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autore: Autore: Tristano Redeghieri

 Uno sparo alla “G”!

a cura di Tristano Redeghieri e Giulia Maccaferri

A febbraio abbiamo condotto un percorso di formazione per gli studenti dell’istituto D’Arzo di Montecchio Emilia (RE) che aveva come argomento sport, disabilità e volontariato. Questa attività si chiamava “Sport and roles. Sport e ruoli” e aveva lo scopo di far trovare agli studenti strategie nuove per includere il più possibile i disabili nel contesto sportivo. La formazione comprendeva due incontri pratici in palestra e una plenaria con due atleti paralimpici, Massimo Croci e Giovanni Bertani, specialità tiro a segno. È stata una chiacchierata molto interessante e, per questo, voglio condividere con voi alcuni passaggi dove si è parlato di impegno, dedizione, fatica e percorsi…

Come vi siete avvicinati al tiro a segno?
GIOVANNI: Pratico il tiro a segno dal 2008, cinque anni dopo aver fatto un incidente stradale. All’epoca mi ero chiuso in casa, non avevo voglia di uscire e non avevo più stimoli. Tramite un progetto sportivo che mi era stato proposto da vari personaggi, mi è stato offerto di fare attività per ridare nuova linfa e stimolo e creare così un nuovo incentivo alla mia vita. Una volta provato a sparare mi è piaciuto ed è iniziata la mia carriera sportiva. Questo mi ha permesso di mettermi in gioco nuovamente, di ritirare fuori delle caratteristiche, tipo l’agonismo, che a causa dell’incidente avevo represso. Grazie a questo, se prima ero chiuso in casa, ora sono sempre fuori. Il messaggio è che bisogna guardare avanti, provare e sperimentarsi; e, se si trova qualcosa che piace, bisogna metterci passione e impegno. I risultati poi arrivano.
MASSIMO: La vita è una ruota, non sai quello che ti capiterà giorno dopo giorno. Sono caduto in moto e la conseguenza è stata la paralisi alle gambe. Prima dell’incidente avevo una vita sregolata e quando mi sono trovato sdraiato su un letto di ospedale, dove se mi andava una mosca sul naso non potevo farci niente, i miei pensieri hanno iniziato a vagare.
Tutti i miei amici mi dicevano che avrei vissuto poco, non per la lesione ma perché sapevano che prima avevo una vita vivace e in quelle condizioni non potevo più averla. E non gli davo torto. Il mio pensiero era “E adesso cosa faccio?”.       Non sono più capace di fare niente, cosa sto qua a fare? Poi quel pensiero è svanito. In clinica ho visto persone messe peggio di me che riuscivano a fare delle cose e allora mi sono detto “Beh, e io mi lamento!?”. Il pensiero di mollare non c’è più stato. All’ospedale Montecatone mi hanno fatto fare molto sport e lì ho iniziato a fare tiro a segno.

Dove vi allenate?
MASSIMO: Andiamo a Reggio Emilia, Bologna, Modena, San Marino, Milano… E calcolate che ci alleniamo da due a quattro volte a settimana. Andiamo in quei poligoni dove, oltre all’assenza di barriere architettoniche, ci siano banconi adatti, non troppo alti.
GIOVANNI: Dobbiamo anche tenere a mente la disponibilità del commissario che ci fa da assistente. Non abbiamo la possibilità di allenarci da soli come fanno i normodotati. Dobbiamo sempre girare in coppia per darci una mano a vicenda, anche solo per metterci o toglierci la giacca.

Dopo l’incidente, come avete reagito alle difficoltà e anche ai risultati positivi?
GIOVANNI: Quando ho avuto l’incidente sono sempre rimasto cosciente e il primo pensiero mentre cadevo è stato “è andata!”. Poi ho pensato alla mia famiglia e mi sono detto “non può finire così”, e subito dopo ho realizzato che ero ancora vivo. Per me andava già bene così, anche se avevo perso una gamba. Invece, quando sono tornato a casa e mi sono scontrato con la quotidianità, i miei figli mi chiedevano dove era finita la gamba e mi mettevano i giochi sparsi per terra per vedere se inciampavo. Allora lì ho capito che non era più come prima. Mi ero chiuso: era più facile sedersi, evitare il problema, stare lì fermo nel comfort di casa. Chi mi era vicino, istituzioni e associazioni, ha visto che così non andava bene e mi ha proposto di fare sport. Il tiro a segno è stato il primo che ho provato e mi è piaciuto subito. Questo mi ha dato nuovi stimoli e da lì ho iniziato un nuovo percorso. Mi sono rimesso in gioco. Tutte quelle difficoltà che avevo nella quotidianità con lo sport sono sparite. Per le gare mi spostavo in areo, dormivo perfino in pulmino (se mi avessero chiesto di farlo per soldi non avrei accettato!). Ma quan- do c’è lo stimolo fai tutto. Quando abbiamo lo stimolo giusto non abbiamo difficoltà e non abbiamo barriere che ci frenano. Il segreto è crearsi lo stimolo per non fermarsi, per avere sempre un obiettivo da raggiungere. E lo sport mi ha fatto capire questo, che poi va trasferito in tutte le altre cose della quotidianità.
MASSIMO: Il primo pensiero che mi è venuto è stato “coraggio, qui ci vuole più coraggio”. Quando mi hanno dimesso dalla clinica avevo vergogna a uscire di casa in carrozzina, il giudizio degli altri mi dava fastidio. Ci sono stati quattro o cinque mesi in cui facevo al massimo duecento metri. Poi ho ripreso la patente e ora di chilometri ne faccio. Non mi sono mai arrabbiato per quello che mi è capitato, direi un’eresia se ammettessi che era meglio prima di adesso, perché ora ho acquisito delle cose che prima non avevo, non vedevo, non pensavo. Ora le sto vivendo. La mia paura più grande era non aver delle relazioni con gli altri, amici, una fidanzata. Invece, dopo, ti accorgi che non è cambiato nulla perché con la voglia di vivere si riesce a fare tutto. Sono più rilassato oggi che prima dell’incidente.

Perché vi piace tanto questo sport? Quali nuove possibilità vi ha dato?
GIOVANNI: Perché mi ha dato di nuovo la possibilità di competere, di dimostrare qualcosa, di raggiungere dei risultati. Mi ha dato la possibilità di sviluppare abilità fisiche e mentali, di metterle in pratica, di sfruttare strategie per migliorare applicandosi sempre al massimo. Se riesco a essere competitivo con me stesso posso esserlo anche con gli altri. E poi ho potuto girare tutta l’Europa.
MASSIMO: A me piaceva sparare anche prima, quindi ho seguito una mia passione. Una mia paura in questo sport è vincere, perché dopo sei obbligato a vincere sempre e a rimanere sulla cresta dell’onda. Il tiro a segno mi ha insegnato a conoscere i miei limiti e a migliorarmi sempre.

