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Autore: Nicola Rabbi

1. Un filo conduttore di trent’anni


A cura di Valeria Alpi

“Sesso e handicap: a quanti si rizzano i capelli sentendo un simile accostamento? Quanti si vestono di teorie e moralismi per non ammettere che le relazioni affettive e sessuali fanno parte integrante delle persone disabili come di qualsiasi individuo? […] Salvo iniziative sporadiche però, il tema delle relazioni affettive e sessuali delle persone handicappate è tutt’oggi tabù e chi trasgredisce questa regola desta ancora grande scalpore […] Con queste premesse abbiamo iniziato il lavoro di raccolta di materiale riguardante la sessualità a cui è seguita la formazione di un gruppo di studio come risposta all’esigenza di conoscere e approfondire un tema così sentito da ciascuno di noi.
E così abbiamo scoperto che sul problema dei rapporti interpersonali, sui problemi della tenerezza, dell’amore, della sessualità, tutti hanno difficoltà a entrare nella mischia, ma che è anche comodo utilizzare queste difficoltà per insabbiare ancora una volta la sessualità dei ‘diversi’. La ricerca del gruppo non coinvolge soltanto le persone handicappate, vogliamo arrivare dentro la cosiddetta ‘norma’ non soltanto per mettere in discussione la relatività di questo termine, ma sopratutto per comprendere le vere motivazioni che spingono tanti ‘normali’ a reazioni così diverse di fronte alla vita sessuale e affettiva di chi non rientra nei canoni. Capire i perché di chi nega, prima di tutto a se stesso, l’esistenza di un corpo vivo e teso verso gli altri; chi invece, per contro, coglie di questa persona solo l’oggetto di cure riabilitative; chi ha orrore di pensare il proprio figlio handicappato mentre fa l’amore; […] e l’impossibilità di compiere l’atto sessuale, come se l’amore avesse un solo binario in cui poter correre, e i soliti modelli da ricalcare: ‘lui’ forte e conquistatore, ‘lei’ bella e oca, pronta a essere rapita”.
Ammettiamolo: a parte la parola “handicappato” che forse ai nostri giorni stona un po’, queste righe avrebbero potuto benissimo essere state scritte solo qualche settimana fa. Invece sono estratte dall’articolo intitolato “Sesso negato” di Maria Cristina Pesci, medico, psicoterapeuta e sessuologa, che inaugurava il numero “uno” (così era scritto sulla copertina dell’epoca) del primo numero della rivista “HP-Accaparlante” del 1983. La rivista compie quest’anno trent’anni di vita, e devo dire mi emoziona avere questo filo conduttore con il 1983: proprio per il compleanno, riproponiamo il tema della vita affettiva e sessuale delle persone disabili, tema che ha contraddistinto la storia del Centro Documentazione Handicap e della rivista fin dai suoi esordi. Allo stesso tempo, questo parallelismo è preoccupante. Dopo trent’anni possiamo ancora ripetere gli stessi concetti: la sessualità delle persone disabili come un tabù, come un qualcosa che disorienta, fa paura, crea dubbi, ansie, aspettative…; e la diversità dei corpi, ancora “recintati” in tempi, modalità e luoghi “non normali”…
Sono passati trent’anni e questi contenuti sono ancora di potente attualità, anzi necessitano di tornare prepotentemente di attualità. Eppure, potreste obiettare, se ne parla, se ne parla molto, mai come in quest’ultimo anno se ne è parlato così tanto. È vero, il tema della vita affettiva e sessuale delle persone disabili è tornato di moda: innanzitutto con www.loveability.it, un sito internet che raccoglie le storie d’amore, o il desiderio di storie di amore, delle persone disabili o di chi ruota intorno alla vita di una persona disabile; e poi con la campagna sull’assistenza sessuale, al fine di introdurre anche in Italia alcune figure professionali esistenti già in altri Paesi europei. Entrambi gli argomenti sono rimbalzati su tutti i massmedia, con un tam tam ininterrotto sul fatto che le persone disabili non sono angeli o bambini, non sono persone asessuate, ma hanno – come tutti – il diritto a una vita affettiva e sessuale. La parola “diritto”, anzi “diritto di scelta”, è arrivata sui giornali, nelle trasmissioni televisive, nei siti internet, nei blog, on air sulle frequenze radiofoniche, come se prima non ci fosse stato nulla e ora invece si dovesse pretendere un diritto a tutti i costi. Ma parlare di sessualità tocca corde profonde in chi ascolta, perché la sessualità dell’altro coinvolge anche noi stessi, ci mette in discussione, risveglia domande su chi ci sta di fronte e le riflette su di noi. Siamo pronti a rispondere a noi stessi, alle persone disabili e ai loro familiari? Siamo pronti a superare e ad aiutare a superare i pregiudizi, le paure, le difficoltà, i silenzi? Occorre tornare, allora, al nostro filo conduttore, che per trent’anni ha costruito cultura e formazione sui temi dell’affettività e della sessualità delle persone disabili. Occorre accompagnare i nuovi temi emergenti e la voglia delle persone disabili di uscire allo scoperto con le loro storie e le loro emozioni, con un percorso culturale che permetta di soffermarsi su alcuni nodi cruciali della questione: esiste una sessualità normale e una disabile, o esiste solo la sessualità? Quali emozioni e sentimenti le ruotano intorno, quali desideri, paure, condizionamenti? Quale creatività possiamo mettere nei rapporti? Come aiutare un corpo “recintato” e “sminuzzato” in più parti a conoscersi e a esprimersi come un intero? Se non riusciamo a portare avanti un accompagnamento culturale insieme alle proposte di nuove tematiche emergenti, rischiamo paradossalmente di rimanere indietro, e di avere dei vuoti di senso. È vero, i temi sono urgenti, ma già la saggezza popolare fa notare che la fretta è una cattiva consigliera. Come Centro di Documentazione Handicap in tutti questi anni non ci siamo mai stancati di fare informazione, di raccogliere documentazione, e di attivare formazione e consulenza per persone disabili, famigliari, educatori e operatori, sui temi dell’affettività e della sessualità delle persone disabili. Il lungo e approfondito lavoro monografico Le passeggiate sono inutili. Suggerimenti possibili e impossibili nel confronto tra sessualità e handicap, di Donata Lenzi e Maria Cristina Pesci (“HP-Accaparlante”, 2001) ne è la prova. Ed eccoci ancora una volta qui, a riflettere su queste tematiche, proponendo risposte o suggerendo altre domande su cui ri-partire e lavorare. Questa monografia si rivolge a tutti, agli esperti del settore, agli educatori, agli insegnanti, agli operatori, ai volontari, alle famiglie, alle stesse persone disabili, ma anche a chi non ha particolari conoscenze del mondo della disabilità. È una voce narrante – proprio a partire dalle parole delle persone con disabilità – che vuole suggerire immagini, come delle vere e proprie istantanee fotografiche, per poter ripensare i nostri schemi mentali e guardare con nuovi occhi chi ci sta di fronte. La monografia si sviluppa idealmente in tre parti, a cominciare dalle storie di  Sesso, amore & disabilità, un lungo lavoro di documentazione video filmata cui ha collaborato anche il Centro Documentazione Handicap. Il film-documentario, con la regia di Adriano Silanus e il coordinamento scientifico di Priscilla Berardi, porta per la prima volta sul grande schermo le tematiche della vita sessuale e affettiva delle persone disabili, senza pietismi né retorica, e senza avere paura delle parole e dei pensieri. La seconda parte della monografia pone, invece, al centro dell’attenzione il corpo con disabilità, attraverso il racconto di alcune esperienze laboratoriali condotte all’interno del Progetto Calamaio. L’ultima parte della monografia affronta infine le differenze di genere, l’importanza dell’educazione sessuale, e i nuovi temi emergenti, come l’assistenza sessuale, attraverso la voce di chi lavora fuori dall’Italia.

Accedere direttamente all’oggetto libro, per conoscere, pensare, essere

Di Tatiana Vitali

Quello che state facendo in questo preciso momento, cioè leggere, è un’attività allo stesso tempo banale e complessa. Una di quelle azioni che per piacere o per dovere, ci vede protagonisti moltissime volte al giorno. Tutti però in modi diversi.
Per questo, in questo secondo appuntamento, vorrei condividere con voi qualche riflessione a proposito di un progetto nato due anni fa dalla collaborazione tra la cooperativa “Accaparlante”, il CAT – Centro Ausili Tecnologici di Bologna e la Mediateca di San Lazzaro di Savena sull’accessibilità alla lettura per persone con deficit motorio o comunicativo e la costruzione del libro modificato e personalizzato.
Due percorsi paralleli “Lo scaffale sulla lettura accessibile” e un ciclo formativo di base di primo e secondo livello rivolto a insegnanti, operatori culturali, educatori e familiari hanno regalato, soprattutto ai lettori più giovani, nuove soluzioni e proposte creative legate alla lettura su misura.
Ad aprire le porte dello scaffale, lo scorso novembre, l’incontro “Leggere per vivere” alla Mediateca di San Lazzaro di Savena, ospite la scrittrice e illustratrice Arianna Papini che ci ha raccontato dove nascono le sue illustrazioni e i suoi libri. Libri cui noi, animatori del Progetto Calamaio, siamo legati da lungo tempo, inseparabili strumenti delle nostre animazioni. Insieme a lei anche Manuela Trinci, psicoterapeuta infantile e studiosa di letteratura per l’infanzia, con un intervento dal titolo ironico e importante Babbo, perché sono scema?… I libri raccontano dolore, solitudine e fatica della diversità.
Ne sono susseguiti altri quattro incontri, in cui si è cominciato a parlare di “libri per tutti e accessibilità della lettura”, ideati per permettere alle persone con disabilità motoria, sensoriale, comunicativa o con disabilità multiple di accedere alla lettura a partire da piccoli accorgimenti, dalle mollette da bucato inserite all’esterno delle pagine, al cartoncino per inspessire le pagine stesse fino al volta pagina elettronico, ausilio tecnologico in piena regola. Sono queste soluzioni pratiche e piuttosto semplici che ci consentono di accedere direttamente e senza troppe mediazioni all’oggetto libro. In seguito si è cominciato a parlare di libri tattili, dedicati a non vedenti e ipovedenti e si è accennato in questa sede anche al mondo degli audio libri.
Il terzo appuntamento è stato dedicato alla parte teorica sulla CAA, la Comunicazione Aumentativa Alternativa. Facciamoci aiutare da Maria Antonella Costantino: “la Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA) è ‘ogni comunicazione che sostituisce o aumenta il linguaggio verbale’ ed è ‘un’area della pratica clinica che cerca di compensare la disabilità temporanea o permanente di individui con bisogni comunicativi complessi’ (ASHA, 2005). L’aggettivo ‘aumentativa’ sta a indicare che tende non a sostituire ma ad accrescere la comunicazione naturale, utilizzando tutte le competenze dell’individuo e includendo le vocalizzazioni o il linguaggio verbale esistente, i gesti, i segni, la comunicazione con ausili e la tecnologia avanzata”.
In parole povere la CAA è un linguaggio utile per persone che hanno difficoltà linguistiche, più o meno gravi, persino per chi non riesce proprio a emettere suono.
A questo punto si è cominciato a mostrare la differenza che c’è fra libri modificati e personalizzati. La conoscete? Il libro personalizzato è un libro che parte da una nuova storia, dai desideri del lettore e da quello che il lettore può fare. Cosa diversa, invece, è parlare di libro modificato, perché, in quel caso, si modifica una storia già esistente in commercio attraverso simboli codificati internazionali.
Infine, all’ultimo incontro, è venuto il bello, la parte pratica: costruire un libro modificato a partire dalla fiaba classica de I tre porcellini, pensata per un bambino di scuola materna. Divisi in gruppi e partendo dalla modifica, dalla riduzione e dalla semplificazione del testo si è giunti così alla creazione di una vera e propria pagina. Purtroppo in quell’occasione non c’è stato più il tempo ma le fasi successive sarebbero state quelle della scelta delle immagini e la traduzione del testo in simboli. Un percorso davvero stimolante!
Accrescendo la comunicazione naturale, la CAA non è infatti uno strumento utile solo per le persone con disabilità ma può diventare occasione di conoscenza per tutti, capace com’è di stimolare le nostre azioni e reazioni creative. Prendo ora spunto da una frase del mio collega Claudio Imprudente quando ci racconta che “adattare non significa semplificare”.
Il libro modificato è proprio un ausilio che se ci consente una relazione fisica diretta con il supporto non la riduce alla semplice fruizione bensì l’amplifica, fornendo all’incontro con la stessa ulteriori stimoli e suggestioni, costringendoci ad andare a fondo, alle radici e alla sintesi del racconto, e questo, è un dato di fatto, è un’esperienza unica per tutti i lettori.
Per questo Accaparlante e CAT hanno scelto di proseguire la collaborazione con la Mediateca in questa direzione, continuando la relazione con l’oggetto libro anche con l’utilizzo di tecniche e tecnologie specifiche come il software Symwriter e l’elaborazione delle immagini oltre che la traduzione di libri individuati dai corsisti e dai docenti.
Perché, in fondo, il libro è l’ausilio più personale, che possiamo portare sempre in tasca e condividere con gli altri. E la lettura è l’azione che più di altre ci rende liberi perché ci permette di conoscere, pensare, essere.

Per informazioni:
Annalisa Brunelli – annalisa@accaparlante.it
Brunella Stefanelli – bstefanelli@ausilioteca.org 

La corsia degli incurabili

Di Lucia Cominoli

Corsia degli incurabili è un atto unico per un attore solo, composto in versi dalla poetessa Patrizia Valduga. Il protagonista, un malato su sedia a rotelle, vive e lotta contro l’immobilità, la sua e quella della società italiana, superficiale e corrotta, espressione manifesta della dittatura televisiva degli ultimi anni.
L’omonimo spettacolo, riletto e diretto nel 2010 da Valter Malosti, regista di Teatro di Dioniso di Torino, ha avuto per protagonista Federica Fracassi, attrice e fondatrice di Teatro I di Milano. Il Teatro dell’Elfo (MI) ne ha ospitato lo scorso gennaio una nuova replica, segnalata tra le migliori proposte della stagione nazionale.

… ora e nell’ora della nostra morte.
Ave Maria… Buongiorno, nuovo giorno!
E ave alla vita! … della nostra morte!

Piena di grazia, il Signore è con te…
Quello spicchio di luce è il nuovo giorno.
Il Signore è con te, luce, è in te…

… e nell’ora che passa la paura.
Mia dolce luce, gioventù del giorno,
tu spicchio di giustizia vera, giura

che qui, a noi, soldati del dolore,
non porterà troppo dolore il giorno,
che a tutti i giusti gemiti del cuore

si darà ascolto… ci sarà pietà…
almeno per un giorno, questo giorno…
Pura luce, misura d’umiltà,
giura che sarà giusto il nuovo giorno,
che sarà azzurro più di ogni altro giorno

(Allegramente)
Che programmi per oggi? Su vediamo:
un migliaio di cose a cui pensare.
Beh, un migliaio… non esageriamo!

Quello spicchio di luce è il nostro giorno:
l’azzurro lo dobbiamo immaginare;
alba e tramonto, aurora e mezzogiorno

stanno più su, da quelli col denaro.
E con tanto di stelle, luna e sole.
Ma mica se li godono, sia chiaro.

La chiamano così: democrazia.
(Con violenza)
Non c’è più rispetto per le parole!
si usano a vanvera!… Santa Maria…

madre di Dio! E ti credo che il mondo
è così stronzo! È questo vile oltraggio
alle parole il motivo profondo!

