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autore: Autore: Stefano Toschi

Ritorno al futuro

Di Stefano Toschi

Qualche settimana fa, leggendo tra le notizie del sito Superabile, mi sono imbattuto in una iniziativa a favore delle persone colpite dalla sindrome di Asperger. Mi ha incuriosito questo nome per me nuovo: io, pur non essendo medico, conosco diverse patologie da cui sono affetti alcuni miei amici, ma questa sindrome non l’avevo proprio mai sentita, così ho cercato qualche informazione, prima su Wikipedia e poi su altri siti di medicina. La sindrome di Asperger rientra nello spettro autistico, come nell’autismo, ha esordio nell’infanzia, senza ritardo mentale o difficoltà nel linguaggio, anzi si accompagna a una proprietà di linguaggio sviluppata e a un’intelligenza nella norma o a volte superiore. Le persone Asperger hanno una sviluppatissima capacità di elaborare informazioni ma possono incontrare disagio nel gestire l’empatia e le relazioni sociali. Ma la caratteristica peculiare di questa sindrome è l’incapacità di prevedere le conseguenze delle proprie azioni. Le persone affette da questa malattia compiono gesti senza chiedersi quale impatto possono avere nel futuro degli altri e di se stessi. Ho letto ad esempio che una persona con Asperger aveva fabbricato un ordigno seguendo le istruzioni che stavano in internet, e non lo aveva fatto per cattiveria o per compiere un attentato, ma in assoluta incoscienza. C’erano anche tante altre storie simili a questa, e tutto ciò mi ha fatto riflettere. In fondo, la società di oggi ha esattamente questa malattia senza rendersene conto. Il progresso tecnico-scientifico ci permette di fare sempre più quello che vogliamo senza tener conto dei limiti che la natura ci imponeva fino a qualche tempo fa, ma proprio questo ci porta alla filosofia del carpe diem: fai oggi quello che vuoi, senza preoccuparti del domani. In tutti i campi è presente questa sorta di sindrome di Asperger: dalle case costruite lungo o addirittura sopra i cosi d’acqua, costretti e intombati, che, poi, vengono regolarmente inondate alle prime piogge intense, ai rifiuti tossici che sono seppelliti nei terreni coltivati a ortaggi che finiscono nei nostri piatti. Magari proprio nei piatti di quegli industriali che hanno inquinato – o dei loro complici criminali. Un altro esempio si può trovare nella normativa che dovrebbe regolare la fecondazione eterologa: in alcuni Paesi la legge prevede che i genitori naturali rimangano sconosciuti. Ma ciò comporta una serie di problemi, in caso di malattie del figlio si dovrebbe poter risalire ai suoi genitori biologici. Prevedere la possibilità di una qualsiasi malattia non significa essere “dei gufi”, come si dice oggi, ma essere persone che hanno consapevolezza dei limiti della natura umana e della salute. La legge che permette la fecondazione eterologa nasce dalla concezione che avere un figlio sia un diritto e non un dono; per chi crede, di Dio, per chi non crede, della natura. Questo non prevedere il futuro è presente anche nel campo sociale: ad esempio, si vuole – giustamente – aiutare le madri single, ma questo, se viene interpretato in maniera rigida, porta alla separazione della coppia in difficoltà, anche se i due genitori non vorrebbero separarsi.  In questo caso, non si tiene conto che per i bambini è meglio crescere con un padre e una madre, anche se non perfetti. Naturalmente, sperando che siano genitori responsabili e non compiano azioni che, per incoscienza, finiscono per danneggiare i loro figli. È notizia di qualche giorno fa che una coppia con una bambina piccola aveva preparato una torta che conteneva un ingrediente un po’ originale. Dopo aver consumato il dolce la piccola ha accusato un malore, con vomito e convulsioni. Il padre e la madre hanno subito chiamato l’ambulanza che ha trasportato la bimba al pronto soccorso e, dopo qualche giorno nel reparto di pediatria, è stata dimessa. La piccola, sottoposta ad alcuni test, è risultata positiva alla cannabis. Sembra che la torta sia stata preparata come stravagante dessert riservato agli adulti in occasione delle festività natalizie. La figlia, ignara del fatto che contenesse droga, l’avrebbe assaggiata approfittando di un momento di disattenzione dei genitori. Non voglio addentrarmi nella questione droghe leggere e della loro legalizzazione, qua è in discussione la responsabilità di due genitori che, in presenza di una bimba di pochi anni, per un loro sfizio preparano una torta alla marjuana, non pensando che la loro figlia potrebbe assaggiarla. Altri casi di genitori irresponsabili ci sono offerti dalla cronaca quotidiana: frequenti, soprattutto negli Usa, gli episodi di bambini piccoli che, maneggiando le armi che si trovavano in casa, hanno ucciso un genitore o un fratello. Ciò può capitare dappertutto, ma in un Paese che considera un diritto inviolabile il possesso di armi da parte di tutti i suoi cittadini le probabilità che accada aumentano in maniera esponenziale. Tutti questi esempi dimostrano che, nella società odierna, soprattutto quella ritenuta più avanzata e opulenta, si va perdendo il senso del futuro, che è una delle caratteristiche che distinguono la specie umana dagli altri animali. L’uomo è progredito proprio perché non pensa solamente a soddisfare i suoi bisogni più immediati o i suoi desideri, ma sa progettare il futuro e questo gli ha permesso di uscire dal contingente e proiettarsi in avanti. Naturalmente, non sostengo che si possa o si debba prevedere il futuro, l’imponderabile è sempre possibile ed è anche un bene che sia così, perché la meraviglia fa parte dell’esistenza umana tanto quanto la capacità di progettare. Il problema è che si stanno perdendo entrambi questi aspetti: ormai si vive soltanto in un eterno presente. Caso vuole che, nel famoso film anni Ottanta Ritorno al futuro, il protagonista venga catapultato proprio nell’anno 2015. Ora ci siamo, nell’anno del ritorno al futuro, così come era stato immaginato per fiction: non facciamoci prendere da una collettiva, sociale sindrome di Asperger.

L’albero della sfida

Una notizia che ha attirato di recente la mia attenzione riporta il fatto che a Bologna è stata sperimentata l’arrampicata sugli alberi per ragazzini con disabilità. Sul momento, mi ha fatto molto sorridere l’immagine di questi ragazzi disabili sugli alberi, visto che Darwin ha fatto… scendere l’uomo dall’albero giusto un secolo e mezzo fa. E noi, che siamo ben strani, abbiamo ora l’ambizione di risalire sugli alberi! Poi ho pensato che sì, Darwin era proprio quello che parlava di selezione naturale. Due anni fa un insegnante di conservatorio scrisse su Facebook che era necessario il ritorno alla Rupe Tarpea, essendo venuta meno la selezione naturale per i disabili, cosa che aveva, a suo avviso, portato a un netto decadimento della specie. Nello stato di natura, effettivamente, le persone con qualche deficit non sarebbero sopravvissute. Ma l’uomo, appunto, si è evoluto. La cultura è stata in grado di fargli superare gli ostacoli che una natura inevitabilmente fallace aveva posto. Pensate a tutti quelli che, considerati veri geni, secondo questo criterio avrebbero dovuto, invece, essere gettati dalla rupe. Si pensi a Stephen Hawking, il fisico, matematico e cosmologo britannico che è riuscito a spiegare al mondo l’esistenza dei buchi neri dalla sua carrozzina high tech. Si pensi a Beethoven, Ray Charles, Van Gogh, Frida Kahlo, allo stesso Einstein o ai tantissimi personaggi famosi che presentano evidenti tratti autistici, per esempio. Ognuno di questi “grandi” aveva la propria disabilità ma ognuno, nel suo campo, è stato geniale e insostituibile. Riflettete sulla possibilità che tutti costoro fossero stati “geneticamente selezionati” e scartati perché imperfetti, oppure che fossero stati gettati, in fasce, dalla Rupe Tarpea. Allora sì che, senza di loro, l’umanità si troverebbe “al buio”, privata di questa ricchezza e del progresso nella scienza e nelle arti di cui tante persone con deficit sono state fautrici. Tutto ciò accade perché la “cultura” ha la capacità di superare la “natura”. Una carrozzina è uno strumento semplicissimo. Ormai, è banale pensare che un’invenzione così elementare abbia fatto superare le difficoltà motorie a tante persone con handicap. Certo, nella savana non sarebbe facile sfuggire al leone seduti su una carrozzina. Ma, fortunatamente, nella savana ci stanno le gazzelle e non i disabili. Ho letto su una rivista scientifica che la selezione degli embrioni dovrebbe essere un diritto di ogni genitore. Si tratta di selezione innaturale, più che di selezione naturale. Avere un figlio sano non può essere un diritto. Il diritto del malato è curarsi, accedere alla sanità migliore, usufruire dei progressi in campo medico-scientifico, ma non il fatto di essere sano in sé. Anche perché, spesso, il deficit non è una malattia, bensì una caratteristica. Dunque, non c’è principio, a mio avviso, in nome del quale sacrificare un’esistenza come la mia in virtù di una perfezione fisica apparente, che può comunque precludere alla malattia, del corpo ma anche dello spirito. A coniare il termine eugenetica fu Galton, cugino e allievo di Darwin. Il figlio di quest’ultimo addirittura, che succedette al padre e a Galton, avanzò la proposta di impedire con la forza alle persone geneticamente “deboli” di procreare. Inutile dilungarci su quello che è facilmente intuibile, ovvero sul fatto che sono state proprio queste teorie a portare alla folle idea di selezione della Germania nazista. A dispetto di questo, tuttavia, l’esperienza di vita, più che la filosofia, mi ha insegnato che il corpo è imperfetto e corruttibile, con il tempo si sgretola, mentre l’anima con il tempo si può addirittura irrobustire. Certo, questo avviene solo se siamo noi stessi gli artefici di questo cambiamento, ma noi, che la selezione naturale l’abbiamo già superata nella pancia della nostra mamma, nascendo, abbiamo il dovere di affermare la nostra superiorità sugli animali e sugli esseri irrazionali, curando la nostra anima, quella che ci fa essere, appunto, persone. Questo pensiero mi ha fatto superare quello delle mie imperfezioni. Uno dei brani del Vangelo che preferisco è quello delle famose Beatitudini, poiché, nel discorso della montagna, Gesù indica chi sono i santi, dunque i vincenti. E non si parla di eroi perfetti, ma si elencano solo persone imperfette, a cui manca qualcosa. Non i virtuosi e gli irreprensibili, ma quelli che hanno fame e sete, quelli che hanno qualche deficit. Non si tratta di una compensazione per i poveri e gli imperfetti nell’Aldilà, come molti pensano. Si tratta, invece, della consapevolezza tutta terrena di essere imperfetti in quanto uomini, chi più, chi meno, chi fisicamente, chi nello spirito. L’uomo “desidera”, cioè aspira a qualcosa che gli manca. Sempre, per sua natura. All’uomo manca costantemente qualcosa, è scritto nel suo DNA. Allo stesso tempo, capita che tutti arriviamo a sentirci ricchi di qualcosa, non necessariamente di beni materiali. In quel qualcosa ci sentiamo forti, e questo pensiero di relativa abbondanza rischia di farci dimenticare le altre imperfezioni, le altre carenze, di farci sentire pieni e invincibili, quindi di avere la presunzione di cavarcela bene anche da soli, senza Dio e senza gli altri uomini. Ecco perché siamo beati laddove ci manca qualcosa, nelle nostre debolezze, perché questo ci ricorda sempre chi siamo e che abbiamo bisogno degli altri.
Arrampicarsi sull’albero può forse fornire un certo senso di libertà, soprattutto a un ragazzino disabile abituato a stare con i piedi ben ancorati per terra. Ma l’uomo è sceso dall’albero da molto tempo, per dimostrare a se stesso che, anche nella sua imperfezione, può migliorarsi, che non è perfetto, ma perfettibile e che, con i piedi ancorati al terreno, o alla carrozzina, si può fare tanta strada. Luca, nel suo Vangelo, ci racconta che il pubblicano Zaccheo desiderava tanto vedere Gesù a Gerico. Ma era molto piccolo di statura, dunque, per vedere meglio fra la folla, pensò di salire su un grande albero, su un sicomoro. Gesù lo vide e lo fece scendere dall’albero, facendosi addirittura invitare a casa sua: l’impedimento alla vista di Zaccheo non era la sua statura, ma una incapacità tutta spirituale di vedere quale fosse il Bene più grande per lui. La salita sull’albero di Zaccheo, tuttavia, gli fa onore: denota la volontà di ricerca del Bene, di capire e di conoscere. Allora, se può servirci a capire quanto vale e quanto sia prezioso, in realtà, il nostro deficit, e quale sia il bene più grande per noi, saliamo pure sugli alberi: sarà bello vedere, poi, che saranno in tanti a tendere la mano per aiutarci a scendere. 