Nel vostro sport i disabili e i normodotati gareggiano e si allenano insieme?
MASSIMO e GIOVANNI: Nel nostro sport ci sono già delle discipline divise per categorie, che vanno in base all’età e al genere. A livello di federazione i disabili maschi e femmine sparano insieme e ci sono anche categorie miste. Tra disabili e normodotati le differenze non ci sono e si potrebbe benissimo sparare insieme ma questo non avviene.

Volevamo condividere con voi due cose che ci sono venute in mente mentre sbobinavamo e scrivevamo sul foglio le parole di Giovanni e Massimo.
Primo: la “sfiga” diventa una “sfida”. Il contesto dato dallo sport e dall’ambiente circostante ci permette di cambiare, grazie a nuovi percorsi, di sostituire la “G” con la “D”. Secondo: come mai non ci possono essere gare miste tra disabili e normodotati, con classifiche uniche?
Non capiamo il perché. Si dice tanto che lo sport è integrazione, inclusione, ma se i disabili gareggiano da soli, così come i normodotati, dov’è questa inclusione?
Secondo noi il percorso è a metà; spariamo veramente alla “G” facendola diventare una “D”, non solo per i disabili, ma anche per chi è a capo delle federazioni e che magari ha paura del confronto per l’ansia del risultato. Dalle parole dei due campioni noi abbiamo capito che è fondamentale prima di tutto competere con se stessi, trovare nuovi stimoli per migliorarsi sempre, per non mollare. Solo grazie al confronto, affrontando le difficoltà, parlandone insieme, capendo i pro e i contro. Poi magari non ci si riesce ma se non ci si prova vincerà sempre la “sfiga”… Quindi impugniamo i fucili e… Uno sparo alla “G”!

Tunnel

Sono qua con tre giocatori della nazionale. No sono Buffon, Zaza e Darmian ma Emanuele Padoan, Francesco Messori  e Daniele Piana.                                                                                                                                             Di loro non avete mai sentito parlare perché nella Gazzetta dello Sport non sono in prima pagina, ma forse neanche in ultima. Nessuno ne parla, forse, quindi saranno loro a dirci di che nazionale fanno parte, anzi ve lo dico io: sono della Nazionale di Calcio Amputati.                                                                                                          Ma voi lettori vi starete chiedendo, dopo questa piccola premessa, dove sono e perché sono con loro. Siamo a Correggio presso la piscina comunale dove, da una settimana, si sta svolgendo il torneo di Beach Volley denominato Trocia Beach. Sono qui perché da un paio di anni ospitiamo atleti disabili che presentano il loro sport: abbiamo conosciuti il baskin, il sittin volley e quest’anno abbiamo deciso di chiamare e conoscere il calcio per amputati.  Stesi su un lettino decido di intervistarli.
Come si fa a giocare a calcio con una gamba? Proprio non lo so. Infatti questo articolo l’ho intitolato : il tunnel perché io quando giocavo a calcio non c’era cosa più bella che fare un tunnel ad un ’avversario. Per chi non ha mai masticato il calcio il tunnel è quando fai passare la palla sotto alle gambe del rivale. Quindi la prima domanda che rivolgo ai giocatori è proprio questa: come si fa a fare un tunnel a uno che gli manca una gamba?                                                                                                                                                      Emanuele: Il tunnel vero e proprio non si può fare come a un giocatore che ha due gambe, però tra la gamba e la stampella si. Per noi quello è il vero tunnel. A volte riesco a farli ed è sempre bello.           Domanda: Prima di andare nello specifico mi dite cosa fate nella vostra vita oltre che giocare a calcio? 
Emanuele: Io studio. Frequento la 3° superiore di un istituto tecnico. Aspetto di crescere giocando  calcio e studiando.                                                                                                                                                                Daniele: Io nella vita faccio il principe. Infatti non faccio niente perché non ho un lavoro. Lo sto cercando e spero venga presto. Intanto che aspetto di trovarlo mi perdo a girare con la Nazionale.                      Francesco: Io con Emanuele sono uno studente. Anch’io frequento un ‘istituto la 3° superiore di un istituto tecnico a Correggio (RE). La mia vita è studio e sport.                                                                                  Domanda: Francesco so che l’idea di formare una squadra di calcio amputati è nata da te. Come mai?
Francesco: Dato che per me non era il massimo giocare con i miei coetanei che avevano due gambe, i normodotati, volevo confrontarmi con quelli a pari livello. Quindi ho deciso di formare questo gruppo con l’aiuto di tante persone.

E voi quando vi ha chiamato cosa avete pensato: questo è un pazzo?
Daniele: Io li ho conosciuti solo a febbraio del 2014. Sapevo già che c’era questa Nazionale, ma da ex calciatore a due gambe, ero un po’ retinente ad andare a giocare. Poi ho visto qualche partita e mi son convinto a contattarli e chiedere se potevo fare un provino. Sono andato a Milano e da li ho iniziato a far parte della Nazionale.                                                                                                                                         Emanuele: Io ho iniziato a far parte della squadra a giugno del 2013. Io sono nato con la gamba più corta e ho fatto vari interventi. In uno di questi interventi, visto che la voglia di giocare era tanta, ho contattato la Nazionale e ho fatto il primo allenamento con i fissatori. Da quel giorno faccio parte della Nazionale. E’ stata una fortuna averli conosciuti .                                                                                                                 Domanda: Quindi non c’è un vero e proprio campionato di questa disciplina. Pochi amputati?
Daniele: Per fortuna ( ridendo)                                                                                                                           Francesco: Diciamo che forse molta gente non ci conosce ancora ed è difficile venirne a conoscenza.Domanda: Emanuele ci ha detto che è nato con una gamba più corta. Voi invece cosa è successo?                                                                                                                                                                  Daniele: Io ho avuto un incidente quattro anni fa in moto. Avevo 32 anni. Fortuna vuole che dopo trent’anni mi sono comprato la moto contro la volontà di mia madre.  Dopo 5 giorni ho fatto il patatrac. Non so veramente come ho fatto affrontare questa cosa. Non so dove ho trovato la forza, ma ce l’ho fatta. Anche abbastanza presto ho accettato di avere solo una gamba. La vita  va avanti. Io ho sempre pensato  che le cose sono due: o ti adegui o di estingui.

Ma tu giocavi a calcio anche prima dell’incidente?                                                                                      Daniele: Si giocavo a calcio. Sono arrivato a giocare fino alla categoria promozione. E da quando avevo sei anni che giocavo al pallone. La voglia di giocare al calcio e il rimettersi in gioco mi ha dato la voglia e la forza di provare a superare dei limiti che prima erano immaginabili.                                                                    Francesco: Io fortunatamente sono nato senza una gamba quindi mi sono abituato subito al mio tipo di vita. Non ho dovuto affrontare i problemi di quelli che hanno perso una gamba. Per me è normale vivere così.