È il continuo oltraggiare le parole
che vede i furbi sempre col vantaggio
e lascia noi qui sotto senza sole!

Ma tu ora sole salpa, dai, coraggio,
fa vela verso loro, e fa buon viaggio.

Patrizia Valduga, poetessa veneta, quando scrisse questi versi diciotto anni fa, nell’agosto del 1995, lo fece pensando a Franca Nuti, attrice torinese. Un bel confronto quello tra la moglie del poeta e critico letterario Giovanni Raboni e una delle più popolari signore del teatro anni ’80,  premio Ubu come miglior attrice. Corsia degli incurabili, atto unico per un attore solo, non è certo una prova facile, nemmeno per lo spettatore più sensibile.
In scena una lotta alla sopravvivenza senza esclusione di colpi, protagonista un malato generico su sedia a rotelle impegnato a trascorre gli ultimi giorni tra il desiderio della fine e un’incurabile voglia di bellezza. La poesia, calmante e ansiolitico, ne è l’unica e inarrestabile esplosione segreta.
Scomodo e complesso, Corsia degli incurabili è un testo che si affronta con una buona dose di coraggio, proprio come hanno fatto altri due premi Ubu dei giorni nostri, il regista di Teatro di Dioniso di Torino Valter Malosti e  la lodatissima Federica Fracassi, attrice e fondatrice con Renzo Martinelli dello spazio Teatro I sulla cerchia dei Navigli milanesi.
Già composto nel 2010 e ripresentato a gennaio al Teatro dell’Elfo di Milano, lo spettacolo è stato accolto anche quest’anno con grande entusiasmo, capace ancora com’è di riversare lo sguardo sui morbi non solo del singolo ma dell’intera società contemporanea,  tra canto e grido, tra soavità e furia.
Endecasillabi, le parole, combinati in terzine e distici alla maniera sirventese, quella dei padri danteschi, scivolano in raffinate e ironiche litanie, rampogne, rimpianti delle montagne, ferite liriche in cui balenano il ricordo di amori tinti d’oro e d’azzurro, della giovinezza veneziana, di notti da trecento ore. Finché non si arriva al presente e la sofferenza lascia il posto all’indignazione.
Chi è davvero il terminale nell’Italia berlusconiana? – ci chiede la Valduga – il malato o il pubblico della dittatura televisiva? Che cosa resta a un poeta che non può più muoversi di fronte alla semplificazione, alla dimenticanza, allo svuotamento del corpo e del linguaggio? Il popolo ignora i suoi cantori e quel che è peggio è che anche li ammazza, lasciandone la voce solitaria e inascoltata.
Indimenticabile, l’interpretazione di Federica Fracassi si misura, sottile ed energica, tra i registri del sublime e la più banale attualità.
La disabilità è qui condizione simbolica di immobilità corporea, esistenziale e politica.
Un’icona volutamente patetica e stereotipata, quella della donna “soldato del dolore”,  che si ribalta nell’impetuosità della parola, nell’intensità dell’accusa e negli ironici commenti a margine del quotidiano.
Complice il volto pallido, il camice bianco e i capelli rossissimi dell’attrice,  dove anche l’immagine più consueta, la pianta-vegetale, si fa surreale e fantasmatica senza perdere di vista il concreto, il luogo comune, il trito e ritrito della “normalità”:

[…] Le tivù ci hanno fatto l’incantesimo…
Se non scarica il cielo una saetta,
tutti servi del secolo ventesimo!

Classifiche, sondaggi, lotterie…
siamo solo strumenti di collaudo
per i bordelli… o per le osterie…

Che cosa non si deve sopportare!
Se penso che c’è ancora Pippo Baudo
che son trent’anni che mi fa cagare…

Trent’anni? ma saranno anche quaranta…
E la paghiamo noi… ha certi prezzi…
lui munge le sue vacche lì… e ci canta

le canzonette… fa i pettegolezzi…
Se mai esco di qui mi fanno a pezzi!

La regia di Valter Malosti amplifica il romanticismo decadente della rappresentazione insieme alla sua vocazione più contemporanea in un contraddittorio di luci e di musiche, di suoni barocchi e inquieti, di riferimenti colti e  di omaggi popolari. Tra questi Gluck e Beethoven,  Chris Watson e Fausto Romitelli, Carmelo Bene e Uri Caine, Giovanni Lindo Ferretti e Caruso fino alle romanze da pianoforte di Francesco Paolo Tosti.
Sospeso tra tradizione e ricerca il Teatro di Dioniso di Malosti come al solito straborda, per arrivare alle radici del discorso, ambiguo, irriverente e sensuale, così come lo è la nostra protagonista immobilizzata.
Sul teatro di poesia la critica si è spesa moltissimo ma nulla, in questo caso, ci sembra più vicino alla sua origine dei punti 3 e 9 della Lode della scrittura. Dieci tesi per un teatro organico del drammaturgo, poeta e pedagogo Giuliano Scabia che così annota:

[…]
3) La scrittura di un testo è innanzitutto un atto di ricerca radicale e organica. Una ricerca spinta fino alle estreme capacità di tensione del linguaggio e delle visioni del mondo, dentro le strutture del proprio tempo.

[…]
9) Ciò tuttavia fa pensare che di fronte a forme diverse ma convergenti di conformismo uno degli elementi di validità della scrittura teatrale consista nello spingersi al limite estremo di tollerabilità nei confronti di tutta la situazione esistente, nell’essere il meno tattica possibile, nel ricercare il livello più alto di scontro. Ciò che rende rischiosa e verificante la scrittura è questo trovarsi in continuo stato d’assedio: assediante e assediata.

Radicale e organica è qui anche la ricerca sulla disabilità, una ferita acquisita, ostentata, non idonea, dichiaratamente non conforme. Quello della Valduga è un corpo estraneo che se lo vive sulla pelle, un sismografo capace di cogliere le dissonanze di un paese che non si prende più sul serio e che ha perso i vocaboli. Alla fine se qualcosa resta ai cantori è la responsabilità di un gesto esteso, l’agitazione delle idee, la trasformazione dell’immaginario, agli altri la necessità di scavare all’interno di quelle immagini fino alle loro fondamenta. 

Rimetteremo in moto cento cieli…
d’oro e d’azzurro… oh, d’azzurro e d’oro…
se staremi distesi e paralleli…

sì, mettimi una mano tra i capelli…
sto migliorando… vedi che miglioro…

Per informazioni:
www.teatrodidioniso.it
www.teatroi.org

Una costante “novità”

Di Luca Giommi

Una cosa è certa, il Festival del Cinema Nuovo non è un nuovo festival di cinema. Giunto all’ottava edizione in sedici anni di vita (la manifestazione è a carattere biennale), il concorso lombardo risulta uno dei rarissimi, in Italia, in grado di garantire un elemento spesso sottovalutato, ovvero quello della continuità nel tempo, fondamentale non solo per chi dedica le sue energie per l’organizzazione e lo svolgimento del festival stesso, ma anche, e soprattutto, per chi decida di realizzare i film e per favorire la costruzione di un seguito di spettatori forte, fedeli o meno. E per chi, come chi scrive, ha l’opportunità di osservare l’evoluzione dell’evento e la crescita costante della qualità dei film selezionati (con l’accortezza di riportare nell’opuscolo i titoli di tutti i lavori iscritti), molti dei quali, peraltro, a opera di cooperative sociali ed enti che al festival partecipano da anni e che si confrontano con la produzione di un’opera filmica (cortometraggi in questo caso) con consapevolezza sempre maggiore in ogni momento della realizzazione di un film (scrittura, regia, montaggio, recitazione, ecc).
Questa consapevolezza “in divenire”, per molte di queste realtà, è possibile proprio perché esiste un luogo che quei lavori potrà ospitarli e mostrarli. La realizzazione di un’opera, l’esigenza di un’opera, certo, prescindono da uno scopo ben individuato, tanto più se, oltre al risultato finale, pesa in maniera così rilevante il processo della realizzazione (il coinvolgimento delle persone disabili in primo luogo), ma la certezza di un’occasione in cui rendere pubblico il frutto di un lavoro funziona da potente motore “motivazionale”, per non dire del piacere di rivedersi su un grande schermo condividendo il momento con altri, tanti, spettatori (circa 3.000 le presenze dall’Italia e dall’estero, un decimo circa quelle di persone disabili, un dato da ritenersi positivo).
Il Festival del Cinema Nuovo è un concorso internazionale di cortometraggi interpretati da persone con disabilità, questa la condizione minima per partecipare, ma sarebbe di sicuro interesse indagare, per ogni singolo lavoro, in quali e quante fasi della produzione dei corti le persone disabili abbiano avuto un ruolo attivo, con quali margini propositivi. Che ruolo giochi, per le varie cooperative, questa attività all’interno del lavoro che quotidianamente portano avanti. Nell’impossibilità di svolgere un lavoro analitico di questo tipo, riportiamo dall’opuscolo, molto curato, che accompagna i tre dvd dell’ottava edizione, il senso e le caratteristiche della proposta, così come pensata dagli organizzatori del festival, diretto, sin dagli esordi, dallo psicologo Romeo Della Bella.
“Si ritiene utile ribadire la peculiarità della nostra proposta. Altri (anche registi illustri) hanno proposto film sulla disabilità, con molta profondità e suggestione, svolgendo un’opera altamente meritevole di sensibilizzazione e di approfondimento. Altri hanno presentato portatori di handicap protagonisti nel rappresentare se stessi, evidenziando le loro capacità e prospettando anche possibilità progettuali per alcuni di loro. Altri ci hanno presentato magnifici documentari su varie attività espressive. Noi non vogliamo percorrere queste strade, anche se le apprezziamo e le condividiamo. Noi vogliamo valorizzare esperienze cinematografiche che i nostri giovani attuano nelle loro piccole Comunità. E nei ruoli più vari: in storie comiche, romantiche, poliziesche, avventurose…: vere fiction!”. Logicamente appropriate le finalità: “Anche l’attività cinematografica, se ben gestita, può produrre quei processi benefici di autostima e gratificazione che si possono innescare attraverso ogni attività creativa. Basta riuscire a canalizzare le loro molte positività che spesso non vengono valorizzate. Anche loro (le persone disabili) hanno capacità di rischio, vitalità, voglia di immedesimarsi in ruoli diversi, gusto di sognare. Anche voglia di fare cinema. Vogliamo, insomma, offrire un’altra possibilità di esprimersi. […]  Non vogliamo cadere nella trappola di far diventare terapia ogni esperienza. Però quando il piacere della espansione creativa-emotiva dell’operatore si allinea e integra con il piacere dell’espansione creativa-emotiva del giovane disabile, ne scaturisce un contatto “incandescente”, che fa scoccare la scintilla della vera terapia. Naturalmente c’è vero effetto terapeutico e la positività si generalizza in ambienti e situazioni diverse e si prolunga nel tempo. Ma se far cinema aiutasse anche solo a far star meglio e ad avere gioia di vivere nel qui e ora, non sarebbe poi cosa da poco”.
Il Festival del Cinema Nuovo può contare su una fitta rete di soggetti e istituzioni che ne garantiscono la realizzabilità: oltre al Comitato Organizzatore composto dal Comune di Gorgonzola (MI), sede del concorso, ci sono Pubblicità Progresso, ANFFAS, Coop. Soc. “Il Sorriso”, riceve il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, della Regione Lombardia, della Provincia di Milano e di Mediafriends Onlus. Tra gli sponsor ufficiali, lo stesso Comune, la Banca di Credito Cooperativo, la Cooperativa di Consumo Nobile e Brambilla, ANFFAS Martesana, ACLI Gorgonzola e Trebosi.
Varia, come sempre, in maggioranza tendente a una sorta di “variegato” comico che invita alla riflessione, la proposta filmica del 2012. Si distinguono, a nostro avviso, per una pluralità di elementi intrinseci all’opera, Anche se piove non mi bagno (C.D.I. Dip. Sal. Mentale Az. Sanit. Provinc. – Catania); Francesco e Bjorn (Centro Studi sulla Comunicazione W.O.C.E. – Zoagli – GE); Nonsocheditte (Centro Riab. “Vaclav Vojta” Coop. Soc. – Roma); Sulla punta dei piedi (CSE Coop. Soc. “Il Sorriso” – Pessano c/Bornago – MI); Awakening (Coop. Soc. “Il Ponte” – Villa Carcina – BS); La Panchina (Assoc. Volontariato “Quelli del Sabato” – Bellinzago Nov. – NO).

Referente: dott. Romeo Della Bella
E-mail: tonodb@libero.it
Tel. e Fax: 02/951.44.67
Segreteria: 331/991.19.93

Gioco libera tutti


Di Stefania Baiesi

Il progetto “Gioco libera tutti” è un nuovo laboratorio del Progetto Calamaio.
L’obiettivo è quello di far scoprire una modalità competitiva sana, divertente, giocosa e non violenta che favorisca le relazioni tra le persone e permetta l’inclusione nel gioco anche di chi ha abilità diverse, perché l’elemento fondamentale diviene non più la lotta per primeggiare ma la sfida creativa che consiste nel creare un gioco capace di far divertire insieme ognuno, con i propri limiti e le proprie abilità. In questo approccio diventa prioritario il rapporto con ogni singolo bambino che viene aiutato a trovare il proprio specifico modo di giocare con il gruppo e con le regole del gioco. Il laboratorio è stato realizzato in due classi quinte della scuola primaria “Elia Vannini” di Medicina (BO), con il contributo della cooperativa sociale “Il girasole” della medesima cittadina.
Hanno condotto il progetto l’educatore Luca Cenci e l’animatrice disabile Stefania Baiesi.

Perché un progetto sull’educazione motoria come questo? Quali sono gli obiettivi?
Gli obiettivi sono gli stessi del Progetto Calamaio, il Progetto “Gioco libera tutti” è un percorso nuovo, sperimentale, con nuove regole, che mira all’inclusione sociale attraverso il gioco e lo sport delle persone all’interno di una classe, di una squadra, di un gruppo parrocchiale o dei campi estivi. Le attività svolte tengono conto delle varie dinamiche d’inclusione sociale, non solo per quelle persone che hanno un deficit specifico, ma per tutti.
Tutti, appunto, devono avere un ruolo attivo nelle attività che proponiamo. Io con la mia carrozzina avrò dei ruoli specifici, così come il bambino che per timidezza fatica a esprimersi o quello sovrappeso con problemi di accettazione, anche a livello emotivo.
Difficoltà che si ripercuotono anche nelle relazioni con gli altri compagni.
Un passo centrale, dunque, è mantenere un occhio di riguardo alle differenze che alle volte possono essere più o meno visibili. Il gioco diventa strumento per l’integrazione, e utilizzando la creatività abbiamo inventato nuove regole condivise da tutti e abbiamo mostrato come tutti noi, nonostante le nostre diversità, possiamo ricoprire un ruolo attivo.
Il Progetto “Gioco libera tutti” è un progetto tutto nuovo. Variano metodologie e strumenti (il gioco in questo caso, con le sue regole e il contesto sportivo), gli obiettivi però rimangono i soliti: costruire e rafforzare le relazioni per una reale integrazione. Per questa volta si è deciso di sperimentarlo in una scuola Elementare di Medicina.
Dopo tanto tempo mi sono ritrovata come animatrice, ho riscoperto me stessa e il mio ruolo con i bambini. Mentre li osservavo giocare e divertirsi mi sono riposta delle domande, che spesso con il nostro lavoro spesso diamo per scontate… Che cosa stiamo facendo? Perché lo facciamo? Domande che sembrano scontate, ma in realtà non lo sono…
Da qui sono partita per una lunga riflessione, sono entrata in una dimensione diversa, una dimensione nuova e ho riscoperto il senso del mio lavoro, ho ripreso il gusto del mio lavoro, mi sono divertita molto anch’io.