Un italiano vero

Di Stefano Toschi

Il tema della cittadinanza è molto presente nel dibattito politico di questi mesi. La questione principale che viene posta riguarda il diritto di cittadinanza, che in Italia si ottiene, ad oggi, solo “per sangue” e non “per nascita” sul territorio italiano. Tuttavia, un caso particolare ha richiamato la mia attenzione. Il caso di Cristian Ramos va oltre il problema dello ius solis e dello ius sanguinis. Cristian ha, infatti, qualcosa in più di tanti altri: un cromosoma. Il cromosoma 21.
Cristian ha la Sindrome di Down. Ha da poco compiuto 18 anni e ha già subito il primo abbandono quando era ancora in fasce. Il padre naturale, italiano (dunque, Cristian sarebbe di fatto già italiano, data la nazionalità paterna), non lo ha riconosciuto e ha abbandonato la mamma del ragazzo, colombiana, invitandola ad abortire o a confinare il piccolo in un istituto. Ma la mamma coraggiosa ha scelto di far nascere il suo bambino e di allevarlo da sola.
In Colombia nessuno sa che Cristian è nato: la famiglia della giovane non avrebbe accettato la sua scelta, proprio come il padre. Per l’Italia, invece, Cristian non può neppure essere considerato cittadino italiano. Il motivo? Qualsiasi forma di deficit cognitivo pregiudica, secondo la legge italiana, la possibilità di prestare un giuramento consapevole e una manifesta volontà di diventare cittadino. Questo, nonostante l’Italia abbia da tempo ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite per i diritti delle persone disabili (che all’articolo 18 stabilisce chiaramente come “il diritto alla cittadinanza non possa esser negato per motivi legati alla disabilità”). Il ragazzo frequenta le scuole superiori, ha tanti amici, gioca a pallone, nuota, ha degli hobby e una vita sociale brillante. Si sente perfettamente italiano e l’unica cosa che non capisce è il motivo per cui non possa esserlo anche di fronte alla legge. La domanda che viene da porsi prima di ogni altra è: sulla base di quale criterio lo Stato italiano giudica i cittadini stranieri che fanno domanda di cittadinanza perfettamente consapevoli dell’impegno che si stanno assumendo?
Il testo del giuramento è il seguente: “Giuro di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato”. Ora, pensare alle parole di questo giuramento, da italiano, fa veramente sorridere. Sulla base di questa frase importantissima, dovremmo togliere la cittadinanza quantomeno a tutti quelli che delinquono. Non parliamo della fedeltà alla Costituzione: quanti sono i cittadini italiani che non l’hanno mai letta e non hanno nemmeno idea di cosa ci sia scritto nella principale fonte giuridica dello Stato? Quanti conoscono il lavoro e il pensiero dei Padri Costituenti sottinteso al cuore pulsante della nostra Repubblica? Una mia cara amica lavora allo Sportello Immigrati di un Patronato. Ha visto giurare tante persone analfabete, che avevano dovuto imparare a memoria, non senza un notevole sforzo, le semplici parole del giuramento. Figuriamoci quale consapevolezza potevano avere questi neo italiani! Ha visto giurare persone che non comprendevano in italiano cosa vi fosse scritto in quella frase ed è stata necessaria per loro una traduzione, per poi imparare a memoria la versione italiana. Ha visto tante donne residenti in Italia da anni ma tenute in casa dai mariti e chiuse all’interno della loro comunità diventare cittadine italiane senza avere mai nemmeno parlato una parola della nostra lingua o conosciuto una singola tradizione del nostro Paese. Cristian, che è addirittura nato in Italia, che non sa una parola di colombiano, non ha altri parenti che una madre coraggiosa, che ha sfidato tutto e tutti per farlo nascere e donargli tutto il suo affetto, incurante della disabilità del figlio, non è forse ben più consapevole di tanti italiani della propria appartenenza? Come possiamo considerare “ospiti” persone come Cristian e la sua mamma, quando spesso il nostro Stato premia con la cittadinanza persone che hanno commesso reati? Non dovremmo forse essere orgogliosi di avere concittadini così coraggiosi?
A ciò si aggiunge anche il paradosso dei natali biologici del ragazzo, figlio di un italiano (sì, un italiano “vero”) che ha rifiutato di riconoscerlo appena appreso del suo deficit. Può dunque un cromosoma in più vincolare una scelta simile? Sappiamo che alla vicenda si è interessato anche il Ministro Cancellieri, che si è detta molto sensibile al tema, dunque ci auguriamo che tutto vada a buon fine. La cosa che mi fa più pensare è che questo ulteriore ostacolo per le persone con una qualche disabilità intellettiva, che, nel caso della trisomia 21, peraltro, può essere anche abbastanza lieve, incentiva ulteriormente quella mentalità dilagante sempre più orientata all’eugenetica.
Ho letto recentemente che, in Italia, su 100 feti diagnosticati con Sindrome di Down entro il quinto mese di gestazione, ben 98 vengono eliminati mediante interruzione volontaria di gravidanza. All’atto di compiere accertamenti diagnostici invasivi come la villocentesi o l’amniocentesi, alla gestante che si accinge a effettuare le analisi vengono consegnate, durante la consulenza genetica, dunque ancora prima di conoscere l’esito dell’esame, tutte le indicazioni su modalità e strutture abilitate per effettuare l’interruzione volontaria di gravidanza. Come se non fossero previste alternative. La futura mamma, già psicologicamente molto provata dall’attesa del risultato, si sente dire che la scelta più egoistica, quella che rovinerà la vita del bambino con deficit e di tutta la famiglia, è quella di farlo nascere, una scelta molto più egoista rispetto all’interruzione di gravidanza. Ritengo che questa sia una mistificazione, una deformazione della realtà. Di certo non voglio arrogarmi la capacità di discernere il bene dal male meglio di nessun altro, né intendo giudicare le scelte di alcuno, sia chiaro. Comprendo bene la sofferenza che porta con sé un simile dilemma, qualunque sia la soluzione ad esso. Ma posso portare il mio esempio.
Io, fino a qualche giorno di vita, stavo benissimo. Un bambino sanissimo, qualsiasi diagnosi prenatale mi avrebbe definito perfetto. Poi, una breve malattia, i danni irreparabili, la tetraparesi spastica. La mia famiglia non ha potuto scegliere. Non ha potuto “sapere prima” cosa li aspettava. Certo, avrebbero poi potuto optare per l’istituto o chissà quale altra soluzione. Forse non hanno potuto manifestare il coraggio di una scelta, ma è chiaro che io voglio pensare che, in ogni caso, anche sapendo prima cosa li e ci aspettava, avrebbero scelto me. Me, che oggi sono quello che sono, con i miei limiti più “trasparenti” di altri, ma con tanti limiti che sono tipici anche delle persone cosiddette normali. Anzi, forse anche con qualche limite in meno, per certe cose. Voglio poter pensare che, nel bene o nel male, ho per lo meno “riempito” la vita dei miei genitori, di mia sorella, dei miei amici, delle persone che mi stanno accanto e che mi vogliono bene, pur con tutte le innegabili complicazioni del caso. Non voglio certo dire che la vita della mia famiglia sia stata facile… anche se mia mamma non ha mai dovuto preoccuparsi ad esempio delle uscite notturne in motorino o che facessi uso di droghe! Però, a parte le battute, esattamente come tutte le altre mamme, la mia ha dovuto preoccuparsi quando facevo tardi la sera con gli amici, quando sapeva che avevo bevuto un bicchiere di troppo in compagnia, quando sono andato veloce in macchina con qualche amico o ho fatto il bagno in mare subito dopo mangiato.
Purtroppo, o per fortuna, oggi siamo in grado di prevedere, o meglio di diagnosticare, precocemente un difetto genetico di nostro figlio, ma come possiamo giudicare cosa sia meglio per lui? Non possiamo prevedere cosa diventerà nostro figlio. Quanti figli, nell’arco della vita, si rivelano essere come i genitori li hanno sognati? Eppure, chi di noi penserebbe mai di sopprimere un figlio che non sia all’altezza delle nostre aspettative? Quanti figli “normodotati” deludono profondamente i genitori, prendendo cattive strade? Quanti, invece, in presenza di qualche deficit, si rivelano ben al di sopra delle aspettative che erano state riservate per loro alla nascita, rendendo fieri e orgogliosi i propri genitori?
Vi lascio riflettere sulle parole di Khalil Gibran: valgono per tutti i figli, “normali”, con deficit, con un cromosoma in più, con una abilità in meno.

“I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie della brama che la Vita ha di sé.
Essi non provengono da voi, ma per tramite vostro,
E benché stiano con voi non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore ma non i vostri pensieri,
Perché essi hanno i propri pensieri.
Potete alloggiare i loro corpi ma non le loro anime,
Perché le loro anime abitano nella casa del domani, che voi non potete visitare, neppure in sogno.
Potete sforzarvi d’essere simili a loro, ma non cercate di renderli simili a voi.
Perché la vita non procede a ritroso e non perde tempo con ieri.
Voi siete gli archi dai quali i vostri figli sono lanciati come frecce viventi.
L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero dell’infinito,
e con la Sua forza vi tende affinché le Sue frecce vadano rapide e lontane.
Fatevi tendere con gioia dalla mano dell’Arciere;
Perché se Egli ama la freccia che vola, ama ugualmente l’arco che sta saldo”.

Dov’è la vittoria?