Questa è per gli studenti, ma ginnastica la fate a scuola?
                                                                Daniele: Si la faccio. Faccio tutto quello che fanno i miei compagni. Anche quando ero piccolo volevo fare tutto quello che facevano i miei compagni. Ad esempio quando andavo a Gardaland e mi impedivano di andare sulle giostre mi arrabbiavo perché non ne capivo il motivo.                                                                 Francesco: Anch’io faccio tutto quello che fanno i miei compagni.                                                                              Domanda: E se giocano a pallavolo?                                                                                                                                      Francesco: Dopo un po’ che salto faccio fatica. Da seduti sarebbe meglio.

Ma voi pensate veramente che lo sport sia integrazione o avete qualche dubbio visto che prima a microfoni spenti vi ho detto la mia opinione? Daniele hai chiesto ai tuoi ex compagni di squadra di formare una equipe dove tu possa giocare? Anche tu Francesco che giocava nel Mandrio con una mega pubblicità sui giornali dove si acclamava l’evento di un ragazzo amputato che giocava con i normodati. Come vi sentivate? Notatavate qualcosa di diverso? Ve lo chiedo perché dopo noi giocheremo e la prima cosa che ho detto ai miei amici è che volevo farvi un fallo subito perché non devo avere remore come quando facevo l’ISEF e a basket dovevo marcare una donna.               
Daniele: Io ho la fortuna di avere vicino a me un sacco di amici e mi vogliono bene. Forse è per questo che non ho di questi problemi. Infatti io sono tesserato per una squadra a 11 dove più della metà del gruppo è incapace di giocare al football e quindi faccio ancora la mia bella figura (ridendo) in mezzo a loro solo con una gamba. Come ho detto prima  ho la  fortuna di avere amici che mi hanno dato subito la possibilità di rimettermi in gioco. Da quest’anno vado anche a fare tornei in giro con loro. Le remore ce l’hanno i normodotati che non ti conoscono nell’affrontarti, farti il fallo come dici tu. Si vedono spiazzati davanti a una persona che gioca al calcio con le stampelle. Ti racconto un aneddoto: in un torneo,  stavo saltando di testa e ho fatto spalla a spalla con il mio avversario. Nell’atterrare ho puntato le stampelle e lui ricadendo mi ha preso il braccio e mi sorreggeva. Io l’ho guardato e gli ho detto “ grazie…ti voglio bene…Ma se era il mio socio con due gambe l’avresti sorretto?” Lui mi ha guardato un po’ stranito e mi ha risposto “ hai ragione… forse no”  Vedi io so quello che sto facendo , sto giocando al pallone e in questo sport ci sono i calci, le spinte e le pedate. Ti può capitare di tutto, ma so quello che sto facendo. Per me è un bene perché se mentre giocano hanno paura di marcarmi e mi lasciano lo spazio per tirare. Dopo che ho fatto il primo goal mi stanno più vicino e mi marcano più stretto.                                                                                              Francesco: Come ha detto Daniele hanno più paura la gente che noi perché penso che provino compassione. Per loro sembra che siamo fatti di carta pesta  e hanno quindi paura di venirci addosso. Io a volte debbo dirlo di giocare sul serio se no loro mi lasciano andare con la palla senza provare e prendermela.                                                                                                                                                                       Emanuele: Io ho sempre giocato nella squadra del mio paese. Non mi hanno mai emarginato e mi hanno fatto sempre giocare. Anche adesso che ho le stampelle mi alleno con gli amici della mia età. A volte, come hanno detto loro, quando facciamo delle partite integrate o noi della Nazionale contro normodotati, hanno paura di affrontarci. Secondo me è un loro problema psicologica e quando un ragazzo vede uno come le stampelle, pensa che sia molto in difficoltà e lo vede come un giocatore inferiore e quindi un sport inferiore.. Invece  non capiscono che anche nel nostro calcio ci sono si i gol ma anche tante spallate, scivolate…  Però concludo dicendo che anch’io sono stato molto fortunato, come Dani, ad avere amici e una società che mi sono state vicine e mi hanno sempre fatto giocare.                                                                       Daniele: No è tanto il calcio in sé l’integrazione ma è lo sport di squadra, il gruppo. Se tu formi un gruppo e il gruppo è affiatato, tutto ti diventa più facile.                                                                                                                      Domanda: Ma cosa manca ancora secondo voi, se manca qualcosa…                                                                                                           Daniele: Manca un passo!(Ridendo)

Si parla tanto di parità, ma sembra sempre che manchi qualcosa per raggiungere la parità. O è un dire che manca qualcosa?                                                                                                                                                              Daniele: Il mancare qualcosa dipende da come ti guardano i normodotati, come ti giudica. Se uno ti guarda con la faccia che ti fa capire che per lui sei un poverino ha perso la gamba                                                                  Francesco: Quello che pensa così è a lui che manca qualcosa.                                                                                            Domanda: Allora voi cosa potete fare?                                                                                                                                          Daniele:  Devo fargli capire che sono un ragazzo in gamba! Io ci scherzo sopra alla mia condizione. Piangi un giorno. Ne piangi due. Ne versi un secchio pieno, ma la tua gamba non cresce mai.  Misurala tutti i giorni, non cresce mai…Neanche di un centimetro…neanche di un millimetro!

Perché te la misuravi tutti i giorni?
                                                                                                                                Daniele: Si per un po’ l’ho fatto. Poi mi dicevo magari se piango un po’ mi cresce, magari solo un centimetro,  ma mi cresce. Invece no non ti cresce più la gamba e ti devi abituare a questa cosa.                    Domanda: Questa la rivolgo solo a Daniele visto che ha avuto la possibilità di giocare a calcio con due gambe: quali sono le differenze tra giocare a due e una gamba?                                                                                      Daniele: Giocare a una gamba è molto più difficile: i tempi, percorrenze. Poi il tuo cervello ragiona come se avessi due gambe. Fermare la palla con le stampelle per me la prime volte è stato difficile perché continuavo a seguirla e non ti viene di appoggiare il piede sul pallone per fermarla perché il tuo cervello lo associa automaticamente al cadere. Anche il tirare è più difficile specialmente a palla in movimento perché devi coordinare il tuo movimento calcolando anche che hai le stampelle. Molte volte ho calciato le stampelle e cadevo per terra.
Il vostro futuro calcistico come sarà?                                                                                                                Francesco: A fine agosto con la Nazionale ci ritroveremo a Correggio per un allenamento. Questo sarà il pre-Polonia dove andremo a fare un torneo europeo a 6 squadre.                                                                                                  Tristano: Grazie di tutto e ci vedremo tra poco sul campo e spero proprio di farvi un tunnel! Per la cronaca la mia squadra ha perso…non ho visto palla e il mio amico Battini ha subito un… TUNNEL!

