli differenti, a non incarnarci in uno stereotipo eterno. Lui è quello aggressivo, lui quello antipatico, lei quella buona, l’altra è lenta, quella ha sempre freddo.
Se proviamo a immaginare i contesti in cui viviamo come il ripiano in cui Morandi disponeva la sue bottiglie, pur riconoscendo le specificità/i colori, le esigenze/le dimensioni e le attitudini personali/le forme, sarebbe interessante che, perché un processo di inclusione possa essere tale, di tanto in tanto, chi sta davanti vada dietro, chi è di lato si sposti al centro, chi vicino alla finestra vada verso la porta o chi in cattedra si sieda dietro un banco.
In questo modo potremmo ricreare infiniti contesti diversi, solo scambiando la posizione dei partecipanti, non etichettando il soggetto diverso che fa parte del gruppo ma considerando il gruppo, come insieme di soggetti diversi.

Allenati a creare relazioni
Un augurio, un invito, un esercizio.
All’interno del testo Giorgio Morandi quello delle bottiglie? c’è una parte dedicata a esercizi di visione e rielaborazione personale, dieci regole  per avvicinare l’artista. Si tratta di semplici esercizi creativi che permettono al lettore di indossare gli occhiali dell’artista e sperimentare direttamente il suo modo di guardare il mondo.
Sono dieci punti molto interessanti e anche alquanto piacevoli. Di questi, l’ultimo sintetizza perfettamente il pensiero che ho esposto sopra.
“L’artista ‘mette in posa’ i suoi modelli, poi li osserva per studiare come spazio e forme cambiano al variare della luce… Non si stanca mai di ritrarre le stesse cose, perché crea rappresentazioni sempre diverse: ogni natura morta è unica”.
L’invito dell’esercizio n.10 è quello di allenarsi a creare relazioni.
Spostare, spostarsi, vedere le cose sotto una nuova luce, sperimentare la stessa relazione da una posizione diversa, vedere l’altro da dietro, di fronte, da sotto, da dentro.
Creare relazioni, cioè destrutturare il contesto, sia esso la classe, la casa, la palestra, l’oratorio o il campo da calcio, per fare in modo che lo spazio stesso ci stimoli a uscire da schemi prefissati e da sguardi prestabiliti.
Creare relazioni, cioè conoscere chi abbiamo di fronte.
Conoscere e quindi scoprire ciò che abbiamo in comune, che ci avvicina, che funge da “ripiano” condiviso sul quale posizionare ciò che, invece, ci rende diversi, per fare di questa diversità una ricchezza comune.
Creare relazioni, cioè creare tanti dipinti, con gli stessi soggetti, ma tutti diversi, unici, dove ognuno ha il proprio posto pur non avendo un posto prefissato.
L’incontro con un artista è sempre un’esperienza che ti conduce in un viaggio che travalica ogni tua aspettativa, che sostituisce quel “non lo sapevo” con tanti “davvero?”.
Se posso permettermi un consiglio, accettate l’invito a salire a bordo del libro Giorgio Morandi quello delle bottiglie? e lasciatevi trasportare in un viaggio, allo stesso tempo semplice e straordinario, incontro all’arte di uno dei più importanti artisti del ’900.

La scorciatoia mediatica della “follia criminale”

Nel 2011 è stato pubblicato nel volume Northern Lights un articolo di Karin Ljuslinder, Lisbeth Morlandstø e Jurga Mataityte-Dirziene sulla rappresentazione nei media di persone con malattia mentale coinvolte in crimini violenti in tre diversi Paesi del Nord Europa. Il titolo, “The victim, the wicked and the ignored. Representation of mentally ill perpetrators of violent crime in news reports in the Norwegian, Swedish and Lithuanian press” [“La vittima, il malvagio e l’ignorato. rappresentazione di perpetratori malati mentali di crimine violento in resoconti giornalistici nella stampa norvegese, svedese e lituana”] mostra in se stesso i differenti modelli utilizzati dai giornali per scrivere del colpevole nei tre casi di omicidio (uno per Paese) investigati più a fondo, e al contempo come la malattia mentale fosse centrale nei loro ritratti degli assassini; e ciò senza un’attenzione articolata al loro stato clinico, ma piuttosto su basi morali e autoesplicative – il che sembra implicare che tutte le persone con disabilità mentali siano potenzialmente violente.
Abbiamo discusso i risultati della ricerca, e in generale la rappresentazione mediatica delle persone con malattia mentale e i suoi effetti sulle opinioni che si hanno di loro, con Karin Ljuslinder, prima autrice dell’articolo, dottore di ricerca e docente in Studi di Media e Comunicazione presso l’Università di Umeå (Svezia). Come emerge dall’intervista, è molto difficile trarre conclusioni definitive, ma uno studio ulteriore dell’argomento è cruciale per comprendere logiche di esclusione e stigmatizzazione delle persone disabili (e non solo di esse) che possiamo abbracciare senza nemmeno averne consapevolezza.

Può riassumere in breve le differenze nel trattamento da parte dei media delle notizie di cronaca nera che coinvolgono persone con disabilità mentale come esecutori nei diversi Paesi che avete indagato (Svezia, Norvegia e Lituania)? Quali differenze credete ci sarebbero potute essere se questi crimini fossero avvenuti e fossero stati trattati dai media in altri Paesi in Europa o altrove?
Innanzitutto voglio ringraziare per le domande, sono molto grata del fatto che a questo oggetto dei media si presti attenzione. In secondo luogo, voglio sottolineare che il nostro studio comparativo è qualitativo, il che significa che non siamo in grado di trarne risultanze statistiche, ma solo risultati approfonditi provvisori. A proposito della persona con malattia mentale come autrice di un crimine, da un certo punto di vista l’informazione giornalistica dei quotidiani nei tre Paesi mostra soprattutto somiglianze, il che suggerisce che la logica mediatica sia molto simile. Anche quando prestiamo attenzione alle nostre, percepite, differenze culturali, la logica mediatica sembra ancora essere la stessa. Questo è molto interessante considerando che una delle nazioni allo studio, la Lituania, è una ex repubblica sovietica. Non ci sono state grandi differenze quanto a questa questione. Quindi, come risposta per le tre nazioni che hanno partecipato al nostro studio comparativo, il risultato è stato che l’informazione giornalistica è sorprendentemente simile.
Questo risultato, e la mia esperienza pregressa di studi sui media, mi fa riflettere sulle generali somiglianze tra, come minimo, i quotidiani di informazione in Europa e forse (non so) nell’emisfero occidentale. Pertanto, non mi aspetterei, anche se non sono certa, qualunque altra logica mediale in qualunque altro quotidiano europeo, e, seppur senza prova scientifica, non mi aspetterei che alcun altro contenuto di informazione in un quotidiano mostri un’altra logica mediale, in realtà.

Nel vostro articolo affermate: “oggigiorno quando gli psichiatri si esprimono nei media, adattano le loro asserzioni alla logica mediale”. Quali di questi adattamenti avete incontrato nel vostro lavoro?
Questa questione è complicata se occorre dare una risposta in una rivista che parla di disabilità. Una risposta “light” è che i primi psichiatri avevano una sorta di priorità nella definizione e interpretazione della malattia mentale, ma oggigiorno i media hanno una priorità di definizione ancor più forte su cosa sia una malattia mentale e quale sia una buona cura, e così via. Ciò che si intende dire è che la malattia mentale, o specialmente gli autori di un crimine mentalmente malati, sono diventati un concetto mediatizzato, ossia oggetto più di una diagnosi morale che di una diagnosi psichiatrica. Comunque, non abbiamo studiato empiricamente questo – l’affermazione è una parte della ricerca preliminare nell’articolo.

Perché, secondo voi, le persone con problemi di salute mentale raramente appaiono sui media mainstream in contesti diversi dalla cronaca nera, ad esempio come membri positivi o neutrali della società?
Secondo me, e questo è importante da sottolineare, ciò ha a che fare con, ancora una volta, le logiche mediali. I media tradizionali (TV, stampa quotidiana e radio) non hanno alcuna responsabilità di rappresentare tutti i diversi tipi di categorie sociali. Questo è un malinteso molto comune, specialmente quando si tratta dei media di pubblico servizio, che, per esempio, sono “grandi” in Svezia e Norvegia. Ma da nessuna parte si afferma che ci si aspetta che la quantità di persone con una certa disabilità, genere, malattia mentale e così via sia rappresentata proporzionalmente nei media tradizionali, nemmeno nei media di pubblico servizio. L’unica cosa a cui i media di pubblico servizio siano obbligati è trattare questioni e storie con – e a proposito di – le persone con disabilità di qualunque tipo. Non so dire perché le attuali logiche mediali concentrino questa rappresentazione delle persone con malattia mentale sulla cronaca nera, e nessuno può cambiarle da solo. La direzione della redazione potrebbe aiutare un po’ ma non molto, temo. Beh, ciò che potrebbe cambiare il modello è se ci fossero più giornalisti con esperienza diretta della malattia mentale.

Come è possibile, se lo è, contestualizzare la malattia mentale dell’autore di un crimine nella logica drammaturgica dei media senza generare un effetto di stigma su tutte le persone con problemi di salute mentale?
La “soluzione” a cui penso è la stessa di quando considero qualsiasi altra persona con una – qualunque – caratteristica marginalizzante (genere, etnia, disabilità, religione e così via). Occorre che a) una persona con malattia mentale sia conduttore di un programma televisivo, o sia il partecipante di un quiz, e b) mostrare documentari e ritratti personali di persone con malattie mentali.

C’è il rischio di rendere la “malattia mentale” un termine-ombrello che copre patologie molto differenti, e collegarle tutte a effetti criminali?
Sì, sì e sì… E una ragione principale è che i reportage e gli articoli giornalistici su persone con malattie mentali nei media non aiutano le persone che, nella nostra società non hanno contatto personale con la malattia mentale a ottenere un’impressione sfumata di cosa significhi avere una malattia mentale. Potrei essere “sfuocata”, ma ciò che intendo è che meno persone riescono a conoscere altre persone con malattie mentali, meno l’empatia di quelle persone potrà crescere. Mi piacerebbe che, almeno, i media di pubblico servizio che hanno un contratto speciale con lo Stato svedese prestassero speciale attenzione alle persone con disabilità fisiche così come mentali, e si prendessero la responsabilità di mostrare programmi/documentari con persone con problemi di salute mentale, e renderli conduttori di programmi, e così via.

I media, nella vostra esperienza, riflettono la malattia mentale come un possibile stato temporaneo per chiunque nella società, o piuttosto come una condizione stabile/irreversibile di alcuni dei suoi membri, che potrebbero/dovrebbero quindi essere “contenuti” attraverso l’istituzionalizzazione?
Voglio rispondere a questa domanda per parti. Anche se non ho studiato empiricamente se i media riflettano la malattia mentale come un possibile stato temporaneo per chiunque nella società, la mia risposta è che ho una forte impressione che i media rappresentino la malattia mentale come stato di alcuni dei suoi membri. Ma se questo stato implichi un dover essere “contenuto”, su questo non posso rispondere. Non ho mai pensato alle rappresentazioni dei media in quel senso. Questa è una domanda molto interessante, direi.

Quindi, i media portano una responsabilità nel promuovere modelli culturali di “sorveglianza e punizione” (non solo rivolti alle persone con disabilità)?
C’è sempre stato, dall’emergere dei mass media, un timore sociale che i mass media siano la fonte più influente di norme, valori e pensieri della società. Da un lato ciò non è vero, e dall’altro lato questo timore pure è fondato. Ma, se attraversiamo la storia dello sviluppo dei media, vedremo e ci renderemo conto che i media non solo la sola fonte, ma una importante fonte del nostro essere cittadini nelle nostre società occidentali e nella conoscenza socio-culturale.

Nella vostra ricerca, vi siete concentrate sui media tradizionali. Quali effetti stimate che il web e i social network abbiano sulla rappresentazione sociale della malattia mentale?
Questa è una domanda molto grande e interessante, e non ho ancora studiato i social media in rapporto alla malattia mentale. La mia conoscenza empirica personale – e non quella professionale – è che a) da un lato, i social media aiutano le persone con malattie mentali a entrare in contatto con altre persone che hanno malattie mentali, o ne soffrono, il che potrebbe dare un sentimento di integrazione e benessere, e, allo stesso tempo, b) un sentimento che aumenta le parti patologiche del sé di una persona come patologiche, il che non è costruttivo.

“Sono un bullo? Non lo so”

a cura di Roberto ed Elia

Era una sera di dicembre, quando siamo stati invitati a raccontare la nostra esperienza di lavoro rispetto alla valorizzazione della diversità come strumento per la prevenzione di situazioni di bullismo. Siamo stati coinvolti perché da oltre un anno, ormai, collaboriamo con il Servizio Minorile accogliendo minori che svolgono con noi attività di volontariato.
È un’esperienza importante, che racconta bene il senso di un’integrazione reale ed efficace, che porta un cambiamento nell’intero contesto.
C’era anche Elia quella sera, un ragazzo che ha svolto volontariato presso il gruppo Calamaio.
Ha raccontato la sua esperienza.
Gli abbiamo chiesto di poterla pubblicare, senza commenti, perché non ne ha bisogno.
Mi dispiace solo che non la possiate sentire letta dalla sua voce, è un privilegio che rimarrà a noi.

Salve a tutti.
Sono Elia, ho 16 anni e frequento il terzo anno dell’Istituto Tecnico Aereonautico di Forlì. Sono qui a parlare della mia esperienza su un tema tristemente attuale: bullismo e pregiudizio.
Ci ho ragionato e ho scorso un po’ la mia vita.
Sono cresciuto in una famiglia normale, mamma, papà e sorella maggiore, una famiglia in cui ci si confronta, si parla di tutto e le discussioni non possono concludersi con un “no” ma con un “no perché”.
A scuola sono sempre andato bene nelle materie dove serve la sola “materia grigia”, ma ho avuto la possibilità di conoscere molto bene tutti i bidelli delle scuole che ho frequentato e avuto qualche problema con la voce condotta/comportamento della pagella scolastica.
Non credo di essere un bullo, i bulli sono coloro che intenzionalmente maltrattano e tormentano i coetanei, consapevoli e desiderosi di farlo.
Io non ho mai maltrattato nessuno per il sol gusto di farlo, ma ho sempre detto quello che pensavo a chiunque, adulti e amici, anche quando non mi era richiesto espressamente. A scuola i tempi morti erano il mio incubo, ore seduto ad ascoltare le stesse lezioni ripetute infinite volte, se non sono interessato mi distraggo facilmente e faccio anche distrarre facilmente… e alla fine era spesso colpa mia!
Un episodio in seconda elementare mi ha segnato fino alle medie… sono intervenuto un po’ impetuosamente a sedare una lite tra compagni e mi hanno “siglato” come “il personaggio a rischio” che dava ancor più fastidio perché era tra i più bravi della classe. Un vestitino molto stretto da portare. Gli adulti hanno cercato di isolarmi, ma tra i coetanei avevo un discreto successo!
Sono un bullo? Non lo so.
La cosa certa è però che comunque le conseguenze le ho sempre pagate in prima persona, ho subito le interrogazioni più toste e le punizioni più severe.
Ho deciso di vivere così, dicendo quel che penso, e so che la strada è in salita, ma io sono come sono. E anche ora sto pagando per un errore fatto senza pensare, un’azione che a tutt’oggi non ha un perché!
A me non è mai stato consentito sbagliare, per il mio modo di essere, per il mio aspetto, per i miei piercing e per i miei pantaloni abbassati.
Anche il poliziotto che mi ha arrestato mi ha deriso per il tatuaggio, mi ha dato del coglione, mi ha detto che se avessi voluto fare il pilota avrei dovuto scordarmelo perché un tatuaggio non si fa su un polso, così visibile, poi si è tolto la maglia per farmi vedere che lui era più furbo e mi ha mostrato una orrenda aquila enorme sulla spalla!
Io farò il pilota! Ho deciso. Ho sedici anni, ho sbagliato, ho pagato e sto pagando.
Il prezzo è altissimo, non solo per i tre giorni al Pratello, non solo per i tre mesi di arresti domiciliari, non solo per la sofferenza negli occhi e nel corpo di mia madre, nei silenzi e nei discorsi di mio padre, nell’incazzatura di mia sorella, ma anche per il peso del pregiudizio che questo marchio porta su chi l’ha impresso sulla pelle.
A scuola, me l’aspettavo, l’Istituto Tecnico Aereonautico è una caserma, tutti uguali in fila sull’attenti. I professori sono stati avvisati da un genitore mentre ero ancora “dentro”, il mio caso è finito sulla bocca di tutti, i professori si sono informati dai miei compagni, ne hanno parlato tra di loro, ma con me nessuna parola, nessuno mi ha chiesto di raccontare ciò che mi era successo, se stavo male, come stavo in casa, se i miei genitori mi avevano ”frustato, legato o malmenato”… neanche una parola.
Poi solo dei no, alle mie domande, alle mie richieste. E alla fine 6 in condotta!
Ma il pregiudizio è anche nell’ambiente del volontariato, frequentato dai “buoni” della società, da quelli che si vantano di dare agli altri senza nulla in cambio… Mi hanno fatto frequentare due giornate formative, fatto scegliere i settori operativi che preferivo, per poi lasciarmi un pomeriggio solo su una panchina con il mio i-pod, perché nessuna Associazione di Volontariato era disposta ad assumersi la responsabilità di “gestire” un individuo con delle limitazioni alla libertà, che detta al mio slang sarebbe un delinquente come te!
Tutte le associazioni, sì tutte le associazioni tranne una, l’Accaparlante o CDH che dir si voglia, dove non ci sono utenti ed educatori, ma compagni. Dove si è tutti insieme a lavorare in un unico processo sia che siano buone prassi con la Tati, sia il cartellino delle ore con la Mimmi. Io in meno di un mese ho imparato molto da loro e spero di esser stato d’aiuto, ma alla fine l’importante è che questa esperienza mi ha colpito molto e penso di avere un’altra visione delle persone disabili che prima non avevo.
Il pregiudizio è forse la punizione più pesante da sopportare.
Questa è un’esperienza dura che mi ha insegnato però i valori veri, so di avere una famiglia alle spalle che merita di essere riconquistata da me!
Quando sarò pilota li porterò con me in tutto il mondo!
Gli voglio tanto bene.