Si sono da poco concluse le Olimpiadi e, da ancor meno, le Paralimpiadi. Le prime nascono dai Giochi Olimpici antichi, concepiti dai Greci come la massima forma di esibizione e di esaltazione del corpo, forte e perfetto, dell’atleta. Nelle gare, ogni partecipante cerca di superare gli altri ma anche se stesso, i propri limiti umani, cerca di correre sempre più veloce, polverizzando i record precedenti, che ormai si misurano nell’ordine dei centesimi di secondo, una porzione di tempo così infinitesimale che ci è difficile addirittura concepirla. Gli atleti dedicano infinite, costanti attenzioni a quei loro corpi perfetti, ne sono così ossessionati, a volte, da arrivare a gesti insani e sconsiderati come il doping, pur di spremere ogni possibilità di superare i propri limiti e primeggiare nella disciplina praticata. Il limite, non a caso, è un concetto assai ricorrente nello sport. La vittoria è un superamento di esso, prima che dell’avversario. I Greci raffiguravano i vincitori delle gare come delle divinità. Quest’estate ho seguito, come tutti, qualche gara, ammirato dalla potenza, dall’equilibrio e dal controllo di sé dei protagonisti. Poi, ci sono state le Paralimpiadi. Corpi imperfetti, mutilati, con limiti sensoriali, più o meno evidenti. Eppure, era visibile la stessa forza, la stessa determinazione e competizione. Lì, fra gli atleti paralimpici, i limiti si vedevano, eccome. Per questo, il paragone con le Olimpiadi è inevitabile e scontato. I limiti, in quanto umani, li hanno anche gli atleti normodotati. In alcuni casi, anche più evidenti: crampi, stiramenti, cadute, qualcuno che rimaneva indietro, durante le gare olimpiche, c’era sempre, manifestando i limiti della propria fisicità agli occhi del mondo. Nei Giochi Paralimpici, la prima cosa che mi è saltata agli occhi è stata che, nelle gare, sono ben in mostra anche i limiti del vincitore, non solo quelli dei vinti. Gli atleti sono più trasparenti, vincitori e vinti, ognuno deve superare almeno due limiti: il proprio, dovuto a qualche deficit, e quello, relativo, che lo sport e la competizione pongono davanti.
Ho istintivamente pensato a vari casi di atleti disabili che hanno, nel tempo, attirato la mia attenzione. Qualche anno fa ci fu il caso di Pistorius, oggi una vera e propria celebrità. Da bambino gli furono amputate entrambe le gambe, per una coraggiosa intuizione della mamma – ah, le mamme! – che capì che sarebbe stato meglio per lui non avere le gambe piuttosto che averle, ma solo come inutili appendici senza forza. Fu una scelta molto coraggiosa di una mamma che seppe mettere da parte le apparenze e la paura del deficit. Da allora, quel bambino lottò per superare quell’handicap, affinché diventasse addirittura un punto di forza, fino al punto che, all’inizio della carriera agonistica ad alti livelli, anni fa, gli venne impedito di partecipare alle Olimpiadi perché si diceva che le sue protesi di carbonio potessero avvantaggiarlo rispetto ai normodotati. Trovai già allora abbastanza paradossale il pensiero che un deficit così significativo potesse addirittura portare giovamento all’atleta. Se un atleta con un qualsiasi handicap compete con un atleta normodotato, nessuno dei due trarrà soddisfazione dall’avere affrontato la gara e, allo stesso tempo, i propri limiti. Anche l’atleta normodotato, sia che vinca, sia che venga sconfitto, non potrà che nutrire un sentimento ambivalente nei confronti della competizione con un avversario con deficit. È lo stesso motivo per cui io, fin da giovane, non sono mai stato particolarmente favorevole all’idea della classe mista, per lo meno nei primi anni di scuola, dal momento che, avendo frequentato scuole primarie speciali, io mi sono sempre sentito valorizzato nei miei talenti dal fatto di confrontarmi ad armi pari con i miei compagni, senza dovere, fin da subito, affrontare sia la sana competizione scolastica, sia la frustrazione dell’idea di partire, comunque, materialmente svantaggiato rispetto ai miei colleghi. D’altra parte, quando, in una competizione si vuole penalizzare un atleta o anche un’intera squadra per un’infrazione o una scorrettezza, si dice che essi partono con una penalità o con un handicap.
Un altro caso di atleti con deficit che questa estate è stato largamente diffuso, soprattutto sul web, è quello del bambino undicenne brasiliano senza piedi che è diventato un asso del calcio. Non credo sia un caso che il piccolo Gabriel abbia scelto di praticare proprio uno sport come il calcio, che è la massima espressione dell’abilità di giocare a pallone con i piedi. Ritengo che questa scelta manifesti il suo grande desiderio di superare il suo limite proprio nel campo in cui tale limite sarebbe stato particolarmente evidente, quasi a volere dimostrare che, facendo quello, avrebbe sicuramente potuto fare tutto. Per questo bambino, come emerge dalle interviste, ciò che conta non è la mancanza dei piedi, ma è il fatto di avere potuto giocare con la squadra del Barcelona. Il piccolo sembra quasi non percepire la straordinarietà dell’impresa che compie ogni giorno sul campo da calcio in relazione al proprio deficit. Chiaramente, per lui la cosa eclatante è il fatto di essere riuscito a giocare con la sua squadra del cuore, è questo è il limite che lui ha sempre mirato a superare, guardando oltre alla sua diversità di partenza. Un simile esempio dimostra che lo sport per le persone disabili può essere un obiettivo che dà senso almeno a una parte della loro vita, un modo per dire al mondo “posso fare tutto, persino questo!”. La competizione sportiva arriva a modificare la percezione di sé, in questo caso in senso totalmente positivo. Nello sport, normodotati e non si trovano davanti, fin da piccoli, fin dai primi passi in questo mondo, tanti ostacoli da superare, tanti limiti fisici e psicologici che, spesso, costituiscono vere e proprie barriere. Tutti, in una squadra, hanno dei limiti da superare, delle caratteristiche proprie, dei talenti unici e, per contro, cose che proprio non riescono a fare altrettanto bene rispetto a qualche compagno. Le “diverse abilità” accompagnano tutti gli sportivi, senza distinzione. Con esse, devono misurarsi fin da subito, più che in qualsiasi altro contesto. Per questo lo sport può essere davvero un terreno di crescita, di scambio e di confronto sano ed educativo per i ragazzi, abbiano essi deficit più o meno “trasparenti”.
Matteo Cavagnini, giocatore di basket in carrozzina, ha espresso benissimo, a mio avviso, questo pensiero sul superamento del limite tramite lo sport. A 14 anni, come tutti i ragazzini, si sentiva invincibile, invulnerabile. Un incidente in scooter gli “porta via” una gamba, per un adolescente si tratta di un trauma terribile da superare, ci mette due anni a risollevarsi. Poi scopre il basket in carrozzina. Lui potrebbe camminare con le stampelle o una protesi, avendo comunque una gamba sana. Ma, per poter giocare a basket, si siede sulla carrozzina, simbolo forse più emblematico e temuto della disabilità. Aggiungere un simbolo così forte alla propria disabilità avrebbe potuto scoraggiare chiunque, ma, per Cavagnini, si trattava di superare un limite grazie all’emblema del limite. Sedersi sulla carrozzina gli permette di riscoprire lo sport. “È proprio in quel momento, sedendomi sulla carrozzina per giocare, che ho accettato pienamente la mia disabilità”. Queste parole mi sono sembrate estremamente significative. La carrozzina, simbolo del deficit, diventa per qualcuno strumento di libertà e di riscatto. Credo che questa testimonianza valga più di qualsiasi spot per il superamento dell’handicap. Ciascuno di noi, sia che abbia deficit visibili, “trasparenti”, sia che abbia quelli meno trasparenti, legati alla natura umana, che sono propri di tutti, è chiamato ogni giorno a impegnarsi per trasformare a proprio vantaggio un limite in un punto di forza. Se saremo in grado di accettare quella carrozzina tanto temuta e, una volta sedutici sopra, di trasformarla nel nostro trampolino di lancio, allora avremo dato piena realizzazione alla nostra natura umana e la nostra sarà, sì, una vita felice.

Disabilità e adozione: scoperta e conquista

È di pochi giorni fa la notizia che la Corte d’Appello ha concesso l’adozione a una famiglia cui era stata negata in prima istanza dal Tribunale dei Minori, in quanto già genitori di un ragazzino disabile. Il tema dell’adozione è sempre molto delicato e riguarda la disabilità sotto molteplici punti di vista, nel caso siano disabili i genitori intenzionati ad adottare, il bambino da adottare o, come in questa circostanza, un fratello. Nel caso in questione, il Tribunale dei Minori aveva definito questi genitori “troppo vulnerabili”, perché completamente dedicati alle cure del figlio disabile. Dunque, secondo questa sentenza, i fratelli di disabili dovrebbero essere tutti soggetti infelici, trascurati, squilibrati. Ora, questo tema dei fratelli di disabili è diventato molto attuale, anche grazie ad “HP-Accaparlante”. Il tema è stato ben sviscerato e affrontato in maniera competente, seria e completa. Dunque, il mio intervento non vuole aggiungere nulla a tutto questo. Se non che, anche io, ho una sorella. Sana ed equilibrata, anche lei, come quasi sempre avviene, dopo la morte dei nostri genitori si è fatta carico della mia assistenza, seppure aiutata da assistenti domiciliari e amici. Tuttavia, chiaramente, lei mi aiuta a coordinare i rapporti con i miei operatori. Ha una sua famiglia e un lavoro, ma, fortunatamente, abita accanto a me. Come spesso succede, la malattia di mia mamma, seppure anziana, ci ha colti alla sprovvista, perché lei aveva quella forza d’animo e quell’energia che solo le mamme dei disabili possono trovare dentro di sé. Nostra madre, nonostante la malattia, ci sembrava immortale. Invece, infine, ci ha lasciati. Aveva sempre pensato lei a me in tutto e per tutto, con l’aiuto di un operatore e di tanti amici, perché, come avviene di frequente, i genitori di figli con handicap hanno l’idea, a ragione o a torto, che nessuno possa occuparsi meglio di loro del proprio figlio. Quindi, io e mia sorella, insieme, ci siamo trovati ad affrontare una ben pesante “eredità”. Il nostro rapporto è certamente cambiato, ma in meglio. Si è fatto più stretto, più confidenziale. Siamo più uniti e più affettuosi, anche se, talvolta, mia sorella mi confida di essere stanca, affaticata e, nei momenti più difficili, mi dice che, se avesse potuto scegliere, questa “eredità” l’avrebbe volentieri evitata. Mi racconta di come, da bambina e poi da ragazza, spesso si sia sentita trascurata e messa da parte da nostra madre che, al di là del carico della mia assistenza, era comunque una donna forte e dalla personalità ingombrante, dunque il rapporto madre e figlia, immagino, sarebbe stato ugualmente un po’ difficile, come solo fra donne sa essere. Ma fortunatamente per lei e anche per me nostro padre era molto presente in famiglia, anche se lavorava parecchio, e noi quattro eravamo uniti. Nonostante questo, nonostante i piccoli momenti di sconforto derivati dai tanti problemi quotidiani e dalla stanchezza, mia sorella è stata capace di rivoluzionare la sua vita per me, di modificare completamente la sua routine, di rendermi totalmente parte della sua famiglia. Si preoccupa per me esattamente come faceva mia madre, naturalmente con uno stile diverso. Ha imparato a fare cose che mai avrebbe immaginato di fare. D’altra parte, in qualsiasi famiglia il figlio maggiore si sente trascurato quando arriva un fratellino o una sorellina, che attira su di sé, inevitabilmente, la maggior parte delle attenzioni e delle cure dei genitori. Racconto tutto questo perché io e mia sorella siamo una ricchezza e un affetto insostituibile l’uno per l’altra. Ma, soprattutto per lei, le difficoltà della quotidianità sono tante. Dunque, pensare che a una famiglia sia stata negata l’adozione perché ha un figlio naturale disabile, mi fa sorgere molti dubbi. È un problema controverso. Certamente, non credo che i genitori del ragazzino disabile abbiano voluto adottare un bambino per trovare un futuro “badante” al loro figlio naturale. Questo mi sembra banale anche senza conoscere il caso specifico. Prima di tutto, come si suol dire, nessuno può sapere che figlio gli capita, anche se si parla di figli naturali. Non tutti i figli sono disposti, una volta cresciuti, a farsi carico del lavoro di cura della famiglia d’origine, sia che si parli di fratelli, sia che si parli degli stessi genitori, una volta anziani. Inoltre, può capitare che anche i ragazzini idonei all’adozione, soprattutto se non sono piccolissimi, abbiano a loro volta una serie di problemi, soprattutto psicologici e di adattamento. Dunque, un ragazzino adottato e uno disabile necessitano entrambi di attenzioni particolari. Qualche tempo fa, alla cronaca era balzato il caso, invece, di un genitore disabile a cui era stata negata l’adozione, nonostante il partner fosse assolutamente normodotato. Si trattava, peraltro, di una disabilità sensoriale, dunque che non inficiava così significativamente la capacità del genitore di assolvere appieno i suoi compiti. Tanto che, peraltro, sono tantissimi i genitori naturali che presentano lo stesso tipo di deficit. Pochi giorni fa, si è tenuta a Milano la Giornata delle Famiglie. Ad essa, ha aderito anche Ai.Bi. Amici dei Bambini, Associazione di ispirazione cattolica, il cui presidente ha preso una posizione molto decisa e, per così dire, audace, sul tema dell’adozione dei bambini disabili. Marco Griffini ha infatti dichiarato che “in assenza di famiglie adottanti, è giusto consentire ai minori con problemi di salute o handicap e a gruppi di fratelli, di essere adottati anche da persone single, com’è peraltro già previsto per l’adozione nazionale, e da adottanti con età superiore ai limiti stabiliti dalla legge vigente”. Una presa di posizione, questa di Ai.Bi., destinata a far molto discutere in ambito cattolico. Al “Family Day” ha provocato fermi rifiuti, ma anche caute aperture come quella di Carlo Casini, presidente del Movimento per la Vita. A noi non resta che raccogliere la sfida, perché credo che, riguardo a questo argomento, la voce delle stesse persone con disabilità, dei loro fratelli e genitori, sia la fonte più autorevole da cui partire per una riflessione approfondita, che non dimentichi di mettere sempre al primo posto il bene dei minori adottati o in attesa di esserlo. Una famiglia composta anche da un membro disabile può essere più aperta e più pronta ad accogliere le difficoltà di un bambino in adozione. Questa non è una regola generale che valga per tutti, ma è una possibilità collegata a tanti fattori. D’altra parte, che ci piaccia o no, la nostra vita dipende da tante casualità fortuite oltre che dalla nostra volontà e dalle nostre decisioni. Nessuno può scegliersi il padre e la madre così come nessuno può scegliersi il proprio figlio, è un dono del destino o, per chi crede, di Dio. Fortunatamente è ancora così, nonostante tutti i tentativi per programmare le caratteristiche e per evitare che nascano bambini con qualche problema. Questa sì che è una vera discriminazione. Così come l’eugenetica e la possibilità di scegliere le caratteristiche estetiche del proprio figlio sembrano un’aberrazione degna di Frankenstein o, più tristemente, di Hitler, altrettanto sarebbe terribile poter scegliere “sul catalogo” un figlio adottivo. Distinguere l’adozione di un bambino disabile o meno, già di per sé dovrebbe aprire qualche questione morale. Per questo, considerare motivo ostativo la presenza pregressa di un figlio naturale portatore di deficit significa quantomeno sottovalutare le capacità sia dei genitori, sia di entrambi i bambini interessati. Certamente, la procedura che porta all’adozione è lunga e complessa, dunque i casi specifici vengono valutati singolarmente, alla luce delle loro peculiarità. Tuttavia, dovendo esprimere un giudizio generale, credo che il deficit di per sé non debba mai essere motivo di limitazione di tutta una serie di azioni che non vengono negate a famiglie in cui l’handicap non è presente. Anche perché la disabilità, purtroppo, può sempre sopraggiungere in un secondo momento per qualche membro della famiglia, e a quel punto non si potrebbe certo revocare l’adozione. Credo, pertanto, che i motivi per cui una famiglia possa essere ritenuta “non idonea” debbano essere altri, ma comunque è giusto valutare caso per caso, come, difatti, la nostra legislazione prevede che avvenga. Il destino o la Provvidenza devono fare il proprio corso. L’uomo deve darsi delle regole ma non può pretendere di prevedere le vicende e di scegliere tutto, anche perché i bambini devono portare meraviglia che nasce dallo stupore.

Disabile? Che scandalo!