23. Bibliografia di riferimento

K. Jaspers, Allgemeine Psychopathologie; trad. it. R. Priori, Psicopatologia generale, Il pensiero scientifico, Roma, 1964.
D. Woods Winnicot, Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1975.
R. D. Laing, The divided self: an existential study of sanity and madness: trad. it. D. Mezzacapa, L’io diviso, Einaudi, Torino, 1969.
S. Scarpa, Il corpo nella mente. Adolescenza, disabilità, sport, Calzetti Mariucci, Perugia, 2011.
S. Chiarilli; C. Mancini, Io sono. Dalla disabilità intellettiva all’abilità affettiva e relazionale, Themis editore, Firenze, 2011.
V. Cisini; M. C. Mazzia; E. Pozza; L. Ughetto Budin, Sul filo del limite. Ben- essere e apprendimento con persone in difficoltà, La Meridiana, Molfetta (BA), 2013.
F. Briganti, Corpo, tecnologie e disabilità. Le tecnologie integrative, invasive ed estensive,  Edizioni Manna, Napoli, 2010.
G. Dall’Ara, “Come mi trovi?”. Percezione del proprio corpo, della malattia e della disabilità, Il Ponte Vecchio, Cesena, 2007.
B. Pea, Matematica nella scuola di base volume 1: i concetti dello spazio e del tempo nella scuola materna e nel primo ciclo della scuola di base, Vannini, Gussago (BS), 2001.
B. Pea, Matematica nella scuola di base volume 2: i concetti della logica e della aritmetica nel primo ciclo della scuola di base, Vannini, Gussago (BS), 2001.
V. Ruggeri, L’identità in psicologia e teatro: analisi psicofisiologica della struttura dell’io, Edizioni Scientifiche Magi, Roma, 2001.
A. Canevaro; A. Gamberini, Esploro il mio corpo e l’ambiente: giochi e attività per bambini dai due ai sette anni, Erickson, Trento, 2002.
G. B. Camerini; C. De Panfilis, Psicomotricità dello sviluppo: manuale clinico, Carrocci Faber, Roma, 2003.
S. Lancioni, Tra il corpo e gli affetti, Gruppo Donne UILDM, 1999:
E. Ripamonti; R. Sinzu, Il corpo negato, Edizioni CSV, Roma, 2003.
A. Lapper, La vita in pugno, Corbaccio, Milano, 2006.
A. Benedetti, Trucco e parrucco. Estetica e cura di sé, Gruppo Donne UILDM, 2005:
D. Anziliero, I miei passi dicono di me. Tracce di un percorso terapeutico con il malato psichiatrico adulto attraverso una possibile riconquista del corpo, Del Cerro, Tirrenia (PI), 2005.
A. Mannucci, L’emozione fra corpo e mente: educazione, comunicazione e metodologie, Del Cerro, Tirrenia (PI), 2006.
A. Mannucci; L. Collacchioni, Diversabili e teatro. Corpo ed emozioni in scena, Del Cerro, Tirrenia (PI), 2008.
I. Gamelli (a cura di), I laboratori del corpo, Raffaello Cortina, Milano, 2009
E. Amurri, Il gabbiano dalle ali ferite, Albatros, Roma, 2012.
M. Eugenia, Macchia, la ragazza mal disegnata, Callis, Settimo  Milanese (MI), 2012.

20. Scheda tecnica/“Il Reiki”

Partecipanti:
7 animatori con disabilità
2 educatori 

Durate del laboratorio:
3 ore circa
15 minuti di riscaldamento
2:15 ore di attività
30 minuti di condivisione

Luogo:
ampia stanza

Obiettivo generale:
conoscere il proprio corpo e utilizzarlo come strumento di piacere

Obiettivi specifici:
abbiamo utilizzato le mani di un operatore esperto come canale attivo di energia vitale per ripristinare la connessione tra l’energia individuale della persona e quella dell’universo.

Attività:
1) Riscaldamento.
2) Reiki: con Susetta Sacchi abbiamo realizzato un’esperienza di rilassamento psico-fisica attraverso la tecnica orientale del reiki. L’esperta ha incontrato singolarmente ognuno dei partecipanti per una durata individuale di circa 20’.
3) Condivisione.

Materiali:
tatami, cuscini, stereo 

Commenti dei partecipanti
F: Io non vorrei andare dentro me stessa, perché scoprirei delle cose che non vorrei, che non accetterei… Penso che stimolando il corpo, alcune di queste cose potrebbero saltare fuori, però io cercherei di farle tornare dentro per paura di affrontarle.
D: A me ha fatto pensare a quello che ho avuto che non è una malattia che è venuta nel tempo, ma che sono nato così; posso comunque arrivare a provare piacere e la malattia passa in secondo piano.

18. Scheda tecnica/“Massaggi Trager”

Partecipanti:
– 7 animatori con disabilità
– 2 educatori
– 5 tra tirocinanti e volontari

Durata del laboratorio (sono stati realizzati tre incontri):
2 ore circa 15 minuti di riscaldamento
1:15 ora di attività
30 minuti di condivisione

Luogo:
ampia stanza

Obiettivo generale:
consapevolezza nella percezione del proprio corpo

Obiettivi specifici:
– il metodo Trager. La ricerca del benessere e del piacere a partire dal massaggio corporeo per arrivare a coinvolgere la psiche e l’anima

Attività:
1) Riscaldamento.
2) Massaggi. Dopo aver illustrato su di noi i movimenti, l’esperto ha spiegato e supervisionato sull’attività che veniva svolta con rapporto uno a uno.
3) Condivisione.

Materiali:
materassini, stereo, cuscini

Commenti dei partecipanti
T: Ho fatto fatica a rilassarmi. La seconda attività è stata a terra stesi: mi sono sentita libera e mi sono rilassata.
G: Mi sono sentito coccolato.
S: Ho provato una sensazione di sentirsi bene anche dentro di me, di benessere, di essere morbida.
S: È stato piacevole quando ero sdraiata completamente e l’affidarmi agli altri.
G: Il mio corpo diceva che Luca è molto bravo: ci siamo sciolti in due.
D: Il mio corpo mi ha detto che devo fidarmi di voi.