Lettere al direttore

Buongiorno Claudio!
Sono Brunella e ti ho conosciuto a Belluno. Sono la preside di K. e voglio inviarti un soffio di gratitudine e un abbraccio.
Credo che anche grazie a te riusciremo a mettere in piedi una cordata per la piccola; il tuo esserci ha evidenziato a tutti che è possibile. Non so se ti hanno parlato di K.: è una ragazzina di origine marocchina, sveglia, tosta e molto dolorante. Porta con sé la disperazione di non poter camminare e l’anno scorso qualcuno ha dovuto toglierle ogni speranza, mentre a casa le dicono che ciò avverrà, se Allah lo vorrà…
Pensa che quando l’ho conosciuta faceva la quarta elementare e le era toccata in sorte un’insegnante di sostegno terrificante , impreparata e priva di qualunque voglia di mettersi in moto. Alle medie invece è stata molto fortunata perché siamo riusciti, tutti insieme e sfidando le logiche sindacali, a garantirle persone di cuore, disponibili oltre i commi contrattuali, docenti che non hanno remore a essere anche severi con lei e a chiederle prestazioni all’altezza delle sue potenzialità. Avrai già capito: K. è la mia alunna speciale ma sono molto preoccupata per lei e per il suo futuro.
Da una Belluno gelida e vagamente innevata ti giunga, come dicevo, un abbraccio tenero.
Brunella

Cara Brunella,
tanto per cominciare grazie per le tue belle parole. Non appena ho visto le splendide montagne di Belluno mi sono chiesto che fine avessero fatto le caprette di Heidi… e soprattutto chissà come la piccola protagonista della ben nota fiaba se la stesse passando con la pesante pedagogia della signora Rottermeier… Soprattutto ho pensato a Klara, la sua amica in carrozzina e alla loro relazione. Bella e profonda, ma forse, mi sono detto non un po’ troppo unilaterale? Heidi aiutava davvero la sua amica? E Klara in che modo aiutava lei? Con queste domande sono salito sul palco, aiutando i ragazzi dei licei di scienze sociali della città a comprendere come buonismo e filantropia non siano sufficienti per fare relazione e integrazione.
Per questo l’assistenzialismo non serve, serve reale voglia di confronto, guardarsi negli occhi e mettersi in gioco. Cose che spiego spesso, magari con altri esempi meno efficaci…
Tra i ragazzi, ad ascoltarci, c’era proprio lei, K., la ragazzina tosta e vivacissima di cui tu, Brunella, parli con tanta cura. Un’altra “Klara”, in fondo, anche se poco mitteleuropea e molto mediterranea. K. infatti è una ragazzina marocchina con disabilità che comunica con una tavoletta trasparente molto simile alla mia.
Osservandola e ascoltandola ho pensato al mondo. Ho pensato alle altre culture. E ho iniziato a immaginare l’handicap fuori dal contesto occidentale che viviamo e di cui parliamo sempre noi. K. non deve essere la tua alunna speciale, ma avere la possibilità e gli strumenti per poter esprimere il suo reale potenziale.
In bocca al lupo e buona vita.
Claudio Imprudente

Caro Claudio,
mi chiamo Maria Grazia e sono una fisioterapista. La mia storia con la tua famosa tavoletta è stata una vera e propria avventura. Ti ringrazio moltissimo del tuo aiuto perché quella che era solo un’intuizione da parte mia, si è dimostrata nel mio lavoro una grandissima opportunità per aiutare una mia giovane paziente. Con lei usiamo “la tavoletta magica” per la comunicazione in modo ottimale, in palestra durante la riabilitazione, per fare le parole crociate e per parlare con me attraverso la denominazione. Ora la mia paziente verrà trasferita in una struttura protetta ma se la porterà sempre dietro per la comunicazione. Una vera vittoria!
Grazie davvero, moltissimo.
Buona vita e buon lavoro
Maria Grazia

Cara Maria Grazia,
grazie a te! La tavoletta a volte ritorna… Non so se hai letto la notizia, uscita qualche tempo fa su Superabile… C’è stato un ragazzo, in Sardegna, terra a me molto cara, che ha seguito le mie orme, o meglio, quelle della mia tavoletta! Sto parlando di Paolo Poddu, ragazzo con tetraparesi spastica di 27 anni, socio dell’Associazione Bambini Cerebrolesi Sardegna, che comunica con gli occhi proprio attraverso una tavoletta nella quale sono indicate le lettere, che si è laureato con successo in Lettere con una tesi dal titolo “Trasporti aerei e disabilità”, divenendo così un operatore culturale per il turismo e realizzando il suo sogno.
Che soddisfazione! Ho conosciuto Paolo più di dieci anni fa e io già allora utilizzavo la “tavoletta magica”. Prendo atto con orgoglio che quel rendez-vous può avere cambiato il suo percorso accademico e professionale. Capitano momenti/passaggi, casuali o meno, che influiscono sulla qualità della vita, ma sta alla nostra abilità sfruttare queste occasioni, come faceva il mio amato Pippo Inzaghi sul filo del fuorigioco…
Questo riconoscimento accademico, oltre a dimostrare il coraggio, la qualità e la dedizione di Paolo, ci rivela come ancora nel 2012 gli ausili poveri (di cui la tavoletta è un esempio illustre) possano migliorare il nostro quotidiano, le nostre relazioni e le nostre attività professionali.
Ho scritto un messaggio a Paolo su Facebook. Oltre ai complimenti di rito, ho parlato del mio amore per le nuove tecnologie, tablet incluso… Ma ho promesso che non abbandonerò mai l’amata tavoletta!
Se non sbaglio, in fondo, tablet significa proprio tavoletta!
Che ne dici Maria Grazia?
Tanti auguri e continua così!
Claudio Imprudente

9. Il cavaliere inesistente?

Concludiamo questa narrazione sui temi della sessualità e dell’affettività delle persone disabili, con un piccolo capovolgimento dello sguardo. È vero, le persone con disabilità crescono in un clima culturale in cui apprendono come la società li vede, come vede il loro corpo e le loro difficoltà, e apprendono che la società ha aspettative diverse nei loro confronti rispetto a quelle riposte nei non disabili, anche, e soprattutto, dal punto di vista erotico-emotivo. Eppure, è vero che anche la persona disabile ha il dovere (e non solo il diritto) di essere seduttiva. “Per voi disabilità fa rima con seduzione?” – domanda spesso Claudio Imprudente durante i suoi interventi in pubblico. “Nell’immaginario collettivo, uno dei frutti considerati più seduttivi è la pesca. Forse vi starete domandando perché… ebbene: la pesca è un frutto dalla superficie morbida e vellutata (non a caso per complimentarsi con una persona dell’aspetto della sua pelle si dice ‘hai una pelle di pesca’) e dai colori sfumati e brillanti, che variano dal giallo all’arancione, al rosso… Ma soprattutto, la pesca è un frutto molto succoso e dissentante. Tutte queste caratteristiche la rendono dunque molto seduttiva e appetibile! L’alter ego della pesca, ossia uno dei frutti meno seduttivi, è la noce. Già solo l’aspetto non solleva l’interesse: ha un guscio rugoso, irregolare, duro e legnoso. Per di più la noce senza uno schiaccianoci è immangiabile e, confrontandola con la pesca, è assolutamente priva di succo. Avrete già capito dove voglio andare a parare con questo discorso da agricoltore esperto: ovviamente la noce rappresenta la seduzione nel mondo della disabilità, che è chiusa in un guscio, non immediata, anzi non riconosciuta. È difficile forzare il guscio per portarla allo scoperto se non si dispone di uno strumento adeguato: questo strumento è il contesto. È questo il segreto: anche nel mondo della disabilità è necessario uno sforzo per modificare i contesti e far emergere quel potenziale seduttivo che in altre circostanze risulta oscurato o inesistente. Uno sforzo che coinvolge non solo le persone disabili ma anche tutti coloro che convivono con la disabilità e ne sono interessati a livello familiare, lavorativo, di gruppo sociale. La seduzione è un fenomeno estremamente più affascinante, che mette in primo piano la personalità in tutte le sue sfumature. Il termine ‘sedurre’ deriva dall’espressione latina ‘se ducere’, ovvero ‘condurre a sé’ quindi ‘attrarre a sé’, interessare gli altri. Ecco quindi che la capacità seduttiva, la viva curiosità che possiamo suscitare negli altri, non è una mera questione di perfezione delle forme, ma una vera e propria abilità, che deriva in primo luogo dal riconoscimento e dalla valorizzazione dei nostri punti di forza, anche se sono ‘diversi’. O forse proprio perché tali”.
Concludiamo allora con una pagina della nostra letteratura italiana, il racconto di una lunga notte di seduzione e di sessualità tra Agilulfo, il cavaliere inesistente di Italo Calvino, e Priscilla, una giovane nobildonna. Agilulfo ha un corpo appunto inesistente, visibile solo grazie alla possente armatura che lo contorna. È un corpo profondamente diverso, dunque. E anche la notte di passione con Priscilla è una notte costellata di diversità, di adattamenti, di ricerca di una sessualità che sia propria e non conforme a contesti societari normativi. Eppure – nella diversità – è anche una notte di forti emozioni, di scambi di reciproche esigenze, e di reciproche e complete soddisfazioni.

– Il cielo s’imbruna, – osservò Priscilla.
– È notte, è notte fonda, – ammise Agilulfo.
– La stanza che vi ho riservato…
– Grazie. Udite l’usignolo là nel parco.
– La stanza che vi ho riservato… è la mia…
– La vostra ospitalità è squisita… È da quella quercia che canta l’usignolo. Avviciniamoci alla finestra.
S’alzò, le porse il ferreo braccio, s’accostò al davanzale. Il gorgheggio degli usignoli gli diede lo spunto per una serie di riferimenti poetici e mitologici.
Ma Priscilla troncò netto: – Insomma l’usignolo canta per amore. E noi…
– Ah! l’amore! – gridò Agilulfo con un soprassalto di voce così brusco che Priscilla ne restò spaventata. E lui, di punto in bianco, si lanciò in una dissertazione sulla passione amorosa. Priscilla era teneramente accesa; appoggiandosi al suo braccio, lo spinse in una stanza dominata da un gran letto col baldacchino.
– Presso gli antichi, essendo l’amore considerato un dio … – continuava Agilulfo, fitto fitto.
Priscilla richiuse la porta a doppia mandata, si avvicinò a lui, chinò il capo sulla corazza e disse: – Ho un po’ freddo, il camino è spento.
– Il parere degli antichi, – disse Agilulfo, – se fosse meglio amarsi in stanze fredde oppure calde, è controverso. Ma il consiglio dei più…
– Oh, come voi conoscete tutto dell’amore… – bisbigliava Priscilla.
– Il consiglio dei più, pur escludendo gli ambienti soffocanti, propende per un certo natural tepore…
– Devo chiamare le donne ad accendere il fuoco?
– Lo accenderò io stesso -. Esaminò la legna accatastata nel camino, vantò la fiamma di questo o di quel legno, enumerò i vari modi di accender fuochi all’aperto o in luoghi chiusi. Un sospiro di Priscilla l’interruppe; come rendendosi conto che questi nuovi discorsi stavano disperdendo la trepidazione amorosa che s’era andata creando, Agilulfo prese rapidamente ad infiorare il suo discorso sui fuochi di riferimenti e paragoni e allusioni al calore dei sentimenti e dei sensi.
Priscilla ora sorrideva, a occhi socchiusi, allungava le mani verso la fiamma che cominciava a scoppiettare e diceva: – Quale grato tepore… quanto dev’essere dolce gustarlo tra le coltri, coricati…
[…]
Il letto era ora pronto, senza pecche. Agilulfo si voltò verso la vedova. Era nuda. Le vesti erano castamente scese al suolo.
– Alle dame ignude si consiglia, – dichiarò Agilulfo, – come la più sublime emozione dei sensi, l’abbracciarsi a un guerriero in armatura.
– Bravo: lo vieni a insegnare a me! – fece Priscilla. – Non sono mica nata ieri! – E in così dire, spiccò un salto e s’arrampicò ad Agilulfo, stringendo gambe e braccia attorno alla corazza.
Provò uno dopo l’altro tutti i modi in cui un’armatura può essere abbracciata, poi, languidamente, entrò nel letto.
Agilulfo s’inginocchiò al capezzale. – I capelli, – disse.
Priscilla spogliandosi non aveva disfatto l’alta acconciatura della sua bruna chioma. Agilulfo prese ad illustrare quanta parte abbia nel trasporto dei sensi la capigliatura sparsa. – Proviamo.
Con mosse decise e delicate delle sue mani di ferro, le sciolse il castello di trecce facendo ricadere la chioma sul petto e sulle spalle.
– Però, – soggiunse, – ha certamente più malizia colui che predilige la dama dal corpo ignudo ma dal capo non solo acconciato di tutto punto, ma pure addobbato di veli e diademi.
– Riproviamo?
– Sarò io a pettinarvi -. La pettinò, e dimostrò la sua valentia nell’intessere trecce, nel rigirarle e fissarle sul capo con gli spilloni. Poi preparò una fastosa acconciatura di veli e vezzi. Così passò un’ora, ma Priscilla, quando egli le porse lo specchio, non s’era mai vista così bella.
Lo invitò a coricarsi al suo fianco. – Dicono che Cleopatra ogni notte, – egli le disse, – sognasse d’avere a letto un guerriero in armatura.
– Non ho mai provato, – confessò lei. – Tutti se la tolgono assai prima.
– Ebbene, adesso proverete -. E lentamente, senza gualcire le lenzuola, entrò armato di tutto punto nel letto e si stese composto come in un sepolcro.
– E neppure vi slacciate la spada dal budriere?
– La passione amorosa non conosce vie di mezzo.
Priscilla chiuse gli occhi, estasiata.
Agilulfo si sollevò su un gomito. – Il fuoco butta fumo. M’alzo a vedere come mai il camino non tira.
Alla finestra spuntava la luna. Tornando dal camino verso il letto, Agilulfo si arrestò: – Signora, andiamo sugli spalti a godere di questa tarda luce lunare.
La avvolse nel suo mantello. Allacciati, salirono sulla torre. La luna inargentava la foresta. Cantava il chiù. […]
– Tutta la natura è amore…
Tornarono nella stanza. Il camino era quasi spento. S’accoccolarono a soffiare sulle braci. A stare lì vicini, le rosee ginocchia di Priscilla sfiorando le metalliche ginocchiere di lui, nasceva una nuova intimità, più innocente.
Quando Priscilla tornò a coricarsi la finestra era sfiorata già dal primo chiarore. – Nulla trasfigura il viso d’una donna quanto i primi raggi dell’alba, – disse Agilulfo, ma perché il viso apparisse nella luce migliore fu costretto a spostare letto e baldacchino.
– Come sono? – chiese la vedova.
– Bellissima.
Priscilla era felice. Però il sole saliva rapido e per inseguirne i raggi, Agilulfo doveva spostare continuamente il letto.
– È l’aurora, – disse. La sua voce era già mutata. – Il mio dovere di cavaliere vuole che a quest’ora io mi metta in cammino.
– Di già! – gemette Priscilla. – Proprio adesso!
– Mi duole, gentile dama, ma sono spinto da un compito più grave.
– Oh, era così bello…
Agilulfo chinò il ginocchio. – Benedicetemi, Priscilla -. S’alza, già chiama lo scudiero. Gira per tutto il castello e finalmente lo scova, sfinito, addormentato morto, in una specie di canile. – Svelto, in sella! – Ma deve caricarlo di peso. Il sole continuando la sua ascesa campisce le due figure a cavallo sull’oro delle foglie del bosco: lo scudiero come un sacco là in bilico, il cavaliere dritto e svettante come la sottile ombra d’un pioppo.
Attorno a Priscilla erano accorse dame e fantesche.
– Com’è stato, padrona, com’è stato?
– Oh, una cosa, sapeste! Un uomo, un uomo…
– Ma diteci, raccontateci, com’è?
– Un uomo… un uomo… Una notte, un continuo, un paradiso…
– Ma che ha fatto? Che ha fatto?
– Come si fa a dire? Oh, bello, bello…
– Ma con tutto che è così, eh? Eppure… dite…
– Adesso non saprei come… Tante cose… […]
Padrona, diteci di lui, del cavaliere, eh? com’era Agilulfo?
– Oh, Agilulfo!
(Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, Milano, Oscar Mondadori, 1993, pp. 87-93)