Ancora una volta lo spunto di riflessione mi viene suggerito da un fatto di cronaca. “Non vorrei mai che mio figlio vedesse bambini handicappati, potrebbe rimanere traumatizzato”, questo avrebbe detto una mamma, giornalista, ad alcuni colleghi, parlando del figlio che frequenta l’asilo nido. Sì, l’asilo nido: nell’età, dunque, in cui si è vere e proprie “spugne”, che raccolgono tutte le informazioni e gli stimoli nuovi che provengono dal mondo circostante. Quella dovrebbe essere l’età migliore per imparare la convivenza col “diverso”, per farlo divenire “normale”. Nel modo più naturale che esiste, ovvero nel processo di apprendimento del mondo circostante di un bambino piccolo. Io stesso vedo come i figli dei miei amici, in mia presenza, si divertano in modo del tutto spontaneo ad arrampicarsi sulla mia carrozzina, sulle ruote, non mostrando il minimo stupore o imbarazzo per la mia “trasparente diversità”, anzi, comportandosi con una tale spontaneità che conferma le teorie rousseauiane del “buon fanciullo”. Questi bambini percepiscono la diversità come una semplice caratteristica, senza darne un giudizio di valore. Solo col tempo, la vita in una società che ne condiziona il giudizio li porta a formulare categorie differenti, che li conducono a una classificazione più superficiale di categorie diverse di individui. Non credo che, in questo caso, si tratti della volontà di una madre di risparmiare traumi al figlio. Sono paure profonde, dovute, come lo sono molte paure immotivate, all’ignoranza. Questa mamma tenta di esorcizzare qualcosa che teme, probabilmente perché non lo conosce. Ritengo che si possa definire una forma di vergogna alla Sartre. In una società che ci impone il falso mito della perfezione, estetica e non solo, l’uomo non si scontra più solo con la propria coscienza, ma con una forma di coscienza collettiva. È il confronto con uno stereotipo artificiale che ci causa timore, senso di inadeguatezza, paura per tutto ciò che si discosta dal canone socialmente riconosciuto. La vergogna di sé e del prossimo può essere costruttiva se giustificata da un comportamento che si scontra con la nostra coscienza, che è quella che governa il nostro agire retto. Certamente, per non farci fuorviare, la coscienza deve essere correttamente istruita, altrimenti diviene un metro di giudizio dell’azione completamente falsato. Ma se la coscienza è retta, essa giudica per il meglio. Quando, invece, la nostra coscienza incontra il giudizio altrui, se è debole e poco allenata al giudizio proprio, si fa fuorviare da una serie di timori. Come dice Sartre, l’Altro irrompe con forza offuscando l’orizzonte libero dell’Io, della coscienza riflessiva. “Con l’apparizione di altri, sono posto in condizione di portare un giudizio su me stesso come su un oggetto, perché come oggetto mi manifesto ad altri”. La vergogna per Sartre è dunque riconoscimento: “Io riconosco di essere come altri mi vede”. Guardando con gli occhi di un bambino, invece, capiremmo davvero come la diversità non sia percepita come un limite dall’uomo, per sua natura. La diversità è quanto di più innato possa esserci: se pensiamo alla natura, vediamo come la biodiversità sia stato l’elemento che ha garantito cibo ed energia in tante zone della Terra, permettendo di salvaguardare specie vegetali e animali che, altrimenti, l’appiattimento genetico avrebbe reso deboli e portato all’estinzione. Anche il linguaggio che, pian piano, i bambini apprendono, favorisce il definirsi del concetto di diversità. Infatti, un linguaggio diverso è espressione anche di una diversa visione della vita. Nella Bibbia, per dire che Adamo riceve da Dio il dominio sulle altre creature terrestri, si legge: “Dio, il Signore, avendo formato dalla terra tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo, li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati, e perché ogni essere vivente portasse il nome che l’uomo gli avrebbe dato. L’uomo diede dei nomi a tutto il bestiame, agli uccelli del cielo e ad ogni animale dei campi; ma per l’uomo non si trovò un aiuto che fosse adatto a lui” (Genesi 2:20-21). Anche nell’antica Grecia il nome aveva un significato particolare. Nominare le cose significava dare ordine al mondo, conoscere le cose, classificare i concetti. Le divinità si potevano invocare solo se se ne conosceva il vero nome. Nell’Antico Testamento Dio non è nominabile, proprio perché non è conoscibile, l’uomo non può “farlo suo”. Gesù cambia il nome di Simone in Pietro, quando questi diviene suo Apostolo. Ancora oggi, anche in alcune zone d’Italia, si usa chiamare le persone con un nome che non è lo stesso di quello registrato all’anagrafe, per “ingannare” gli spiriti malvagi, invidiosi della felicità umana. Dunque, quando un bambino impara il nome che viene comunemente dato alla disabilità, allora ne percepisce l’esistenza. Finché non gli si impone un nome per definire la diversità, anche se percepita, il fanciullo non la considera comunque come qualcosa di anomalo. Anche perché, nei termini generici di “disabilità” e di “handicap” c’è un mondo intero di diversità. Raramente una disabilità viene chiamata col suo nome, proprio perché, appunto, non la si conosce. Si generalizza, segno di grande superficialità nell’approccio. Ogni persona è diversa, ma lo è anche ogni disabile: nessuno ha le stesse caratteristiche di un altro, sia esso “normodotato” o affetto da handicap. Dunque, che radici ha lo “scandalo” visto da questa mamma? Skàndalon significa ostacolo, inciampo. Per questa mamma l’handicap del compagno di asilo del figlio costituiva evidentemente un ostacolo morale. Nell’antica Roma, la pietra dello scandalo si trovava di fronte alla porta maggiore del Campidoglio. Dovevano sedercisi sopra coloro che avevano contratto dei debiti e non erano in grado di onorarli, dunque dovevano cedere tutti i loro beni ai creditori. Fatta questa pubblica ammenda, la colpa era ritenuta estinta e dal quel momento i creditori non potevano più rivalersi su di loro. Fu Giulio Cesare, si dice, a introdurre questo tipo di pena per sostituire una delle Leggi delle XII tavole che autorizzava i creditori a uccidere o ridurre in schiavitù il debitore. La carrozzina è come la pietra dello scandalo: l’handicap, in tutta la sua trasparenza, denuncia senza falsità e omissioni una condizione, una debolezza umana. Le persone “normali” hanno limiti talvolta ben più gravi, ma quasi sempre meno evidenti. Non siedono sulla pietra dello scandalo, dunque i loro limiti passano inosservati. Ma non per questo essi sono sanati: se non hanno nome, significa che non sono noti, non che non esistono. Dunque sarebbe opportuno che, fin da piccoli, i bambini si rendessero conto che ciò che più si teme è ciò che non si conosce, non ciò che è sotto gli occhi di tutti: chi non si nasconde ha in sé tutta la forza della schiettezza, dunque non può fare paura. I genitori che tentano di nascondere tutto ciò ai figli, questi sì, fanno paura.

Diversamente felici

“Ma ho visto anche degli zingari felici corrersi dietro, far l’amore e rotolarsi per terra. Ho visto anche degli zingari felici in piazza Maggiore a ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra”. Così cantava negli anni Settanta il mio concittadino Claudio Lolli, cantautore malinconico e controcorrente. Allora come oggi non era facile parlare di certi temi, di minoranze, del diverso, non era semplice contrastare i tanti luoghi comuni e i tanti pregiudizi di cui era (ed è) intrisa la nostra società. È stata una lettura recente a riportarmi alla mente questa canzone. Sono venuto a conoscenza di un sondaggio che spiegava come – e queste cose fanno sempre notizia! – alla domanda “Sei felice?” avesse risposto in modo affermativo una percentuale maggiore di persone disabili rispetto a chi non lo era. Sinceramente, la “notizia” non ha destato in me grande stupore. Io lo dico sempre, a tutti: agli amici, ai convegni, ai miei familiari. Io sono soddisfatto della mia vita, quante altre persone cosiddette normali possono dire lo stesso? La domanda del sondaggio era del tutto mal posta. Insomma, perché fare distinzione fra persone diversamente abili e non? La felicità è quanto di più soggettivo esista. Non ha relazione con l’essere disabile o non esserlo. Non spenderò parole di circostanza per dire che una persona con handicap impara ad apprezzare di più le piccole cose, che è felice perché si accontenta di quel poco che ha, che non ha magari le stesse ambizioni di un normodotato, non vive la stessa competitività, lo stesso stress, ma vive in un mondo quasi ovattato, in cui familiari e amici lo tengono protetto come in una bolla di vetro, ecc. Queste banalità non meritano di essere commentate. Non posso negare che avere qualche deficit sia una complicazione all’esistenza: la propria e, quasi sempre, quella della famiglia intera. Tuttavia, una complicazione non significa infelicità costante. Il parametro della felicità si calcola su una base di partenza. Se una persona affronta più difficoltà di un’altra nella vita di tutti i giorni, chiaramente avrà parametri differenti per valutare il proprio grado di felicità. Mi rendo conto che se qualunque altra persona un giorno fosse improvvisamente catapultata al mio posto, sulla mia carrozzina, dipendente da altri in tutto e per tutto, almeno inizialmente sarebbe disperata. La sua valutazione dello status di felicità sarebbe fortemente condizionata dalla considerazione di ciò che ha perso, e questo non permetterebbe di valutare altrettanto obiettivamente quello che, invece, può avere guadagnato. Però, se ripensasse alla sua vita di prima, quanti sarebbero i momenti di vera felicità che potrebbe ricordare? O meglio, in quanti e quali istanti della sua vita di prima si è percepito felice? Forse, a posteriori, dalla carrozzina, si sarebbe reso conto di una felicità precedente che prima, probabilmente, non percepiva nemmeno. Quello che bisogna tenere sempre presente, facendo queste considerazioni, è che la condizione di disabilità non esaurisce la definizione, l’essenza di un individuo. Io non sono il mio handicap. Quindi, io posso essere più o meno felice con la medesima probabilità statistica di una persona priva di deficit. Nessuno di noi riconosce la felicità nella stessa cosa. Non si tratta di negare una disabilità, un problema, una mancanza, una difficoltà. È il fatto di affrontare tutto questo nel modo giusto che discrimina la serenità o la mancanza di essa in un individuo. Se il contesto in cui vivo mi penalizza, io sarò infelice, sia che succeda perché ho un deficit, sia che succeda perché, semplicemente, non mi viene data la possibilità di esprimere appieno i miei talenti e le mie, appunto, diverse abilità. Se queste ultime vengono valorizzate, chiunque si sentirà un individuo realizzato. Sarebbe assurdo negare la sofferenza che accompagna la vita di una persona malata, o con deficit gravi, penalizzanti. Sarebbe totalmente insensato pensare che sia la felicità a caratterizzare un’esistenza. È quasi sempre il dolore che ci dà la misura di chi siamo, della nostra vita. Solo conoscendo il dolore, i nostri limiti, possiamo conoscere la felicità. Io credo che sia una sensazione che si percepisce per contrasto: solo provando il dolore si può percepire quando, invece, si è felici. Non bisogna però permettere nemmeno che sia la sofferenza ad avere la meglio su ciò che siamo. Non è facile essere handicappati, no. E non può nemmeno essere una simile limitazione il senso del trovare più facilmente la felicità delle piccole cose. Io, in questo, sono sempre stato un “rivoluzionario della disabilità”. Essere portatori di deficit significa essere più “trasparenti”, come dico sempre. Significa non poter nascondere agli occhi degli altri i propri limiti, limiti che hanno anche le persone “normali”, ma che in esse si nascondono più facilmente. Avere dei limiti più “evidenti” significa anche essere costretti ad ammetterli, a conviverci, dunque a tentare in ogni modo di superarli accettandoli e di essere risoluti e ottimisti nel farlo. Forse quel tipo di felicità “speciale” delle persone con deficit è tutta qui, nella “trasparenza”. Perché è inutile, ad esempio, dannarsi l’esistenza nel tentativo vano di nascondere dei limiti che sono sotto gli occhi di tutti, mentre la gran parte delle persone normodotate passano la loro vita a provare a dissimulare le proprie mancanze, fisiche, estetiche, morali, intellettuali. Quando sai di non poter “barare” sei portato ad accettare quello che sei e a valorizzare le diverse abilità che possiedi. È questo essere così risoluti e consapevoli come individui che dà la misura della felicità speciale che nasce dalla condizione di deficit. La felicità non sta nel non avere mai dolori, ma nel modo in cui li si affronta e, si spera, li si supera. Aristotele, alla fine del suo più famoso trattato di etica, si pone proprio la domanda cruciale di tutta la storia dell’umanità. Qual è lo scopo della vita di qualsiasi persona? La felicità. E cos’è, secondo lo Stagirita, la felicità? La vita vissuta secondo ragione. “Ciò che per natura è proprio di ciascun essere, è per lui la cosa più buona e più piacevole; e per l’uomo questa cosa sarà la vita secondo l’intelletto. Questa vita sarà la più felice”. Ipse dixit, ma… quanti dei miei lettori, invece, staranno pensando di essere stati più felici quando, nella loro vita, hanno compiuto scelte istintive, di cuore, invece che di ragione? La Dichiarazione d’Indipendenza degli USA del 1776 contiene il “diritto alla ricerca della felicità”. Non è il diritto alla felicità, perché, quella, non ce la può garantire nessuno. Il diritto è alla ricerca di essa. Anche questa affermazione può essere interpretata in vari modi. C’è chi esercita questo diritto in maniera spregiudicata, chi lo ritiene limitato solo dal principio del neminem laedere, chi la ricerca in hinteriore homine, chi nel perseguire in modo sfrenato i piaceri della carne. Già i filosofi antichi non riuscivano a trovare un accordo su cosa fosse la felicità. Per Socrate essa si trovava nell’esercizio della virtù e della filosofia, per Aristotele nel pieno esercizio della propria natura razionale, per Epicuro si identificava col piacere, per gli Stoici con l’assenza di qualsivoglia turbamento, fisico e morale. In generale, la filosofia greca delle origini identificava la felicità con i piaceri terreni: addirittura, ritenevano che gli dèi potessero essere invidiosi della felicità degli uomini, per questo inviavano loro dal cielo dolorose punizioni. I Greci esorcizzavano la paura del dolore mettendo in scena le famose tragedie, quasi avessero paura di sentirsi felici. Eraclito per primo osservò saggiamente che, se la felicità consisteva in un qualche bene materiale, anche i buoi avrebbero potuto dirsi felici. Io, come Aristotele, ritengo che ci sia molto di razionale, o almeno di ragionevole, nella felicità. Sto parlando di quella vera, di quella duratura, non del piacere effimero, che può essere anche semplicemente fisico ed istintivo. Anche la religione cattolica ha come suprema promessa quella della felicità eterna, quella che non ha fine e che compensa qualunque tipo di sofferenza terrena, quella che si risolve nella presenza piena di Dio e nella comunione finale e totale con Lui, quella che non ha nulla di umano ma che ci rende partecipe del divino, quella che ricompensa una vita buona e giusta e che, probabilmente, attraverso la Grazia raggiunge anche chi, ai nostri occhi umani, non se la sarebbe “meritata”, perché la felicità eterna è un dono, è, appunto, una “grazia”, cioè è “gratis”. Ma l’insegnamento più grande che pervade il cattolicesimo è che la felicità è data dall’amore, in qualunque forma esso si declini. Se non si ama il prossimo, non si può essere felici, ma nemmeno se non si ama se stessi. Questo insegnamento ha un grande valore per l’uomo, al di là della “religione dell’amore” che veicola il messaggio: l’uomo, infatti, è sì una creatura razionale, ma è anche un “animale sociale”: se non ama se stesso e gli altri uomini non sarà mai felice, perché nessuno basta a se stesso. Né io, seduto sulla mia carrozzina, che da solo non posso fare proprio nulla, né nessun altro, che forse non dipende da alcuno per le mansioni pratiche della vita quotidiana, ma che dipende dal resto dell’umanità in quanto uomo. “La vera felicità è condivisa”, scrisse alla fine del suo diario Christofer McCandless, protagonista del film (tratto da una storia vera) Into the Wild. Egli, dopo essere vissuto in totale isolamento nelle terre selvagge per mesi, alla fine della sua troppo breve esistenza, morendo solo in mezzo alla natura, tradito dalla stessa natura che aveva disperatamente inseguito, lontano da quella società da cui era fuggito con repulsione, arriva alla conclusione più tragica dei suoi 24 anni: la felicità vera è condivisa. A proposito, è un film che vi consiglio.    