16. Scheda tecnica/“L’asciugamano”

Partecipanti:
7 animatori con disabilità
– 2 educatori
– 2 volontari

Durata del laboratorio:
3 ore circa
15 minuti di riscaldamento
2:15 ora di attività
30 minuti di condivisione

Luogo:
ampia stanza

Obiettivo generale:
conoscere il proprio corpo e utilizzarlo come strumento di piacere

Obiettivi specifici:
riconoscere il proprio corpo prima in segmenti poi nella sua totalità,  individuando le zone più sensibili

Attività
1) Riscaldamento.
2) I corsisti sono stati messi in costume e fatti sdraiare. Con un asciugamano sono stati ricoperti a segmenti fino a coprire totalmente il loro corpo. Dell’acqua molto calda veniva versata dolcemente nei vari segmenti coperti del corpo per cercare di individuare le zone più sensibili, le zone del piacere.
3) Condivisione dell’esperienza.

Materiali:
asciugamani, recipienti con coperchi per l’acqua calda, materassini, scodelle, cuscini (i cuscini sono fondamentali… Ogni volta che stendevamo a terra le persone con disabilità era importante riuscire a garantire una posizione comoda riempiendo i vuoti lasciati dai loro corpi).  

Commenti dei partecipanti
G: Ho sentito il calore nelle gambe, le mie gambe esistono. Trovo differenza tra la ginnastica del terapista e quello che facciamo qui perché voi mi fate diventare grande.
S: Quando faccio la doccia è diverso e non sento le parti del corpo…
S: Quando l’acqua mi è arrivata sulla vagina, ho provato piacere, calore, ho sospirato…
D: Quando mi lava mia mamma il mio corpo non dice niente.
F: Io devo controllare tutto e il fatto di dovermi lasciare andare nelle mani dell’altro mi dava fastidio, non mi fido.
T: L’acqua mi ha massaggiato la vagina. Una sensazione nuova.

15. Il corpo e i piaceri. Il corpo che desidera e sogna. Il corpo che fa e agisce, il corpo che riceve e accoglie

Terza parte
“Il corpo sa tutto o quasi
Il corpo conosce l’acqua perché la beve
conosce l’aria perché la respira
il corpo conosce i baci che dà e riceve.
Molta fatica fa con le parole
che ascolta o dice,
lì si confonde
tra linfa e parassita, tra la chioma
e la radice”.
(Elogio del corpo)

“A partire dalla sua valenza semantica, il piacere designa dunque un qualcosa che ha a che fare direttamente con l’esperienza dell’Io corporeo. Essere corpo significa esperire il mondo e insieme essere collocati in esso. La sensazione traccia un confine tra il dentro e il fuori, è un punto di tensione ove l’oggetto – o l’alterità di cui si ha percezione – si formula come termine di repulsione o di desiderio”.
(Estratto da L’universo del corpo di Salvatore Natoli)

L’obiettivo di questo terzo anno di laboratorio si incentra su una reale conoscenza del proprio corpo, non solo dal punto di vista medico-fisioterapico, ma anche come strumento di piacere. Questo permette, ai disabili e non solo, di avere una maggiore consapevolezza di sé.
Perché corpo e piacere sono strettamente connessi.
Il piacere è il senso di viva soddisfazione che deriva dall’appagamento di desideri, fisici o spirituali, come pure di aspirazioni di vario genere. Nel suo significato più immediato e corrente il termine è sinonimo di godimento o, più esattamente, di esaltazione dei sensi.
Il piacere ci ricarica di energia, ci rende dinamici, scaccia la fatica, ci rilassa, ci permette di guarire, ci ridona la gioia. Ci riconnette al nostro corpo, agli altri e al mondo.
Partendo da queste definizioni vogliamo spiegarvi perché il nostro percorso sulla “Conoscenza di sé attraverso il corpo” doveva passare e concludersi con il piacere.
Il percorso è durato tre anni. Nei primi due anni abbiamo scoperto che i disabili partecipanti al laboratorio conoscevano benissimo il loro corpo dal punto di vista fisioterapico: cosa funziona e cosa non funziona, ma non possedevano nessuna conoscenza del corpo come fonte di piacere. Piacere che non deve essere collegato solo alla sessualità, ma alla scoperta di parti di corpo che, se stimolate, possono creare momenti di benessere. Il raggiungimento di uno stato piacevole avviene attraverso lo scambio affettivo con il massaggiatore. Per questo motivo ci siamo avvalsi di massaggiatori olistici che con le loro mani hanno permesso ai disabili di fare una esperienza nuova. Infatti il loro corpo non veniva toccato per togliere un dolore fisico ma per creare un piacere. Questo permetteva loro di mettersi in contatto con ogni centimetro del corpo e le sensazioni che scorrevano dentro di loro nel momento in cui veniva effettuato il massaggio. Queste pratiche olistiche hanno aiutato i disabili ad avere una maggiore conoscenza della realtà e a sentirsi maggiormente gratificati dal fatto che non venivano considerati  persone diverse e non venivano visti in maniera pietistica, aumentando la loro consapevolezza e l’autostima.

13. Scheda tecnica/“Lo specchio”

Partecipanti:
– 7 animatori con disabilità
– 2 educatori (di cui uno conduce il laboratorio)

Durata del laboratorio:
2 ore circa
15 minuti di riscaldamento
1:15 ora di attività
30 minuti di condivisione

Luogo:
ampia stanza

Obiettivo generale:
consapevolezza nella percezione del proprio corpo

Obiettivi specifici:
– verificare le caratteristiche reali del proprio corpo
– riconoscere se stessi

Attività
1) Riscaldamento.
2) Cosa mi piace e non mi piace del mio corpo: i partecipanti sono stati messi in costume da bagno e poi posti davanti a uno specchio per vedersi nella loro totalità. Dopo sono stati posti in cerchio e a voce hanno risposto alla domanda: “Cosa mi piace e cosa non mi piace del mio corpo?”.
Il conduttore scrive quello che dicono i partecipanti.
3) Condivisione: come siamo stati nel fare questa attività, su cosa ci ha fatto riflettere, cosa ha mosso in noi.

Materiali:
specchi, fogli, biro

Commenti dei partecipanti
T: non ho problemi perché sono abituata, non ho avuto difficoltà a dire le cose che mi piacciono o no, perché ho fatto un percorso di accettazione personale. Mi piace condividere il lavoro con il gruppo.
F: imbarazzante perché non mi ero mai guardata ed ero in difficoltà a condividere perché, non conoscendomi, faccio fatica a parlarne.
G: mi è piaciuto perché sono contento di fare vedere il mio corpo.
D: mi sono sentito bene, anche se non sono abituato a farlo. Non mi ero mai visto per intero.
S: mi sono sentita bene, avevo paura di essere imbarazzata di dire le parti di me che mi piacciono o non mi piacciono, perché non è una cosa facile perché ho paura del giudizio.