Qual è stata la molla, come sono arrivata a capire?

Attraverso il sorriso di un bambino. È cominciato tutto da quel sorriso, una conferma per me che il nostro lavoro stava funzionando, che le nostre nuove regole divertivano molto, dopo di che, ci siamo sciolti sempre di più, sia io sia i ragazzini, poi pian piano siamo arrivati al dialogo, facilitato dal contesto del gioco.
È stato tutto un crescendo, verifica finale compresa: un’esplosione di biglietti scritti, le loro emozioni a non finire sul percorso fatto insieme, condite da disegni e cuoricini.
Come è stato il mio lavoro? Una difficoltà che ho sentito inizialmente è stata il non aver mai partecipato a certi giochi, perché non erano ancora stati adattati alle mie caratteristiche fisiche, tranne quelli che negli anni avevo imparato attraverso l’esperienza del Progetto Calamaio (l’uomo nero, il basket, il paracadute, ecc.), quindi, ho dovuto anche io mettermi di nuovo in gioco, imparando tutte le regole da zero.

Il ruolo di Luca? Luca mi ha dato una direzione rispetto a ciò che dovevo fare, l’ho visto lavorare negli incontri per la prima volta e, a mio modesto parere, francamente è stato molto bravo, l’ho visto molto preparato.
Come ho visto i bambini? Dall’inizio alla fine degli incontri è cambiato molto il clima, i ragazzini si sono divertiti molto, li ho visti sempre meglio, sempre più attivi e dinamici, come immaginavo, non ho mai avuto dubbi su questo, visti i nostri strumenti come il gioco e il divertimento, usati come tramite essenziale, nel nostro nuovo Progetto. Si è partiti dal silenzio, sintomo del disagio iniziale, per poi arrivare a stabilire un dialogo, costruire una relazione, un rapporto. Ad esempio nel primo incontro i bambini erano in imbarazzo di fronte al mio handicap e tendevano a evitare il contatto con me. Negli ultimi incontri invece, litigavano quasi per spingere la mia carrozzina e giocare con me!
Carmela, l’insegnante di classe, è stata molto partecipe, si è messa in gioco fin dall’inizio anche fisicamente, spingendo la mia carrozzina. Un ringraziamento va anche all’insegnante di sostegno e di educazione motoria che in completo accordo con l’insegnante di classe, ha permesso lo svolgimento delle attività nelle sue ore.

Ringraziamo la cooperativa “Il Girasole” per la loro disponibilità e la loro gentile collaborazione.                      

Quando il Calamaio macchia la classe

Di Roberta Zini, insegnante di sostegno

Sono tre anni che il Progetto Calamaio conduce dei percorsi a Correggio (RE) con classi delle elementari grazie al sostegno del Trocia Beach, un evento nato in ricordo della morte di un ragazzo soprannominato “Trocia”. Quest’anno ne sono stati realizzati quattro, e alcune maestre che hanno partecipato agli incontri hanno spedito delle considerazioni. Pubblichiamo quelle di Roberta Zini, insegnante di sostegno della classe 5° A della scuola primaria “San Francesco d’Assisi” di Correggio.

Correggio, mercoledì 6 marzo 2013
Eccoci, ecco il fatidico mercoledì 6 marzo che tanto ho aspettato.
Non esageriamo! Si aspetta con apprensione un evento tanto importante, si aspetta qualcosa che ti cambia la vita, non l’arrivo di esperti a scuola.
Eppure è così, perché arrivare a questo 6 marzo ne ho passate delle belle: intervenire più volte al Collegio docenti per essere sicura che il progetto passasse… per tutti i dati degli esperti da inviare in segreteria…, e la segreteria che ti chiama e ti dice che qualcosa non va, l’applicata che mette fretta, la mail che non funziona, io che tengo il cellulare spento… Perché riesco a complicare sempre tutto?
Inizia la lezione e non guardo l’orologio: non c’è l’ho.
Squilla il telefono in aula e ci avvertono che Loro sono arrivati.
Smarrimento: ci dobbiamo preparare, ma a differenza di altri incontri, gli alunni non sanno tanto per cui si aspettano il solito approccio. Pensano sia solo necessario chiudere il quaderno e vedere un po’ chi entrerà da quella porta, invece l’insegnante Elena dice che bisogna preparare l’aula.
Io non sento le sue parole, se non dal corridoio, perché ormai sono sgusciata fuori ad accogliere i nostri ospiti. E loro sono lì nello stesso corridoio con un sorriso da invidiare.
Avete presente quando nell’arco di una frazione di secondo ti vengono in mente mille cose? È proprio così anche per me.
Al primo passo iniziano i pensieri di paura: speriamo tutto vada bene, che il progetto parta col piede giusto, perché altrimenti la colpa ricadrà su di me (Beh tanto la colpa è sempre mia; l’abbiamo deciso tacitamente con tutta la classe); e se hai ragazzi non dovesse piacere? Ma peggio ancora, questi tre, chi sono? Se sono degli psicologi, siamo fregati, sai quanti aspetti noteranno? Ci diranno che non abbiamo saputo fare questo, valorizzare quest’altro, indirizzare quest’altro ancora… e aggiungeranno che ormai è troppo tardi perché ormai siamo alla fine della classe 5°… Robby, ma perché ti sei infilata in questa situazione!
Al secondo passo prendono il sopravvento i pensieri compensativi positivi e sfodero un vero sorriso smagliante. Penso: evviva siamo nelle vostre mani e adesso concediamoci un momento di crescita alternativa. Robby vivila al meglio!
Entriamo in aula dove regna il caos di voci e il rumore dei banchi, sedie che si spostano. Dalla mia posizione ho modo di notare le espressioni degli alunni e non posso non notare gli occhi che cadono su Stefania e la sua carrozzina. Il rumore si attenua, ma per alcuni non c’è miglior occasione per due chiacchiere, approfittando anche del fatto che la sistemazione dei banchi non è terminata.
Tristano, Stefania e Susetta entrano e ti aspetteresti un saluto invece come prima frase Tristano se ne esce con queste parole: “Che puzza! Ma vi siete lavati? Alzi la mano chi ieri sera si è lavato”.
Vergogna! Rossa in viso, mi affretto a spalancare la porta finestra, e, nonostante il mio mal di gola, accetto di patire un po’ di freddo per non deludere i nostri ospiti. Che figuraccia! Partiamo bene! Ma perché non ci ho pensato prima?
Nel frattempo tutti hanno la mano alzata e sostengono di non essere la fonte della puzza. Sudo al pensiero che adesso ci verranno ad annusare tutti uno per uno e io sarò la peggiore.
Tutti confermano di essersi lavati, più o meno convinti e Tristano ancora più sprezzante commenta: “Che bala!” e per essere ancora più incisivo lo scrive alla lavagna in grande.
L’attenzione è catturata. Gli sguardi dei nostri alunni non sono più per Stefania, ma adesso sono per questo strano personaggio con l’erre moscia che articola bene i suoni. Parla come se ogni parola fosse tonda e lui la volesse ammorbidire tutta. Non so spiegarmi, ma ogni suo vocabolo è pieno. Sarà un altro modo di catturare l’attenzione, ma a me, come esperto è piaciuto subito, fin dalla prima volta che ci siamo parlati al telefono: è rassicurante.
Mi avvicino a Susetta, dolcissima, due occhi che parlano da soli e le chiedo di passarmi la sua giacca e quella di Stefania.
Poi inizia un momento scherzoso tra Tristano e gli alunni e infine ci accomodiamo sulle sedie disposte a circolo, ognuno dove si trova in quel momento; no, io solo mi siedo dove mi trovo perché gli altri sono andati a cercare gli amici.
Mi manca il branco, quella barriera che mi dà un poco di sicurezza. Di me si vede tutto. Non so come, ma lo sguardo scende sui miei piedi e… accidenti! Ma che razza di calze ho infilato questa mattina? Al buio ho frugato nel cassetto e ho preso le più morbide, ma… sono giallo limone!
Quelle da casa. Wow sono il massimo! Un vero pugno in un occhio con questo mio modo di vestire scuro, serio, vecchio. Pazienza, mi inventerò una scusa, dirò che volevo essere un po’ divertente. Però intanto tengo i piedi ben sotto la sedia, così almeno non si dovrebbero vedere le calze.
Della prima parte introduttiva ricordo ben poco, preoccupata dal fatto che devo fare le foto. Mi alzo per prendere la macchina fotografica, ma Elena mi ferma e mi suggerisce di lasciar perdere: distoglierei l’attenzione. È vero perché io sono già distratta.
Mi risiedo, sono tra Bano e Letizia, un particolare interessante.
Tristano, Susetta e Stefania non si presentano e io mi chiedo se dobbiamo farlo noi, ma poi Tristano chiama bimbi i nostri alunni e io noto gli sguardi accigliati di alcuni, perciò apro la bocca per dire che questi non sono più bambini, ma ragazzi. Tristano non sorvola su questo particolare, ma prende spunto per capire meglio i criteri di categorizzazione degli alunni e da una breve discussione ne esce che io rientro negli adulti, ma Elena è già negli anziani. Lei si ribella, ma il suo intervento con protesta ha risultati scarsi: le toccherà far parte della terza età.
Tristano apre il suo zaino da montagna e ci passa dei foglietti che simulano una carta di identità. Ci chiede di compilare il foglietto in modo segreto e di consegnarlo a Stefania.
Ok, cosa ci vuole per dare le mie generalità. E invece no, non è così scontato, perché oltre al nome mi viene chiesto qualcosa che non è un dato oggettivo (altezza, età, colore dei capelli o professione); devo scegliere e dire agli altri qualcosa di mio che forse nessuno mi ha mai chiesto, il soprannome è ovvio, mi chiamano tutti così, ma le mie preferenze no. Che cosa faccio? Compilo più o meno senza essere troppo sincera o mi lascio andare? Ma io che trasmissione preferisco? Boh, guardo solo il telegiornale e quella faccia di… Mentana! Ci metto il tg? No, non è il mio preferito.
Un gioco? E chi gioca? A cosa mi piacerebbe giocare? E poi la musica. Sì adesso sto riassaporando il piacere della musica con i miei figli, ma anche se qualche brano mi piace, mi prende, non ho la più pallida idea di chi mai lo stia cantando con tutti questi nomi stranieri. Ma a me quali cantanti hanno lasciato qualcosa? Mi tocca andare a vent’anni fa; e andiamoci!
Cosa vorrei fare da grande? Beh, visto che è permesso sognare: la fornaia mi andrebbe  a genio.
Nel frattempo siamo disturbati da qualcuno che entra (durante queste attività non dovrebbe esserci nulla che arrivi dall’esterno a rompere la magia). Elena esce e al suo rientro la dobbiamo aspettare, perché lei non ha avuto il tempo di compilare. Potrebbe essere un’attesa un po’ noiosa e invece comincio a notare qualcosa di strano: tutti sorridono un poco imbarazzati, come se il mio disagio l’avessero vissuto anche loro.
Bano mi chiede consiglio su alcune risposte che non riesce a verbalizzare, Ugo è lì intorno a me, in piedi, ma non è venuto da me. O meglio, era venuto, ma io l’ho ignorato e lui si è rivolto a Letizia, chiedendole un aiuto. Gulp, non me ne sono neanche accorta!
Cosa succede Robby, ti lasci prendere così tanto dall’attività che non fai neppure il tuo lavoro? Già il mio lavoro. Sono qui per aiutare Ugo a integrarsi e poi non lo aiuto? O forse sì? Ugo si rivolge a una compagna e lei l’aiuta con naturalezza. Questa è l’integrazione. Sì, stando al mio posto ho aiutato Ugo. Che considerazione strana!
Intanto Tristano sparge i nostri bigliettini sul pavimento e ci invita a fare un gioco di conoscenza.
Elena legge le caratteristiche scritte sul primo bigliettino, ovviamente tralasciando nome e soprannome e lascia a noi il compito di scoprire di chi si tratta. Per alcuni alunni è semplice, per altri è quasi impossibile riconoscerli. Li osservo: Gabriele non si smentisce mai, si agita sulla sedia, si alza, non riesce a stare fermo e interviene con battute che, a mio parere, lasciano trasparire troppa confidenza; Davide è agitatissimo, più in movimento di Gabriele, ma fin da subito, tanto che Tristano appena seduti si era dovuto mettere vicino a lui. Scivola sulla sedia, diventa un tutt’uno con la sedia stessa, poi ride, urla, cade dalla sedia o vi si sdraia. Ha sempre qualcosa in mano da farsi scivolare sulle labbra, tiene la bocca aperta e si accarezza le labbra con le mani o degli oggetti; almeno sorride; Ivan, che temevamo potesse catalizzare l’attenzione su di sé, traffica con oggetti tra le mani, sta scomposto e fa qualche battuta di troppo, parla, si muove, ma in fondo in fondo è attirato e incuriosito da questi tre adulti che escono dai normali schemi degli altri adulti. Sembra pensare: “Questi non li sfido, li osservo e me li studio, perché hanno quel non so che di interessante”.
Vittorio, Ugo e Umer si dondolano sulla sedia, sempre a rischio di caduta. Li richiamo, eseguono, poi subito dopo riprendono; Alex sembra un po’ sulle sue, come se giocare fosse da piccoli, ma ci sta; Alice è felice (c’è venuta anche la rima); Mattia è un po’ agitato; le quattro ragazze alla mia sinistra ci sono, partecipano, ma stanno un po’ a guardare, sembrano più grandi dei compagni. Sono grandi o hanno timore di mostrarsi? Camilla e Letizia no, anzi, Letizia si dimostra adulta per qualche considerazione che fa solo con me, quasi fossimo complici in segreto. Camilla interviene cercando di dare il suo massimo, di non essere banale. Ginevra e Alessandra, più taciturne ascoltano; Kaynaat ascolta e presta attenzione con il desiderio di partecipare, non di giudicare, come le è solito: questo non è un confronto, una gara, non c’è giudizio; oggi ci divertiamo; Rebecca si sente a suo agio, ma scruta questi tre personaggi e il loro modo un po’ bizzarro di lavorare; Abdullah si diverte, ma si agita e strofina spesso le mani, mostrando così involontariamente il suo arto rigido; poi c’è Antonio che, forse perché è seduto vicino a Tristano o forse perché viene coinvolto nel gioco, è più sorridente e sciolto del solito, tenta anche qualche battuta; Bano sorride ma resta timida.
Il gioco prosegue e man mano che si legge ogni foglietto, è semplice riconoscerne l’autore anche solo dall’espressione imbarazzata che fa.
Arriva il turno di Sara; alla lettura della sua carta d’identità si copre il volto, diventa rossa e si vergogna terribilmente, sfoderando una risata che mette a disagio tutti noi. A ogni indizio Sara si agita, alza persino le ginocchia, come se potesse richiudersi a riccio, poi inizia a piangere e a ridere insieme. Indoviniamo subito il suo nome e lo diciamo in coro, ma per lei è un’ulteriore invasione della sua intimità. Ora deve andare lei a scegliere e leggere un nuovo foglietto. Rossa, paonazza, con gli occhi bagnati e tanto disagio, se lo mette davanti al volto e si rifugia accanto alla carrozzina di Stefania per leggerlo; lo tiene sul volto a pochi centimetri dagli occhi, giusto la distanza per riuscire a vedere le scritte, ma tenta di coprirsi mentre legge velocemente per far sì che il suo protagonismo finisca il presto possibile.
Al foglietto di Davide scopriamo che lui non è riuscito ad aprirsi e ha compilato solo una voce.
Il gioco termina. Tristano se ne esce con una nuova attività: ora presenteremo una storiella.
Gli alunni vengono coinvolti. Ma guarda che bel modo di entrare nell’argomento; la prendono da lontano, così quasi non ci accorgiamo di affrontare un argomento importante. E poi come è importante il teatro, come può aiutare una persona ad aprirsi!
Kaynatt deve ora aiutare Re 33 a cercare i bottoni (le nostre unghie) e io spero proprio che non capiti da me. Sicuro che non verrà, in queste occasioni si guardano i compagni, non le maestre. Poi lei, sempre così sicura, così pungente verso tutti, andrà dalle sue amiche o cercherà di accontentare chi dice “Io io!”.
E invece no, si avvicina a me, viene a guardare le mie unghie, le deve mostrare a Tristano. Le mie martoriate unghie di cui sa che mi vergogno: la prima fonte di sfogo di tutte le mie insicurezze. Vorrei rifiutarmi vorrei dirle che mi ferisce, anche perché le insegnanti (chiaramente chi le unghie non se le mangia) ripetono spesso che mangiarsi le unghie è una cosa terribile, che non è igienico per chi lo fa e per le persone che accanto. È vero, ma io non ce la faccio e ogni volta vorrei scomparire. Tristano commenta e conferma che le mie unghie sono uno schifo. Ok, è un gioco e voglio giocare. Va bene concordo è uno schifo. So bene che ha ragione e che ha detto la verità. So bene che anche lui ne è convinto, ma non mi fa così terribilmente male. Tristano ha sottolineato una mia debolezza, un limite, una diversità e io detta così in questo contesto, pur di fronte a una cruda verità, penso di averla accettata serenamente. Il gioco prosegue, osservo gli alunni e apprezzo la partecipazione di chi, con fatica, è riuscito a mettersi in gioco, come Alessandra che, tutta rossa e abbastanza a disagio, ha saputo fare il pacco regalo a meraviglia, con un pizzico di fantasia. La mia testa però, lo ammetto, è sempre alle mie unghie. Ci avviciniamo a Stefania, la Sovrana dei Sovrani e i bambini (ops!), ragazzi, restano meravigliati per le sue unghie (capirai). Ugo mi si avvicina e mi dice: “Hai visto che belle, non come le tue”. Ok Stefy, grazie. Sono una permalosona, ma questa volta l’hanno spuntata loro. Hanno ragione sono brutte, ma pace, finisce qui, avrò anch’io qualcos’altro di buono.
La rappresentazione finisce e qui inizia il nostro momento di riflessione che parte dalla ricerca di una soluzione a un problema di Re 33.
Escono frasi bellissime, non sono tanto retoriche; escono i nostri problemi quotidiani di convivenza in classe. I nostri tre amici ci assegnano un compito per mercoledì e la nostra abbondante ora e mezza è volata via.
Grazie ragazzi. Grazie adulti.