A mali estremi, nessun estremo rimedio

“Vi è solamente un problema filosofico veramente serio, quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto – se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie – viene dopo. Questi sono giochi: prima bisogna rispondere”. (Albert Camus, Il mito di Sisifo, Milano, Bompiani, 2001)

Da filosofo, le parole di Camus mi toccano molto. Mi sono tornate in mente leggendo del suicidio del grande regista Mario Monicelli. Persino a lui, a un certo punto, la vita non è sembrata più degna di essere vissuta. Eppure, dalla vita ha avuto tutto: fama, successo, una bella famiglia, la possibilità di esprimere il proprio talento e di eccellere in esso, che è quel tipo di realizzazione personale cui ogni uomo aspira. Questa notizia è arrivata nel momento in cui la televisione, che ora ha centinaia di canali digitali da riempire di nulla, non sapendo più cosa proporre di nuovo, punta sulla sicurezza di ascolti data dai “fenomeni da baraccone”. Uso questo termine volutamente forte non perché io pensi che le persone sopra citate siano veramente dei “mostri”, seppure nel senso latino del termine, ma perché la falsa pietà o, ancora peggio, la falsa maschera scientifica con cui si affrontano questi temi rende ancora di più questi individui degni della mia com-passione (e anche in questo caso il termine è usato in senso letterale). Primo canale satellitare: si parla di gemelle siamesi, attaccate dalla nascita in modo assai invalidante. Secondo canale: la storia di un giovane che vive senza la parte inferiore del corpo. Terzo canale: malattie devastanti deturpano l’aspetto di giovani fanciulle in fiore. Lo spettatore medio guada con insana curiosità – e anche un certo disgusto – questi strani individui. Non pensa che siano persone in tutto e per tutto: la curiosità per la stranezza della natura fa accantonare nella mente di chi guarda il pensiero della condivisione della stessa umanità con queste persone. Al mio occhio di spettatore con deficit, invece, non sfugge l’aspetto più nascosto dell’animo di questi individui. Seppure diversi, seppure talvolta costretti a esibire la propria deformità in cambio di un compenso, guardano l’obiettivo della macchina da presa a testa alta. Sono consapevoli della propria diversità, ma sono fieri di essere le persone che sono. Hanno una vita difficile, ma proprio per questo sono più abituati a lottare. Le difficoltà della vita non spaventano chi è avvezzo dalla nascita alla lotta per l’auto-affermazione. Queste persone si esibiscono anche per essere di esempio agli altri, perché sanno che la loro vita è degna di essere vissuta e vogliono ricordarlo anche a chi, dalla vita, ha avuto tutto, pertanto si abbatte alla prima difficoltà. Certo, il suicidio è un atto disperato, almeno nella cultura occidentale. Oggi, persino la Chiesa concede i funerali religiosi ai suicidi, perché di questo gesto ha pietà, non vi legge un rifiuto o un segno di dispregio alla vita, ma un’azione disperata di chi ha la coscienza alterata. Io non dispenso giudizi morali, non è nemmeno questa la sede appropriata, ma il suicidio di Monicelli mi ha colpito per vari motivi. Egli non era un “artista maledetto”, un giovane tormentato da pene d’amore, una coscienza alterata da abusi e dipendenze, uno sconfitto dalla vita, un povero, un derelitto, un perdente. Era un uomo di successo, uno di quelli che hanno avuto tutto dalla vita. Era sempre stato sereno, dicono i famigliari. Poi, alla soglia del secolo di vita, una malattia. Non troppo grave, non troppo aggressiva, di quelle che a oltre 90 anni concedono una certa serenità per gli ultimi anni di vita. Però, è una malattia. Un cedimento, un’imperfezione, un piccolo ostacolo in una esistenza di quelle da metterci la firma per averla uguale. Ecco, allora, la scorciatoia per non soffrire: una finestra aperta, la capacità a quasi 100 anni di scavalcare agilmente un alto parapetto. La via più breve, quella che pone fine a sofferenze appena iniziate. Ecco, Monicelli non ha la mia com-passione. Chi, come me, non è in grado di scavalcarla da solo quella balaustra, spesso rende qualcun altro complice di questo delitto contro il grande dono della vita. Questo è il suicidio assistito, questa è la scelta dell’eutanasia. Rendere altri complici del proprio suicidio è un atto ancora più egoistico del suicidio stesso. Nella cultura orientale, il suicidio ha un alto valore di onore, di lealtà che, condivisibile o meno, non ha niente a che vedere con la viltà del non voler affrontare le sofferenze della vita e le debolezze della nostra natura umana. Tutti siamo spaventati dalla malattia, dal dolore, fisico e spirituale. Se un giovane Werther si uccide, la consapevolezza del suo alterato stato di coscienza mi rende assai compassionevole nei suoi confronti, tuttavia rimane quella rabbia di fondo per chi ha scelto la via più breve verso la tranquillità dell’anima. Da quando sono nato (e non per questo la mia condizione di deficit è per me più facile da accettare, come molti sarebbero portati a credere!) convivo con la mia diversità, col giudizio degli altri, con gli sguardi compassionevoli, con le umiliazioni, con la dipendenza da tutto e da tutti, con la totale non autosufficienza. A queste, si aggiungono le sofferenze comuni a qualsiasi persona: le malattie, la perdita dei genitori, le difficoltà quotidiane che sono tali per tutti, deficit o meno. Eppure, non un solo giorno ho pensato che la mia vita non fosse degna di essere vissuta così com’è. Come scriveva Spinoza, quando l’uomo libero pensa alla morte, la sua è una meditazione sulla vita. Nonostante la carrozzina che mi tiene ben ancorato a terra, io sono un uomo libero. La mia libertà mi è data dal pensiero, dall’intelletto, dal libero arbitrio. Ogni uomo ha la sua libertà, anche quando è in catene. Tuttavia, la libertà di autodeterminarsi non passa per la decisione sulla propria vita o sulla propria morte. Quando uno sceglie di togliersi la vita non è mai libero. Non è un atto della libertà ma della schiavitù: il timore della sofferenza, della malattia, la paura, il dolore ci rendono schiavi. Nessuno di noi è stato libero di scegliere se venire al mondo: questo significa che non possiamo autodeterminare la nostra esistenza. La compassione nei confronti di chi agisce contro la propria vita è umana e naturale, ma la condivisione non lo è.