8. L’assistenza sessuale in Europa: una ricerca comparata

Veniamo ora uno dei temi più controversi e difficili da affrontare in termini giuridici, contrattuali, di ruolo, e perfino di genere: quello dell’assistenza sessuale. L’assistenza sessuale è una forma di accompagnamento erotico per aiutare le persone a scoprire il proprio corpo attraverso la relazione con l’altro o l’altra, come una sorta di sperimentazione che dovrebbe condurre a una maggiore autonomia e stima di sé. Può consistere per esempio in massaggi, carezze, giochi di scoperta del corpo e della sessualità in senso ampio, quindi non solo e non necessariamente genitale. Non è da confondersi con la prostituzione, perché non esiste sfruttamento. Per alcune forme di disabilità, sia fisiche che intellettive, particolarmente serie, potrebbe essere una soluzione. Attualmente è in corso una battaglia per avere anche in Italia il riconoscimento giuridico degli assistenti sessuali, figure professionali che esistono già in alcuni Paesi europei ed extraeuropei. Se il percorso dell’assistenza sessuale – lo ribadiamo – non viene però accompagnato da un percorso di elaborazione culturale, si rischia che gli assistenti sessuali diventino un “parcheggio” o un alibi per non preoccuparci più del tema della sessualità delle persone disabili. Prima di “copiare” un modello tout court, sarebbe necessario conoscere bene come funziona l’assistenza sessuale nei Paesi dove è già applicata, e quali controindicazioni si siano rivelate. In quali Paesi dell’Unione Europea esistono servizi di assistenza sessuale “ufficiali” per persone con disabilità? E con quali percorsi si è giunti a regolarizzarli? Come questi servizi rientrano nei servizi di welfare rivolti alle persone con disabilità e in che forme si contribuisce alla loro fruizione? Quali percorsi di formazione e accreditamento esistono per poter diventare un assistente sessuale riconosciuto? La professione dell’assistente sessuale è esclusivamente femminile? Lo abbiamo chiesto a Giulia Garofalo Geymonat, ricercatrice al Centre for Gender Studies dell’Università di Lund, in Svezia, che sta conducendo una ricerca comparata dal titolo “Commercial Sex, ‘Sexual Assistance’ and People with Disabilities: A Qualitative Inquiry on Sweden, Britain and Switzerland”, finanziata dal Seventh Framework Programme of the European Union (Marie Curie).
di Giulia Garofalo Geymonat

Innanzitutto è bene chiarire che l’uso del termine di “assistenza sessuale” (sexual assistance, assistance sexuelle, ecc.) si sta affermando solo negli ultimi anni – e va a indicare una serie di pratiche tra loro abbastanza diversificate, e che nei vari Paesi possono via via chiamarsi in modi diversi: per esempio in Svizzera si è usato, e ancora si usa, l’espressione “accompagnamento sessuale” oppure anche, a un certo punto, in riferimento a chi offre il servizio “accarezzatrice-accarezzatore”. In Danimarca, esiste una figura professionale di assistente sessuale che va sotto il nome di “consigliere-a sessuale” (sexual advisor). Negli Stati Uniti si parla molto di “partner sostitutivi-e” (surrogate partners). E così via.
In senso largo dunque si tratta di forme di accompagnamento erotico per aiutare le persone con disabilità a scoprire il proprio corpo attraverso la relazione, anche corporea, con l’altro o l’altra, come una sorta di sperimentazione che dovrebbe condurre a una maggiore autonomia e stima di sé. Può consistere per esempio in massaggi, carezze, giochi, di scoperta del corpo e della sessualità in senso ampio, quindi non solo e non necessariamente genitale. Questo accompagnamento può rivolgersi anche a coppie, di solito formate da due persone con disabilità. Detto questo, l’assistenza sessuale può anche limitarsi a fornire aiuto per così dire tecnico – sollevare, guidare la mano, mettere in posizione un vibratore, ecc. – nel caso di chi sappia cosa desidera ma non riesca fisicamente a farlo. Esistono forme di assistenza sessuale rivolte a persone con disabilità di ogni tipo, a condizione che si trovino modi, anche non verbali, per riuscire a comunicare il consenso e il piacere.
Questo tipo di figura è riconosciuta in alcuni Paesi dell’Unione Europa: Olanda, Germania, Austria, Svizzera (parti germanica e francofona) e Danimarca. Negli altri Paesi, per esempio in Italia, ma anche la Francia, l’Inghilterra, e tanti altri, l’assistenza sessuale esiste in forme non ufficialmente riconosciute e non completamente legali. Questo significa che viene fornita da persone che non hanno potuto seguire corsi specializzati, e con poche protezioni e garanzie per le varie parti coinvolte. Normalmente si tratta di sex workers (lavoratrici e lavoratori del sesso) con una particolare sensibilità ed esperienza con le persone disabili, magari anche nel campo dell’assistenza personale, o che hanno anche formazioni come massaggiatrici, massaggiatori, counselor olistici, e così via. Per farsi un’idea si veda per esempio il sito dell’associazione inglese TLC Tender Loving Care (www.tlc-trust.org.uk).
In ogni caso, il tipo di relazione che si instaura tra l’assistente sessuale e i suoi beneficiari mette spesso in crisi i sistemi legislativi, perché, essendoci contatto di natura sessuale associato esplicitamente a scambio di denaro, si tratta tecnicamente di un servizio sessuale, e dunque tendenzialmente si applicano le leggi che regolano la prostituzione.
Non è un caso infatti che per lo più i Paesi in cui l’assistenza sessuale è ufficialmente praticata siano Paesi in cui tutti i servizi sessuali sono riconosciuti come lavoro e servizio. Questo succede in Olanda, Germania, Austria e Svizzera – e fuori dall’Europa, per esempio in Australia. In due parole significa che ci troviamo in sistemi legislativi in cui i generici servizi che chiamiamo “prostituzione”, qualora siano praticati tra persone maggiorenni e consenzienti vengono, a seconda dei casi, vietati, o viceversa appoggiati e riconosciuti dallo Stato a seconda che siano svolti in condizioni accettabili oppure non accettabili per chi li offre, per chi li riceve, e per la società nel suo complesso. In questi contesti il percorso che ha portato allo sviluppo della professione di assistenza sessuale (al di là del nome che viene usato) si basa di solito sull’incontro fra un’associazione di persone disabili, e un’associazione di persone che già forniscono questo tipo di servizi in modo non riconosciuto, e cioè per lo più, associazioni di sex workers. Esemplare in questo senso è l’esperienza di Touching Base in Australia (www.touchingbase.org), associazione nata nel 2000, e che recentemente ha prodotto un documentario che si chiama Scarlet Road. Per quanto riguarda l’Europa, questo processo è iniziato in Olanda negli anni ’80, con l’associazione SAR, diventata importante negli anni ’90, e in Germania, con l’associazione SENSIS, nata nel 1995.
In un clima legislativo che riconosce e valorizza le associazioni di sex workers e il loro lavoro (nonché le associazioni di persone disabili e il loro lavoro), questo tipo di dinamica porta tipicamente a corsi di formazione concordati, diplomi, formazione continuativa, carte di comportamento etico, supervisione terapeutica, prezzi concordati, ecc. Si veda per esempio il caso dell’associazione svizzera francofona Sexualité et Handicaps Pluriels (SEHP) che certifica assistenti sessuali (donne e uomini) che lavorano con donne e uomini con disabilità, dopo aver seguito un corso di formazione che integra conoscenze sulle disabilità, sulle sessualità, sulla comunicazione, ecc. Un ruolo simile, sempre in Svizzera francofona, sta giocando anche la più recente associazione Corps Solidaires. In questo tipo di contesti, l’assistenza sessuale può qualche volta staccarsi del tutto dalla disciplina giuridica della prostituzione, come è il caso nel Cantone di Ginevra dal 2009, oppure restare inquadrata come un tipo molto particolare di servizio prostituzionale, che segue regole molto particolari.
Esiste poi un caso un po’ diverso, in Danimarca, Paese in cui la legge sulla prostituzione è abbastanza simile a quella italiana (e francese, e inglese). In Danimarca, una decina di anni fa, è stata introdotta la figura del-la sexual advisor. I sexual advisors, donne e uomini, sono assistenti socio-sanitari che sono ulteriormente formati e si occupano, soprattutto all’interno di istituti e centri, di accompagnare in un percorso di crescita sessuale le persone con disabilità che in qualche modo ne manifestino il desiderio. Questo può andare dalla conversazione in privato, all’aiuto concreto nella masturbazione o nel rapporto con un-a partner, alla ricerca di un-a sex worker,  all’esplorazione concreta del proprio orientamento sessuale, e così via. In questo caso, l’assistente sessuale esclude il fatto di “fare sesso con” la persona disabile, cioè di usare direttamente il proprio sé sessuale e dunque porsi come partner sessuale, per qualunque pratica. Questo diventa molto chiaro nel fatto che l’assistente sessuale può essere di un genere che non corrisponde all’orientamento sessuale della persona che ne beneficia. Per esempio un’assistente donna può aiutare un uomo gay o una donna eterosessuale così come un assistente uomo può aiutare un uomo eterosessuale. Questa soluzione permette, tra le altre cose, all’assistenza sessuale di svilupparsi in un campo legislativamente ben distinto dalla prostituzione.
Il contenuto della formazione varia a seconda dei contesti, e include elementi di studi delle disabilità, di sessualità, di stigma e di discriminazione, nonché legislazione e counseling. A definire le formazioni contribuiscono, oltre che le associazioni di persone disabili e le associazioni di assistenti sessuali, anche spesso associazioni che lavorano sui temi della salute sessuale, e associazioni che lavorano contro la violenza sessuale contro le persone disabili, in particolare le donne. Esemplare è in questo senso l’associazione FaBS, in Svizzera tedesca, creata dalla psicoterapeuta femminista Aiha Zemp, che vive con disabilità, e che ha sostenuto attivamente l’introduzione dell’assistenza sessuale come uno degli strumenti per rendere le persone disabili, e in particolare le donne disabili, più capaci di conoscere concretamente i propri desideri e limiti sessuali, e dunque reagire agli abusi di cui sono vittime spesso nell’ambiente familiare o del centro o istituto in cui risiedono.
Per chi di noi ha visto il film The Sessions, può essere interessante sapere che negli Stati Uniti (che ha una legge sulla prostituzione completamente proibizionista), la professione di assistente sessuale che viene interpretata da Helen Hunt, più precisamente chiamata sex surrogate (partner sessuale sostituta o sostituto), è molto ai margini, non è riconosciuta ed è semi-illegale. Questo tipo di pratica, detta Surrogate Partner Therapy, che fu ampiamente usata dai prestigiosi sessuologi Masters and Johnson dagli inizi degli anni ’70, è sostanzialmente una forma di accompagnamento sessuale che viene raccomandato e supervisionato da psicoterapeuti, o eventualmente medici di altro tipo, non solo a persone con disabilità ma anche a persone che vivono problemi nella sfera della sessualità (si veda ad esempio il sito dell’associazione IPSA che esiste dal 1973, www.surrogatetherapy.org).
Fra le questioni più dibattute in questo campo ci sono i rischi di abuso e sfruttamento dell’assistente sessuale, e anche, per ragioni diverse, della persona beneficiaria.
Il fatto che il servizio dell’assistente sessuale venga pagato pone la questione della dipendenza economica e quindi dell’eventuale sfruttamento e abuso dell’assistente sessuale – che, come può succedere nella prostituzione – può trovarsi a fare cose che non vorrebbe fare o accompagnare persone che non vorrebbe accompagnare semplicemente per bisogno di denaro. D’altra parte, la persona beneficiaria potrebbe trovarsi in una situazione di eccessiva dipendenza emotiva dall’assistente sessuale, oppure confusione sulla natura del rapporto. In risposta a queste problematiche, le varie associazioni hanno sperimentato diversi accorgimenti. In alcuni contesti, si pensa che le e gli assistenti sessuali debbano avere una certa età minima (30 anni per esempio), e fonti alternative di reddito, in modo da limitarne il rischio di sfruttamento. In altri contesti, si tende a pensare che debbano essere escluse a priori alcuni tipi di pratiche sessuali giudicate troppo intime, come ad esempio il sesso penetrativo oppure quello orale. In altri ancora, si tende a limitare il numero d’incontri possibili. Questi accorgimenti comunque cambiano nel tempo, e in generale restano flessibili, mentre molto importante sembra essere il fatto che le e gli assistenti sessuali facciano parte di associazioni e gruppi che garantiscono una formazione continua, una messa in discussione delle pratiche, una supervisione terapeutica, e così via.
Un altro elemento che attira molta attenzione è quello dell’accessibilità economica del servizio. Da un lato è caratteristica fondamentale di questo tipo di rapporto che le e gli assistenti sessuali siano correttamente remunerati per un servizio qualificato, e in ogni caso che non offrano il loro servizio gratuitamente – la presenza del denaro aiuta infatti a segnalare il fatto che si tratta di una relazione ben circoscritta e di scambio equilibrato, anziché di dono che poi comporterebbe una situazione di disparità e ambiguità. Dall’altro è chiaro che per molte persone disabili può essere difficile aggiungere una spesa alla loro già difficile situazione economica. Di fronte a questo problema, molte associazioni di assistenti sessuali si danno dei prezzi standard e che riflettono le reali possibilità dei loro beneficiari, oppure creano casse di redistribuzione attraverso le quali per esempio i beneficiari più ricchi pagano un po’ anche per i più poveri. A un altro livello, in alcuni Paesi si è posta la questione del finanziamento da parte di enti pubblici o assicurazioni sanitarie, che attualmente avviene in casi molto rari. Secondo alcuni esperti e parti coinvolte, questo tipo di finanziamento non è in ogni caso auspicabile, perché può significare un’ingerenza dei finanziatori e dei medici in una sfera che dovrebbe restare il più privata possibile.
Infine, la questione di genere, e di orientamento sessuale, su cui giustamente si insiste molto. Esiste assistenza sessuale per donne, e per persone non eterosessuali? In una situazione in cui l’assistenza sessuale è fornita in forme semi-illegali e non riconosciute, il suo legame con l’industria del sesso in generale ne limita molto l’accesso alle donne disabili, visto che il mercato della prostituzione è tradizionalmente costruito e organizzato per clienti uomini. Non stupisce dunque che a fornire assistenza sessuale non riconosciuta siano quasi solo donne o uomini che lavorano con uomini. Invece, nei contesti in cui l’assistenza sessuale è riconosciuta, pensata, discussa, organizzata pubblicamente, esiste anche un certo numero di uomini formati per offrire servizi a donne, e di donne formate per offrire servizi a donne, anche se la maggior parte dei beneficiari restano uomini.