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente

Caro Claudio,
credo che la vicenda di Oscar Pistorius abbia sconvolto tutti, ma credo anche possa essere lo spunto per una riflessione. Tutti noi conosciamo la sua storia, il suo coraggio, la sua determinazione, tutti lo consideravamo un eroe. Ed è proprio questo lo sbaglio: indipendentemente dal fatto che lui abbia ucciso volontariamente la sua fidanzata o che sia vera la sua versione, quella di un tragico errore, resta comunque il fatto che lui ha sbagliato, e questo è innegabile. Se anche alla fine del processo si scoprisse che è stata una terribile fatalità, ai nostri occhi lui non sarebbe più lo stesso di prima. Il fatto è che troppo spesso abbiamo dimenticato che erano solo le sue gambe a essere fatte di titanio, il suo corpo, il suo cuore, la sua anima non erano fatti di metallo indistruttibile. Tutti abbiamo sempre dimenticato che lui è un ragazzo normale, e purtroppo anche una vicenda così tragica entra nell’ambito della “normalità”. Quanti casi purtroppo simili a questo si sentono ogni giorno… Le persone diversamente abili non sono per forza migliori dei normodotati, ed è giusto così. Trattarli come eroi li rende comunque diversi dagli “altri”, è un modo differente di discriminarli, pretendendo da loro sempre la perfezione. Oltretutto la cosa più triste è che nessuno pensa alla giovanissima ragazza uccisa dall’uomo che amava, o all’atleta che aveva tutto e che in un attimo ha rovinato la sua vita, ognuno di noi in questo momento è solo concentrato nella delusione che il suo gesto ci ha provocato.  Ci siamo sentiti traditi, come se la sua colpa non fosse di aver tolto la vita a un essere umano, ma quella di averci distrutto un mito. Pensa quanto siamo egoisti… Anche quando sento le varie interviste a Bebe, la ragazzina che tira di scherma nonostante le abbiano amputato tutti e quattro gli arti, ogni tanto mi chiedo se sia giusto additarla come esempio. In fondo è solo una bambina… Se un giorno dovesse scoprirsi fragile e non avesse più voglia di lottare, cosa succederebbe? Riuscirebbe a capire l’immenso valore della sua vita, indipendentemente da quello che ha fatto e quello che farà in futuro, o penserà di poter essere amata solo finché rimarrà un esempio per gli altri? Ripeto, è solo una bambina… Se da una parte è ovvio e normale ammirarli, sono la prima a farlo, dall’altra mi chiedo se sia giusto caricarli di una responsabilità così grande.
Un abbraccio,
Elena

Cara Elena,
la tua è solo una delle decine di lettere e-mail che mi sono giunte sul “caso Pistorius”. Lettere indignate, di rabbia, di delusione e di sgomento, voci di persone normodotate o con disabilità che avevano “adottato” un mito, ora ridotto completamente in frantumi come una stella in polvere. Quanto è accaduto è in effetti terribile, e fa male a tutti, al mondo dello sport e della disabilità e in primis, non dimentichiamolo, a Reeva Steenkamp e alla sua famiglia. Non mi interessa ora sviscerare le ombre della tragedia in sé, perché ogni giorno escono nuove notizie, sviluppi veri e falsi, cronachette che più che d’informazione sanno di gossip di cattivo gusto. Quello che mi interessa, piuttosto, sono le conseguenze culturali di tale gesto.
Un mito, dunque. L’uomo che aveva superato il limite della disabilità, che, pur senza gambe, qualche mese fa aveva sfidato e superato a Londra gli uomini più veloci del mondo. Mi domando se non sia proprio qui il punto critico. Non intendo fare un’analisi psicologica, non ne sono capace, mi chiedo solo se, dopo aver combattuto e oltrepassato il confine del riscatto dalla disabilità, il nostro atleta non sia stato in grado di gestire e riconoscere a se stesso che un limite esiste e esisterà sempre, per tutti, folgorato da quello che oggi appare un vero e proprio delirio di onnipotenza.
Quanto pesa, in questo senso, la responsabilità di essere dei leader? L’onere di essere degli esempi, di essere sempre perfetti, è così duro da gestire?
Sopportare questo ruolo non è affatto facile, bisogna davvero, imparare a dosare le forze, altrimenti si rischia di soccombere.
Parlo per esperienza, il binomio onere-onore è una responsabilità che, nel mio piccolo, sento spesso anch’io in molte situazioni. Nelle attività scolastiche tanto per cominciare ma anche nei convegni, durante le interviste… In questi casi sento il “dovere” di ponderare i miei atteggiamenti, di sbagliare il meno possibile per il ruolo che rivesto non solo per me stesso ma anche e soprattutto per gli altri.
Pensaci Elena, il rischio con la disabilità è in fondo sempre lo stesso: o sei uno storpio da buttare giù dal monte Taigeto o sei quasi una divinità. D’altronde lo scrivi bene tu nella tua bella lettera e lo sapevano bene anche i Greci, che, nei banchi di scuola, ci hanno regalato a riguardo due esempi perfetti.  Edipo, zoppo e bandito dalla nascita in previsione della sua colpa incestuosa, e Tiresia, l’indovino cieco portatore della verità del Fato. L’importante, al solito, è estremizzare.
Il confine è come sempre sottile, quasi invisibile ma c’è ed è palpabile.
Claudio Imprudente

La musica non è altro che rumore, finché…

Di Manuela Marasca
La musica non è altro che rumore, finché non raggiunge una mente in grado di riceverla”.
(Paul Hindemith)

È stata questa citazione di Paul Hindemith (violinista e compositore) il punto di partenza di un laboratorio sull’ascolto, che ho proposto al gruppo delle “nuove leve” del Progetto Calamaio.
Ogni mercoledì, da un paio d’anni a questa parte, dedichiamo ai più giovani entrati nel gruppo di lavoro questo spazio in cui, insieme a colleghi più esperti, lavoriamo sulla consapevolezza del proprio deficit per poter acquisire contenuti e competenze necessari a intervenire come animatori nelle scuole con l’équipe del Progetto Calamaio.
A questo laboratorio hanno partecipato: Diego, Danae, Giacomo, Francesca, (le “nuove leve” Calamaio), Lorella, Tiziana e Stefania (animatrici disabili del Progetto Calamaio), Saad (volontario), Concetta (tirocinante universitaria).
Venendo da una formazione musicale, volevo apportare in qualche modo la mia esperienza e, attraverso di essa, costruire un viaggio musicale e di sperimentazione sull’ascolto.
È stato di certo un percorso di sperimentazione anche per me!
Questo “viaggio”, composto di cinque tappe, è iniziato con queste domande: “Ascoltare e sentire per voi è la stessa cosa?”, “Che differenza c’è per voi tra suono e rumore?”.
Abbiamo iniziato così a ragionare sul fatto che “ascoltare” può significare ascoltare con attenzione, prestare attenzione a tutto; “sentire” invece può significare udire distrattamente.
Se consultiamo il vocabolario alla voce “ascoltare” troviamo proprio “udire con attenzione”, e fin qui ci siamo… Ma alla voce “sentire” troviamo: “avvertire sensazioni e impressioni suscitate da stimoli esterni; prenderne coscienza, provare sentimenti e reazioni emotive intime”.
Il sentire è quindi una conseguenza dell’ascoltare. Qualsiasi “cosa” arrivi al nostro orecchio, dà degli stimoli al corpo e alla mente e così avvertiamo emozioni, sensazioni, ricordi, odori e perfino sapori. Ricerche condotte da specialisti di medicina neonatale dimostrano come già nel periodo prenatale esista un’attitudine alla percezione e alla memorizzazione di eventi ritmici-sonori. Il feto si rivela sensibile a tutto ciò che è suono, ritmo e movimento, in stretto rapporto con affetto, fantasia e memoria.
Successivamente abbiamo ragionato invece sulla differenza tra suono e rumore.
Siamo arrivati a conclusione che il “suono” è qualcosa di gradevole che arriva al nostro orecchio, il “rumore” invece è quel qualcosa di sgradevole che arriva al nostro orecchio. In effetti questa differenza è molto soggettiva. Non ci resta che provare… Per cinque minuti tutti in silenzio… mettendoci in ascolto dei rumori e suoni che ci circondano. Sembra una cosa banale, ma pur essendo tutti nella stessa stanza, ognuno ha captato almeno un suono o un rumore diverso dall’altro, classificandoli anche diversamente. Questo ci ha fatto riflettere sul fatto che giorno per giorno siamo sottoposti a un inquinamento acustico e senza rendercene conto non facciamo più caso a certi suoni della natura, come il canto degli uccelli o il fruscio del vento tra gli alberi.
L’importanza del silenzio in questo caso ci ha dato modo di soffermarci e metterci in ascolto persino del nostro respiro, del nostro battito cardiaco, dei nostri pensieri e del nostro corpo.
Siamo poi passati ad analizzare il timbro e i diversi timbri di voce. Tra un gruppo di persone conosciute, si riesce a individuare la persona, anche senza vederla, dal timbro della voce o anche dai passi. Da qui siamo partiti con vari giochi per allenarci alla concentrazione e per sviluppare e raffinare il nostro “ascolto” nel distinguere i timbri di voce delle persone, e anche da quale direzione ci arriva un suono o un rumore. Alcuni giochi prevedevano di bendare gli occhi e vi assicuro che non è assolutamente facile orientarsi, seppur in un piccolo spazio, per identificare la provenienza di un suono. Per alcuni è stata un’esperienza nuova oltre che divertente!
Ho chiesto loro poi di compilare una scheda di identificazione sonoro/musicale.
Questo mi ha permesso di capire e conoscere meglio alcune caratteristiche, gusti, esperienze, abitudini dei partecipanti e le influenze sonoro/musicali cui sono abituati e che hanno fatto parte e/o fanno ancora parte della loro vita quotidiana.
Dopo molti giochi di allenamento è arrivato il momento dell’ascolto vero e proprio di un brano musicale. Ho proposto un brano new age molto rilassante con canti di uccelli, scorrere di un ruscello, con accompagnamento di un brano al pianoforte.
Ogni partecipante doveva decidere dove e come collocarsi, scegliere una posizione comoda. Alle persone in carrozzina ho detto che, se preferivano, potevano anche essere aiutate a sdraiarsi a terra. Tutte sono volute rimanere sulla carrozzina. Dopo 8 minuti di ascolto, a ognuno ho dato un foglio per descrivere sensazioni, emozioni, luoghi, ricordi o altro che affiorasse alla mente.
È stato un lavoro molto impegnativo e profondo da cui sono emersi molti aspetti interessanti. 

Stefania: Ho provato un senso di libertà nell’ascoltare questa musica. Ho pensato a quando vado in vacanza, al mare, alle onde, all’acqua che mi dà una sensazione di piacere e di libertà e gioia, potendo muovermi nell’acqua senza la carrozzina e sentire il mio corpo libero, che si muove senza alcun aiuto. Ho pensato a quando andavo in piscina da piccola.

Francesca: Mi sono sentita molto tranquilla e ho iniziato a viaggiare con la mente, mi sono venute in mente delle foto di quando ero piccola in una casa immaginaria, molto bella e molto grande con la mia famiglia e con alcuni amici e c’era anche una persona anziana che mi raccontava le storie del suo passato… A un certo punto mi sono sentita un po’ di nostalgia addosso… Mi è venuta anche una gran voglia di scappare da qualcosa che non so cos’è…

Diego: Mi sono sentito bene, molto bene, mi è venuto in mente il mare. Mi sono sentito contento, più rilassato. Ho pensato a un paesaggio di montagna, con fiumi che scorrono e uccellini che cantano. Mi sono sentito più libero, solo in mezzo alle montagne e molto contento. Poi ho pensato di essere con una ragazza in questo posto di montagna…

Giacomo: Gioia, dolcezza, ho pensato al colore azzurro e ai violini…

Danae: Il canto degli uccellini è molto dolce. Mi sentivo come se stessi volando sopra le nuvole. Ho sentito anche il rumore di un tuono che a me fa molta paura perché è molto forte. Il ruscello mi ha fatto sentire come se nuotassi. Il piano mi ha fatto provare una sensazione di dolcezza.

Lorella: Mi è venuta in mente Senigallia, le onde e gli uccelli che volano mi hanno fatto provare tante emozioni interiori di serenità, camminare sulla spiaggia, l’odore della salsedine tra i capelli… La paura del temporale con lampi e tuoni mi hanno fatto sentire abbandonata a me stessa.