11. Scheda tecnica/“La sagoma”

Partecipanti:
– 7 animatori con disabilità
– 2 educatori (di cui uno conduce il laboratorio)
– 2 volontari

Durata del laboratorio:
2 incontri (almeno 4 ore)

Luogo:
ampia stanza

Obiettivo generale:
consapevolezza nella percezione del proprio corpo

Obiettivi specifici:
– verifica delle immagini di sé
– osservare il proprio corpo nella sua totalità e complessità
– riconoscere se stessi, le potenzialità e i limiti del corpo

Attività
1) Riscaldamento.
2) Sagome: dopo che tutti hanno fatto la sagoma, ognuno ha condiviso il suo vissuto nel fare questa attività. L’obiettivo è far vedere ai ragazzi coinvolti nell’attività che hanno un corpo distaccato dalla carrozzina e questo corpo è formato da tante parti.
Successivamente abbiamo disegnato le sagome dei ragazzi su dei cartelloni, e con materiale vario che avevano a disposizione (rafia, sughero, cartoncini, legno, carte di vario tipo e colori) dovevano segnalare sui cartelloni le parti funzionanti e quelle non funzionanti del proprio corpo.
3) Condivisione: come siamo stati nel fare questa attività, su cosa ci ha fatto riflettere, cosa ha mosso in noi.

Materiali:
cartelloni, pennarelli, rafia, sughero, cartoncini, legno, carte di vario tipo e colori 

Commenti dei partecipanti
D: io non conoscevo tutto il corpo. Ho scoperto che ho le gambe. Mi ha fatto capire che io ho più consapevolezza del mio corpo. Ho bisogno di aiuto quindi mi dimentico di avere le gambe. Il pene funziona perché lo uso per fare la pipì!
D: non mi sono mai vista sdraiata, ho avuto paura. Dopo è stato facile perché so bene cosa fare con le mie parti del corpo.
F: è la prima volta che lo faccio. Non sono nemmeno abituata a sdraiarmi per terra. Ho riscoperto parti del corpo. Ho avuto un po’ di paura. È stata una piccola conquista e devo lavorare sulla paura di cadere. Non avevo mai visto il mio corpo per intero e alcune parti non le conosco. Mi ha incuriosito ma ho paura. Penso sempre che gli altri siano migliori di me. Mi vergogno un po’ del fatto di non riuscire a fare le cose.

9. Scheda tecnica/“I limoni”

Partecipanti:
– 7 animatori con disabilità
– 2 educatori 

Durata del laboratorio:
2 ore circa
15 minuti di riscaldamento
1:15 ora di attività
30 minuti di condivisione

Luogo:
ampia stanza

Obiettivo:
consapevolezza nella percezione del proprio corpo

Obiettivi specifici:
– imparare a descrivere qualcosa per riuscire a raccontare noi stessi
– riflettere sulle differenze.

Attività
1) Riscaldamento.
2) Gioco dei limoni: ogni partecipante ha un limone e lo descrive nei minimi particolari. Alla fine della descrizione i limoni vengono posti all’interno di un sacchetto nero e mescolati. A turno ogni partecipante deve estrarre un limone e riconoscerlo. Se il limone non è quello descritto viene riposto nel sacchetto. Il gioco finisce quando tutti riconoscono il proprio limone facendosi anche aiutare dalla descrizione fatta sul foglio.
Dopo aver descritto il limone nei minimi dettagli, abbiamo provato a fare lo stesso con il nostro corpo…
 3) Condivisione: come siamo stati nel fare questa attività, su cosa ci ha fatto riflettere, cosa ha mosso in noi. L’obiettivo di questa attività è quello di imparare a descrivere bene tutti i particolari.

Materiali:
fogli, biro, limoni, sacchetto nero

Commenti partecipanti
D: descrivere i limoni è stato facile, in ogni dettaglio. Poi descrivere me stesso… che fatica, che imbarazzo!
F: facile raccontare come è fatto un limone, anche nelle sue ammaccature e imperfezioni. Raccontare le mie di imperfezioni invece è stata durissima. Anche perché non sempre ne siamo consapevoli ed evito di descrivere le parti del corpo che non mi piacciono.
S: la stessa difficoltà che ho incontrato a descrivere il limone l’ho avuta la volta scorsa a descrivere me stessa, perché non sono abituata a delineare i miei particolari e una parte del corpo che io non uso faccio fatica a raccontarla.
G: mi sono sentito bene a descrivere il limone, molto meglio che a descrivere me stesso, perché faccio fatica a pensare al mio corpo!

8. Il corpo tra limiti e possibilità. Il corpo che può e il corpo che non può. Il corpo che non sa fare, il corpo che sa fare, il corpo che sa fare se ci sono le condizioni giuste

Seconda parte
“Il corpo è un veicolo meraviglioso, molto misterioso e complesso. Usalo, non lottarci contro; aiutalo. Nell’istante in cui vai contro di lui, vai contro te stesso”.
(Osho)

“Jaspers sottolinea come nel concetto di coscienza dell’Io sia presupposta la coscienza del corpo, ossia la capacità di percepire e unificare in un quadro di riferimento significativo una serie di sensazioni. Queste ultime, da un lato, ci forniscono una rappresentazione mentale del nostro corpo, quasi fosse un oggetto visto dall’esterno, dall’altro, evocano in noi un sentimento del nostro ‘essere corporei’, cioè del fatto che solo attraverso la corporeità siamo viventi. In una dinamica psicologica sana, infatti, la coscienza dell’Io non può prescindere da una percezione del corpo.
[…]
Già in questo primo quadro descrittivo della coscienza dell’Io corporeo, osserviamo che essa si estende al di là dei confini somatici propriamente detti, per coinvolgere anche il contesto ambientale e gli oggetti che vi sono presenti e con i quali siamo in relazione.
[…]
Un esponente tra i più significativi della psichiatria contemporanea, R.D. Laing (1959), ha affermato che la ‘sicurezza ontologica primaria’, cioè la capacità di affrontare la vita e le sue difficoltà, come pure di progettare il futuro, deriva e dipende dalla coscienza dell’Io corporeo, ossia da quel modo di sentire il corpo come realtà viva, reale e concreta, da cui non è possibile separarsi senza cessare di esistere.
[…]
L’immagine dell’Io corporeo è soggetta a una continua ristrutturazione, che è dovuta, in parte, alle stimolazioni endogene di tipo psicobiologico e, in parte, alle relazioni sociali e quindi alle modalità di adattamento e di reazione di fronte ad altre immagini corporee, in senso sia concreto-spaziale sia fantastico-emotivo.
[…]
D.W. Winnicott (1948, 1960) ritiene l’acquisizione di uno schema corporeo personale, e quindi di una coscienza del corpo adeguata, un fattore essenziale sia per la capacità di una relazione immediata e di un’analisi adeguata della realtà – ivi inclusa la potenzialità di superare le difficoltà e gli eventuali traumi dello sviluppo – sia, di conseguenza, per la costituzione di un Sé autentico”.
(Estratto da La coscienza dell’Io-corpo di Lucio Pinkus)