7. (S)exploring Disability: le differenze di genere, le strategie e l’educazione sessuale

L’argomento “sessualità e disabilità” può essere analizzato correttamente senza considerare la prospettiva di genere, le differenze con cui uomini e donne con disabilità fanno esperienza di questa dimensione delle proprie vite? Kirsty Liddiard è una ricercatrice in sociologia britannica, ora residente presso la Ryerson University di Toronto (Canada); quando si trovava presso la Warwick University (Regno Unito), tra il 2008 e il 2011, ha compiuto una ricerca chiamata (S)exploring Disability. Intimacies, Sexualities, and Disabilities, che coinvolgeva lo studio delle storie di vita di 26 persone, di età da 20 a 64 anni e tutte (con una sola eccezione) con disabilità, nell’Inghilterra sud-orientale. La sua ricerca, concentrata sugli stereotipi (di genere) sessuali e su come le persone disabili li gestiscono nella propria vita reale, può essere consultata. Abbiamo discusso di questi argomenti con Kirsty, che prosegue in Canada la sua ricerca sui pregiudizi socio-culturali a proposito di sesso e disabilità.

Nella generale mancanza di consapevolezza sociale a proposito della sessualità delle persone disabili, come si collocano le differenza di genere tra uomini e donne? Si pensa alle donne disabili come ancor meno bisognose di una dimensione sessuale nella propria vita?
C’è una significativa mancanza di consapevolezza intorno ai problemi di sesso, sessualità e salute sessuale per le persone disabili. Questa mancanza di consapevolezza è radicata, in primo luogo, all’interno della desessualizzazione culturale delle persone disabili: il processo attraverso cui alle loro vite, identità e corpi vengono attribuiti particolari stereotipi sessuali. Tali stereotipi sono nel caso migliore erronei, e in quello peggiore profondamente oppressivi, assegnandoci abitualmente un ruolo di asessuali (mancanti di qualsiasi sentimento e desiderio sessuale) o di sessualmente inadeguati, perché le nostre pratiche sessuali e i nostri corpi menomati disturbano le restrittive norme (etero)sessuali che privilegiano solo una sessualità penetrativa, spontanea e fisica, che richiede corpi pienamente funzionanti, autonomi, agili (per non dire attraenti, flessuosi e duttili). Paradossalmente, altri di noi sono giudicati ipersessuali o sessualmente devianti e perversi. Dove ci si riconosce un’identità sessuale, è normalmente solo entro il regno dell’eterosessualità, lasciando ulteriormente escluse le persone con disabilità lesbiche, gay, bisessuali, transgender e queer. Tali stereotipi sono radicati in una moltitudine di fattori, ma fondamentalmente derivano da come le nozioni delle nostre vite, corpi e identità come sessuali turbano le costruzioni più ampie delle persone disabili come inerti, vulnerabili, inabili, e perfino infantili. Soprattutto, i nostri piaceri e le nostre pratiche sessuali diverse sfidano la nozione comune secondo cui non si presume che le persone disabili facciano sesso o lo desiderino affatto. Ciò può essere ulteriormente evidenziato dalle costruzioni normative di genere all’interno dell’eterosessualità. Le costruzioni dominanti della sessualità eteronormativa maschile e femminile restringono i nostri desideri e pratiche sessuali ad aspettative o supposizioni secondo convenzioni di genere: che la mascolinità sia sinonimo di impulsività sessuale, urgente bisogno sessuale, e dominio sessuale; e che la femminilità si identifichi solo con l’incarnare l’attrattiva sessuale, l’essere attraenti e seduttive (sebbene anche, in modo impossibile, l’essere allo stesso tempo riservate e sessualmente passive), e, in definitiva, determinate a facilitare il desiderio sessuale maschile. La mia ricerca sociologica, che ha cercato di esplorare le esperienze di vita sessuale e intima di persone disabili attraverso le loro stesse storie sessuali, ha mostrato che le persone disabili che s’identificano come eterosessuali possono non essere escluse da questi ruoli sessuali prescrittivi basati sul genere. Perciò, la mia analisi ha mostrato che il discorso eteronormativo non solo toglieva autorità a uomini e donne disabili, ma dava autorità agli uomini disabili rispetto alle donne disabili. Il fatto che l’eteronormatività sia un discorso al servizio dei maschi significava che funzionava per gli uomini disabili attraverso mezzi e spazi particolari dove non funzionava per le donne disabili, e così creava esiti e opportunità differenti per uomini e donne (disabili). Perciò, molti uomini disabili erano sessualmente dominanti ed esercitavano più attività sessuale a causa del loro accresciuto accesso al potere sessuale che la mascolinità, l’eterosessualità e l’eteronormatività ‒ come discorsi maschili ‒ fornivano.

Lei afferma che “i partecipanti maschi spesso avevano un accesso molto migliore a sistemazioni in cui si potesse pagare il sesso attraverso un’operatrice sessuale”, ma che molti di loro “erano rimasti insoddisfatti e inappagati a seguito di queste attività”. Pensa che l’assistenza sessuale sia un modo per assicurare la soddisfazione dei bisogni sessuali, o che sia una soluzione che rafforza le disuguaglianze di genere e crea conflitti nel campo dell’affettività (ad esempio innamorarsi di un’operatrice sessuale) in coloro che ne fanno uso?
Pagare per il sesso lo considero come una forma legittima di accesso sessuale per le persone disabili (e le altre), ma ‒ ed è cruciale ‒ non come l’unica forma di accesso sessuale per le persone disabili. Inoltre, dobbiamo riconoscere che, poiché si tratta di una forma di lavoro sostenuto dal patriarcato e dal capitalismo, può essere anche una forma di esclusione. Il patriarcato, un sistema sociale che offre agli uomini maggiore potere sociale e sessuale che alle donne, e il capitalismo, un sistema economico in cui i corpi, il sesso e il piacere sono merci disponibili, collaborano per assicurarsi che i mercati del lavoro sessuale commerciale soddisferanno sempre i bisogni degli uomini più che delle donne, disabili o meno. Nella mia ricerca, 7 uomini su 16 avevano pagato per sesso almeno una volta; nessuna partecipante femmina aveva pagato per sesso. L’acquisto di sesso degli uomini disabili è spesso costruito all’interno di campagne per i diritti della disabilità (e, ironicamente, all’interno di certe aree della letteratura del lavoro sessuale femminista) su un “bisogno” di gratificazione sessuale basato sulla biologia e non corrisposto, che li pone come vittime sessuali. Questa costruzione dell’essere sessualmente vittima del maschio disabile, combinata alle costruzioni dominanti delle operatrici sessuali come devianti, criminali e “disonorate”, rende facile ritenere che la maggior parte del potere nello scambio del lavoro sessuale sia nelle mani dell’operatrice sessuale. Tuttavia, la mia analisi delle interazioni dei partecipanti maschi con le operatrici sessuali normodotate ha rivelato una grandissima complessità di dinamiche di potere. I dati hanno mostrato che le operatrici sessuali possono dispiegare un maggiore potere nel proprio lavoro con i clienti disabili (in confronto a clienti normodotati) a causa della “vulnerabilità” di alcuni uomini disabili in questo contesto (per esempio, alcuni uomini hanno denunciato attività criminale e furto, rifiuto, raggiri nell’orario e nelle tariffe e scarsa qualità del servizio). Tuttavia, attraverso il proprio ruolo di consumatori di sesso commerciale, i partecipanti maschi potevano rivendicare un considerevole potere sulle operatrici sessuali, spesso in modi simili ai clienti maschi normodotati. Per esempio, questo poteva avvenire vagliando i loro corpi fisici, o denigrando i loro gruppi etnico-razziali, la loro provenienza sociale, la loro femminilità o il loro pudore; disobbedendo alle regole stabilite dal “contratto”; e aspettandosi (senza voler pagare) un “sincero” lavoro impegnato, che richieda l’apparenza della sospensione dell’identità e della soggettività dell’operatrice.
Per fare un esempio concreto, per la maggior parte degli uomini disabili che hanno pagato per sesso, il valore dello scambio di lavoro sessuale era calcolato in base alla prestazione dell’operatrice sessuale, e la maggior parte era capace di discernere cosa costituisce una “buona” o “cattiva” operatrice sessuale. Per esempio, una “buona” operatrice sessuale era “pudica” in quanto molti uomini preferivano operatrici sessuali che non avessero mai svolto lavoro sessuale o con scarsa esperienza, o che fossero selettive quanto ai clienti. Allo stesso tempo, lei doveva essere economica, attraente, professionale, puntuale, adattabile alla fiducia e alle necessità di accesso del maschio, ben informata su deficit e disabilità, disponibile, onesta, calorosa e sincera (non troppo meccanica nel suo lavoro), brava nel chiacchierare e nel fare commenti spiritosi, non troppo preoccupata dell’orario, non doveva rubare o raggirare, e doveva essere convincente sul fatto che volesse fare sesso con il cliente. Contemporaneamente, una cattiva operatrice sessuale (che non “valeva i soldi”) era brusca, meccanica, precipitosa o veloce (quindi troppo consapevole dell’orario), sotto l’influsso di droghe o alcool, inadattabile, aveva troppe “regole” (es. niente baci), era falsa, respingente, non attraente, grassa, vecchia, e, secondo un uomo, “non nera”. Pertanto, queste risultanze minano i discorsi che pongono gli uomini disabili unicamente come vittime sessuali, spogliati del potere maschile a causa della loro emarginazione dalla mascolinità egemonica, e suggeriscono che la loro identità di disabile e il loro deficit non cancellino interamente il loro potere maschile o l’opportunità sessuale all’interno di un contesto commerciale. Non sto in alcun modo suggerendo che dovremmo spostare il nostro disprezzo dalle operatrici sessuali sugli uomini disabili, ma comprendere meglio – come mostrano queste risultanze – che le relazioni di potere che possono aver luogo all’interno degli scambi di lavoro sessuale commerciale sono intricatamente sfaccettate.

Nella sua ricerca “alcuni partecipanti hanno ideato strategie, per gestire questi fattori corporei, che, benché richiedessero lavoro, assicuravano che i loro corpi potessero essere siti di piacere e godimento sessuale”. Quali strategie concrete adottavano, specialmente quando implicavano i bisogni contrastanti di supporto fisico da parte di persone esterne e di privacy?
Nella mia ricerca, a uomini e donne disabili veniva significativamente tolta autorità da norme sessuali sociali e culturali ristrette, che ritengono la pratica sessuale riuscita quando: necessaria; penetrativa; spontanea; reciprocamente piacevole nello stesso momento (ad esempio che i partner raggiungano insieme l’orgasmo); intrinsecamente fisica; e legata alle regole sessuali convenzionali (eterosessuali) basate sul genere. Significativamente, la maggior parte si impegnava per corrispondere a tali norme sessuali e si considerava un fallimento sessuale se ciò non era possibile – mostrando quanto possano essere potenti queste norme. Così, molti partecipanti sostenevano queste norme sessuali, che avevano un considerevole impatto sulle loro esperienze di sesso e intimità, come tanto “naturali” quanto “fisse” (come la maggior parte di noi). Tuttavia, altri mostravano che il corpo con deficit può sfidare questa (di nuovo, molto ristretta) incarnazione del sesso e della sessualità, e può in effetti servire per espanderla. Prendete, per esempio, il piacere sessuale. Ci sono molte “dure realtà fisiche” che possono accompagnare un corpo con deficit, a prescindere dal fatto che il deficit sia congenito (dalla nascita) o acquisito. I partecipanti alla mia ricerca parlavano regolarmente di dolore, spasmi, incontinenza, sfregi, una perdita di eccitazione o una sua diminuzione, immobilità e debolezza – le realtà dei loro corpi che contraddicono i nostri presupposti di ciò che costituisce un “corpo sexy (o sessuale)”. Tuttavia, alcuni hanno potuto ideare strategie per gestire questi fattori corporei. Per esempio, persone con lesione al midollo spinale (che dicevano di non provare più l’orgasmo nel modo in cui lo provavano prima della lesione) hanno riferito di aver imparato a esplorare i propri corpi in modi unici, per trovare nuovi modi di provare piacere sessuale fuori dalla categoria dell’orgasmo convenzionale. Altri hanno esplorato e trovato nuove zone erogene tramite cui potevano raggiungere l’orgasmo, che spesso erano da tutt’altra parte rispetto alle zone erogene standard (ad esempio la spalla). Inoltre, persone con deficit che costringevano a immobilità, debolezza muscolare, spossatezza e dolore hanno detto che queste esperienze corporee avevano migliorato la loro immaginazione sessuale; la loro conoscenza di e creatività con le posizioni sessuali; e le avevano incoraggiate a esplorare tipi diversi di contatto, comportamento ed eccitazione. C’è una moltitudine di modi per espandere le nostre idee prescrittive sul piacere e la pratica sessuali. Una donna che soffriva di estrema spossatezza si assicurava di fare sempre sesso di mattina, il momento della giornata in cui aveva più energie; altri rifiutavano le nozioni “hollywoodizzate” di spontaneità e dicevano che il sesso programmato non doveva essere per nulla meno sexy. Un uomo ha detto che i suoi spasmi accrescevano il suo piacere sessuale, perché i suoi muscoli si rilassavano spontaneamente in occasione dell’orgasmo. Un’altra coppia ha condiviso il fatto che avevano imparato a de-centrare l’orgasmo dalle loro attività sessuali, perché la considerevole pressione per “raggiungere” l’orgasmo stava sminuendo le loro esperienze. Benché ciò non sia avvenuto nel giro di una notte (perdonate il gioco di parole), e abbia richiesto un lavoro considerevole, essi hanno abbandonato con successo la nozione di orgasmo come necessità per sesso e piacere, e, ironicamente, hanno detto che come risultato provavano molto più piacere, contatto erotico e sensuale, e vicinanza. Significativamente, la maggior parte delle strategie di cui parlo qui, che sfidano veramente le idee della società su cosa costituisce un “corpo sexy”, esistevano non malgrado la disabilità e il deficit, ma a causa loro.
Nessuno tra i partecipanti alla ricerca riceveva supporto da una terza persona durante i rapporti sessuali, benché ciò possa essere comune per le persone disabili e sia noto come sessualità facilitata. Le forme di sesso facilitato possono essere oggetti del contendere che comprendono questioni morali, sociali, pratiche, finanziarie, legali ed emotive. Il presupposto comune è che la sessualità facilitata coinvolge solo una terza persona (abitualmente un assistente/addetto) che supporta fisicamente, per esempio, il rapporto sessuale o masturba una persona disabile quando non può farlo da solo. Tuttavia, il sesso facilitato comprende in realtà una vasta gamma di attività; per esempio, assistere qualcuno nel prepararsi per un appuntamento, sostenere uno scambio di lavoro sessuale (come era comune nella mia ricerca), aiutare qualcuno a indossare biancheria sexy, ecc. 