Nella maggior parte delle persone, dunque, è stata un’esperienza emozionale che ha suscitato un forte senso di libertà e si è attivato un effetto sul processo percettivo della sensibilità dando anche spazio a immagini e visioni fantastiche.
Gli elementi musicali che abbiamo sperimentato nell’ultima fase di questo laboratorio sono stati il ritmo e il tempo. Per una persona “normodotata” è quasi istintivo che all’ascolto di un brano musicale ritmato venga da battere un piede, scuotere la testa, saltare e muoversi se non addirittura scatenarsi e ballare. Questo, alle persone disabili non sempre accade o può accadere. Ho chiesto a ognuno di scegliere un brano musicale a piacere, e su questi brani abbiamo sperimentato con vari giochi i ritmi, per imparare a ricevere e stimolare le parti del corpo al ritmo, ascoltando un brano musicale. Qui si è potuto notare che all’inizio ognuno si limitava a muovere sempre le stesse parti del corpo, non avendo ancora appieno la consapevolezza delle potenzialità e dei limiti del proprio corpo.
Proprio tenendo a mente questo passaggio del nostro lavoro, ripenso alla frase del violinista e compositore Paul Hindemith da cui sono e siamo partiti. Alla fine del viaggio attraverso gli elementi della musica partendo dal rumore, poi il suono, il silenzio, il timbro, le emozioni e sensazioni, il ritmo e il tempo vorrei aggiungere alla frase di Hindemith un elemento: “il corpo”.
Allora “La musica non è altro che rumore, finché non raggiunge una mente e un corpo in grado di riceverla”.

Un italiano vero

Di Stefano Toschi

Il tema della cittadinanza è molto presente nel dibattito politico di questi mesi. La questione principale che viene posta riguarda il diritto di cittadinanza, che in Italia si ottiene, ad oggi, solo “per sangue” e non “per nascita” sul territorio italiano. Tuttavia, un caso particolare ha richiamato la mia attenzione. Il caso di Cristian Ramos va oltre il problema dello ius solis e dello ius sanguinis. Cristian ha, infatti, qualcosa in più di tanti altri: un cromosoma. Il cromosoma 21.
Cristian ha la Sindrome di Down. Ha da poco compiuto 18 anni e ha già subito il primo abbandono quando era ancora in fasce. Il padre naturale, italiano (dunque, Cristian sarebbe di fatto già italiano, data la nazionalità paterna), non lo ha riconosciuto e ha abbandonato la mamma del ragazzo, colombiana, invitandola ad abortire o a confinare il piccolo in un istituto. Ma la mamma coraggiosa ha scelto di far nascere il suo bambino e di allevarlo da sola.
In Colombia nessuno sa che Cristian è nato: la famiglia della giovane non avrebbe accettato la sua scelta, proprio come il padre. Per l’Italia, invece, Cristian non può neppure essere considerato cittadino italiano. Il motivo? Qualsiasi forma di deficit cognitivo pregiudica, secondo la legge italiana, la possibilità di prestare un giuramento consapevole e una manifesta volontà di diventare cittadino. Questo, nonostante l’Italia abbia da tempo ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite per i diritti delle persone disabili (che all’articolo 18 stabilisce chiaramente come “il diritto alla cittadinanza non possa esser negato per motivi legati alla disabilità”). Il ragazzo frequenta le scuole superiori, ha tanti amici, gioca a pallone, nuota, ha degli hobby e una vita sociale brillante. Si sente perfettamente italiano e l’unica cosa che non capisce è il motivo per cui non possa esserlo anche di fronte alla legge. La domanda che viene da porsi prima di ogni altra è: sulla base di quale criterio lo Stato italiano giudica i cittadini stranieri che fanno domanda di cittadinanza perfettamente consapevoli dell’impegno che si stanno assumendo?
Il testo del giuramento è il seguente: “Giuro di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato”. Ora, pensare alle parole di questo giuramento, da italiano, fa veramente sorridere. Sulla base di questa frase importantissima, dovremmo togliere la cittadinanza quantomeno a tutti quelli che delinquono. Non parliamo della fedeltà alla Costituzione: quanti sono i cittadini italiani che non l’hanno mai letta e non hanno nemmeno idea di cosa ci sia scritto nella principale fonte giuridica dello Stato? Quanti conoscono il lavoro e il pensiero dei Padri Costituenti sottinteso al cuore pulsante della nostra Repubblica? Una mia cara amica lavora allo Sportello Immigrati di un Patronato. Ha visto giurare tante persone analfabete, che avevano dovuto imparare a memoria, non senza un notevole sforzo, le semplici parole del giuramento. Figuriamoci quale consapevolezza potevano avere questi neo italiani! Ha visto giurare persone che non comprendevano in italiano cosa vi fosse scritto in quella frase ed è stata necessaria per loro una traduzione, per poi imparare a memoria la versione italiana. Ha visto tante donne residenti in Italia da anni ma tenute in casa dai mariti e chiuse all’interno della loro comunità diventare cittadine italiane senza avere mai nemmeno parlato una parola della nostra lingua o conosciuto una singola tradizione del nostro Paese. Cristian, che è addirittura nato in Italia, che non sa una parola di colombiano, non ha altri parenti che una madre coraggiosa, che ha sfidato tutto e tutti per farlo nascere e donargli tutto il suo affetto, incurante della disabilità del figlio, non è forse ben più consapevole di tanti italiani della propria appartenenza? Come possiamo considerare “ospiti” persone come Cristian e la sua mamma, quando spesso il nostro Stato premia con la cittadinanza persone che hanno commesso reati? Non dovremmo forse essere orgogliosi di avere concittadini così coraggiosi?
A ciò si aggiunge anche il paradosso dei natali biologici del ragazzo, figlio di un italiano (sì, un italiano “vero”) che ha rifiutato di riconoscerlo appena appreso del suo deficit. Può dunque un cromosoma in più vincolare una scelta simile? Sappiamo che alla vicenda si è interessato anche il Ministro Cancellieri, che si è detta molto sensibile al tema, dunque ci auguriamo che tutto vada a buon fine. La cosa che mi fa più pensare è che questo ulteriore ostacolo per le persone con una qualche disabilità intellettiva, che, nel caso della trisomia 21, peraltro, può essere anche abbastanza lieve, incentiva ulteriormente quella mentalità dilagante sempre più orientata all’eugenetica.
Ho letto recentemente che, in Italia, su 100 feti diagnosticati con Sindrome di Down entro il quinto mese di gestazione, ben 98 vengono eliminati mediante interruzione volontaria di gravidanza. All’atto di compiere accertamenti diagnostici invasivi come la villocentesi o l’amniocentesi, alla gestante che si accinge a effettuare le analisi vengono consegnate, durante la consulenza genetica, dunque ancora prima di conoscere l’esito dell’esame, tutte le indicazioni su modalità e strutture abilitate per effettuare l’interruzione volontaria di gravidanza. Come se non fossero previste alternative. La futura mamma, già psicologicamente molto provata dall’attesa del risultato, si sente dire che la scelta più egoistica, quella che rovinerà la vita del bambino con deficit e di tutta la famiglia, è quella di farlo nascere, una scelta molto più egoista rispetto all’interruzione di gravidanza. Ritengo che questa sia una mistificazione, una deformazione della realtà. Di certo non voglio arrogarmi la capacità di discernere il bene dal male meglio di nessun altro, né intendo giudicare le scelte di alcuno, sia chiaro. Comprendo bene la sofferenza che porta con sé un simile dilemma, qualunque sia la soluzione ad esso. Ma posso portare il mio esempio.
Io, fino a qualche giorno di vita, stavo benissimo. Un bambino sanissimo, qualsiasi diagnosi prenatale mi avrebbe definito perfetto. Poi, una breve malattia, i danni irreparabili, la tetraparesi spastica. La mia famiglia non ha potuto scegliere. Non ha potuto “sapere prima” cosa li aspettava. Certo, avrebbero poi potuto optare per l’istituto o chissà quale altra soluzione. Forse non hanno potuto manifestare il coraggio di una scelta, ma è chiaro che io voglio pensare che, in ogni caso, anche sapendo prima cosa li e ci aspettava, avrebbero scelto me. Me, che oggi sono quello che sono, con i miei limiti più “trasparenti” di altri, ma con tanti limiti che sono tipici anche delle persone cosiddette normali. Anzi, forse anche con qualche limite in meno, per certe cose. Voglio poter pensare che, nel bene o nel male, ho per lo meno “riempito” la vita dei miei genitori, di mia sorella, dei miei amici, delle persone che mi stanno accanto e che mi vogliono bene, pur con tutte le innegabili complicazioni del caso. Non voglio certo dire che la vita della mia famiglia sia stata facile… anche se mia mamma non ha mai dovuto preoccuparsi ad esempio delle uscite notturne in motorino o che facessi uso di droghe! Però, a parte le battute, esattamente come tutte le altre mamme, la mia ha dovuto preoccuparsi quando facevo tardi la sera con gli amici, quando sapeva che avevo bevuto un bicchiere di troppo in compagnia, quando sono andato veloce in macchina con qualche amico o ho fatto il bagno in mare subito dopo mangiato.
Purtroppo, o per fortuna, oggi siamo in grado di prevedere, o meglio di diagnosticare, precocemente un difetto genetico di nostro figlio, ma come possiamo giudicare cosa sia meglio per lui? Non possiamo prevedere cosa diventerà nostro figlio. Quanti figli, nell’arco della vita, si rivelano essere come i genitori li hanno sognati? Eppure, chi di noi penserebbe mai di sopprimere un figlio che non sia all’altezza delle nostre aspettative? Quanti figli “normodotati” deludono profondamente i genitori, prendendo cattive strade? Quanti, invece, in presenza di qualche deficit, si rivelano ben al di sopra delle aspettative che erano state riservate per loro alla nascita, rendendo fieri e orgogliosi i propri genitori?
Vi lascio riflettere sulle parole di Khalil Gibran: valgono per tutti i figli, “normali”, con deficit, con un cromosoma in più, con una abilità in meno.

“I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie della brama che la Vita ha di sé.
Essi non provengono da voi, ma per tramite vostro,
E benché stiano con voi non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore ma non i vostri pensieri,
Perché essi hanno i propri pensieri.
Potete alloggiare i loro corpi ma non le loro anime,
Perché le loro anime abitano nella casa del domani, che voi non potete visitare, neppure in sogno.
Potete sforzarvi d’essere simili a loro, ma non cercate di renderli simili a voi.
Perché la vita non procede a ritroso e non perde tempo con ieri.
Voi siete gli archi dai quali i vostri figli sono lanciati come frecce viventi.
L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero dell’infinito,
e con la Sua forza vi tende affinché le Sue frecce vadano rapide e lontane.
Fatevi tendere con gioia dalla mano dell’Arciere;
Perché se Egli ama la freccia che vola, ama ugualmente l’arco che sta saldo”.

Tony Cragg e Matthew Barney: vocaboli nuovi per nuove relazioni

Di Roberto Parmeggiani

Tony nasce nel 1949, a Liverpool. A vent’anni lavora come tecnico in un laboratorio di biochimica finché decide di seguire un percorso di formazione artistica durante il quale approfondirà il rapporto tra arte e scienza con un particolare interesse per la materia.
Matthew nasce nel 1967, a San Francisco. Si trasferisce con la famiglia in Idaho dove otterrà ottimi risultati sportivi. Dopo una laurea artistica a Yale, pagata facendo il modello, si trasferisce a New York dove da subito conquista il mondo artistico della città.
Tony accumula oggetti di vario tipo trovati un po’ ovunque con i quali realizza poi le sue installazioni oppure crea composizioni più scultoree utilizzando legno, gesso, vetro e altri materiali.
Matthew è principalmente un video-artista o meglio questa è l’etichetta che meglio lo definisce. Ironico, presenta opere ricche di intrecci e significati.
Tony e Matthew due artisti contemporanei che, come i veri artisti, raccontano il contemporaneo guardando al futuro o guardandolo dal futuro, offrendo quindi spunti di riflessione, punti di vista, vocaboli nuovi per raccontare l’attuale, quello che viviamo quotidianamente, che ci capita, nel quale siamo immersi più o meno consapevolmente.
Matthew e Tony, così diversi per origine, per produzione, per linguaggio.
Così diversi eppure, ai miei occhi di perfetto non critico d’arte e non conoscitore dei linguaggi artistici, con alcuni punti in comune che riesco a identificare in alcuni vocaboli: desiderio, limite, fragilità, interazione.
Parole che non risolvono il bisogno di comprendere e che non definiscono i confini dell’operato dei due artisti. Sono le parole della mia esperienza, del territorio della mia relazione con loro. Un territorio ancora in espansione che percorro con curiosità e interesse. In queste parole trovo la definizione per alcuni aspetti dell’esistenza umana che condivido con voi.

Desiderio e fragilità
Ho sempre pensato che ci sia un rapporto strettissimo tra questi due termini.
Il desiderio espone alla fragilità e la fragilità fa parte dell’anima del desiderio.
Matthew mette al centro della sua arte il desiderio indefinibile, sempre mutevole, in evoluzione, irruento nella sua manifestazione ma, allo stesso tempo, leggero e soave.
Tony ci parla della fragilità attraverso l’esposizione di oggetti comuni, assemblati secondo una logica descrittiva. Fragili ma non per questo deboli o destinati alla rottura, alla frammentazione. Fragili perché esposti nella loro nudità.
Desiderio e fragilità anche come componenti della natura, in modo specifico di quella umana che continuamente si ritrova a fare i conti con la spinta verso il cambiamento, l’evoluzione, la condivisione e, di conseguenza, l’esposizione e il rischio che tale cambiamento porta con sé.
Guardando i video Cremaster di Matthew o le sculture di bicchieri e bottiglie di Tony vedo fondersi questi due concetti come si fondono nell’esistenza di un essere umano in modo misterioso e allusivo, di immediata comprensione ma difficilmente afferrabili.
Dal punto di vista specifico di questa rivista si può osservare come le parole desiderio e fragilità vengano spesso usate per raccontare l’esistenza delle persone con disabilità o, più in generale, di quelle svantaggiate come se ciò fosse qualcosa che riguarda quella categoria in modo particolare, rappresentativo.
I due artisti, invece, ci mostrano come ciò non sia vero. È come se ci dicessero che il rapporto tra il desiderare e l’esperienza della fragilità fa parte del DNA dell’essere umano, indipendentemente dalle altre caratteristiche che ci differenziano. E che ciò è allo stesso tempo bellissimo e terribile a seconda del modo in cui si affronta la questione, in cui accettiamo ciò che siamo e da lì iniziamo a costruire la nostra identità.

Limite e interazione
Matthew lavora ai progetti Drawing Restraint (disegnare con restrizioni) nei quali si pone l’obiettivo di disegnare superando limiti che lui stesso si impone. Per esempio, in uno di questi l’obiettivo è disegnare su un muro e il limite è quello di essere frenati da un elastico che rende difficoltoso raggiungere il muro stesso.
Tony raccoglie detriti e rifiuti urbani di ogni genere per poi assemblarli in sculture o installazioni che definiscono il senso del materiale grazie all’interazione con l’umanità.
Anche in questo caso le due parole hanno un significato che travalica il lavoro artistico e che parla anche alla nostra esperienza umana.
Anche in questo caso, le opere dei due artisti ci permettono di superare il pregiudizio secondo il quale i limiti come il valore dell’interazione siano concetti riconducibili a qualche categoria di persone e basta.
Ciò che però più mi interessa di queste due parole è la loro influenza reciproca.
I limiti che Matthew si pone esaltano ciò che succede solitamente, cioè che per superare un ostacolo o una difficoltà dobbiamo entrare in relazione, interagire con il limite stesso e con l’ambiente, fisico e relazionale, nel quale siamo inseriti.
Allo stesso modo quando Tony affronta il tema dell’interazione con i materiali, si scontra con il limite che tale relazione sottopone alla sua attenzione e, forse, dalla quale prende forma proprio la sua opera.
L’interazione con i limiti e i limiti in relazione con il contesto sono concetti essenziali per il benessere di ognuno. A tutti, infatti, quotidianamente, viene chiesto di fare i conti con i propri limiti e di affrontare la sfida dell’accettazione e del superamento (due facce della stessa medaglia) che è vincente solo se inserita in un contesto dalla cui interazione dipende, quasi sempre, la vittoria o la sconfitta.