Non si deve “prevenire” la vita dei figli

Con l’anno nuovo arriva dall’America la prima notizia sconvolgente: la piccola Ashley, 9 anni anagrafici ma il cervello di una neonata a causa di una grave lesione cerebrale chiamata “encefalite statica”, è stata condannata dai genitori a rimanere per sempre nel corpo di una bambina di sei anni. Proprio così: cervello di neonata, età anagrafica in costante, normale crescita, corpo di una bambina di 6 anni di vita, sospesa per sempre tra l’infanzia e la pubertà, per scelta di genitori e medici che hanno deciso di congelare il suo orologio biologico all’età di sei anni, anche se, essendo perfettamente sana dal punto di vista fisico, dovesse vivere fino a cent’anni. Il padre e la madre l’hanno soprannominata “the Pillow Angel”, l’angelo del cuscino, perché sta dove la metti, letteralmente. Nonostante questo, quando si manifestarono i segni della pubertà imminente, i genitori, in accordo con i medici nello stato di Washington decisero di bloccare il progresso fisico della loro figlia con interventi chirurgici (le hanno tolto genitali, seno, appendice) e con terapie di estrogeni perché non si sviluppasse oltre l’età fisica che aveva raggiunto e perché rimanesse per sempre bambina nel corpo, oltre che nella mente. Questa rivoluzionaria “terapia” ha preso il nome di “Ashley treatment”. I genitori hanno addirittura aperto un blog, in cui raccontano dettagliatamente gli aspetti tecnici e le motivazioni che li hanno portati a elaborare questo trattamento insieme ai medici, e giustificano la loro scelta sostenendo che un corpo leggero e maneggevole sarebbe stato solo un vantaggio per la bambina. Infatti, è più facile gestire un corpo di un metro e trenta per trenta chili di peso, piuttosto che il corpo di una donna adulta. I genitori hanno addotto come motivazioni non la loro comodità nell’assistenza, ma il fatto che un seno abbondante avrebbe potuto essere un ingombro, causare piaghe, attirare malintenzionati nel caso in cui Ashley fosse stata ricoverata in una struttura (sic!), il ciclo avrebbe causato dolori e disagi. L’appendice, addirittura, è stata asportata perché, se si fosse infiammata e quindi avesse prodotto dolori alla bambina, i genitori non se ne sarebbero accorti dal momento che Ashley non è in grado di parlare. In realtà, nel sito i genitori insistono sul fatto che Ashley è vigile come lo può essere un neonato, sorride quando è serena e quando ascolta la musica, specie quella di Andrea Bocelli, o quando è circondata dai fratellini o altri coetanei. Dunque, perché mai i genitori non avrebbero dovuto capire se la bambina fosse stata male? Inoltre, i genitori affermano che il seno l’avrebbe caratterizzata sessualmente, rendendola facile preda di malintenzionati: ma i genitori avrebbero vigilato così poco su di lei da permettere che questo accadesse? E, anche se fosse stata ricoverata in una struttura, un welfare all’avanguardia come quello degli USA avrebbe permesso una cosa simile? I genitori sono professionisti benestanti, l’avrebbero mai ricoverata in una struttura dove potessero accadere tali episodi? Inoltre, con i tempi che corrono, come ci insegna la cronaca, a certi pericoli sono quasi più esposti i bambini che gli adulti!
Scrive il padre: “Lasciarla diventare una donna adulta non avrebbe fatto null’altro che esporla a dolori e indegnità senza scopo”. Ma si può definire un’indegnità crescere normalmente almeno nel corpo, anche se la mente non lo può fare? È indegno che la natura faccia il suo corso? Ed è giusto negarle totalmente e definitivamente la possibilità di un futuro normale? Quello che viene definito “il suo bene” non è un bene oggettivo, lo hanno deciso i genitori: questo va contro il principio della dignità della persona umana, specie se a causa di un deficit la persona interessata non può dire la sua. Anche se ormai sappiamo che chi non si può esprimere a parole, quasi sempre trova altri mezzi di comunicazione col mondo esterno.
Anche in Italia da tempo ormai assistiamo a episodi in cui il corpo viene usato come arma di ricatto: si pensi al caso Welby, o agli scioperi “politici” della fame e della sete. Tutto ciò toglie dignità alla persona, stravolgono il ciclo naturale della vita, spesso per una strumentalizzazione di chi sta intorno a queste persone e pensa di poter gestire il corpo degli altri, addirittura intervenendo chirurgicamente o inducendo la morte. La cosa preoccupante è il fatto che esistono addirittura casi forse più gravi, come quelli legati al protocollo di Groningen, in Olanda, che prevede, nei casi di serie malformazioni e disabilità, che i piccoli che hanno meno di 12 anni possano essere sottoposti a eutanasia.
A proposito del caso Ashley, in tanti hanno espresso la loro opinione. Significative sono state le parole della signora Cometto, madre di una ragazza trentatreenne affetta da una grave encefalopatia che non la fa parlare, camminare, alimentare da sola, né rendersi conto di quel che le succede intorno. “Eppure”, dice la madre, “neanche per un momento in questi anni, seppure la vita mia e di mio marito certo non è stata facile, ho pensato di ‘alleggerirmi’ facendo danno a lei. Perché di questo si tratta nel caso di questi genitori: per ‘comodità’ di gestione, per alleviare i disagi che la crescita avrebbe apportato, hanno stravolto il ciclo naturale della vita di questa creatura, che meritava di crescere comunque, nel suo modo particolare e diverso. Mia figlia spesso ha dato segni di disagio. La riposta è stata affrontare la situazione e trovare soluzioni di volta in volta. Se non sorride so che per mia figlia c’è qualcosa che non va. Se lo fa, invece, so che sta bene. Certamente ha delle esigenze in più, e per questo abbiamo cercato di costruire la nostra vita insieme a lei, per lei. Questi genitori, invece, hanno ‘adeguato’ la loro figlia alle loro esigenze, e non viceversa. Occorre rispetto e dignità per ogni essere umano, che abbia o no una disabilità intellettiva. Purtroppo questo tipo di disabilità nella nostra società è ritenuta, ancora oggi, meno degna di attenzioni. Nessuno si sceglie la vita che ha, ma una volta che c’è la vita va rispettata. Mia figlia sta bene fisicamente perché la curiamo. È amata. Ho visto persone più sane di lei molto più infelici. Lei è capace di sorridere. E se lei non ci fosse stata, nemmeno io avrei potuto capire e imparare tutto quello che so: ho imparato ad apprezzare la vita, a condividere le difficoltà con gli altri. Guardando lei ho imparato a capire con più profondità le persone che ho intorno. La vita è dignitosa se ci viene consentito di renderla tale”.
Come afferma la signora Cometto, quasi sempre è proprio la famiglia a fare la differenza per una persona disabile. Certo, si rischia che le famiglie si isolino, e i genitori pensino di essere gli unici in grado di accudire al meglio il proprio figlio, senza pensare al “dopo di noi”. In questo entra in gioco l’assistenza pubblica, che dovrebbe garantire le migliori condizioni di vita possibili a tutti, indipendentemente dai deficit che si possono avere.
Ognuno ha diritto al suo corpo, i genitori che hanno trattato così il corpo della figlia non hanno rispettato questo diritto fondamentale della persona umana, che è insieme anima e corpo. La famiglia di Ashley è istruita e benestante, in America c’è uno stato sociale ben organizzato, ci sono operatori e assistenti sociali, i genitori difficilmente, in questi casi, sono lasciati soli a occuparsi dei figli. Sembra dunque puro egoismo, una forma di difesa. Bisogna riconoscere che è anche questione di mentalità, e di trovare le persone giuste di cui fidarsi per l’aiuto nell’assistenza del familiare disabile. I genitori di Ashley hanno avuto paura che, essendo comunque una futura donna indifesa, e dovendola prima o poi lasciare sola su questa terra, qualcuno avrebbe potuto approfittarsi di lei, o non essere in grado di assisterla tanto amorevolmente e attentamente quanto loro. Ciò dipende però in gran parte dai genitori stessi, che devono scegliere gli aiuti e i collaboratori giusti fin da subito, persone di cui potersi fidare. Spesso i genitori pensano di essere gli unici che conoscono le esigenze dei figli, dunque gli unici che li possono curare in maniera adeguata. Come dicevamo poco sopra, entra in gioco la questione del “dopo di noi”, e del fatto che spesso i disabili vengono tenuti in casa quasi senza rapporti sociali al di fuori della famiglia, perché in famiglia, pur in buona fede, pensano di proteggerli dal mondo. Invece questo atteggiamento spesso è controproducente. Nel caso particolare, poi, questa sorta di gabbia protettiva della famiglia si scontra con la mentalità diffusa in America, per cui i genitori non vedono l’ora che i figli, appena maggiorenni, escano di casa, perché per tale società è normale che ciò avvenga ed è segno di maturità. Se i figli che studiano al College o lavorano non si rendono indipendenti dalla famiglia, gli americani sono portati a credere che qualcosa non vada in loro.
Inoltre, anche per i genitori di figli cosiddetti “normali” è impossibile pensare di prevenire tutti i pericoli cui, vivendo, sono esposti. Seguendo questo esempio, si potrebbe arrivare a far sterilizzare figli dai comportamenti a rischio o troppo libertini, o pensare di togliere organi nella possibilità che questi possano ammalarsi. Nessun genitore avrà mai il controllo totale sulla vita del figlio, nessuno può evitare che ognuno faccia le proprie, peraltro utili, esperienze di vita ma soprattutto nessuno può prevenire il cancro o altre malattie in cui i propri figli potrebbero malauguratamente incorrere. Non si può “prevenire” la vita dei figli. Evitare che questi facciano esperienze, a costo di dover poi rimediare a qualche loro errore, significa renderli adulti fragili e irresponsabili, così come prevenire ogni banale influenza non permette ai figli di rafforzare il proprio sistema immunitario. I genitori esageratamente protettivi non solo non lasciano i figli liberi di vivere, ma sono loro stessi a non vivere. Il caso Ashley ci mostra come, talvolta, dietro questa iperprotezione dei genitori si nasconda un certo egoismo di fondo, che in questo caso estremo ha negato la possibilità di una vita normale, almeno nello sviluppo fisico, a una bambina a cui non sono stati tolti solo degli organi, ma con essi anche la sua dignità di futura giovane donna.
 

Il mito del “buon disabile”

Al di là dei frequenti episodi di bullismo delle cronache recenti, parallelamente, e forse per reazione, va alimentandosi una visione falsamente buonista dell’handicap, che finisce spesso col rivelarsi deleteria per le persone con deficit.
Per esempio nel cinema capita spesso di osservare questa percezione piuttosto edulcorata. Facendo una piccola ricerca su internet, si nota subito la quantità di titoli che vedono fra i protagonisti soggetti con qualche disabilità, soprattutto sensoriale o psichica. Ma poche sono le commedie che trattano questo argomento, i più sono film drammatici che insistono sulle condizioni di svantaggio dei soggetti disabili e sulle difficoltà che la loro debolezza comporta. Come nel Settecento esisteva il “mito del buon selvaggio”, così oggi esiste il “mito del buon disabile”. Quest’ultimo sembra essere una sorta di santo nell’immaginario collettivo, che non può fare nulla di male o che, comunque, non risponde direttamente delle sue azioni se, per esempio, ha qualche handicap mentale. Ma il fatto che chi è immobile in carrozzina o in un letto non abbia libertà di azione, non significa che non abbia pensieri sbagliati o che, potendo, non farebbe qualcosa di male. Racconterò al riguardo un piccolo aneddoto: mi trovavo a Loreto in compagnia di mia madre quando due anziane signore si sono avvicinate con un’espressione eloquente a metà fra la compassione e la tenerezza. Dopo avermi salutato con il tono di chi parla a un bambino di cinque anni, hanno cominciato a toccarmi, più o meno come si fa con la reliquia di Sant’Antonio da Padova, dicendo che volevano portare con sé un po’ della mia santità, perché sicuramente io godevo di una considerazione particolare da parte del buon Dio e avrei concesso loro, per intercessione, qualche grazia! Insomma, neanche Padre Pio gode di tanta fiducia! Se avessi saputo prima di avere a disposizione questo “canale privilegiato” ne avrei sicuramente approfittato per qualche piccola richiesta personale, o per dispensare grazie ai bisognosi! Scherzi a parte, non è da sottovalutare questo “mito del buon selvaggio” in versione del “buon handicappato”: infatti, il primo veniva usato, in epoca coloniale, per coprire i maltrattamenti e le vessazioni di cui erano vittime gli indigeni del Nuovo Mondo.
L’incontro col diverso è sempre ambivalente: se da un lato il confronto intimorisce, dall’altro ci si figura una persona immobile in una carrozzina al pari di un “selvaggio” fermo allo stato di natura, innocente e non sottoposto alle diverse cause di corruzione dell’uomo che vive in società. Spesso ci sono persone e correnti politiche che, apparentemente, si battono per i diritti dei “diversi”, per poi magari sostenere idee abortiste o a favore dell’eutanasia, quindi che colpiscono i più deboli fra i deboli, perché totalmente indifesi. Ecco allora di nuovo la contraddittorietà dei tempi delle grandi scoperte geografiche: da un lato si promuove il mito del diverso come più felice nella sua invidiabile e incorrotta innocenza, dall’altro si cerca in tutti i modi di “civilizzarlo”, portando quella corruzione del progresso che non aveva apparentemente subito prima.
Anche il cinema offre la stessa visione buonista del “selvaggio – handicappato”: quest’ultimo è sempre presentato in uno stato di natura, in una situazione di innocenza incorrotta. Poi, i cosiddetti “normali” intervengono e macchiano il candore del “diverso”. Quasi tutti i film sull’argomento presentano in maniera simile il soggetto disabile, sia che abbia qualche deficit fisico, sia mentale. L’incontro con la normalità sconvolge gli equilibri, e il disabile diventa, a seconda dei casi, vittima o carnefice, mai equilibrato o saggio, e neppure realmente cattivo. Tutte le azioni che, nella pellicola, il disabile compie, sono giustificate dalla sua impossibilità di fondo a “peccare”, o a fare del male volontariamente, o a essere ritenuto totalmente colpevole del proprio operato.
Diffusa è l’idea che l’innocenza dipenda anche dall’immobilità fisica o culturale, che fa rimanere le persone come bambini. A me, per esempio, è capitato non solo di essere creduto molto più giovane di quanto io non sia in realtà, ma addirittura che mi scambiassero per il figlio di un mio collaboratore, più giovane di me di vent’anni! Inoltre, si tende sempre a dare del tu alle persone disabili, e in generale a coloro che appaiono in condizione di debolezza e inferiorità: per esempio, spesso le persone anziane si sentono chiamare “nonno” anche da perfetti sconosciuti, nei negozi come negli ospedali o per strada. Tendenzialmente il “tu” si usa per simpatia ma, se usato fra due adulti che non si conoscono, senza esplicito consenso di uno dei due, sottolinea un rapporto percepito come non paritario. Nel caso degli adulti con deficit, essi vengono sempre chiamati “ragazzi”, anche quando hanno cinquant’anni, proprio come i selvaggi, che a nessuno verrebbe in mente di chiamare “signore”! L’appellativo “ragazzi” usato per le persone con disabilità è diventato quasi un luogo comune: anche gli ospiti dei centri, delle comunità o simili vengono sempre, genericamente definiti “i Ragazzi”, e talvolta sono proprio i loro stessi genitori che tendono a mantenere il figlio disabile in questa sorta di eterna fanciullezza, in un limbo in cui le potenzialità, anche se limitate, di autonomia della persona disabile vengono azzerate, dato che i genitori si sentono più tranquilli nel seguire personalmente il proprio figlio. Frequentemente, anche nel caso di giovani perfettamente normali, si vivono con eccessiva apprensione le manifestazioni di indipendenza dei propri figli, talvolta limitandone le scelte e l’autonomia. A maggior ragione, dunque, i genitori dei ragazzi disabili tendono a essere iper protettivi, e il fatto di mantenerli sempre “ragazzi”, anche solo a parole, dà loro l’idea di poterli meglio proteggere. Addirittura, è di non molto tempo fa la notizia di due professionisti americani che hanno sottoposto la figlia disabile di nome Ashley a una serie di interventi e trattamenti ormonali per mantenerla per sempre bambina nel corpo, come lo è nella mente. Questo è stato fatto soprattutto per poterla meglio gestire dal punto di vista dell’assistenza, quindi con una motivazione fondamentalmente egoistica. Tuttavia, essi hanno giustificato la loro decisione proprio sostenendo di voler proteggere la piccola Ashley dai pericoli che il mondo esterno riserva alle giovani donne e dai fastidi che si sarebbero aggiunti con la pubertà al suo già sofferente corpicino. Anche molti genitori di figli perfettamente normali li chiamano “il mio bambino” anche a cinquant’anni, e questo nomignolo affettuoso in realtà influisce sulla percezione di sé e sulla psiche dei soggetti, regalando la convinzione di essere davvero ancora bisognosi dell’aiuto della mamma, o comunque di essere legittimati a ricorrere ad aiuti esterni di fronte a ogni minima difficoltà.
Abbiamo paragonato la visione attuale dell’handicap a un “mito”. La funzione del mito dovrebbe essere quella di spiegare, in termini più facilmente comprensibili, realtà complesse riguardanti l’uomo e il mondo che lo circonda. L’handicap stesso, con la sua “trasparenza”, può svolgere una funzione simile, quella di rendere evidenti limiti e caratteristiche della natura umana, palesandoli come sotto una lente di ingrandimento, rendendoli più chiari, proprio perché l’handicap non può nascondersi, a differenza delle mancanze dei cosiddetti “normali”, che spesso vengono celate molto abilmente agli occhi degli altri. Nell’antichità classica, i poeti usavano il mito per dare risposte agli interrogativi fondamentali dell’uomo (anima, mondo, Dio, ecc.), e raccontavano favole che spiegassero concetti elevati anche ai semplici. I primi filosofi ionici basarono il loro pensiero filosofico sulla critica prepotente di questo sistema, affermando che solo la scienza, la filosofia, potesse dare risposte vere a questi grandi interrogativi, mentre i poeti, con i loro miti, confondevano le idee alle persone comuni, ingannandole sulla realtà delle cose, mescolando fantasia e verità. Platone, poi, restituì dignità al mito, utilizzandolo come strumento didattico per eccellenza. Più tardi, il Gesù dei Vangeli si esprimerà spesso per mezzo di parabole, proprio per far arrivare il suo messaggio a tutti. Ecco perché la sua “trasparenza” rende il disabile, buono o cattivo che sia, un “mito” vivente… in senso (non solo) pedagogico!
 