In base alle esperienze delle persone che ha incontrato per la sua ricerca, un’esperienza sessuale soddisfacente è qualcosa che si può raggiungere solo dopo aver accettato il deficit del proprio corpo? O, al contrario, il sesso può essere un mezzo tramite cui raggiungere questa auto-accettazione?
Per le persone nella mia ricerca che avevano acquisito i loro deficit, accettare, esplorare e acquisire dimestichezza con un “nuovo” corpo poteva essere un compito molto difficile – ma non uno insormontabile. Coloro che erano già in relazioni intime al momento dell’acquisizione del deficit riferivano che la loro relazione aveva rappresentato uno spazio rassicurante e di sostegno cruciale, che aveva alleviato la transizione da un’identità normodotata a una disabile.
Per i partecipanti più giovani, in particolare quelli con patologie neuromuscolari con inizi in età preadolescenziale/adolescenziale, l’adolescenza includeva allora una difficile negoziazione per scendere a patti con un deficit acquisito da poco e l’identità disabile, e al contempo l’avere a che fare con il tipico tumulto della vita adolescenziale e la formazione di un’identità sessuale. Ciò era spesso altamente conflittuale, e veniva esplicitamente detto che la transizione da un’identità normodotata a una disabile ostacolava le opportunità sociali e sessuali.
Non era inconsueto che le persone con deficit acquisito si sentissero asessualizzate a seguito della transizione verso un’identità disabile, e sentissero i loro “nuovi” corpi (che non potevano più raggiungere il piacere in modi normativi) come scomodi; ciò avveniva fondamentalmente perché provare piacere poteva ora sfidare i preconcetti culturalmente dominanti di come (e dove) il piacere e l’eccitazione erogena doveva aver luogo. Alcuni hanno trovato ciò liberatorio, e hanno potuto espandere le nozioni normative di sesso e piacere; altri lo hanno trovato più difficile. Per esempio, un partecipante maschio che aveva avuto di recente una lesione spinale riferiva un’eccitazione aumentata al di fuori delle zone erogene standardizzate (ad esempio le braccia), e diceva che questo lo rendeva più sensibile al contatto “in modo piacevole”. In modo decisivo, tuttavia, sentiva che non era proprio un sostituto per la perdita dell’eccitazione genitale. Ciò non è sorprendente, tenendo presenti i modi in cui impariamo da principio sul sesso, e ci facciamo affermare culturalmente, ovunque, piaceri e pratiche sessuali genitali normative. Curiosamente, questi partecipanti spesso trovavano i piaceri sessuali difficili da descrivere, suggerendo come ci sia poco linguaggio o lessico alternativo tramite cui enunciare il piacere (etero)sessuale al di fuori di “orgasmo” e “culmine”. In aggiunta, perfino i piaceri possono essere anche difficili da definire, dato che “orgasmo” e “culmine” sono, in un certo senso, descrizioni di “eventi” piuttosto che di sentimenti, suggerendo che il linguaggio sessuale eterosessuale sia ristretto a convenzioni molto prevedibili.

Lei rivendica la “necessità di maggiore consapevolezza e educazione che circondi disabilità e sessualità, in una varietà di spazi e istituzioni diverse”. Come sarebbe possibile un’educazione sessuale mainstream per i più giovani che tenga in considerazione la specificità della sessualità delle persone disabili? E più in generale, quali passi devono essere fatti per raggiungere l’uguaglianza sessuale in questo campo, come auspica nelle sue conclusioni?
Abbiamo necessità di educazione sessuale di migliore qualità per tutti. Come ha detto nella mia ricerca un giovane disabile, che era stato tolto da una lezione di sesso convenzionale nella sua scuola mainstream e messo in una sessione speciale per studenti disabili (considerata rivoluzionaria dalla scuola), “insegnare a tutti gli studenti insieme le sessualità di tutti sarebbe molto più rivoluzionario”. Perciò, abbiamo bisogno di lavorare per un’educazione al sesso che includa una diversità di corpi, sessualità ed esperienze, non importa quanto lontano da ciò stiamo al momento. Abbiamo anche bisogno di una migliore formazione di educazione e consapevolezza per chiunque lavori con o per le persone disabili su problemi di sessualità, salute sessuale e genere. Inoltre, abbiamo bisogno di insegnare precisamente alle persone disabili giovani le capacità e possibilità dei loro corpi (sessuali), piuttosto che le limitazioni; e, quando parliamo di disabilità e sessualità, abbiamo bisogno di cercare di ascoltare le voci delle donne disabili, i cui desideri ed esperienze potrebbero essere inavvertiti o, peggio, trascurati – a causa dei modi basati normativamente sul genere in cui costruiamo la sessualità e il genere.

6. “Questo corpo è mio, questo corpo mi appartiene”: il diritto al corpo

A volte si sottovaluta che siamo prima di tutto un corpo, fatto in un certo modo, con dei confini fisici ben precisi con i quali esperiamo ciò che ci circonda. Molto di ciò che siamo come persone deriva dal corpo, è il corpo il nostro primo “strumento” di conoscenza della realtà. Essere estroversi, vivaci, allegri, tristi, depressi, rinchiusi in se stessi, avere fiducia in sé e negli altri sono tutti modi di essere e di agire che ci derivano dall’avere un corpo fatto in un certo modo o dalla percezione che abbiamo del nostro corpo. Quando su un corpo intervengono dei limiti oggettivi come i deficit, la persona può avere meno fiducia in se stessa, o essere demotivata, o provare un senso di rifiuto per il proprio corpo percepito come non bello perché non simile ai corpi degli altri. La disabilità passa prima di tutto dal corpo, è un corpo diverso; e valorizzare ugualmente il proprio corpo, nel senso di dargli comunque un valore per quello che ci fa essere, può risultare un’operazione non molto semplice per una persona disabile. Lo stesso guardarsi allo specchio, e piacersi, sembra spesso impossibile. “Se pensiamo, poi, al percorso di formazione dell’identità corporea di una persona disabile – scrive Priscilla Berardi nell’articolo “Sessualmente abili” pubblicato sulla rivista “Connessioni” (n. 25, gennaio, 2011) – non possiamo non considerare che la sperimentazione del proprio corpo, dello spazio che lo circonda e dell’attività in questo spazio può essere frustrante, impedendo di coniugare emozioni e movimento; l’eventuale patologia alla base della disabilità, soprattutto se progressiva, può far esperire un senso di mancanza di controllo sugli eventi, sulla realtà circostante e su di sé, originando sentimenti di inefficacia e non-incisività; ogni esperienza che per altri avviene in modo del tutto naturale e armonico, come andare a scuola, giocare coi compagni, dedicarsi a uno sport, prendere un mezzo di trasporto, trovare amici o partners affettivi e sessuali, possono essere per la persona con disabilità un’esasperante sequenza di sfide e di micro o macro problemi, pratici e relazionali, che certamente possono temprare il carattere di alcuni e allenarli a lottare e a inventare soluzioni originali, ma possono fiaccare la volontà e l’umore di chi in generale, o in quel momento, possiede meno risorse interiori ed esterne; alcune disabilità impongono una dipendenza parziale o totale dalle cure di altri (familiari e/o operatori) che traducono i bisogni in azioni penalizzando però spesso pesantemente la privacy; ma soprattutto il corpo della persona disabile è, sin dall’esordio della disabilità, ‘trattato’ e non ‘toccato’, sottoposto a manipolazioni sgradite, iperinvestito di cure, indagini e interventi, molto diversi dalle carezze e dal contatto che dona piacere, e spesso accompagnati da sentimenti di angoscia o preoccupazione”.
Ci si ritrova, dunque, a essere trattati e maneggiati come marionette. Si può arrivare, in alcuni casi, a non avere la percezione completa e totale del proprio corpo, e questo incide molto negativamente sulla costruzione della propria identità, e del proprio ruolo, perché è il corpo l’interfaccia di ognuno di noi con l’altro, ciò che ci mette in relazione, in comunicazione, in contatto. Come si può riuscire ad avere uno spazio in cui essere uomo o donna, se non esiste privacy, perché ogni movimento è osservato e aiutato da qualcuno? Come avere percezione completa del proprio corpo, attraverso se stessi e non attraverso ciò che ci viene detto o fatto pensare dagli altri?
Al Centro Documentazione Handicap, all’interno del Progetto Calamaio, è stato realizzato un lungo percorso laboratoriale di conoscenza di sé, a cura del mio collega Tristano Redeghieri, per aiutare i giovani ragazzi disabili che lavorano con noi a costruire un’identità personale consapevole delle proprie difficoltà ma anche delle proprie risorse, per conoscere meglio la propria disabilità e anche la propria diversità rispetto agli altri, e poter trasformare – dove possibile – la diversità in originalità. I ragazzi partecipanti al laboratorio hanno disabilità molto complesse, con gravi perdite dell’autonomia fisica e deficit intellettivi lievi/medi. Sono anche molto giovani, alcuni hanno disabilità acquisite e/o degenerative.
Al primo incontro si è chiesto ai ragazzi di disegnare una persona reale o immaginaria e poi di descriverla davanti a tutti. In seguito bisognava presentare se stessi; alcuni esempi:
Sono Diego e sono in carrozzina, ma vorrei non esserci. Sono come tutti gli altri, anche se non è così. (Diego)
Io sono una ragazza di 26 anni, sono molto decisa; quando sono giù di morale e mi sento di aver bisogno di aiuto a volte rispondo e reagisco in un modo molto brutto. Ma sono anche solare e sensibile. (Tiziana)
Mi piace lavorare al pc, adoro leggere. Mi piace andare fuori a divertirmi, mi piace fare ginnastica, guardare gli sport come motociclismo e atletica. Adoro Amedeo Minghi. Mi piace il lavoro al CDH. (Lorella)
Ho 26 anni, amo la natura e gli animali e la mia famiglia. Mi piacciono gli sport che faccio al Sestriere, il mio papà è il sole e la mamma la luna. Mi piace scoprire cose nuove dell’universo, gioco al pc e Nintendo, mi piacciono i cartoni animati. (Danae)

Alla domanda “Come vi siete sentiti in questo primo incontro?”, le risposte sono state tra il positivo e l’imbarazzato:
Sono riuscita a tirare fuori le mie emozioni perché sono sempre da sola e non parlo con nessuno e qua qualcuno mi ascolta. (Lorella)
Parlare di me mi ha messo in imbarazzo. (Tiziana)
Non mi ero mai sentita libera di dire le cose e ho scoperto di essere spontanea. È un laboratorio dove non ci sono aspettative e le cose vengono naturali. (Francesca)
Mi è piaciuto fare il disegno, ma per parlare di me ho avuto un po’ di difficoltà a trovare le parole. (Danae)

Al secondo incontro, si è passati alla descrizione scritta di se stessi su un foglio, per verificare quale immagine si ha del proprio corpo (immagine finora costruita secondo il modello delle figure parentali). Per descriversi, occorreva anche guardarsi davanti a uno specchio. Le descrizioni sono state molto accurate, ma le sensazioni sul lavoro eseguito sono molto significative:
Ho fatto fatica perché non mi piaccio molto e non mi guardo tanto allo specchio. E non sono abituato a parlare di me. Mi devo abituare di più a come sono fatto anche se non mi piace. (Diego)
Mi è piaciuto, ma mi sono sentita imbarazzata a descrivermi perché non l’avevo mai fatto. (Lorella)
Era la prima volta che andavo davanti allo specchio e ho visto la mia immagine com’è veramente. Mi sono riscoperta come una persona nuova. (Francesca)
Mi sono sentito in difficoltà perché non sono abituato a farlo e non conosco bene il mio corpo. (Giacomo)
È stato molto difficile, ho provato imbarazzo e paura a descrivere come sono le tette e anche a parlare della mia mobilità. Adesso che l’ho detto mi sento meglio. (Danae)
Mi sono sentita in difficoltà perché sono vanitosa. Ma questa volta sono rimasta concentrata su di me fisicamente e mi sono sentita brutta. (Tiziana)

Al terzo incontro, sono stati portati tanti limoni, ognuno ha scelto il proprio e lo si è descritto. Poi i limoni sono stati mescolati e ognuno ha dovuto riconoscere il proprio limone. I limoni sono stati descritti benissimo, nei minimi dettagli. Qualunque segno, scanalatura, macchia è stato descritto e riconosciuto. Riconosciuta perfettamente anche la forma corporea del limone, e le sensazioni al tatto, alla vista e all’olfatto.
È stato difficile perché vedo solo le apparenze senza andare nei particolari. (Francesca)
Non ho fatto fatica a dire tutti i particolari. Ho fatto più fatica a descrivere me stesso. (Diego)
Mi sono sentito bene a descrivere il limone, molto meglio che a descrivere me stesso perché non pensavo al mio corpo. (Giacomo)
Faccio fatica a descrivere me stessa, più che a descrivere il limone. (Tiziana)
È stato più facile descrivere il limone che me stessa, perché anche davanti allo specchio il mio corpo non lo vedo tutto. Perdo dei pezzi della descrizione. (Lorella)
Evitiamo di descrivere le parti del corpo che non accettiamo. (Francesca)
Una parte che non usiamo non la descriviamo. (Stefania)

Al quarto incontro si è deciso di disegnare l’impronta corporea su un foglio gigante, sdraiati a terra. Infatti la visione di se stessi davanti allo specchio era stata comunque “parziale”: ad esempio chi è seduto su una carrozzina, allo specchio si vede comunque seduto, non “in piedi”, non un intero.
È la prima volta che lo faccio. Non sono neanche abituata a sdraiarmi per terra. Ho avuto un po’ di paura. È stata una piccola conquista e devo lavorare sulla paura di cadere. Non avevo mai visto il mio corpo per intero e alcune parti che non conosco. Mi ha incuriosito, ma ho paura. Penso sempre che gli altri siano migliori di me. (Francesca)
Io non conoscevo tutto il corpo. Ho scoperto che ho le gambe. Di solito ho bisogno di aiuto, quindi mi dimentico di avere le gambe. (Diego)
Mi ha reso più consapevole di cosa possono fare le mie gambe e mi ha dato la possibilità di accettarle un pochino più di prima. (Tiziana)
Ho scoperto che senza il busto il mio braccio sinistro si muove un po’ di più. (Stefania)
Non mi sono mai vista sdraiata. Ho avuto paura. (Danae)

Sono seguiti anche altri incontri, con attività di ginnastica e di miglioramento dell’autostima, per scoprire cosa si sa fare o non fare, confrontandosi anche con gli altri. Per prendere coscienza delle proprie competenze, riconoscendo le proprie qualità e acquisendo una maggiore consapevolezza del proprio corpo. Si è chiesto di nuovo ai ragazzi di disegnarsi e di descriversi, e si è toccato, anche se solo marginalmente, il tema della sessualità e dell’affettività, con le proprie esigenze e i propri sentimenti.
Paradossalmente, i pensieri su quest’ultima tematica, al momento, non li riportiamo. Quello che interessa – e dovrebbe interessare – è proprio il tema della percezione corporea di se stessi.
Nel film americano The sessions, noto al grande pubblico per avere portato sullo schermo la realtà delle figure degli assistenti sessuali per persone disabili, c’è un piccolo ma significativo dialogo proprio sul tema del corpo: a 38 anni, il protagonista Mark O’Brien, un poeta e giornalista che ha trascorso parte della sua esistenza all’interno di un polmone d’acciaio a causa della poliomielite che lo ha reso tetraplegico, decide che è arrivato il momento di perdere la verginità; la sua nuova assistente domiciliare, con mentalità più aperta delle precedenti, lo porta da una sessuologa, che però risponde di non poter far nulla, perché lei aiuta persone con problemi sessuali già manifestati, ma non può aiutare lui che non conosce il suo corpo, non ha mai avuto la possibilità di toccarsi o di vedersi a uno specchio perché completamente immobilizzato e rinchiuso in un polmone d’acciaio.
Si parla ormai “solo” di diritto alla sessualità e all’affettività delle persone disabili, ma questo diritto lo possono allora esigere anche le persone normodotate. Non tutti i “normali”, infatti, sono poi così fortunati o così avventurosi nelle storie sentimentali o sessuali. Per questo – si diceva all’inizio – non bisogna essere frettolosi con le parole e con ciò che si esige a livello normativo. Soprattutto nei casi di disabilità complesse e gravi, occorre prima di tutto un lungo accompagnamento alla scoperta di se stessi. Un’educazione, in qualche modo anche sessuale, al proprio corpo.
Il diritto principale di cui dobbiamo occuparci e prenderci cura è il diritto al proprio corpo. Anche quando il corpo è “un corpo con problemi” o “un corpo difettoso”. Il corpo non è un “vestito” dell’individuo, ma è l’individuo nella sua globalità. Il corpo non è solo un nostro strumento, come se fosse un oggetto aggiunto alla nostra mente che ci permette di svolgere alcune azioni (o non svolgerle in caso di deficit). Il corpo è la nostra appartenenza a noi stessi, nella nostra interezza e totalità di tutto il nostro essere. I ragazzi del Progetto Calamaio conoscono benissimo il concetto di corporeità, di cosa vuol dire occupare un volume solido nello spazio, avere una determinata forma, un colore, un sapore, un odore, ma solo se questa corporeità non li riguarda direttamente. L’esempio dei limoni è lampante: non si hanno problemi con il “corpo” del limone, ma con il proprio corpo sì.
La vera sfida, oggi, per parlare di sessualità e affettività delle persone disabili è affidare al corpo una pienezza di senso e di valore. Perché non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo. 