10. Tutti (o quasi) i libri e i film citati, in ordine di apparizione

Franco Ferrini, La musa stupefatta o della fantascienza, Messina-Firenze, D’Anna editrice, 1974 

Guido Ferraro e Isabella Brugo, Comunque umani, Roma, Meltemi, 2008

Fabio Giovannini, Mostri, Roma, Castelvecchi, 1999 

Tommaso Pincio, Gli alieni, Roma, Fazi, 2006

Michel Bishop, Il segreto degli Asadi, Milano, Nord, 1986

Guido Barbujani e Pietro Cheli, Sono razzista ma sto cercando di smettere, Roma-Bari, Laterza, 2008
Genevieve Makaping, Traiettorie di sguardi, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2001

Mary Shelley, Frankenstein, varie (quasi infinite) edizioni

H. G. Wells, L’uomo invisibile, idem

H. G. Wells, La guerra dei mondi, idem

H. G. Wells, Nel paese dei ciechi, idem

H. G. Wells, La macchina del tempo, idem

Sven Lindqvist, Sei morto!, Milano, Ponte alle Grazie, 2001

Stanley Winbaum, Odissea marziana, varie edizioni

Olaf Stapledon, Il costruttore di mondi, Longanesi, 1972, Milano

Tuiavii di Tiavea, Papalagi, varie edizioni Stampa alternativa e Nuovi equilibri

Isaac Asimov, Homo Sol: in varie edizioni Urania dell’antologia Asimov Story 

Fredric Brown, Sentinella, in molte edizioni (anche scolastiche)

Fredric Brown, Il vecchio, il mostro spaziale e l’asino, varie antologie

Fredric Brown, Marziani, andate a casa, varie edizioni; per la fine del 2012 è annunciata una riedizione da Delos Books, Milano

L’uomo che cadde sulla terra, regia di Nicholas Roeg

Walter Tevis, L’uomo che cadde sulla terra, Milano, Mondadori (1973) e poi Roma, Minimum Fax, 2006

Joseph Green, Chi è intelligente?, Milano, Urania, 1974

Star Trek (l’intera serie tv)

Orson Scott Card, Il gioco di Ender, Milano, Nord, 1987 

Fred Hoyle, La nuvola nera, varie edizioni; la più recente è Milano, Feltrinelli, 2003

Stanislaw Lem, Solaris, varie edizioni Mondadori (anche in e-book)

Stanislaw Lem, L’invincibile, Milano, Oscar Mondadori, 2003

Isaac Asimov, Nemesis, Milano, prima Urania e poi Cde, 1992
Octavia Butler, Ultima genesi, Milano, Urania, 1987

Octavia Butler, Ritorno alla Terra, Milano, Urania, 1988

Arthur C. Clarke, Le guide del tramonto, Milano, varie edizioni Urania 

Ursula K. Le Guin, Il linguaggio della notte, Roma, Editori Riuniti, 1986

Walter Miller jr., Benedizione oscura, in varie antologie

Ray Bradbury, Cronache marziane, Milano, varie edizioni Mondadori (l’ultima del 2012 negli Oscar)

Henry Slesar, Gli emigranti dal volto azzurro, in varie antologie

Leigh Brackett, I negri verdi, idem

Philip Dick, Vedere un altro orizzonte, Milano, Bompiani; ripubblicato come Svegliatevi dormienti da Fanucci (ultima edizione 2012)

Robert Sawyer, La genesi della specie, Roma, Fanucci, poi Milano, Urania, 2008
Robert Sawyer, Fuga dal pianeta degli umani, Milano, Urania, 2009
Robert Sawyer, Origine dell’ibrido, Milano, Urania, 2009

L. Sprague de Camp e Peter Schuyler Miller, Gorilla Sapiens, Milano, edizioni Urania del 1953 e 1979

Pierre Boulle, Il pianeta delle scimmie, Milano, varie edizioni Mondadori, l’ultima nel 2001 Gianluca

Casseri ed Enrico Rulli, La chiave del caos, Vicenza, Punto d’incontro editore, 2010 (ritirato dopo la
strage di Firenze e poi rimesso in commercio)

Sydney Van Scyoc, Un mondo da salvare, Milano, Urania, 1986

Philip Josè Farmer, Un amore a Siddo (anche con il titolo Gli amanti di Siddo): varie edizioni, la più recenyte è Milano, Mondadori, 2008

Philip K. Dick, Umano è, in molte antologie
Philip K. Dick, I nostri amici di Frolix 8, varie edizioni; l’ultima è Roma, Fanucci, 2012
Philip Dick, Le pre-persone, in varie antologie

Theodore Sturgeon, Un mondo ben perduto, in varie antologie
Theodore Sturgeon, Venere più X, varie edizioni, Milano, Urania (la più recente nel 2004)

Naomi Mitchison, Memorie di un’astronauta, Milano, La Tartaruga e poi Urania, 1995

James Tiptree junior (Alice Sheldon), Le donne invisibili: pubblicato nella rivista “Robot” ma oggi introvabile in italiano

Ursula K. Le Guin, La mano sinistra delle tenebre, varie edizioni, l’ultima è Milano, Tea, 2003
Daniele Barbieri e Riccardo Mancini, Di futuri ce n’è tanti, Roma, Avverbi, 2006

Theodore Sturgeon, Cristalli sognanti, varie edizioni; la più recente è Milano, Urania, 2005
Theodore Sturgeon, Nascita del superuomo, ultima edizione Milano, Urania, 2003; con il titolo Più che umano, Milano, Giano, 2005

Leo Szilard, La voce dei delfini, Milano, Feltrinelli, poi Napoli, Ancora del Mediterraneo, 2004; ne esiste anche una edizione (illustrata da Gipì) da Orecchio Acerbo che ora si può leggere gratuitamente in
pdf

Robert Sheckley, Mai toccato da mani umane, varie edizioni, Milano, Urania (l’ultima nel 2003)

Arkadij e Boris Strugackij, Picnic sul ciglio della strada, Milano, Urania e poi Marcos Y Marcos, 2003

Arthur C. Clarke, Incontro con Rama, Milano, Urania e poi (1991) Bur Rizzoli

Andrè Gorz, Addio al proletariato, Edizioni Lavoro (esaurito)

Isaac Asimov, Crumiro, in varie antologie

Clifford Simak, Oltre l’invisibile, Milano, Urania, 1977

Isaac Asimov L’uomo bi-centenario, in molte antologie

Philip Dick, L’impostore, in varie antologie

Lester Del Rey e Raymond Jones, Alieno in croce, Milano, Urania, 1982

James Blish,  Guerra al grande nulla, Milano, Urania e poi Nord, 1997

John Wyndham, I trasfigurati, Milano, varie edizioni Urania (l’ultima nel 1980)

Robert Sheckley, Accademia, in varie antologie
§
Philip Dick, Follia per 7 clan, Roma, Fanucci, 2012

Minority Report
, regia di Steven Spieberg

Theodore Sturgeon, Ultime notizie, in varie antologie

David Compton, Sinthajoy, oggi introvabile

Marge Piercy, Sul filo del tempo, Milano, Eleuthera, 1990

La sceneggiatura del telefilm è nell’antologia L’umanità è scomparsa, curata da Rod Serling, Milano, Urania, 1992

Howard Fast, Cephes 5, nell’antologia La mano, Milano, Urania, 1974

Manuel Scorza, La danza immobile, Milano, Feltrinelli, ultima edizione 2007

Paul Press, Le porte dei cieli, Milano, Nord, 1984

Charles Sheffield, Progetto Proteo, Milano, Nord, 1986

Patricia Warrick, Il romanzo del futuro, Bari, Dedalo, 1984

Gian Antonio Stella, Negri, froci e giudei & co., Milano, Rizzoli, 2009

Isaac Asimov (prefazione), Storie per giovani alieni, Milano, Bur Rizzoli, esaurito

Ursula K. Le Guin, Il linguaggio della notte, Roma, Editori Riuniti, 1986

9. Un discorso non concluso

“Abbiamo incontrato gli alieni e gli alieni siamo noi” suggerisce Paul Press nel romanzo (del 1984) Le porte dei cieli sulla scia di Fredric Brown. Ma questa consapevolezza purtroppo non appartiene a tutte/i neppure nei mondi delle fanta-scienze.
Restano aperte grandi questioni che qui non possono essere approfondite come meriterebbero. Soprattutto a partire dalla stessa definizione di “essere umano” – si vedano le provocazioni di Philip Dick – rispetto alla quale confrontarsi (o rifiutare, come i razzisti vorrebbero) l’incontro con l’alieno che a sua volta è difficile da definire.
Accenniamo ad alcuni fra i dubbi possibili filosofico-etici.
In primo luogo l’intreccio fra biologico e artificiale. Confrontiamoci ad esempio con  il concetto di “formutazione” elaborato da Charles Sheffield nel romanzo «Progetto Proteo» (del 1978). Così all’inizio del libro:
“Erano entrambi troppo giovani per ricordare i dibattiti sull’umanità. Che cos’è un essere umano? […] Un’entità può dirsi umana se, e solo se, è in grado di realizzare formutazioni intenzionali usando i sistemi di biorigenerazione”.
E poi, poco prima della fine:
“Se il confine tra mondo animato e inanimato è puramente teorico, la formutazione non ha limiti. Si può cominciare a concepire un essere pensante e cosciente grande quanto un pianeta o una stella […] Se i nostri test di umanità sono validi, ogni combinazione tra essere umano, o alieno, e macchina che coinvolga formutazioni intenzionali apparterrebbe di diritto al genere umano. Secondo me la questione è filosofica e non è così facile dare una risposta”.
Fu soprattutto lo sfrenato talento di Philip Dick a spalancare porte (dietro ognuna c’erano problemi in serie, come fossero scatole cinesi) sull’incerto confine fra naturale e artificiale, fra vita e non-vita. Siamo alla difficile – sempre più? – attribuzione di un senso alla nostra umanità.
Da romanziere, Dick si muoveva nei territori (disprezzati da certe elites) della letteratura “di genere”; eppure l’impressione per quel che scriveva fu tale che gli venne chiesto di tenere conferenze per approfondire la sua filosofia. Lasciamogli dunque la parola in questa veste insolita dove non perde in efficacia. Anzi.
“Il più grande cambiamento al quale assistiamo nel nostro mondo è probabilmente la quantità di moto del vivente verso la reificazione e allo stesso tempo del meccanico nell’animazione. […] Un giorno forse vedremo un uomo sparare a un androide appena uscito da una fabbrica di creature artificiali della General Electrics: l’androide, con grande sorpresa dell’uomo, prenderà a sanguinare. L’androide sparerà, di rimando, e con grande sorpresa vedrà una voluta di fumo levarsi dalla pompa elettrica che si trova al posto del cuore dell’uomo. Sarà un grande momento di verità per entrambi”.
Siamo ben oltre la metafora, anche perché dagli anni ’70 a oggi la commistione e/o confusione fra artificiale e biologico ha continuato a camminare. Come commenta Patricia Warrick: “L’analogia fra uomo e macchina è stata sfruttata sino in fondo. L’uomo è programmato dalla società perché funzioni come una macchina; l’uomo è un robot dall’aspetto umano che però si comporta come una macchina”. 

Forse tradire
Con ogni evidenza una conclusione è impossibile. Accettare l’alieno (quale che sia) venuto dall’esterno o scoperto dentro di noi è per molti tradimento. Del resto una definizione ristretta del concetto di umanità significa già, per molti, che riconoscere eguali diritti a “negri, froci e giudei” (tanto per citare il provocatorio titolo di un recente libro di Gian Antonio Stella), sorridere a chi viene definito turco, gay, islamico, handicappato… è tradire. Ma per altri il vero pericolo – se si vuole l’unico mostro – è uccidere gli alieni, le diversità fra noi e/o che ci portiamo dentro e/o gli extraterrestri, se mai li incontreremo.

Solo per caso
Così il mio piccolo suggerimento è guardare a qualsiasi alieno (presente e futuro, terrestre o extra) ripensando a una canzone – There But For Fortune – di Phil Ochs; eccola nella traduzione italiana di Riccardo Venturi:
“Fammi vedere una prigione, fammi vedere una galera,
Fammi vedere un prigioniero con la faccia impallidita
E io ti farò vedere un ragazzo, e ci son molte ragioni
Che, solo per caso, quel ragazzo non sia io o te, io e te.
Fammi vedere il vicolo, fammi vedere il treno,
Fammi vedere il vagabondo che dorme fuori, sotto la pioggia,
E io ti farò vedere un ragazzo, e ci son molte ragioni
Che, solo per caso, quel ragazzo non sia io o te, io e te.
Fammi vedere le macchie di whisky sul pavimento,
Fammi vedere l’ubriaco che inciampa fuori dalla porta,
E io ti farò vedere un ragazzo, e ci son molte ragioni
Che, solo per caso, quel ragazzo non sia io o te, io e te.
Fammi vedere la carestia, fammi vedere la debolezza,
Occhi senza futuro che mostrano i nostri fallimenti,
E io ti farò vedere dei bambini, e ci son molte ragioni
Che, solo per caso, quei bambini non siamo io o te, io e te.
Fammi vedere il Paese dove son dovute cadere le bombe,
Fammi vedere le rovine degli edifici una volta tanto alti,
E io ti farò vedere un giovane Paese, e ci son molte ragioni
Che, solo per caso, quel Paese non siamo io o te, io e te”.
Evidentemente molte persone sono sconvolte da quest’idea che “solo per caso”… Ma invece c’è chi lo crede vero; chi lo sente dentro di sé anche senza conoscere Phil Ochs; chi vorrebbe che questo fosse l’atteggiamento per guardare il mondo, anzi i mondi. Philip Dick, nel presentare alcuni suoi racconti, scriveva così:
“La premessa fondamentale di tutte le mie storie è che se dovessi incontrare un essere intelligente extraterrestre (più comunemente definito ‘una creatura dello spazio esterno’) mi accorgerei di avere più cose da dire a lui che al mio vicino di casa”.
Solo per caso non siamo alieni. O più probabilmente in qualche modo lo siamo.

Ed ecco le tre righe finali di Sentinella
“Molti, con il passare del tempo, si erano abituati, non ci facevano più caso: ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d’un bianco nauseante, e senza squame”. 