In vino veritas

Ho letto recentemente un’intervista a Ernesto Olivero , in cui racconta di un sondaggio fatto fra alcuni ragazzi di un liceo torinese riguardo ai valori per loro più importanti. La risposta è stata sconcertante: prima di citare la famiglia, l’onestà o l’impegno sociale, i ragazzi hanno messo un non-valore, una sorta di precondizione, secondo loro, per ogni altro atto etico: la salute. Questa risposta mi ha dato molto da pensare su come i ragazzi di oggi vedano le persone malate o deboli. La cronaca degli ultimi tempi presenta, non a caso, diversi episodi di maltrattamento di disabili, soprattutto nelle scuole. Questo a prima vista è strano, perché il processo di integrazione in questi anni è andato avanti, almeno in apparenza. Anzi, la cronaca denuncia di episodi di bullismo anche nei confronti di chi disabile non è affatto, ma si presenta semplicemente diverso dallo standard e dai modelli proposti quotidianamente ai giovani dai media e dalla società. Da sempre il classico “primo della classe” è deriso e isolato dai compagni, ma mentre prima c’era una sorta di rispetto e ammirazione nei confronti dell’impegno e delle capacità altrui, oggi questo aspetto è totalmente venuto meno. In gruppo gli adolescenti si sentono forti e spavaldi, pensano di potere fare tutto e il “branco” si scaglia contro chi è diverso da loro, magari anche migliore, ma che essi semplicemente non comprendono o che fa loro paura, perché li mette di fronte a qualcosa di nuovo, che non rientra nella loro idea di normalità. I soggetti deboli o diversi non vengono soltanto emarginati, ma offesi e maltrattati, come ci insegna la cronaca recente, fino al punto da indurli alla depressione o, peggio, al suicidio.
Tuttavia, bisogna riconoscere che oggi c’è, da parte degli educatori e della scuola, un maggior impegno nel tentare di avvicinare i giovani alle tematiche dell’handicap. Non è più così strano avere in classe un ragazzino con qualche deficit, per non parlare del quotidiano rapporto con la diversità, considerando la forte presenza di ragazzi stranieri nelle scuole italiane. Forse, anzi, c’è anche troppa attenzione verso “l’integrare”: nella mia classe delle scuole medie avevamo un’insegnante di sostegno in cinque. Oggi, il rapporto è di uno a uno. Il ragazzino, avendo solo per sé tutte le attenzioni di una professoressa, è meno stimolato ad adeguarsi al livello della classe, o a valorizzare i suoi talenti. Anche negli altri compagni si forma l’idea che quel ragazzo abbia bisogno di un’insegnante solo per sé, che non sia come gli altri, o non sia abile in nulla, non si pensa che abbia semplicemente caratteristiche ed esigenze differenti, e questo contribuisce a emarginarlo.
Partito da Bologna, ma ormai presente in tutta Italia, da quasi 20 anni è attivo il progetto Calamaio, che porta nelle scuole di ogni ordine e grado persone disabili, attive e comunicative, che mostrano da vicino ai ragazzi la diversità, proponendola però come modello positivo, dunque sostenendo una nuova cultura dell’handicap, che vede la persona con deficit come soggetto attivo della società, e non solo come oggetto di cure e attenzioni passive. Ciò è molto importante, perché permette ai ragazzi di fare esperienza della diversità fin da piccoli, oltretutto in una società come la nostra, che si avvia sempre più a incarnare un modello multiculturale.
Anche io alle scuole medie e poi al liceo e, naturalmente, all’università, ho fatto l’esperienza di una classe “normale”. Sì, perché le elementari, invece, le avevo frequentate in una classe “speciale”, formata da soli bambini con deficit fisici. Proprio alla luce del fatto che ho provato entrambe le situazioni, non mi sento di criticare né l’una né l’altra esperienza. Il bilancio è stato più che positivo in tutti e due i casi, probabilmente grazie alla bravura degli insegnanti che ho incontrato, ma anche all’ambiente e ai nostri genitori. Andando alle scuole medie, proprio nei primissimi anni in cui i ragazzi disabili potevano andare a scuola con gli altri, seguiti da una insegnante di sostegno ogni 5 o 6 ragazzi (quindi non in rapporto uno a uno come avviene oggi), ho in un certo senso anticipato gli obiettivi del progetto Calamaio. Ricordo infatti un episodio: arrivato in classe il primo giorno di scuola, una bambina, vedendomi, si mise a piangere. Era il suo modo di esprimere, con particolare sensibilità, la sua visione della disabilità. Il professore, molto saggiamente, non la mandò, come sarebbe successo oggi, dallo psicologo della scuola, ma le disse semplicemente: “Invece di piangere, aiutalo!”. Questo professore, con grande semplicità, aveva espresso da un lato la consapevolezza che la persona con deficit non deve suscitare compassione, dall’altro il luogo comune che, ancora oggi, è duro a morire, cioè che il soggetto disabile sia solo bisognoso di aiuto, e non possa aiutare gli altri. In ogni caso, pur essendomi sempre trovato bene nella scuola “normale”, non ho certamente subito traumi dalla scuola “speciale”. Anzi, quegli anni sono stati fondamentali per la mia crescita e maturazione, per l’acquisizione di autostima, di sicurezza e di fiducia nelle mie capacità, ancora una volta grazie all’abilità degli insegnanti. Infatti, nella classe partivamo tutti sullo stesso piano, non con uno svantaggio iniziale, come avviene se si confronta un alunno con qualsivoglia deficit con uno perfettamente normale. E nel partire, potrei dire, tutti ugualmente svantaggiati, allora venivano fuori le vere capacità di ognuno, i talenti e i carismi che ci rendevano speciali, diversi l’uno dall’altro e ci davano tanta sicurezza in noi stessi, regalandoci la certezza di avere abilità differenti. Non è un caso, infatti, che quasi tutti i miei compagni di questa classe “speciale” siano arrivati a laurearsi brillantemente o, comunque, a diventare persone stimate e, talvolta, addirittura famose! E, soprattutto, nessuno di noi è cresciuto col minimo complesso, consapevoli di avere le stesse opportunità dei coetanei! Per noi bambini disabili era stimolante poter competere amichevolmente fra noi ad armi pari, e godere ogni volta delle conquiste e dei progressi compiuti, che magari non avremmo potuto fare se costantemente confrontati con ragazzini “normali”. Forse avremmo sviluppato delle frustrazioni nate dal confronto con chi aveva caratteristiche diverse da noi, e forse ci avrebbero solo considerato “quelli che hanno bisogno di un’insegnante di sostegno tutta per loro”. Invece, anche nella scuola “mista”, il fatto di non avere un’insegnante “personale” ci ha permesso di non perdere fiducia nelle nostre capacità, pur nella consapevolezza della necessità oggettiva di un aiuto in più.
Concludo con un piccolo aneddoto: mentre scrivevo questo articolo, ho ricevuto l’invito da parte dei miei ex compagni di liceo a partecipare a una rimpatriata in pizzeria. Questo mi ha fatto pensare e porre qualche domanda: “Chissà”, ho pensato, “se fra qualche anno i compagni disabili saranno ancora invitati alle feste e alle cene di classe?”. Arduo, per ora, dare una risposta. La vera integrazione si misura anche dopo del tempo, a tavola davanti a una pizza o a una bottiglia di vino: come dicevano i latini, in vino veritas.

 

 

Articolo apparso sul n.17 del settimanale "Vita", 23 Marzo 2007

Il diritto al dovere

Di Stefano Toschi

Giuseppe Mazzini scrive un’opera intitolata I doveri dell’uomo, la quale si rivolge agli operai cui gli ideologi tentano di far credere di avere solo diritti da rivendicare nei confronti dei padroni. Mazzini, invece, sottolinea l’importanza dell’educazione dell’umanità, e ricorda loro che, prima di avere dei diritti, l’uomo ha dei doveri nei confronti dei suoi simili. Che scopo ha, infatti, rivendicare il diritto alla felicità, se nessuno si impegna perché si creino le condizioni per essere felici? Che senso ha rivendicare dei diritti, se nessuno fa il proprio dovere affinché sussistano le condizioni perché questi si possano esercitare? Mazzini elenca una serie di doveri nei confronti della legge, della Patria, di se stessi, del progresso, di Dio, dell’umanità, della famiglia, dell’educazione, della libertà, doveri che vanno esercitati proprio se si vogliono ottenere anche dei diritti in questi ambiti. I doveri, naturalmente, precedono i diritti, perché forniscono le basi per la fruizione di questi ultimi: dove non c’è niente non si può rivendicare niente.
Anche quando si tratta di persone disabili si parla sempre di diritti e mai di doveri. Questo atteggiamento è sbagliato, un po’ come quando si crede che i portatori di handicap siano santi e non possano peccare solo perché non hanno piena libertà di azione. Si parla di diritto alla sessualità come se il disabile non potesse avere una storia normale. Si trattano i diritti umani come se un giudice potesse decidere sul diritto alla vita: questa diventerebbe un mero contratto con la possibilità di essere sciolto in qualsiasi momento, se non viene rispettato il diritto alla realizzazione dei propri piaceri, che si potrebbe in tal caso di fatto pretendere. Invece, la persona con deficit ha sì dei diritti, ma anche dei doveri. Se si digitano le parole “diritti handicap” su un comune motore di ricerca escono 1.820.000 voci. Non si trova nessuna voce se si cerca invece “doveri handicap”, anzi, l’unica cosa che si trova è una serie di indicazioni di doveri delle persone cosiddette normali e della società nei confronti delle persone disabili.
Anche la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948, usa 30 articoli più il preambolo per sancire dei diritti, e solo nell’incipit dell’articolo 29 ricorda che l’uomo ha anche dei doveri nei confronti della società in cui vive.
Ciò che sancisce forse l’inizio di questo tipo di mentalità volta all’ottenimento di diritti e non al rispetto di doveri si ritrova nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, in cui si legge: “Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca delle Felicità”.
Questi sono concetti più che giusti e diritti inalienabili, ma è opportuno notare in primis che la società, che dovrebbe garantire dei diritti, ha modo di fare ciò solo se chi la compone si impegna a compiere il proprio dovere nei confronti di essa. Inoltre, il diritto alla ricerca della propria felicità vale solo se rispetta principi basilari quali il neminem laedere e non presuppone che, per ottenere la felicità, ci si debba sottrarre all’esercizio dei propri doveri, anche se scomodi o impegnativi. Infatti è impossibile trovare felicità e stabilità in una società in cui vige l’anarchia, in cui cioè tutti sono impegnati nella ricerca di beni personali, perché se non si rispettano i doveri fondamentali della vita in società e questa non riesce pertanto più a reggersi, non viene di conseguenza garantito da essa nessun diritto, ma si sprofonda nello stato primitivo descritto efficacemente da Hobbes con la celeberrima frase homo homini lupus.
Il concetto di dignità della persona non deve essere basato solo sulla rivendicazione di diritti, ma anche su quello che la persona può dare. L’uomo è tale in quanto è capace di seguire una morale condivisa, nessuno è così povero di “umanità” da non dover seguire delle regole etiche, anche se ha qualche deficit o non è in grado di compiere determinate azioni. Ognuno, quindi, ha il diritto di esercitare i propri doveri, e questo è il diritto fondamentale. Ovviamente esso vale anche per le persone con deficit. Queste ultime, inoltre, indotte dalla mentalità corrente a ritenere di avere solo diritti da reclamare e difendere, talvolta sono portate a confondere i propri diritti con delle pretese di normalità che però tali non sono. Le lotte per la tutela di diritti fondamentali come quello alla vita, al rifiuto dell’aborto terapeutico, vengono confuse e fanno spesso meno scalpore delle battaglie più “scandalistiche” quali quelle per l’apertura di case chiuse apposite per disabili o il diritto ad avere la disponibilità di operatrici sociali sessuali come quelle che già esistono in Olanda. Questi non sono diritti neanche per le persone cosiddette normali. Il disabile, inoltre, si dovrebbe sentire offeso da tali proposte, perché esse presuppongono che una persona portatrice di deficit non riesca ad avere una propria vita sociale e sentimentale appagante. Inoltre non è certo con l’amore mercenario che si risolvono i problemi di socializzazione e di rapporti umani delle persone. L’uomo va educato all’amore, non alla soddisfazione mera dei bisogni fisici. Questo vale per tutti, disabili e non.