5. “Chiudi gli occhi e guardami”: gli sguardi degli altri e gli sguardi delle famiglie sul corpo

Il tema delle immagini culturali ci porta per parallelismo al tema degli sguardi. I limiti delle altre persone ci fanno scoprire i nostri limiti. Cosa guardiamo allora? Come? Perché se frequentiamo una persona disabile rischiamo di vedere solo la fragilità, la dipendenza, e non il suo essere uomo o donna? Perché abbiamo bisogno di consenso e approvazione da parte degli sguardi degli altri per sentire legittimata la relazione di coppia con una persona che ha una diversità? Cosa succede se sono gli stessi genitori a vedere il figlio o la figlia come diversi, e a ritenere impossibile che un altro o un’altra possano desiderarli? Se lo sguardo dei familiari sul corpo è squalificante? Ne abbiamo parlato con Giorgio Rifelli, medico, specialista in psicologia clinica, direttore del Servizio di Sessuologia del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna, dove insegna.

Perché si fa fatica a parlare di sessualità, nonostante il mondo mediatico sia sovraccarico di immagini afferenti la sessualità (e i suoi aspetti commerciali)?
La sessualità è un territorio a elevato rischio, è un argomento particolarmente coinvolgente. In genere si colpevolizza molto l’assetto religioso di uno Stato. In Italia si colpevolizza la Chiesa, in realtà la Chiesa è solo un falso bersaglio. La sessualità è in sé un argomento difficile e potenzialmente disordinante. E siccome sulla sessualità si fondano le relazioni sociali, allora la ragione sostanziale per cui c’è sempre un atteggiamento di cautela nei confronti della sessualità nasce proprio dal timore – seppure inconsapevole – di mettere a rischio le basi strutturanti della società. 

Perché si fa fatica a inserire la persona disabile dentro al tema della sessualità, e quali sono le difficoltà delle persone disabili a trovare un partner?
Il problema non riguarda solo la disabilità in sé, ma è più generale. Innanzitutto siamo una cultura che privilegia la vista come organo di scambio relazionale, contrariamente ad altre culture, per esempio quella ebraica che privilegia la parola. Nel momento in cui noi tendiamo a privilegiare la vista, e quindi l’immagine, il primo impatto relazionale è quello che io vedo. Quindi quello visivo è il primo momento in cui si è o no interessati all’altro. Che poi da qui nasca o non nasca un interesse affettivo o sessuale può essere secondario. Per cui ci ritroviamo ad avere non solo l’emarginazione che il disabile tendenzialmente subisce, ma anche questa emarginazione estetica. E quindi prima di accedere alla persona, perché poi ovviamente i legami affettivi e le relazioni non crescono esclusivamente sull’aspetto fisico, il più delle volte in realtà possono partire da lì ma poi continuano a crescere sugli aspetti della personalità, del carattere, delle ideologie, delle scelte, ecc., occorre avere una certa frequentazione del mondo della disabilità, per poter capire cosa c’è oltre la disabilità. E questo rende più difficili i rapporti e i possibili affetti che possono nascere. C’è anche un altro equivoco, cioè che la sessualità viene interpretata più facilmente come attività sessuale, mentre nella sessualità c’è anche una componente affettiva, una componente emotiva, c’è la propria identità di uomo, di donna. 

Una volta però che le persone si sono conosciute, al di là della disabilità, cosa ulteriormente ostacola la vita di coppia?
Nella relazione c’è di fatto un inganno sostanziale, cioè noi non relazioniamo con le persone ma con quello che le persone secondo noi rappresentano. Quindi alla partenza di un rapporto noi abbiamo a che fare con i nostri fantasmi, non con quello che è l’altra persona. Per cui la difficoltà è andare oltre le proprie immagini o quello che io attribuisco all’altro. Questo è un altro degli elementi che rendono più difficile una relazione con una persona disabile, perché si fa fatica a mettere addosso i propri fantasmi, le proprie fantasie o parte di sé, nella figura di una persona che porta una disabilità. In qualche maniera ci si cerca abbastanza simili e ci si esclude a priori. E quindi il disabile diventa persona senza sesso, asessuata, che poi è anche il problema del rapporto genitoriale ed educativo. Come mai, ci si chiede, una persona che non ha disabilità visibili si interessa a una persona con disabilità visibili? Se questo interesse non è motivato da ragioni infermieristiche, dal bisogno esclusivo di proteggere e di curare, allora si può cominciare a costruire insieme qualcosa, una relazione paritetica. 

Quali sono le paure delle persone disabili?
Le paure delle persone con disabilità di costruire una coppia o realizzare un’esperienza anche semplicemente sessuale nascono soprattutto dalla difficoltà che spesso sono proprio gli stessi disabili i primi a non accettare la propria disabilità. Il primo a essere cauto e ad autoescludersi in queste situazioni è proprio il disabile, ovviamente favorito poi da tutta una serie di dati del contesto e da esperienze frustranti. 

Come reagiscono i genitori quando emerge la sessualità dei loro figli?
In genere la sessualità dei figli mette in gioco la sessualità dei genitori. Quindi la maggiore attenzione quando lavoriamo con i genitori è quella di far capire loro che non si devono preoccupare della sessualità dei loro figli, ma di quanto quella sessualità metta in discussione il loro modo di vedere le cose. Ma questo vale anche per gli educatori che ad esempio lavorano nei centri: soprattutto là dove ci si confronta con la disabilità psichica è facile che la sessualità emerga, ad esempio col fatto che un ragazzo si masturba in mezzo agli altri. Davanti a questo evento non abbiamo particolari strumenti se non quelli tipici dell’educazione, cioè insegnare che certe cose si fanno in un posto e non in un altro. Ma di fatto è il corpo degli educatori che entra in crisi o in panico, perché non ha strumenti, e non ha strumenti soprattutto perché non è in prima persona abituato ad affrontare la cosa. Il problema nasce proprio dalla difficoltà a organizzare la propria sessualità e il proprio rapporto con la sessualità. Per cui si è messi totalmente in gioco, è il caso in cui il re è nudo.
Ufficialmente le famiglie tendono a infantilizzare molto il figlio, e quindi a ignorare il problema. Purtroppo a volte in alcune famiglie si interviene al contrario. Ci sono mamme che masturbano i propri figli. Questo da un punto di vista umano è comprensibile, è un prendersi in qualche modo cura, però da un punto di vista educativo è totalmente scorretto. 

Quanto incide lo sguardo delle famiglie sul corpo con disabilità?
Penso per esempio a delle osservazioni sociologiche sui ruoli, per cui nelle famiglie si costruiscono delle immagini stereotipate per ciascuno dei componenti, che finiscono per essere delle identità imposte e ricercate da chi le ha subite: ci sono ad esempio i figli che sono maldestri e saranno sempre maldestri, ci sono i figli che si sporcano a tavola, per cui saranno sempre quelli che si sporcano a tavola. Per cui c’è un identikit che la famiglia costruisce e verso cui i componenti tendono ad andare. Addirittura questo meccanismo lo si usa anche per spiegare la genesi dei criminali, cioè l’ultimo della classe deve essere l’ultimo della classe per tutta la vita e quindi cercherà sempre di identificarsi in una figura negativa. Una famiglia che è squalificante verso un corpo, o addirittura rimuove la presenza di un corpo, favorisce anche nel figlio la rimozione del corpo e questo vale per tutti, non solo per le persone disabili. Di fatto, soprattutto nella patologia sessuale, il rapporto col proprio corpo è un rapporto spesso conflittuale e nasce da un atteggiamento distanziante della famiglia rispetto al corpo. Abbiamo, ad esempio, degli adulti trentenni che non si lavano i genitali o che arrivano a trent’anni con una fimosi perché non si sono mai guardati. Quindi lo sguardo della famiglia sul corpo vale sia ovviamente per chi ha una disabilità sia per chi non ce l’ha. È vero che i figli sono tutti belli a mamma sua, ma in cuor suo la madre sa che sono come sono. A volte è un atteggiamento che ipertrofizza la negatività, è squalificante.
Inoltre, come dicevo prima, nella nostra cultura occidentale lo sguardo è il senso privilegiato, rispetto alla parola, ed è lo sguardo per noi la via attraverso cui si strutturano le relazioni. Quindi parlare di sguardo delle famiglie non è solo una metafora, è un dato molto reale. 

Paradossalmente la famiglia è quella che in qualche modo è sempre sul corpo della persona disabile, per l’igiene quotidiana o per gli spostamenti, quindi quel corpo lo percepisce molto bene eppure nello stesso tempo lo rimuove…
C’è questa grande contraddizione: ce l’ho sempre davanti al naso ma non lo vedo. Ho bisogno di rielaborarlo. D’altra parte credo che sia il problema maggiore di tutte le persone che non hanno pratica di disabilità, perché la prima cosa che si fa è proprio quella di far finta che non ci sia. A volte anche gli stessi disabili tendono a fare così, ad esempio le persone non vedenti usano moltissimo la parola vedere.
Lo sguardo dei familiari è quello che costruisce l’identità corporea, o ne favorisce la costruzione.
Proprio attraverso lo sguardo noi rileviamo, questo per un problema di percezione, le incongruenze, cioè siamo alla ricerca di una sorta di armonia che ci tranquillizzi. Per cui l’occhio cade facilmente su quello che non è nell’ordine delle cose. Abbiamo il “vizio” percettivo per cui possiamo fare a meno di notare una persona che fisicamente si presenta come apparentemente normale, ma basta una cosa anche piccolissima e la notiamo.
Una mia collaboratrice una volta, per un concorso, scrisse questo verso: “Chiudi gli occhi e guardami”. Credo che in questa frase ci sia la chiave di tutto: per poter realizzare veramente un rapporto con l’altro, devo andare oltre quello che vedo, perché quello che vedo mi tradisce perché si riempie dei miei fantasmi. In qualche maniera nelle famiglie succede che non si va oltre, e quindi si rimane bloccati intorno a quella che può essere l’immagine immediata. Subentrano anche tante dinamiche, ad esempio il fatto che il figlio possa rappresentare una produzione non ideale, quindi i sensi di colpa che si riversano su questo aspetto; e le rimozioni sul corpo diventano anche più facili, senza rendersi conto che poi si fa peggio di quello che si potrebbe fare. 

4. Persone e immagini

Il tema delle immagini per la nostra cultura è di fondamentale importanza. Sono le immagini che abbiamo in mente che creano la cultura collettiva. Mi spiego meglio con un esempio. Da molti anni ormai mi occupo di ricerche sulla maternità delle donne disabili, che per ora hanno prodotto due monografie di “HP-Accaparlante” (cfr. Mamme. Nessun aggettivo dopo il punto. Madri disabili: percorsi di adeguamento di sé tra difficoltà e soluzioni del 2005 e Ti sento, ti tocco, ti “vedo”, tu lo sai. Percorsi di maternità per le donne non vedenti del 2010). Durante le ricerche mi sono confrontata con molte donne con disabilità e con molte persone che lavorano nel mondo della disabilità. L’elemento chiave che emergeva era che mancavano le immagini mentali di riferimento, sia alle persone “normodotate” sia alle stesse donne disabili. Se pensiamo alla parola “madre”, infatti, ci emerge subito il fotogramma della donna abile a prendersi cura dei figli, magari una donna che tiene il figlio con un braccio e con l’altro braccio sorregge le borse della spesa. Ovviamente un’immagine del genere non riusciamo ad adattarla sull’immagine di una donna disabile, e subito ci chiediamo “Ma come farà una donna disabile a gestire un figlio e le attività quotidiane?”. Le stesse donne con disabilità, quando desiderano un figlio oppure già hanno un figlio, si devono confrontare con questa immagine collettiva. Si generano dunque tante paure e tanti equivoci. Occorre costruire delle immagini di riferimento sul tema della sessualità e dell’affettività, costruire veri e propri fotogrammi di pensieri e parole e magari anche volti, sia per le persone disabili che possono così confrontarsi con altre persone disabili che vivono la stessa situazione, sia per tutte le altre persone, comprese le famiglie, che possono così arrivare a pensare a situazioni di possibilità e non solo di negazione. Il racconto che seguirà è proprio organizzato per “istantanee”: le frasi sono riprese dal lungo lavoro di interviste, a cura di Priscilla Berardi e Adriano Silanus, realizzate per costruire Sesso, amore & disabilità. Ovviamente la parola scritta è forse meno potente dell’immagine visiva del documentario, ma anche la parola scritta riesce a creare immagini mentali e – ci auguriamo – immagini culturali.

Gabriele
Sono Gabriele Viti*, ho 35 anni anche se di testa ho forse 10-12 anni. Ho una spasticità molto interessante, che mi ha condizionato la vita, però devo dire che mi ha anche consentito delle esperienze particolari che formalmente, se non avessi avuto questo handicap, non avrei mai vissuto. 
[*Gabriele Viti è anche autore del testo Il Kama Sutra dei Disabili e protagonista del documentario Il Kamasutra del Disabile, di Alberto D’Onofrio (inserito nella serie “Erotika italiana” prodotta da Cult/Fox).

Qual è l’atteggiamento generale delle persone verso l’affettività e la sessualità delle persone disabili?
Non vorrei essere drastico ma credo che questa domanda se la pongano in pochi. In Italia c’è la consuetudine di associare la persona disabile al malato, ma il disabile è solo una persona che vive in condizioni fisiche diverse. Penso che la maggioranza della popolazione italiana veda quindi la disabilità come qualcosa da curare, come un oggetto di pietà, e alle persone disabili si garantiscono i diritti fondamentali: salute, forse lo studio, forse il lavoro. Però poi basta, perché “vi si dà lo studio, la salute, il lavoro, volete anche il sesso? Cominciate a esagerare!”.
La disabilità fa anche paura: quando io vado in giro da solo vedo la gente che non si avvicina; quando chiedo un indirizzo dieci persone fanno finta di non capire; in treno, il vicino di sedile si sposta perché pensa che gli attacchi qualcosa.
Però bisogna anche dire che la responsabilità non si può dare tutta agli altri, anche noi disabili dobbiamo prenderci la nostra dose di colpa, perché dobbiamo smettere di nasconderci e uscire dai recinti. 