Aspettando l’incontro ravvicinato
Se volete sapere a che punto sono i viaggi spaziali e/o avere notizie su Seti e altri programmi di ricerca sulle “intelligenze extraterrestri” dovete rivolgervi a libri o siti appositi. La situazione però non è molto mutata da quanto scriveva Asimov nella prefazione all’antologia, rivolta a ragazze/i dai 10 anni in su, Storie per giovani alieni che contiene almeno due storie bellissime con protagonisti:
“Esistono gli alieni? Non lo sappiamo. […] Per quanto riguarda il nostro sistema solare ogni ricerca in tal senso ci ha riservato solo delusioni. […] Ma il Sole non è altro che una singola stella in una galassia che ne contiene qualcosa come 200-300 miliardi: e la nostra galassia è solo una delle tante galassie che popolano l’universo, calcolate in circa 100 miliardi. […] Le stelle sono così lontane da noi che è virtualmente impossibile studiarle nei dettagli. […] Gli ottimisti ritengono che tutte, o quasi tutte, le stelle possiedano un proprio sistema planetario. […] Pertanto solo nella nostra galassia potrebbero esistere miliardi di pianeti portatori di vita. […] Gli astronomi ottimisti pensano che lo sviluppo dell’intelligenza sia un fatto inevitabile. […] Dal loro canto gli astronomi pessimisti contestano l’ipotesi di partenza: non sono affatto sicuri che ogni stella possieda un suo sistema planetario. […] Inoltre, aggiungono, per essere adatto alla vita, un pianeta deve possedere una così cospicua serie di proprietà e condizioni “giuste” che una tale eventualità appare altamente improbabile”.
Detto in 5 parole: per ora non lo sappiamo.

8. L’alienità totale (ovvero del pensare non accettato)

Come abbiamo visto la parola alienità si riferisce anche alle (vere o presunte) alterazioni della “salute” mentale. Dunque questo percorso si avventura in una doppia direzione: come la letteratura di fantascienza ha affrontato i nostri “matti” ma anche come noi terrestri potremmo essere “folli” per chi ha una logica davvero altra.
Per entrare in argomento tuffiamoci direttamente dentro una storia.
In ogni posto di lavoro, per strada o a casa, incontrate i sanity-meters ovvero gli “alienometri” prodotti dalla Cahill Thomas Manufacturing: li vedete intorno a voi, non troppo dissimili dai parchimetri ma funzionano senza monete o tessere. Misurano il disadattamento – “la pazzia” – di ogni cittadino. Se si supera la norma (fra 0 e 3) si è sottoposti a sorveglianza; quando si arriva al livello 10 obbligatoriamente si sottostà alla “correzione chirurgica” oppure si entra (per sempre o fino a guarigione?) nella misteriosa Accademia. E per l’appunto Accademia s’intitola un racconto-profezia scritto nel 1954 da Robert Sheckley.
Mi è capitato – nelle vesti di attore che ogni tanto, con sfacciataggine, indosso – di leggerne alcuni brani in una sede particolare come è quella dell’associazione dei familiari di degenti negli (ex, dopo la legge che tutti conoscono come “Basaglia”) ospedali psichiatrici e mi ha molto colpito il commento di alcune persone che più o meno suonava così: è fantascienza sino a un certo punto perché anche senza “alienometri” in questa società c’è chi (più o meno “autorizzato”) misura il nostro livello – da 1 a 10 – di “normalità”.
Ovviamente lo spunto iniziale di Sheckley è la tipica ossessione statunitense per “l’igiene” mentale e la conseguente diffidenza verso tutto ciò che si discosta da una presunta norma. Non abbiamo gli “alienometri” fra noi però negli ultimi anni il tentativo di psichiatrizzare tutto si è allargato dagli Usa al resto del mondo, trovando ostacoli ma anche vincendo battaglie importanti. Come sempre la buona science fiction ci può aiutare a muoverci nei sentieri del presente e dei possibili futuri prossimi.
Proviamo allora a tuffarci in uno dei mondi inventati dal già citato Dick. Nel complesso ed efficacissimo Follia per 7 clan ha addirittura disegnato un intero sistema sociale basato su diversi tipi di malattie mentali in “guerra” fra loro. C’è forse un solo “Norm” in mezzo ai “Mani” (la loro capitale è definita – notate la perfidia – “Grande Da Vinci”), ai “Para” (nella città di “Adolf-ville”), agli “Schizo”, ai “Poli” maniaci, agli “Eb” (i troppo buoni e dunque ebeti che si ritrovano – questa è ancora più provocatoria – in un luogo chiamato  “Gandhitown”), ai “Dep” (depressi, con ogni evidenza) e infine agli “Os-com” cioè gli ossessivi-compulsivi. Come sempre accade in Dick anche qui ci sono paraventi (tre almeno ma evidentemente questa non è la sede per approfondire) che nascondono altre verità.
Questa provocazione definitoria in Dick ha evidenti radici nel nostro mondo. La mania di classificare ogni minima “deviazione” continua a tradursi in statistiche che urlano vertiginosi aumenti di vecchie/nuove forme del malessere psichico. Di continuo i mass media rilanciano allarmi su “epidemie” che, lungi dall’essere indagate e/o verificate, servono invece a lanciare altri farmaci, cure, psicoterapie ma anche ad allargare il controllo sulla vita privata. Bambini compresi, che vengono curati in sostanza perché “troppo vivaci”. Istituti definiti autorevoli – e magari lo sono ma hanno finanziamenti assai loffi, cioè di chi poi venderà i rimedi contro le presunte sindromi – possono periodicamente e tranquillamente sostenere che in Occidente un bimbo su quattro si può classificare “malato di mente”. Persino l’Oms, cioè l’Organizzazione mondiale della sanità delle Nazioni Unite, aveva annunciato – per il 2005 – mezzo miliardo di “picchiatelli” in circolazione sul pianeta: per la precisione (ma chi fa i conti?) 413 milioni nelle società sviluppate e 122 nei Paesi “pezzenti”. E se vivere in effetti è sempre più difficile appare improbabile che l’abuso di farmaci  risolva tutte le difficoltà esistenziali.
Ancora Dick ha previsto l’arrivo degli “psichiatri portatili” (ben prima di programmi computerizzati come Eliza). Vale aggiungere per coloro che hanno visto il (bruttino) Minority Report di Steven Spieberg – tratto dall’omonimo racconto di Philip Dick, sempre lui – che nel sistema giuridico statunitense esiste già la possibilità che sulla base di una “precognizione” (di uno psichiatra, guarda un po’) scatti condanna, persino la pena di morte.
Si potrebbe continuare ritornando a Sturgeon. Nel lontano 1956 Ultime notizie, un altro suo racconto, da una parte conduceva in un labirinto psichiatrico che (almeno per l’epoca) era dotto quanto sconvolgente ma dall’altra poneva una questione che sempre più risulta attuale e angosciosa: di fronte alla quantità di dolore, impotenza e rabbia che i mass media – le “ultime notizie” appunto – ci riversano addosso cosa possiamo fare per non soffrire? E se quando decidiamo di nasconderci (di “rimuovere” o “regredire” per usare termini tecnici) qualcuno ci viene a snidare… Ma senza offrire alcuna soluzione per quelle sofferenze, cosa potrebbe accaderci?
Due vicende esemplari hanno al centro – non per caso – donne. La prima è la protagonista di Sinthajoy dell’inglese David Compton sospesa tra le false vite dei “nastri” che le scorrono nel cervello e il puzzolente mondo reale dove scopre che “solo adesso che sono ‘ufficialmente’ psicotica posso fissare la gente senza provare imbarazzo”. L’altra donna è invece una chicana – cioè un’immigrata latina negli Usa – di mezza età, Connie Ramos, che viene classificata folle ma in realtà è solo un’emarginata: dalla sua “gabbia” Connie può però sintonizzarsi su un futuro (ahi-noi lontano) comunitario, ecologista, non sessista e libertario. C’è in questo romanzo di Marge Piercy, Sul filo del tempo una frase chiave che, mi scuserete la digressione personale, ho scelto come sottotitolo del mio blog: “Per conquistare il futuro bisogna prima sognarlo”.

In via degli Aceri o su Cephes 5
Bisogna sognare anche un’altra psichiatria (meglio: una non psichiatria) che neghi l’esistenza di due diversi universi per i “folli” e per i “sani”. La ricorrente idea di un controllo sociale totale ha già storicamente prodotto l’internamento psichiatrico dei dissidenti nell’ex Urss e la lobotomia di massa negli Usa. Altre tragedie porterà se dimenticheremo quel che aveva urlato Erasmo: “non è vero che ogni illusione o vaneggiamento debba chiamarsi follia”. Anzi. Sempre più in una società di orrenda e socialmente iniqua “normalità”, di pensiero unico e di guerra preventiva/permanente chi vaneggia può essere maggiormente saggio di quelli che pretendono essere questo il migliore dei mondi possibile. Forse la nostra follia è più saggia della nostra saggezza, ci hanno ammonito Erasmo e Montaigne. Ma, con ogni evidenza, qui bisogna interrompere il discorso che andrebbe ben oltre il senso di questa specifica ricerca.
Accennando però a un altro paio di storie. La prima è in un telefilm – che forse i meno giovani ricorderanno – Arrivano i mostri in via degli Aceri, esemplare racconto di paranoia collettiva: siamo all’interno della celebre serie Ai confini della realtà (dal 1959 al 1964) e sono significative le frasi di chiusura dell’episodio: “I pensieri, le opinioni, i pregiudizi possono essere armi, armi che esistono solo nella mente degli uomini […] I pregiudizi possono uccidere e il sospetto può distruggere, la ricerca di un capro espiatorio contamina, come l’Atomica, i figli già nati e i nascituri”. Gli alieni – di loro si parla nel telefilm – spingono gli umani a farsi guerra fra di loro.
“In cima alla collina due individui nascosti stavano accanto al portello di una nave spaziale e osservavano via degli Aceri.
[…] Lo schema è sempre lo stesso?
Sì, con poche variazioni. – fu la risposta – Scelgono il nemico più pericoloso che c’è e lo trovano in loro stessi”.
La seconda storia è Cephes 5, un racconto (del 1973) di Howard Fast.
A bordo della “grande nave interstellare” un ufficiale sente crescere il malessere mentale. Ne parla con “il Consigliere” dell’equipaggio che gli domanda se ha sentito parlare di “delitto” cioè di una “azione che sopprime una vita umana e che come idea ha origine in sentimenti anormali di odio e di aggressione”.
Lo stupefatto ufficiale quasi non capisce di cosa parli il Consigliere:
“Volete dire che c’è gente che ammazza altra gente?”.
Purtroppo sì, spiega il Consigliere: anche se accade in pochissimi dei “33.472 pianeti abitati della galassia”.
Cosa si fa con gli assassini?
“Li isoliamo” spiega il Consigliere “sul pianeta Cephes 5”. La nave interstellare è diretta lì: quel senso di malessere avvertito dall’ufficiale nasce dalle “cattive vibrazioni” dei 500 assassini “di tutte le razze della galassia”.
Il racconto è pieno di interrogativi ma uno – il più choccante – si scioglie nelle ultime righe.
“Noi chiamiamo questo pianeta Cephes 5 – disse l’ufficiale – ma tutti i pianeti hanno un loro nome, dato dagli abitanti. Come chiama quella gente il suo pianeta?
– Lo chiama Terra – rispose il vecchio Consigliere”.
E in sintonia con la provocazione di Fast, per questo segmento l’ultima parola si potrebbe dare a un esponente del “realismo magico” latino-americano, quel Manuel Scorza che nel romanzo La danza immobile (del 1983) ci illuminò: “Lenin aveva torto… non è l’imperialismo la fase suprema del capitalismo, è la schizofrenia di massa”.
Di alieni mentali ce ne sono parecchi in giro, anzi come diceva quella vecchia frase (che è anche su molte t-shirt) “visto da vicino nessuno è normale”. Che poi siano tutti pericolosi è tutto da dimostrare. Dipende, al solito, da chi ha il potere di guardare e decidere. Abitare in via degli Aceri e rendere migliore Cephes 5 come sempre almeno in parte dipende da noi.

7. Qualche accenno sull’alienità religiosa

Dallo spazio arrivano i protagonisti di Alieno in croce, del 1978, scritto a quattro mani da Lester Del Rey e Raymond Jones. Il “prete” ufficiale della spedizione è Toreg. In apparenza è feroce oppositore di ogni eresia ma dentro aveva: “come una ferita sanguinante […] la portava con sé, la nutriva, la combatteva e ne sopportava il dolore, perfino nelle lunghe preghiere che dedicava al Keelong a cui non credeva. Il peso restava; e cresceva la sua ferocia contro l’eresia. Nessuno sapeva che quella ferocia era diretta più contro se stesso che contro gli altri”.
I protagonisti di questo bel romanzo sono di color verde pallido a scaglie sottili ma quando arrivano sulla Terra nessuno s’impressiona: infatti il pianeta è stato distrutto da un’ultima, terribile guerra. Nessun superstite. Pochi resti e difficilmente decifrabili.
Però sotto le macerie Toreg trova “due pezzi di legno uniti fra loro a forma di croce  […] Non riuscì a trattenere un grido. Era la cosa più orribile che avesse visto in tutta la sua vita”. Il sacerdote alieno s’interroga sulla misteriosa figura “torturata”. Dopo lunghe ricerche, Toreg può dare un nome – Gesù di Nazareth – al crocefisso ma senza scoprire altro. Nel martirio di quell’“alieno in croce” sembra esserci più forza che nelle credenze Keelong. Potrebbe trattarsi solamente del fascino di una religione nuova e densa di misteri… o forse no. Il romanzo preferisce lasciarci nel dubbio. È un diverso – alieno appunto – sguardo sulla religione, sulla forza che potrebbe avere per diverse specie.
Si può provare a immaginare il rovescio di Toreg: come accoglieranno i non-umani il messaggio di redenzione dei terrestri? Ne ha scritto, fra gli altri, lo scrittore irlandese Clive Staples Lewis. Chiedendosi: “I nostri futuri missionari se incontrassero una razza senza peccato sarebbero in grado di comprenderla? […] Non potrebbero giudicare peccato quelle differenze di comportamento che la storia biologica e spirituale di creature diverse giustificherebbe pienamente? […] Dobbiamo fermamente opporci a ogni sfruttamento teologico”.
È un quesito che tornerà, con forza inaudita, soprattutto in un romanzo di James Blish che esamineremo fra poco.
Tradizionale nello schema post-catastrofe ma straordinario per invenzioni, ritmo, scrittura – e anche per offrirci un po’ di speranza rispetto agli alieni fra noi – è il romanzo I trasfigurati di John Wyndham del 1955. Siamo proiettati subito in una società post catastrofe atomica succube del fanatismo religioso e che riconosce nei mutanti i segni della persistente collera divina. Le parole para-bibliche “solo l’immagine di Dio è il vero uomo” servono a giustificare persino il rogo d’una bimba colpevole d’avere 6 dita in un piede. Gli squarci di intolleranza descritti da Wyndham si mescolano alla fiducia nell’umanità, all’idea che essa possa rinascere come una farfalla dal bruco (proprio Re-birth o The Chrysalids sono i titoli con cui il libro è circolato in altri Paesi) e che le mutazioni potrebbero rivelarsi anche uno sviluppo positivo o il disvelamento di potenzialità latenti. Forse ci sono alieni che stanno nascendo dietro di noi (non necessariamente a seguito di catastrofi o radiazioni) e comunque difficile credere a un dio che misura l’umanità come avrebbe potuto fare un Cesare Lombroso.
L’intreccio fra alienità e religione trova uno dei suoi apici in un romanzo che, pur scritto nel lontanissimo 1958, resta alla memoria: Guerra al grande nulla di James Blish.
Quattro scienziati terrestri, fra cui un gesuita peruviano, arrivano sul pianeta Lithia dove gli abitanti ignorano cosa sia il male. Se i lithiani non conoscono peccato e dunque mancano di Dio – si chiede il tormentato gesuita – essi sono forse un’utopia di Satana? A questo punto l’intreccio, anche teologico, si complica assai: Egtverchi, “l’unico rettile dell’universo con genitori mammiferi”, arrivato sulla Terra, mostra grande abilità nell’usare e/o scombussolare i mass media.
“Commentatore ormai di notizie alla tv, Egtverchi era il primo oratore televisivo che avesse un pubblico composto per metà di intellettuali disingannati e per metà di bambini entusiasti. Era un fenomeno senza precedenti”.
Il successo di Egtverchi è tale che può persino invitare il pubblico a “inviare lettere anonime ingiuriose alla ditta che paga le sue trasmissioni”. Forse accadrà il peggio se il gesuita non fermerà questo demonio/non demonio… Ma come si conclude la vicenda dovrete scoprirlo da soli, recuperando il libro in qualche biblioteca.
Altri alieni “religiosamente” inquietanti in Le guide del tramonto di Clarke, che hanno una piccola differenza biologica come si è accennato.
Il libro risente dell’età (uscì nel 1954) soprattutto nella seconda parte ma l’inizio e la studiata preparazione al colpo di scena alien-teologico restano godibilissimi anche oggi. In sintesi: stavolta i potentissimi alieni sono venuti in pace, portano una fruttuosa collaborazione. Ma allora perché trattano solo con le Nazioni Unite, perché non si mostrano? Passano gli anni: finiti i sospetti e congiure, i terrestri appariranno rassicurati: così i “buoni alieni” potranno comparire in pubblico… con le due corna sulla testa e la coda ma senza impressionare più di tanto. Tutte le calunnie venivano da una precedente visita troppo prematura, sostiene Clarke.
Abbandoniamo a malincuore il segmento dell’alienità religiosa e avviamoci verso le conclusioni.