Questione di feeling

Le voci di chi vive un deficit: riflessioni sul rapporto fra operatore e disabile rispetto alla cura del corpo. Autonomia e dipendenza, agio e disagio problemi aperti per “stimolare riflessioni per cercare nuove soluzioni”. Comprendere l’altro attraverso il corpo.

La condizione di deficit fisico può portare la persona disabile a due opposti atteggiamenti nei confronti del proprio corpo. Si può arrivare o al rifiuto totale o alla cura e all’accettazione della propria disabilità. Ma in entrambi i casi il rapporto col proprio corpo è sempre mediato dalla figura dell’operatore.
La differenza che caratterizza l’esperienza quotidiana di una persona disabile rispetto a quella normale è l’assenza di privacy: tutto ciò che la maggior parte della gente fa da sola, il portatore di deficit lo fa con l’aiuto di un altro. Io parlo dal punto di vista di uno spastico. Fin da piccolo sono stato accudito dai miei genitori e mia sorella, e trovo naturale e non problematica l’assistenza fornita dai parenti.
Ma nel corso degli anni all’assistenza fornita dalla famiglia tende a sostituirsi quella procuratami parte da amici, parte da operatori. Quando l’assistente è un operatore professionale, la mia sensazione è almeno nei primi tempi quella di essere aiutato da un estraneo, di cui percepisco prima di tutto lo stato d’animo, se è una persona tranquilla o se invece è ansiosa.
Io ho maturato questa sensibilità perché sono stato cresciuto da mio padre; un uomo molto sereno che mi comunicava una grande tranquillità. Invece alcuni operatori e gli amici mi trasmettono la loro preoccupazione, l’ansia e ciò ovviamente non può farmi piacere, anche se sono amico di tutti. Si tratta di sensazioni fisiche, perché quando parlo di tranquillità o di ansia mi riferisco al rilassamento o alla tensione del mio corpo.

Un rapporto non a senso unico

Naturalmente il rapporto tra utente e operatore non è a senso unico: anche la persona assistita trasmette all’operatore i suoi stati d’animo e le sue difficoltà fisiche. Come l’operatore ha il dovere professionale di essere attento alle esigenze psicofisiche dell’utente così anche la persona con deficit ha la possibilità e anche il dovere di facilitare il lavoro del suo assistente avendo cura del proprio corpo. Il feeling tra due persone si può costruire solo se da parte di entrambe c’è la tolleranza e la disponibilità di aiutare e comprendere l’altro, prima di tutto attraverso il corpo e ciò che esso trasmette.
Messaggi che provengono dal mio corpo sono diversi così come sono diversi gli umori della persona che mi assiste e prepara ogni giorno. Ad esempio mi succede di essere molto rigido al mattino e se il mio operatore cerca di vestirmi, lavarmi in modo tranquillo e rassicurante questo mi aiuta a rilassarmi.
Se è vero che la condizione di deficit fisico non permette alla persona una vita perfettamente autonoma è altrettanto vero che proprio questa situazione può portare a formarsi un rapporto d’amicizia e di reciproco aiuto tra un’operatore e una persona assistita. 

Tentar non nuoce

Il brano di Luca 4, 1-13 parla delle tentazioni. Cerchiamo di comprendere la tentazione a partire dalla prova, dalle difficoltà che incontriamo. Queste forse sono occasioni per la tentazione.

Se la prova consiste nel non mangiare per quaranta giorni, la tentazione sta nel voler trasformare le pietre in pane: si tratta di un modo sbagliato di superare la prova, sbagliato perché non ci si fida di Dio ma si cercano altri appoggi, oppure ci si aspetta che Dio operi automaticamente un miracolo. Comunque le tentazioni sono qualcosa di estremamente personale; quelle di Cristo hanno un valore paradigmatico, tuttavia sono le tentazioni del Figlio di Dio.
Come tutte le altre persone, anche gli handicappati vanno soggetti a tentazioni, ma le vivono diversamente, partendo dalla propria condizione di deficit. Se per esempio una persona "normale" può nutrire il desiderio di possedere tutto e subito, una persona con deficit può vivere questa tentazione come paura di non avere mai niente. Il meccanismo è lo stesso, ma il punto di vista è diverso. In particolare, un handicappato può avere paura della propria stessa situazione. Un disabile che si sente indifeso e inferiore perché per esempio non riesce a camminare da solo, rischia di farsi condizionare da questi sentimenti più che dal problema oggettivo del suo deficit.
Come si diceva prima, le tentazioni di Cristo sono paradigmatiche. Vediamo come possono essere considerate dal punto di vista della persona con deficit.
Incominciamo dal "ritornello" di Satana: "Se tu sei Figlio di Dio…". La tentazione più pesante, per un handicappato, sia quella di credere di non essere figlio di Dio, o di sentirsi al massimo "figlio di un dio minore". Così ci si rivolgono domande come queste: "Se Dio è buono e onnipotente, perché mi ha creato disabile? Mi ha davvero creato Lui, o no?". Ma queste domande sono più che lecite; la prova e la tentazione stanno nel tipo di risposta che verrà dato. Così, mentre le prima tentazione di Cristo è quella di trasformare le pietre in pane, quella dell’handicappato è il desiderio di avere una vita normale, cioè di mangiare tutti i giorni del pane normale, fatto con la farina e non con le pietre. Si tratta di una situazione di presunta felicità; anche qui, la tentazione non è il desiderio di essere felici, che anzi è cosa buona e giusta, ma il pensare che per essere felici bisogna essere normali, "avere il pane".
La seconda tentazione, "Se ti prostri dinanzi a me, tutto sarà tuo" è forte soprattutto in chi crede di non avere ricevuto niente dalla vita. Come dicevamo all’inizio, forse non è tanto la brama del possesso ma la paura della mancanza, dell’handicap, a tentare le persone con deficit.
La terza tentazione è la più insidiosa, perché si basa sulla Parola di Dio. I versetti citati sono una promessa che sembra fatta apposta per un handicappato che non può camminare o è cieco. Qui c’è la tentazione del miracolo, dell’intervento straordinario di Dio, come se i miracoli fossero qualcosa di automatico, quindi come se Dio stesso fosse automatico… Richiedere con insistenza un intervento divino non è di per sé una tentazione; lo è dare questo intervento per scontato, come se fosse dovuto. Non è sbagliato andare a Lourdes, ma andarci solo per "riscuotere" una guarigione prodigiosa è discutibile.
Nonostante tutte le nostre lotte, può capitare che il deficit formi un deserto, perché può provocare l’handicap (con situazioni di emarginazione, isolamento, mancanza di amici, povertà, umiliazione). Il questa condizione difficile, l’uomo può davvero sentirsi solo, con Satana e con Dio. Però le Scritture annunciano che attraverso il deserto si arriva alla libertà. Anche se è proprio questo che l’handicappato è tentato di non credere, che oltre il deserto c’è la "terra promessa", e che proprio nel deserto Dio è quotidianamente vicino.

La spiritualità nelle persone con disabilità

“Beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”  (Gv. 20, 29)

Questa è l’ultima frase del Cristo risorto nel Vangelo secondo Giovanni: è la sua promessa finale, che riassume in

sé l’insegnamento di Gesù, la Sua «Buona Notizia» a tutti gli uomini. In questa frase è racchiusa anche la questione della spiritualità della persona cosiddetta disabile. È una promessa, ma è anche una sfida: infatti questa frase è rivolta a Tommaso, cioè al discepolo che aveva detto: “Se non vedo non credo”. Gesù non condanna questa mancanza di fede, ma invita ogni credente a rendere più autonoma e adulta la sua fiducia nella Resurrezione e afferma che in questo sta la vera beatitudine. Giovanni non riporta il discorso della montagna, dove Gesù aveva proclamato le otto Beatitudini (Mt. 5, 1-12), ma in un certo senso le riassume tutte in questa frase finale.
Le Beatitudini presenti in Matteo e in Luca rappresentano il cuore del messaggio cristiano: sono il ribaltamento totale della logica di questo mondo.
Giovanni, fin dal prologo, presenta la lotta fra le tenebre e la luce, tra il kosmos e il logos che entra in esso per cambiarlo, per rovesciare dall’interno la sua logica, per liberare l’umanità dal
“principe di questo mondo”. Quindi sarebbe strano che in questo contesto mancasse ogni riferimento al discorso più rivoluzionario mai pronunciato da Cristo.
“Beati i poveri in spirito”, alla lettera i “mendicanti dello spirito”, quelli che, essendone privi, lo cercano, lo desiderano. Non è una povertà passiva di chi semplicemente prende atto della sua situazione, ma la felicità di chi lotta, di chi crede, e proprio perché non ha questo bene lo cerca.
Così, le altre Beatitudini sono altrettante sfide che Gesù lancia in ogni tempo partendo proprio dalle persone che, secondo la mentalità comune, non potrebbero neanche raccoglierle. La condizione di povertà o di disabilità non viene assolutizzata da Cristo nel senso letterale della parola, non è sciolta e messa da parte come una condizione a sé, ma viene presa come immagine più evidente della condizione umana. Ad esempio, al termine della discussione con i Giudei conseguente alla guarigione del cieco nato, Gesù dice: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane”. (Gv. 9, 41). La situazione di cecità fisica di un uomo diventa per Cristo paradigmatica di quella umana.
D’altra parte, da tutta la Sacra Scrittura non emerge una categoria dell’handicap. Questa può sembrare una banalità: la Bibbia è stata composta nel corso di migliaia di anni e i suoi ultimi libri risalgono a circa 20 secoli fa. La “categoria handicap” è un prodotto dell’epoca industriale, nella quale chi non era adatto a produrre era automaticamente considerato disabile. Ma poiché nella Bibbia e negli altri classici della letteratura sono affrontati tutti i temi fondamentali dell’esistenza umana, la mancanza della categoria dell’handicap può significare che nella Weltanschauung divina non esistono persone più disabili di altre.
La Scrittura è ricca di riferimenti a persone che oggi rientrerebbero nella categoria delle disabilità. Pensiamo al celebre passo messianico di Isaia:

  1. “Lo spirito del Signore Dio è su di me

perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione;
mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri,
a fasciare le piaghe dei cuori spezzati,
a proclamare la libertà degli schiavi,
la scarcerazione dei prigionieri.

  1. a promulgare l’anno di misericordia del Signore  

per consolare tutti gli afflitti” (Isaia 61, 1-2)

che sarà ripreso da Gesù (Luca 4, 18-19). In questi brani i poveri, i ciechi, gli oppressi, i miseri, rappresentano tutto il popolo di Israele. Il Messia viene per tutti e tutto il popolo lo attende come se fosse composto essenzialmente da poveri, ciechi, oppressi, miseri. È interessante anche notare come la lingua ebraica, così povera di termini, ne abbia invece una grande varietà per definire le diverse sfumature dell’emarginazione. Ogni situazione di difficoltà, di debolezza ha un suo vocabolo appropriato e ciò va esattamente contro alle generalizzazioni astratte.

Nella Bibbia ci sono molti appelli alla solidarietà nei confronti dei poveri, ma è interessante notare come la motivazione di questi richiami morali sia il ricordo che il popolo ebraico era stato nella condizione di povertà e di esilio, e che questa condizione non era semplicemente passata, ma continuava ad appartenere all’essere più profondo di quella comunità:

‘’ Non molesterai il forestiero né lo opprimerai,
perché voi siete stati forestieri nel Paese d’Egitto’’ (Esodo 22, 20).