Quali sono le paure sia delle persone non disabili che delle persone disabili di instaurare una relazione di coppia?
Io credo che da parte del disabile ci sia la paura di non essere all’altezza di soddisfare o di dare una qualità di vita soddisfacente al partner. E credo che le persone cosiddette normali, dal canto loro, se instaurano un rapporto sentimentale con un disabile devono fare una bella battaglia, con gli amici, con i genitori e con tutto il mondo più prossimo a loro, perché sicuramente non è visto come naturale che una ragazza o un ragazzo attraente decidano di avere una relazione vera con una persona che non è nelle stesse condizioni.
L’ultima storia che ho avuto si è conclusa un po’ perché lei non era sicura al 100%, ma soprattutto perché c’erano i genitori di lei molto, molto ostili. Addirittura la madre mi ha chiesto se sapevo far l’amore… Poi nell’anno che siamo stati insieme, i genitori hanno apprezzato il mio grado di intelletto, ma non digerivano che la loro figlia stesse con uno storpio.
La sicurezza nella relazione viene prendendo coscienza ad esempio del fatto che quando si va al ristorante io bevo con la cannuccia, o che lei mi deve tagliare la pizza. Sono tutte cose piccole, però devono essere accettate.
La mia prima storia è stata quando avevo 20 anni e lei 25, ma è stata colpa mia se è finita, perché mi vergognavo a uscire con i suoi amici. Il processo di accettazione di sé e della consapevolezza di sé sono molto lunghi e io mi vergognavo a farmi vedere davanti ai suoi amici a bere con la cannuccia, mi vergognavo di non essere come loro. Ora questo non mi interessa, ma a 20 anni non avevo questi strumenti culturali e psicologici per dire “Gabriele, è così, o ti adatti o stai a casa”.
Quando ero adolescente chiedevo molto spesso a mia sorella se sarei stato in grado di pomiciare, perché nel mio essere adolescente baciare con la lingua voleva dire essere accettato. Infatti, le persone con la mia disabilità di solito a volte perdono la saliva e onestamente non è che sia molto bello, per cui l’idea che una ragazza accettasse la mia saliva per me era più importante dell’atto sessuale in sé, voleva dire che mi aveva accettato in tutto.
Una volta mi è capitata una situazione in cui una ragazza voleva stare con me, ma io l’ho rifiutata. Mi vergogno molto a dirlo, l’ho rifiutata perché era grassa. Quindi ho discriminato: anch’io sono dentro questo giro della discriminazione, e quindi l’ho vissuta come una doppia sconfitta: tu che lotti contro la tua discriminazione sei quello che subito discrimina.
Un disabile come me che ha difficoltà del linguaggio ha difficoltà a trovare una escort disponibile, perché si associano subito le difficoltà di linguaggio a instabilità mentali. Per cui quando telefono mi riattaccano. Un mio amico non vedente mi ha chiesto se gli potevo cercare su internet qualche ragazza, quindi prima mi sono dovuto far spiegare i suoi gusti. Questo fa capire la difficoltà che ha un disabile a raggiungere anche semplicemente un rapporto sessuale a pagamento. Se noi tentiamo poi di aprire la tenda della disabilità al femminile, lì siamo all’età della pietra. Ringrazio di essere un uomo perché se fossi stato una donna avrei avuto molte difficoltà in più. Ogni volta che partecipo a convegni sulla sessualità e disabilità, i tre quarti della mia relazione sono rivolti a questo argomento, su come fare per dare questo diritto a tutti. Io lo definisco un diritto, non un diritto legale, ma un diritto sociale.
Credo che prima di dare consigli agli adolescenti disabili, si dovrebbe dare un consiglio ai genitori: io ho avuto alle spalle genitori che hanno creduto nelle mie possibilità e che, anche se con paura, mi hanno permesso di sbattere la testa in terra, sia in senso metaforico, ma anche in senso reale. I genitori tendono a mettere una palla di vetro sopra il figlio pensando di proteggerlo, in realtà creano una disabilità maggiore. Io credo che ogni disabilità può essere migliorata a livello di autonomia. 

In che modo si superano le difficoltà a letto?
Conoscendosi e rispettandosi. 
Secondo me nell’atto sessuale l’essere disabili ha un peso relativo, perché a letto l’handicap sparisce. Nel senso che se tu vai a letto con una persona vuol dire che già tante barriere sono cadute, quindi entra in gioco il vero essere dei due. 

Valentina
Sono Valentina, ho 26 anni, la mia disabilità è dovuta a un’asfissia cerebrale che mi ha portato a non poter camminare e ad avere un parziale uso degli arti superiori.
I miei compagni di classe alle scuole medie non mi consideravano come un’ipotetica fidanzatina, ero l’amica in carrozzina e punto. Le altre ragazze erano corteggiate, considerate, ma nel mio caso non era così. È stato forse il periodo più brutto della mia vita perché mi vedevo cambiare fisicamente, non accettavo il fatto di non poter fare determinate cose. Magari qualche ragazzino era più interessato, ma i suoi amici non dovevano saperlo, perché si vergognava a farsi vedere con me.
Alcuni ragazzi sarebbero tentati di conoscerti dal punto di vista affettivo ma sono frenati dai problemi che tu hai. Altri non si fanno problemi, ma pensano che una persona disabile voglia per forza una storia seria. Sono frenati perché pensano “tu magari ti affezioni, io passo per quello che ti fa stare male”… C’è sempre l’occhio di riguardo verso la donna disabile, “poverina la faccio soffrire, sicuramente lei vuole l’amore romantico, con il lieto fine”. La persona disabile, come qualsiasi altra persona, può essere romantica e vivere il sesso con sentimento e soltanto con sentimento, come può cercare invece solo l’avventura. Il fatto di avere una disabilità non significa avere un’idea diversa del sesso. Personalmente la vivo in maniera più romantica e non nego che vorrei una bella storia d’amore.
Parlo di sessualità solo con la mia migliore amica. Le volte che provo a farlo con gli altri amici della compagnia mi guardano come se stessi parlando di una cosa che non conosco, sono imbarazzati. Probabilmente non credono che io abbia avuto esperienze sessuali e sentimentali. Pensano che non avrò un compagno, che io mi debba accontentare della mia vita da single o che al massimo potrò trovare un compagno con disabilità.
Quando nasci disabile e tutti intorno a te pensano che i disabili siano asessuati, ti viene inculcato questo concetto ed è più difficile emanciparsi.
Il mio corpo adesso lo vivo discretamente, mi piaccio a giorni, e a giorni non mi piaccio per niente. E mi sento più carina e più desiderabile grazie ad alcune esperienze che ho avuto, però non mi sono mai tanto piaciuta, non ho mai avuto una grossa autostima, ci sto provando piano piano.
Vedere che un ragazzo ti può desiderare fisicamente e ti trova carina e desiderabile come le altre donne, ti fa pensare di non essere poi quel mostro che credevi. Ma forse qualsiasi ragazzina di 15 anni si trova brutta e inadeguata e magari a 25 si trova più carina, è un discorso di maturità e di conoscenza del proprio corpo.
Ho un istinto materno molto forte però mi sto rassegnando al fatto che non avrò dei figli, anche se non ho una patologia trasmissibile geneticamente, però non ho un compagno stabile e varie altre difficoltà. Forse i miei genitori non vivrebbero questa scelta molto serenamente, perché mi dicono che avere un figlio è una responsabilità molto grande, mi chiedono se sarei in grado, e mi fanno notare che è già difficile trovare qualcuno che mia dia una mano, figuriamoci trovare qualcuno disposto ad aiutarmi anche con un figlio nei primi anni di vita.
Lui è stato il primo che non ha dato peso alla mia disabilità, non mi vedeva come un’amica, non mi vedeva come una ragazza sfortunata, non mi vedeva come l’oggetto curioso del desiderio, ma mi vedeva come una ragazza carina. Mi faceva sentire normale, desiderabile, bella. E anche lui rispecchiava i miei canoni estetici e caratteriali. Però non era interessato ad avere una storia seria, per cui è finita. La stessa cosa può capitare in realtà anche alle altre ragazze “normodotate”, nel modo in cui sentiamo una relazione non c’è differenza. Adesso non continuerei una storia se mi rendessi conto che lui sta solo giocando, perché in quel periodo mi rendevo conto che stava giocando però mi andava bene così. Sicuramente ora non mi innamorerei più così facilmente di un uomo solo perché rispecchia quello che ho sempre aspettato.
Le persone disabili dovrebbero cominciare a uscire di più, a pensare che si possono fare varie cose compatibilmente con le proprie limitazioni, perché se iniziamo noi ad avere dei preconcetti sulla disabilità automaticamente li avranno anche gli altri. Dobbiamo smettere di dire “non ci provo con quel ragazzo perché mi dirà di no perché sono disabile”, magari ti dirà di sì…

Nino
Sono Nino, ho 30 anni, e ho la SMA 2, l’atrofia muscolo spinale. Si chiamava così, ora ci danno una sigla.
Magari in chat o con gli sms le ragazze si lasciavano andare, ad esempio con frasi “Tu sei l’uomo giusto”, “Fossero tutti come te”, poi però quando c’era da avvicinarsi, quando dal mentale, dal poetico, si doveva passare al piano fisico, si tiravano totalmente indietro.
Nessuno mi ha mai chiesto che tipo di rapporto io avessi con la sessualità, e questo un po’ mi dispiace perché mi piace far conoscere le mie problematiche, e non perché voglio farmi commiserare ma perché vorrei che la gente avesse una mentalità più aperta e si potesse rendere conto della realtà. E la realtà è che abbiamo una sessualità.
L’assistenza sessuale, la proverei? Forse sì, ma c’è sempre il fatto che mi ci devono accompagnare. A volte sarebbe più complicato farmi accompagnare e farmi venire a riprendere che la cosa in sé. Un altro aspetto che mi frena tanto è il busto, il corsetto, che me lo può togliere chiunque, ma per metterlo fino all’anno scorso lo sapeva mettere soltanto mia madre. Magari ora che lo sa fare anche mio padre, sarebbe forse più facile dire a un genitore uomo che a mia mamma di accompagnarmi da eventuali assistenti sessuali.
Quello che mi capitava con la mia ragazza era che per la gente non era mai la mia ragazza: poteva essere mia sorella, mia cugina, mia zia, l’infermiera di notte, l’infermiera di giorno, l’escort, ma non poteva mai essere la mia ragazza. Lei era in imbarazzo.
A volte invece mi è capitato che lei magari mi frequentava, eravamo un po’ più intimi, però davanti agli altri non voleva che questo si vedesse, cosa che io non riuscivo ad accettare. Ho avuto una storia di quasi un anno con una ragazza con cui ho voluto mettere da subito le cose in chiaro su quello che potevo fare e non fare. Lei ha avuto la volontà di informarsi anche con il mio fisioterapista.  

Antonio
Mi chiamo Antonio, ho quasi 33 anni. La mia disabilità è dovuta a una mielolesione, ho avuto un incidente sportivo quando avevo 16 anni e ho riportato la frattura di due vertebre cervicali e la lesione del midollo spinale.
Magari quello che posso dare adesso in un rapporto con una persona rispetto a quello che potevo dare prima è molto di meno. Questa cosa mi fa partire un po’ scoraggiato e mi sento sconfitto in partenza, il dubbio che mi rimane sempre è se quello che ho adesso da offrire può essere abbastanza per la persona che ho di fronte, è questo che mi frena nell’avere coraggio di conoscere qualcuno.
Quando ci siamo conosciuti è la stata la sua voglia di conoscermi a tutti i costi che mi ha lasciato spiazzato. Era una mia insicurezza pensare di non interessare alla persona che ho di fronte. Questo mi ha dato più fiducia in me stesso. Lui non conosceva la disabilità quindi ha imparato. Ho dovuto spiegargli come funziona la quotidianità, con le mie esigenze fisiche e fisiologiche, i miei tempi, come si va in bagno, come ci si veste. Era aggiungere a quello che emotivamente e intellettualmente gli davo un tassello in più per conoscermi completamente.
La bellezza estetica è strettamente correlata a una relazione. Non dico bellezza fisica in generale perché dipende da chi hai di fronte e da quello che cerca la persona che hai di fronte. Io, essendo limitato a livello fisico, nella bellezza mi sento inferiore. Penso di poter piacere per alcuni aspetti per altri no, però non ho la sicurezza di poter piacere al primo impatto, perché la mia sicurezza è minata dal fatto di credere di non poter arrivare fino in fondo a una relazione al 100%. A livello affettivo mi sento pronto, ma a livello fisico mi sento di mancare in qualcosa. Il rapporto con lui è iniziato che io ero già in carrozzina, quindi evidentemente questo gap della bellezza estetica associata alla disabilità lui l’aveva già superato, avendo voluto conoscermi a tutti i costi, quindi aveva superato l’impatto visivo o forse per lui non c’era neanche l’impatto visivo. Magari poi nel quotidiano io gli ho messo “i puntini sulle i” perché vedesse cosa c’era oltre la carrozzina, però il problema era già stato superato da lui a monte. Io sono passato dal movimento in assoluto al non movimento. Come aspetto estetico avevo un fisico invidiabile, ora il corpo è completamente cambiato. Ho avuto all’inizio grandi difficoltà ad accettare il nuovo corpo, sia a livello estetico sia a livello funzionale. Ho avuto anche problemi alimentari perché la non accettazione del nuovo corpo mi provocava rifiuto del cibo. Però poi sono riuscito ad accettare… anzi forse accettare non è il termine giusto… sono riuscito a viverlo questo nuovo corpo come va vissuto. Ho imparato a farlo giorno per giorno, e continuo a farlo giorno per giorno. Conosco il mio corpo ma mi dà fastidio non averne il controllo come prima. Il mio corpo lo vivo pur non potendone disporre al 100%. Lo percepisco e ne ho anche cura, perché devo preservarlo da altri tipi di decadimenti, devo stare attento a non stare troppo seduto, a idratarlo per evitare le piaghe, insomma devo farmi bello anche io. Qualcuno ogni tanto negli incontri via chat mi dice “Peccato, se non avessi questi problemi saresti un bel ragazzo”.
La cosa che mi fa un po’ sorridere è che i miei genitori vedono la figura mia, del disabile, dissociata completamente da un’ipotetica storia a livello sessuale. Per esempio una volta in discoteca ho avuto un contatto intimo con una persona che mi ha lasciato evidenti segni sul collo, ma i miei genitori hanno pensato che qualcuno mi avesse picchiato.
Mi è capitato che i miei colleghi facessero spesso battute sull’omosessualità non pensando che chi lavora con loro fianco a fianco anche se è in sedia a rotelle può avere quei gusti sessuali.