6. Alienità sociale

Partiamo da un racconto di Leo Szilard che, per chi non lo sapesse è uno dei padri (involontari) della bomba atomica. In Rapporto sul Gran Central Terminal – nell’antologia di racconti La voce dei delfini – ci provoca così: “Immaginate che colpo fu per noi atterrare in quella grande città e trovarla deserta. Da dieci anni viaggiavamo attraverso lo spazio. […] Quando finalmente atterrammo scoprimmo che su quel pianeta la vita si era estinta. […] A quel punto Xram si ricordò che circa 5 anni prima erano stati osservati misteriosi bagliori, tutti nella stessa settimana. Gli venne in mente che quei bagliori potevano essere stati prodotti da esplosioni di uranio. […]  Ritenevamo che chi aveva costruito città così grande fosse dotato di razionalità per cui ci sembrava difficile che si fosse impegnato a trattare l’uranio per tanto tempo”.
Questo è il quadro di partenza: io ho un pochino barato tacendovi che il pianeta si chiama Terra mentre Szilard lo mette subito in chiaro. Quel che qui ci interessa – la difficoltà a decifrare un mondo alieno – però non riguarda l’energia atomica.
“Non sapendo da dove iniziare le ricerche, scegliemmo come primo oggetto di indagine uno degli edifici più grandi della città. Anche se non sapevamo cosa significasse Grand Central Terminal, non avevamo dubbi su quale fosse il suo utilizzo. Era parte di un primitivo sistema di trasporto basato su rozze macchine che correvano su rotaie tirandosi dietro vetture a ruote.
Per più di 10 giorni studiammo quell’edificio e scoprimmo dettagli interessanti e sconcertanti”.
Le scritte “fumatori” e “non fumatori” restano inspiegabili per gli scienziati alieni e certi dipinti che mostrano esseri con le ali confondono ancor più le idee.
“Nel grande spazio del Central Terminal trovammo stanze abbastanza piccole collocate a coppie e in posizioni abbastanza nascoste. Ciascuna di queste stanze (chiamate ‘Uomini’ e ‘Donne’) conteneva cabine che probabilmente potevano servire come riparo temporaneo per i terrestri mentre depositavano i loro escrementi”.
Ma restano molte domande irrisolte e… Szilard si diverte. Cosa significa la scritta “libero” all’ingresso di queste cabine? Perché si aprono solo con un gettone? E perché analoghi congegni nelle case non hanno il meccanismo apribile con un dischetto e la scritta “libero”? Cos’abbia a vedere la libertà con gli escrementi è un quesito che appassiona questi scienziati alieni. Così “saggi” da non credere che i terrestri possano essersi auto-distrutti con l’uranio.
Di paradossi e provocazioni simili (magari a ruoli rovesciati, cioè con i terrestri nella parte degli alieni che indagano) è piena la fantascienza. Chi è appassionato del genere ricorderà quantomeno il racconto Mai toccato da mani umane del caustico Robert Sheckley, il romanzo Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Strugackij (trasposto al cinema da Andrej Tarkovskij come Stalker) o lo sconcertante (soprattutto nel finale) Incontro con Rama dell’altro scienziato-scrittore Arthur C. Clarke.
Ma qui ci interessa l’alieno sociale che, anche nella metafora fantascientifica, a volte somiglia al nostro: questione di classe dunque.
Chi si rifà in qualche modo al pensiero di Marx già saprà che, per i borghesi, alieni sono i proletari e viceversa. E per quanto i rapporti (di potere) fra le classi cambino il capitalismo inevitabilmente fabbrica alieni. Nel 1982 Andrè Gorz ricorda – in Addio al proletariato – che già Adam Smith annotava che “molti padroni di fabbriche preferiscono impiegare operai ‘mezzi idioti’” e che poi Marx “descriverà il lavoro operaio, sia nelle manifatturiere che nelle cosiddette fabbriche automatiche, come una mutilazione delle facoltà intellettuali e corporali degli operai”. E Gorz riassume: “La fabbrica produce ‘mostri’”. Alieni. O umani mutanti direbbe qualche scrittore-scrittrice di science fiction.

Crumiro
Qui ci interessa la fantascienza che ha al suo centro l’alieno sociale dunque diverso, incomprensibile, “non umano” per ragioni di classe o per un particolare lavoro.
Un buon esempio è il racconto Crumiro (del 1957) di Isaac Asimov che vedremo in dettaglio.
Steven Lamorak è un sociologo terrestre che visita Altrovia, un planetoide terrestre, fuori dal sistema solare, con un diametro di un centinaio di miglia, patria di una colonia umana, formata da trentamila persone. Capiremo poi che qui si è sviluppato un rigido sistema di caste dove ogni lavoro è limitato a un particolare insieme di famiglie.
Il consigliere Blei spiega a Lamorak: “Dobbiamo rimettere tutto in circolo […] i rifiuti di ogni genere devono essere ritrasformati in materia prima”. Blei sembra imbarazzato e reticente però accetta di parlare del sistema di caste: “ogni uomo, donna o bambino sa qual è il suo posto”.
Dopo il colloquio e la promessa di poter visitare il giorno dopo il pianetino, Lamorak sfoglia il giornale locale. Nulla di interessante salvo un articolo che gli risulta incomprensibile. “Sotto il titolo ‘Richieste immutate’ si leggeva: ‘Non vi è stato alcun cambiamento nel suo atteggiamento di ieri. Il Consigliere Capo, dopo un secondo colloquio, ha annunciato che le sue richieste continuano a essere irragionevoli e che non possono essere soddisfatte per nessuna ragione al mondo’ […] Lamorak rilesse l’articolo tre volte: il ‘suo’ atteggiamento, le ‘sue richieste […]. Di chi? Dormì malissimo quella notte”.
Nei giorni successivi Lamorak costringe Blei a dirgli la verità. “Igor Ragusnik è l’uomo che si occupa dei processi industriali direttamente connessi ai rifiuti […] ma noi non possiamo parlare con lui”. E ora Ragusnik “pretende uguaglianza sociale. Vuole che i suoi figli si mescolino ai nostri”. E minaccia di scioperare.
Blei dice a Lamorak: “come terrestre immagino che lei non possa capire”. E lui risponde: “come sociologo penso di sì” e “pensa agli intoccabili dell’antica India, a coloro che maneggiavano i cadaveri, ai guardiani di porci nell’antica Giudea” ma anche ai tabù terrestri, altrettanto forti: “il cannibalismo, l’incesto, la bestemmia sulle labbra di un uomo devoto”.
Se Ragusnik continuerà lo sciopero, il sistema di smaltimento rifiuti si bloccherà e l’intera colonia morirà a causa delle malattie. Lamorak chiede di parlare con Ragusnik… per video-telefono; di persona non è possibile.
Il dialogo è difficile. Lamorak ha di fronte un uomo disperato: “perché dobbiamo vivere in isolamento come se fossimo mostri? […] Non mi arrenderò. Muoia pure d’infezione tutta Altrovia, compresi me e i miei figli ma non cederò”.
Lamorak capisce che nessuna delle due parti è disposta a cercare compromessi. E annuncia: “Lo sostituirò io” pur sapendo che sta “tradendo un uomo brutalmente sfruttato”.
Non dirò come finisce il racconto. Se volete leggerlo lo trovate, fra l’altro, nell’antologia di Asimov pubblicata (nel 1987 dalla Nord) con il titolo Le migliori opere di fantascienza. Nell’introdurre il racconto, Asimov scrive: “Credo che questo sia un racconto importante […] invece precipitò nella più totale indifferenza”. Beata ingenuità: il saggissimo Isaac sembra incapace di vedere che non si tratta solo di una metafora della condizione dei “negri” negli Stati Uniti di allora ma più in generale di svelare la rigida divisione in classi della società.
Molte altre suggestioni, visioni e metafore sociali dell’alienità sociale potrebbero essere raccontate. Non c’è qui lo spazio necessario. Chi deciderà di proseguire questo cammino si confronti soprattutto con James Ballard, John Brunner, Damon Knight, il tedesco Joachim Zelter (che in La scuola dei disoccupati ha immaginato una società-incubo che abbia come suo faro la costruzione del curriculum), di nuovo Le Guin e Sheckley e italiani: i due Vittorio (Catani e Curtoni), Valerio Evangelisti e magari Primo Levi che scrisse alcune storie di fantascienza che inizialmente il suo editore editò con uno pseudonimo con la curiosa giustificazione che uno scrittore così legato alla tragica realtà dei lager non avrebbe dovuto, con lo stesso nome, pubblicare storie di fantascienza.
Invece la buona fantascienza ha raccontato molto sulle oppressioni presenti e future aiutandoci a capire dove si annidano nuovi pericoli. Potremmo essere tutti alieni (alienati) in un certo tipo di mondo che si va costruendo. Ad affrontare questo tema – anzi a scardinarlo – è Frederik Pohl, uno degli autori fantascientifici più importanti, sin dagli anni ’50.

Incatenati al 15 giugno
Vediamo, in estrema sintesi, Il tunnel sotto il mondo, lungo racconto che Pohl scrisse nel 1954.
“La mattina del 15 giugno, Guy Burchardt si svegliò da un sogno. Gridava”.
Poco dopo Guy si rassicura: tutto è a posto, era solo un incubo. Per strada nota qualcosa di strano: una pubblicità più aggressiva del solito. Poca roba in fondo. È insolito che il suo capo non sia in ufficio visto che il 15 giugno “è il giorno della denuncia fiscale per il trimestre”. Guy potrebbe andare a cercarlo in fabbrica ma non gli garba perché in una precedente visita era rimasto abbastanza scosso: “non c’era un’anima, soltanto le macchine”.
Quel giorno continua ad andare in modo “sbagliato”: piccole cose fuori posto e, sulla strada del ritorno, altoparlanti minacciosi che urlano ossessivamente frasi del tipo: “Hai già un frigorifero. Puzza! Se non è un frigorifero Feckle, puzza. […] Sai chi ha i frigoriferi Ajax? Gli invertiti hanno i frigoriferi Ajax. Sai chi ha i frigoriferi Triplecod? I comunisti hanno i frigoriferi Triplecod. […] Vuoi mangiare cibo andato a male? O vuoi farti furbo e comperare un Feckle, Feckle, Feckle”.
Anche a casa sua Guy troverà stranezze, illogicità. Va a dormire perplesso. La mattina dopo apprende – dal giornale e dalla radio – con stupore che non è il previsto 16 giugno ma sempre il 15. Guy sta impazzendo?
Il racconto ha una svolta quando (con l’aiuto di un certo Swanson) il protagonista scopre che sotto la città corre un tunnel. Qualcuno sembra seguirli. “Russi? Marziani? Qualunque cosa fossero che cosa potevano sperare di guadagnare da quella pazzesca carnevalata?”.
La verità è a un passo: “Non sono russi e non sono marziani. Quella gente sono uomini della pubblicità. In qualche modo si sono impadroniti della città […] ci hanno catturato tutti, 20 o 30mila persone e ci tengono sotto il loro controllo”.
L’eterno 15 giugno è un grande esperimento sociale per testare nuovi prodotti. Il racconto di Pohl ha in serbo altre tremende sorprese ma, per il discorso che qui si va facendo, basta così. La dittatura di Pol Spot nel 1954 era di là da venire ma oggi è nelle pieghe del mondo reale. Guy è un uomo qualunque che si crede strano o impazzito (due varianti dell’alieno): in realtà è una marionetta. Non c’è forse peggiore alienità della impossibilità di gestire la propria vita.

E se sotto quei circuiti…
Anche i robot e gli androidi in molte storie fantascientifiche sono, con ogni evidenza, metafora del diverso – razziale o sociale – in cerca di integrazione. Se il termine androide vi lascia perplessi chiarisco subito: nella science fiction si intende una creatura artificiale che, a differenza del robot, è costituita di protoplasma e comunque non ha una prevalenza di parti meccaniche.
Anche se non c’è qui spazio per approfondire ulteriormente, qualche esempio di alieno “social-robotico” può aiutarci.
Uno dei romanzi più espliciti dove gli androidi sono a caccia dei “diritti civili” è il complesso romanzo (del 1951) Oltre l’invisibile di Clifford Simak.
Lo stesso Simak scava sul tema in alcuni racconti. Ora tocca a noi a esempio è la minuziosa cronaca del procedimento giudiziario nel quale i robot ottengono il diritto a “non essere più servi di nessuno”.
Con Il peggiore esempio Simak azzarda un’amara riflessione. Incontriamo Tobias, la disgrazia della città, vergogna pubblica, appunto “il peggior esempio, da non imitare mai”. Un giorno però Tobias dimentica di barcollare e sta per tradirsi.
“Lui doveva essere accettato come un umano […] Come vagabondo, ubriacone umano lui era uno scudo. Come robot, uno sporco robot ubriacone buono a nulla, non sarebbe contato nulla. Così nessuno sapeva”.
A sostenere l’inganno esiste persino una tassa (del quale tutti ignorano la vera destinazione) pagata alla Samru cioè “Società per l’Avanzamento e il Miglioramento della Razza Umana”. Il nome è con ogni evidenza simile a quello della Naacp (cioè National Association for the Advancement of Colored People) che nell’epoca in cui il racconto fu scritto si batteva – i risultati erano lontani da venire – per i diritti civili degli afroamericani.
Sarà poi Isaac Asimov a completare il discorso dei robot in cerca dei diritti civili nel famoso racconto (in realtà un romanzo breve) L’uomo bi-centenario. Chi non lo conoscesse ne trova una sintesi nel citato dossier che ho curato per “HP-Accaparlante” nel 2001.
A dar man forte all’ala più iconoclasta della fantascienza in quel periodo arriva, come si è già detto, Philip Dick. A proposito di creature artificiali e di metafore, nel racconto Impostore (del 1953) il protagonista viene accusato di essere un robot del nemico con una potente bomba incorporata. Lui fugge perché sa di essere innocente ed è con stupore pari al suo che, al termine del racconto, chi legge assisterà all’esplosione. Un tipico esempio del modo in cui Dick affronta la confusione fra vivente e meccanico, fra realtà e illusione, temi al centro di tutta la sua opera. Un tema sul quale torneremo più avanti.