La prima parte del laboratorio, nonostante le perplessità iniziali, si è rivelata importante per l’autoconsapevolezza di sé. Come proseguire ora questo significativo percorso? Quali gli obiettivi per non dispere il percorso fatto l’anno precedente? Come si poteva proseguire il percorso intrapreso? Dal lavoro del primo anno era emerso che l’immagine dei disabili partecipanti al laboratorio era falsata, normalizzata dai famigliari. Un’immagine dove tutto è perfetto, dove un braccio piegato diventa magicamente dritto perché “Lo dice la mamma!”. Per riportare i ragazzi su un piano di realtà, con l’aiuto di una psicologa, noi educatori abbiamo deciso di porci come obiettivo, attraverso le attività proposte, di far  riconoscere se stessi nella loro totalità e complessità, con i loro limiti e potenzialità.

6. Scheda tecnica/“Dicono di me…”

Partecipanti:
– 7 animatori con disabilità
– 2 educatori
– 2 volontari

Durata del laboratorio:
2 ore circa
30 minuti di riscaldamento
1 ora di attività
30 minuti di condivisione

Luogo:
ampia stanza

Obiettivo generale:
acquisire consapevolezza del proprio corpo

Obiettivi specifici:
verifica delle molteplici immagini di sé
acquisizione della presa di coscienza del proprio corpo

Attività
1) Riscaldamento.
2) Rispondere alla domanda: “Cosa pensano del mio corpo i miei amici, i miei educatori, i miei genitori e altri parenti tutti?”.
3) Condivisione degli elaborati e dei vissuti, dove è emersa un’immagine di se stessi spesso viziata dai giudizi delle persone vicine (famigliari, amici), a volte molto distante da una reale conoscenza delle proprie caratteristiche fisiche.

Commenti dei partecipanti
D: Dicono di me i miei genitori che io sono simpatico, bello, bravo, intelligente, buono ma… troppo ingenuo per uscire da solo.
D: I miei genitori dicono che con il mio corpo io posso fare tutto… Camminare, correre, saltare, e giocare a pallone. Vestirmi e svestirmi da sola. Lavarmi la faccia, le mani e i denti da sola. Scrivere sulla tastiera e usare il computer. Mangiare da sola. Usare il telecomando della tv e usare la Nintendo DS. Scrivere e leggere.

4. Scheda tecnica/“Il mio corpo e il corpo che vorrei”

Partecipanti:
– 7 animatori con disabilità
– 2 educatori
– 2 volontari

Durata del laboratorio:
2 ore circa
15 minuti di riscaldamento
1:15 minuti di attività
30 minuti di condivisione

Luogo:
ampia stanza

Obiettivo generale:
acquisire consapevolezza del proprio corpo

Obiettivi specifici:
– riconoscimento e analisi delle proprie qualità
– creazione di relazioni, condivisione

Attività
1) Riscaldamento: il riscaldamento è stato fatto in tutti gli incontri. Un momento indispensabile per creare un contesto accogliente e positivo e per risvegliare il corpo attraverso semplici gesti e stimolare la concentrazione con dei giochi.
2) Descrizione di sé: ogni partecipante ha descritto se stesso in forma scritta, successivamente ha condiviso il lavoro con gli altri.
3) Disegno di una persona immaginaria o reale, e descrizione e spiegazione.
4) Condivisione: come ci siamo sentiti nell’attività in gruppo, difficoltà emerse.

Materiali:
fogli, biro,matite colorate, scotch
Importante: abbiamo deciso di inserire la durata del laboratorio, quantificandola in minuti e ore, per realizzare una scheda tecnica completa. In realtà molti di questi incontri si sono allungati. Come spiegato nell’intervista, avere la possibilità di dedicare più tempo, senza l’ansia della risposta immediata e potendo lasciare ai partecipanti lo spazio giusto per rielaborare i vissuti, è stato fondamentale per la riuscita del percorso.

Commenti dei partecipanti
D: Io adoro disegnare. Ho disegnato me stessa, così, come penso di essere. Poi una volta in cerchio con gli altri, nel momento della condivisone, ho fatto molta fatica, ho trovato difficoltà a trovare le parole. Molto più facile è stato fare l’altro disegno: ho disegnato mio padre, con la maglietta di Superman e l’ho descritto agli altri nei minimi dettagli… L’altezza, le mani grandi, gli occhiali, i suoi movimenti usuali… Un po’ come vorrei essere anche io!
G: La qualità del disegno non è eccezionale, ma sono contento perché l’ho fatto da solo. La persona che ho disegnato è di fantasia, è in piedi e il suo corpo funziona bene. Io invece sono in carrozzina, anche se vorrei non esserci. Tutti mi dicono che sono uguale agli altri, anche se in realtà io mi accorgo che non è proprio così.
L: Ho disegnato un personaggio di fantasia, probabilmente un alieno, con un grande seno e delle gambe lunghe. Molto colorato. Descrivere me stessa non è stato facile, ma sono riuscita a tirare fuori le emozioni perché sono spesso da sola e non parlo con nessuno, in questo contesto invece qualcuno mi ascolta. Probabilmente ho disegnato un alieno perché vorrei essere totalmente cambiata, vorrei un seno più prosperoso, lo stomaco più piccolo e… tanto altro.

3. Il corpo che comunica. L’immagine che abbiamo del nostro corpo è parte integrante della nostra identità. Nominare, conoscere, comprendere il corpo

Prima parte
“Secondo alcuni autorevoli testi di tecnica aeronautica, il calabrone non può volare, a causa della forma e del peso del proprio corpo in rapporto alla superficie alare. Ma il calabrone non lo sa e perciò continua a volare”.