Un fenomeno a parte: i devotees
Le persone disabili, soprattutto in chat, possono venire contattate dai cosiddetti devotees.
“Il devotismo (in italiano) – spiega Giorgio Rifelli, medico, specialista in psicologia clinica – è una forma di perversione, o parafilia come si dice oggi, dove si mescolano le carte di due dimensioni diverse, quella del feticismo – perché nel devotismo c’è una particolare passione per una cosa, ad esempio per un arto mutilato o per una protesi – ma anche quella del sadismo, perché la persona disabile porta già delle mutilazioni, incarna la persona danneggiata, quindi alle fantasie del sadico porta già la soluzione. Cioè il devoto non ha bisogno di produrre una fantasia dove aggredisce e danneggia la persona, perché c’è già la persona danneggiata.
La persona disabile che è oggetto di attenzioni di un devoto, se all’inizio può essere anche contenta, nel tempo finisce per sentirsi ancora più disabile e non considerata come persona”.
“I devotees – racconta Valentina – sono secondo me la croce e la delizia delle donne con disabilità. Alcune donne disabili vedono nei devotees l’ultima spiaggia, però quasi mai queste storie diventano storie d’amore. È sicuramente un feticismo, in alcuni casi diventa una patologia psichiatrica, perché alcuni cercano solo donne amputate, sono attratti dall’amputazione o dalla menomazione o dalla paralisi, ma non dalla persona in sé. Alcuni me l’hanno detto espressamente di essere dei devoti nelle chat per disabili. Altri invece, quando avevo 16 anni, non sono stata in grado di riconoscerli perché non sapevo che esistessero.
Poi ci sono anche i caster (da to cast, ‘prendere lo stampo’), che sono attratti dalle protesi ortopediche e le indossano nel privato e girano con la carrozzina pur non essendo disabili. Ci sono anche molte donne caster.
Ci sono anche i wannabe (contrazione di want to be, ‘voler essere’) che sono coloro che vorrebbero essere disabili.
Infine ci sono i pretender che si fingono disabili non nel quotidiano ma solo nella vita privata.
C’è un po’ di tutto, e le persone dovrebbero essere informate”. 

3. Sesso, amore & disabilità

Sesso, amore & disabilità è stato presentato in anteprima nazionale al pubblico il 30 ottobre 2012 all’Auditorium Biagi di Sala Borsa a Bologna, all’interno della programmazione del Festival “Gender Bender”. Da allora si sono succedute varie proiezioni sul territorio nazionale, non ultima quella al Festival “Nati per vincere?” di Carpi, ad aprile 2013. Il documentario è stato richiesto anche per corsi all’Università di Bologna, e per corsi di formazione a esperti del settore, ed è disponibile per chiunque ne faccia richiesta.

“Salute, forse lo studio, forse il lavoro, però basta, non ci chiedete altro, perché che cosa volete? Vi si dà lo studio, la salute e il lavoro, volete anche il sesso? Cominciate a esagerare!”. Esordisce così Gabriele Viti, uno degli intervistati di Sesso, amore & disabilità, il film-documentario alla cui realizzazione ho collaborato, insieme ad Adriano Silanus, Priscilla Berardi, Raffaele Lelleri e Jonathan Mastellari, che mostra la storia di circa trenta uomini e donne, eterosessuali e omosessuali, di ogni età e stato relazionale, che si raccontano in prima persona davanti alla telecamera.
Il documentario porta per la prima volta sul grande schermo le tematiche della vita sessuale e affettiva delle persone disabili fisiche e sensoriali. All’inizio non sapevamo dove ci avrebbe condotto il progetto, non eravamo sicuri di poter trovare persone da intervistare che volessero rendersi così visibili, con nome, cognome, città di provenienza. Abbiamo lanciato un comunicato stampa per cercare intervistati, e le richieste sono state oltre le aspettative. Tre anni di lavoro, 50 ore di registrazioni video-filmate, e più di 9.000 chilometri percorsi in tutta Italia, sono diventati un docu-film di 105 minuti, che cerca di sfatare tabù, imbarazzi, silenzi, equivoci e pregiudizi. La forza del documentario è proprio il “metterci la faccia”, raccontarsi in un aspetto della propria vita intimo e riservato, per dare visibilità a un tema che passa sempre in secondo piano. Le persone disabili, le famiglie, gli insegnanti, gli educatori, gli amici, i volontari sono sempre impegnati tutti i giorni a risolvere alcune questioni pratiche: trovare ad esempio degli accompagnatori per gli spostamenti, o degli assistenti domiciliari, o non vedersi ridotte le ore dell’insegnante di sostegno… Ci si trova di fronte a barriere architettoniche, a barriere culturali, a diritti che vengono meno. Si è impegnati nella ricerca di una propria autonomia e vita indipendente, o si è preoccupati per il “dopo di noi”. Ci sono sempre questioni che sembrano avere la precedenza, e alla sessualità e all’affettività si riserva uno spazio e un tempo residuo. Invece anche le persone disabili, come tutti, vogliono e possono vivere la propria sessualità. L’essere umano tende naturalmente al piacere, al benessere fisico e affettivo, e l’idea che le persone disabili siano asessuate è stata finora un comodo alibi per risposte che la nostra società e la nostra cultura non sono pronte a dare.
Le narrazioni e le emozioni degli intervistati di Sesso, amore & disabilità sono uno strumento di informazione sia per chi non ha frequentazioni particolari con la disabilità, sia per chi la disabilità la vive quotidianamente. Spesso le persone disabili hanno assorbito dall’ambiente socio-culturale in cui sono immerse tanto pietismo e tanto distacco che finiscono per essere le prime a discriminare se stesse e a non mettersi in gioco. A volte non è neppure l’ambiente in cui vivono ad affievolire le speranze e l’idea di proporsi come partners, ma il bombardamento di immagini, commenti, opinioni che mostrano come ideale una bellezza, una perfezione e uno stile di vita che nel paragone con se stessi sembrano irraggiungibili.
Sesso, amore & disabilità tocca anche tanti temi ricorrenti nel mondo della disabilità: ad esempio la famiglia, l’autonomia, l’autodeterminazione di sé, la diversità dei corpi, la bellezza, le professioni educative. Non dimentichiamo che per trovare un/a partner servono occasioni, bisogna uscire, incontrare gente sempre nuova, anche più volte, per consolidare i rapporti e farsi conoscere. Ma molte persone che hanno serie limitazioni della mobilità di occasioni per uscire ne hanno poche, non hanno tanti accompagnatori e vivono in una notevole mancanza di privacy. Di solito si pensa la persona disabile inserita in un contesto assistenziale e riabilitativo, con dei Servizi e delle associazioni ad hoc, con degli spazi dedicati, degli adattamenti, dei bisogni speciali. Si fa fatica a immaginarla in un contesto del tutto normale. Il documentario porta in scena invece proprio l’aspetto della normalità, quei lati della vita e dei sentimenti che appartengono a tutti. O forse potremmo dire che porta in scena la diversità come un aspetto che riguarda tutti.
La conoscenza è la chiave di tutto. La visibilità. Ad esempio quando una coppia in cui c’è una persona con disabilità gira a passeggio con il partner, nessuno pensa che quello sia il partner: per tutti è la badante o al massimo un amico. Katia, una ragazza sorda, lamenta invece l’“audismo” delle persone udenti, che per comunicare vogliono sempre solo sentire, anche quando a parlare sono persone sorde, e non accettano di fare quel piccolo sforzo che sarebbe necessario per socializzare e unire i due mondi. Sulle persone non vedenti invece si possono avere timori di trovarsi con una persona totalmente dipendente da altri. Ci sono tanti dubbi, tante paure, tante distanze. Occorre conoscere e farsi conoscere, abituarsi alla e nella diversità. Sesso, amore & disabilità permette questa conoscenza, con volti, storie, sguardi, sorrisi, risate. La voce intima e non interpretata dei protagonisti è accompagnata da quella dei loro amici, familiari e partner e da quella di esperti e il video è montato come un collage in cui le interviste sono proposte lungo un percorso che tocca diversi temi, introdotti da brevi riflessioni fuori campo, dall’innamoramento alle difficoltà fisiche, dalla vita di coppia alle possibilità tecnologiche e mediche, dalla maternità agli stereotipi della società.
Sesso, amore & disabilità è promosso e realizzato dall’Associazione Biblioteca Vivente di Bologna, in collaborazione con le associazioni Centro Documentazione Handicap di Bologna ed Equality Italia, e con il patrocinio istituzionale della Regione Toscana, della Regione Veneto, della Provincia di Ferrara, della Provincia di Genova, della Provincia di Gorizia, della Provincia di Macerata, della Provincia di Milano, del Comune di Felizzano (AL), del Comune di Bologna, del Comune di Napoli, del Comune di Sassari, del Comune di Udine, del Comune di Venezia e dell’Ospedale Riabilitativo di Montecatone (Imola, BO).
Il documentario è stato realizzato completamente attraverso il volontariato e il crowdfunding, cioè il finanziamento dal basso da parte di persone che hanno creduto al progetto e hanno voluto versare una quota per contribuire. Il DVD ha sottotitoli in italiano per le persone non udenti, e in inglese, francese, spagnolo per una distribuzione europea. Inoltre è accompagnato da una traccia di audiodescrizione per le persone non vedenti.
L’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR) della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha riconosciuto il progetto come “iniziativa di rilievo nell’ambito delle attività di prevenzione e contrasto delle discriminazioni”.

Per saperne di più:
valeria@accaparlante.it 

2. Sessualità è Relazione, per realizzare compiutamente se stessi

di Priscilla Berardi

Prima di addentrarci nelle tematiche dell’affettività e sessualità delle persone disabili, lasciando spazio anche ai diretti interessati, è necessario fare chiarezza sui termini. Cosa intendiamo quando parliamo di sessualità? E quando parliamo di sessualità e disabilità? Lo abbiamo chiesto a Priscilla Berardi, medico, psicoterapeuta, formata in sessuologia, e coordinatrice del film-documentario Sesso, amore & disabilità.

Di cosa parliamo quando parliamo di Sessualità? È riduttivo associare la sessualità unicamente al sesso. Sessualità comprende – nel senso di accogliere in sé – il sesso e al tempo stesso lo spiega, lo descrive e lo comunica. La sessualità è la comunicazione di un desiderio e di un piacere attraverso il corpo, in un linguaggio non verbale e universale; è l’incontro con l’Altro per conoscerlo e per conoscere se stessi; è la cura di sé e l’espressione di un proprio modo di essere, di esprimersi, di sedurre. Vivere la propria sessualità è un modo per crescere, per affermare la propria personalità, per realizzare compiutamente se stessi, per giocare con l’Altro.
Il percorso di sviluppo della sessualità è comune a tutti gli individui, disabili e non: nasciamo sessuati non solo per il fatto di avere degli organi genitali, ma anche per la comunicazione che da subito si instaura, attraverso il corpo, il movimento e i cinque sensi, con chi ci ha generati e poi via via con un mondo sempre più vasto. Nel contatto e nello scambio cresciamo emotivamente e cognitivamente, attraverso l’attivazione di circuiti neuronali e la graduale sperimentazione di ciò che siamo in grado di proporre di noi stessi e di ricevere dall’Altro. Se le esperienze sono piacevoli sin dall’infanzia, e lo sguardo che osserva il nostro corpo è benevolo, quel nostro corpo ci sarà amico, ne avremo una percezione di libertà, sicurezza, affidabilità: sapremo donarlo e rispettarlo.
Nella disabilità è più difficile maturare una percezione positiva del proprio corpo: il movimento è ostacolato, c’è dolore, mancano la vista o l’udito – che sono i prìncipi del controllo dell’ambiente e della comunicazione col mondo –, c’è bisogno di assistenza, di strumenti esterni, si viene esaminati e manipolati a fini diagnostici e riabilitativi… Tutto dice al disabile che non è uguale agli altri, che così com’è c’è qualcosa che non va. Quel corpo, da guscio che lentamente si schiude, può allora diventare gabbia che costringe e limita. Addio sensazioni di libertà e affidabilità, addio piacere!
Eppure sotto tutte quelle difficoltà e quelle limitazioni, il corpo e i sensi del disabile sono ancora vivi e sessuati. E non perché continuano a funzionare gli ormoni e le vie nervose, ma perché attraverso quella pelle, quelle mani, quei piedi, quegli occhi, ancora si esprime un individuo in tutta la sua personalità, desideri, aspirazioni e capacità di scambiare piacere col mondo esterno.
Nella cultura della performance e della normalità omologata, che esibisce modelli di perfezione estetica e funzionale come icone da adorare e imitare, e che riconduce anche la sessualità a regole e stereotipi, c’è poco spazio per linguaggi ed esperienze alternativi. Eppure la Sessualità è prima di tutto Relazione, con tutta la sua componente emotiva, intima, interazionale. E nella relazione non conta quanto perfettamente si fa una cosa, ma il modo del tutto personalizzato e quindi originale di farla. È un cammino, originale e creativo, per co-costruire e raggiungere un obiettivo. Se saremo in grado di difendere l’immagine che abbiamo di noi stessi e i nostri desideri anche di fronte alle critiche degli altri, se sapremo uscire dall’idea standardizzata di prestazione e lasciarci andare con pazienza e fiducia alla guida e alla scoperta l’uno dell’altro, saremo in grado di conoscere tutte quelle carezze, quei baci, quell’erotismo pienamente soddisfacente perché creato apposta per noi, modellato sul nostro corpo. E ci sentiremo autori anche del piacere dell’Altro. Vale sia per chi è disabile sia per chi non lo è. Il mondo del piacere e del fare l’amore è variegato e le differenze tra i membri di una coppia possono essere stimolanti, così come può essere gratificante la complicità che viene dal trovare insieme la strada comune al di là delle difficoltà.
Certo per co-costruire la relazione con una persona disabile ci vuole fantasia, consapevolezza di sé, pazienza, costanza, maturità. Il disabile deve abbandonare la paura del rifiuto e imparare a proporsi; il non disabile deve vedere il potenziale partner come persona alla pari e non come persona da “badare”: deve accettare di essere essenzialmente simile al disabile nonostante tutte le evidenti differenze. Non è facile fare i conti con i limiti dell’Altro, ma soprattutto con i propri. Coppie miste, di persone non disabili e disabili fisici, di non disabili e non udenti, di non disabili e non vedenti, ne esistono sempre di più. È la conoscenza reciproca, l’apertura dei canali recettoriali, linguistici e intellettuali che ha permesso a queste coppie di incontrarsi.
Per questo serve parlarne, informare, fornire occasioni per sperimentare e sperimentarsi. Solo negli ultimi anni la discussione sull’argomento sessualità e disabilità si è diffusa ai non addetti ai lavori, a un pubblico più vasto che forse, a differenza di quarant’anni fa quando il dialogo su questi temi è iniziato, è ora pronto per ascoltare, riflettere e metabolizzare una nuova visione delle cose. Ci si è accorti che non si può più rimandare, che il retaggio culturale che vuole il disabile asessuato, bambino, fatto solo di buoni sentimenti e problemi pratici su come lavarsi e vestirsi è superato. La persona disabile rivendica il proprio diritto a vivere la propria Identità di Persona integralmente, inclusa la propria identità sessuale. La masturbazione, la prostituzione non sono più sufficienti. È necessario cambiare il pensiero socio-culturale affinché le persone, disabili e non, si incontrino e si mescolino. Vanno abbattute le barriere mentali, ultimo baluardo di un rapporto gerarchico tra chi è “normale” e chi è “da assistere” e “fuori schema”. Ben vengano i film, i documentari, le conferenze, gli articoli, le lezioni magistrali. Ben venga un’educazione sessuale e affettiva fatta ai disabili per insegnare a corteggiare, a conoscere e usare il proprio corpo, le sue funzioni, le risposte agli stimoli, il piacere che può provare e donare e non solo la sofferenza, al fine di annullare la scissione mente-corpo. Un’educazione che mostri che ognuno ha un proprio stile di seduzione e che protegga dagli abusi dei malintenzionati. Ben vengano le opportunità per le famiglie, gli educatori, i medici, gli insegnanti e tutte le figure coinvolte nella cura della sessualità o della disabilità, di mettersi in discussione e analizzare i propri pregiudizi. Ben venga l’abbattimento delle barriere architettoniche che permetta ai disabili di fare vita mondana e culturale e non solo associativa, così da abituare la gente comune alla normalità della loro presenza e ad avvicinarsi e toccare con mano quelle paure e quei tabù che ci offuscano la mente.
In fin dei conti, se ci pensiamo bene, tutti siamo nudi quando nasciamo.