(Igor’ Ivanovič Sikorskij)“Quando un disabile ha una percezione equilibrata e di accettazione della propria situazione, più facilmente è portato a credere che gli altri lo guardino perché si incuriosiscono di alcune cose, ad esempio della protesi, della carrozzina, dei suoi movimenti, della deambulazione particolare; se invece egli rifiuta la sua menomazione o se ne vergogna, tenderà a percepire la curiosità degli altri in modo umiliante, pensando di essere considerato in maniera negativa, con disprezzo e pietà. […] Nel sentirsi guardata la persona sembra acquistare un ruolo passivo di ‘centro’, di bersaglio. In questa situazione la relazione con l’altro diventa asimmetrica: ‘io ho vergogna di me davanti allo sguardo dell’altro’ (Sartre 1943): guardare significa possedere, il soggetto decade a oggetto.
Come prima conseguenza l’Io e le sue qualità diventano evidenti ed enfatizzate, assumono un risalto particolare nel campo della coscienza.
[…]
L’handicappato vive il proprio aspetto come una apparenza negativa, centro di un’attenzione che non può evitare né modificare immediatamente: in generale egli si sente ‘ferito’ dagli sguardi e cerca di sottrarsi a quel particolare tipo di attenzione in cui si sente considerato come un corpo minorato, piuttosto che come una persona. Il corpo non è più un ‘io sono’, che ha autonome possibilità espressive e comunicative, ma è scaduto a livello di un ‘oggetto esposto al mondo’, di cui gli altri dispongono.
Lo sguardo può anche essere considerato un atto incompiuto che costituisce la fase preliminare di una relazione; in questo senso lo sguardo rientra nel contesto della comunicazione non verbale, come inizio di una organizzazione e trasmissione di significati che si realizza tramite il veicolo semantico.
[…]
La persona handicappata, ‘centrata’ dagli sguardi prolungati o furtivi, conclude: sono diverso, il mio corpo non è una ‘modulazione esteriore’ di una libera e personale intimità, ma è un ‘corpo oggetto’, il corpo che ho, anziché il corpo che sono.
Ma il corpo non è soltanto strumento di comunicazione verso l’esterno, il corpo è anche il custode del mio segreto personale, esso racchiude e difende la mia intimità”.
(Estratto da Il corpo che ho, anziché il corpo che sono. Il disabile di fronte allo sguardo degli altri  di Gianni Selleri)

Tante volte noi educatori ci siamo chiesti se i nostri colleghi disabili conoscono il loro corpo e come lo usano nei vari contesti in cui si trovano. Tante volte ci siamo domandati se i nostri giovani disabili sanno di avere un corpo e se quel corpo, per loro, è anche veicolo di relazione. Relazione che nel nostro lavoro è fondamentale. Ma come si fa a costruire relazioni con il corpo se non lo si conosce o si ha paura di usarlo? Per rispondere a questi interrogativi noi educatori abbiamo deciso di promuovere un laboratorio sul corpo. Ci siamo dedicati alla consapevolezza della percezione di sé cercando, con le attività proposte, di acquisire una presa di coscienza del proprio corpo partendo da una verifica delle immagini del sé. 

1. Qual è la percezione che hanno del proprio corpo le persone con disabilità?

A cura di Luca Cenci e Tristano Redeghieri, educatori

Come Adamo presto al mattino,/che cammina uscito dalla capanna di fronde rinfrancato/dal sonno,/ guardami mentre passo, odi la mia voce, avvicinami,/toccami, accosta la palma della tua mano al mio corpo/mentre passo,/non avere paura del mio corpo.
(Walt Whitman, Foglie d’erba)

Sono ormai passati tre anni da quando ci siamo posti la domanda che ha scatenato questo percorso: qual è la percezione che hanno del proprio corpo le persone con disabilità del nostro gruppo di lavoro? Una domanda semplice, quasi banale all’apparenza. In realtà, una domanda che va a toccare molte delle corde che costruiscono l’identità.
L’idea era quella di lavorare sulla percezione del proprio corpo, ascoltare le persone con disabilità, capire cosa pensavano e come vedevano loro stesse il proprio aspetto, la propria figura. Un momento fondamentale per capire come proseguire il lavoro, per accorgersi degli ampi margini che c’erano tra percezione, spesso fomentata dall’esterno, e reale conoscenza.
Un dato di fatto è che tutti noi modifichiamo il rapporto con noi stessi da come veniamo guardati: tutte le persone che conosciamo, che incontriamo sono come degli specchi, e ciò che vediamo riflesso negli occhi degli altri influenza l’immagine che costruiamo di noi stessi. Tutto questo risulta ancora più accentuato per le persone con disabilità. La conseguenza è che si trovano spesso un’immagine di se stessi falsata, costruita dagli altri, perdendo così ogni consapevolezza sulla realtà.
Uno dei trait d’union che collegano questi tre anni di percorso è proprio il tentativo di raccontare il nostro corpo dal nostro punto di vista, cercando di non farci influenzare (anche se non sempre è possibile) da quell’immagine che viene solitamente costruita più su giudizi altrui (famigliari, amici, colleghi) che su una reale conoscenza delle proprie caratteristiche fisiche.
L’obiettivo del laboratorio si incentra proprio su questo, su una reale conoscenza del proprio corpo, su di una maggiore consapevolezza della propria identità.
Così siamo partiti con delle attività molto semplici, come la descrizione individuale del proprio corpo osservandosi allo specchio, il raccontare cosa pensano e cosa dicono gli altri del proprio corpo, in maniera scritta e orale. Successivamente abbiamo sperimentato momenti pratici, chiedendo ai partecipanti dei movimenti, dei piccoli esercizi fisici, chiedendo loro l’esposizione di quei movimenti fatti o solo tentati, con l’obiettivo di aiutare i partecipanti a essere obiettivi sulla valutazione di se stessi. Tutto questo con una presa di coscienza delle proprie qualità facendosi magari aiutare dagli altri componenti del gruppo, con un riconoscimento delle proprie qualità e una acquisizione di consapevolezza del proprio corpo.
Con questi giochi pratici è emerso un altro tema importante, sviluppato poi negli anni successivi: è emerso come le persone con disabilità siano a conoscenza del proprio deficit, che è la loro immagine più manifesta, di come conoscano le proprie difficoltà evidenziate dalla diagnosi, ma difficilmente riescano a individuare le proprie potenzialità e abilità.
A nostro favore ha giocato sicuramente il contesto nella quale lavoriamo. Il Gruppo Calamaio ormai da trent’anni lavora su temi come la relazione, la conoscenza di sé e dell’altro, la consapevolezza. Il nostro obiettivo è quello di favorire sempre più una cultura dell’inclusione. Anche quando è scomoda e quando mette in crisi.
Abbiamo deciso di inserire le schede tecniche di alcune attività, all’interno di tre percorsi di dieci incontri ciascuno, quelle che reputavamo più significative.
Dai commenti dei partecipanti è possibile iniziare a verificare quale era la percezione del proprio corpo all’inizio del percorso e successivamente di come questa percezione si sia evoluta nel tempo. Le loro parole condivise sono state il metro che ci hanno permesso di regolare il percorso e le attività, parole in alcuni casi molto intime e delicate, che a volte ci hanno costretto a tirare il freno e altre volte ci hanno permesso di forzare la mano. Per questo abbiamo selezionato alcuni commenti (confrontandoci con loro su quello che doveva rimanere nella “nostra stanza” e quello che poteva uscire), perché per capire questo percorso è indispensabile leggere le parole di chi lo ha vissuto in prima persona.

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