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Autore: Nicola Rabbi

A dura crisi, dura lotta. Le proteste delle persone con disabilità in Grecia

Il 4 novembre 2015, circa 10.000 tra persone con disabilità e loro familiari e sostenitori da tutte le regioni della Grecia si sono riunite nel centro di Atene, per protestare contro l’impatto della crisi sulle loro condizioni di vita. A guidare la protesta e a tenere un discorso è stato Yannis Vardakastanis, Presidente della ESAEA, la confederazione nazionale greca delle persone con disabilità, e anche dell’European Disability Forum che rappresenta le persone con disabilità a livello continentale. Secondo Vardakastanis, “il movimento della disabilità greco ha voluto mandare un messaggio chiaro: ci battiamo per l’educazione, per la salute, per la prevenzione, per la vita indipendente, per la protezione dei redditi. Le persone hanno richiesto l’istituzione di un programma nazionale per le politiche pubbliche per le disabilità e misure quotidiane per la protezione dalla crisi delle persone disabili o con malattie croniche e delle loro famiglie. Hanno inoltre mandato un messaggio alle istituzioni europee – i tagli economici non devono limitare i diritti delle persone disabili”.
Le cronache degli ultimi anni hanno spesso trattato la situazione del bilancio nazionale greco e i tagli a esso imposti dalla “Troika” composta da Commissione Europea, BCE e FMI, che hanno conquistato le prime pagine dei giornali e le homepage dei siti in tutta Europa nelle diverse occasioni in cui l’insolvenza del debito pubblico e la “Grexit” sono apparse a un passo, dal primo prestito di salvataggio tra aprile e maggio 2010 al referendum del luglio 2015. Le misure di austerità hanno un effetto particolarmente grave sulle persone con disabilità: secondo Vardakastanis “c’è paura di un ritorno al vedere gli istituti come soluzione per trattare le persone disabili tagliando i costi. Anche i tagli a pensioni e salari hanno un grande impatto sulle persone con disabilità, insieme agli alti tassi di disoccupazione. Ogni anno la situazione nelle scuole per i bambini con disabilità è più difficile, con la mancanza di insegnanti e di libri e materiali accessibili. Di tanto in tanto, medicine costose importanti per le persone con malattie croniche diventano rare, e le parcelle mediche stanno crescendo a causa dei tagli al sistema sanitario pubblico”.
Al termine della manifestazione del 4 novembre, davanti al Parlamento greco, i rappresentanti della ESAEA hanno concordato un incontro con il Primo Ministro Alexis Tsipras, tenutosi il 3 dicembre 2015 in coincidenza con la Giornata Internazionale delle persone con disabilità. Così Vardakastanis descrive l’incontro: “Per più di un’ora, la delegazione dell’ESAEA ha descritto la drammatica situazione che le persone con disabilità in tutta la nazione affrontano in ogni aspetto della propria vita a causa delle misure di austerità e della mancanza di politiche per la deistituzionalizzazione e la vita indipendente, ha chiesto una protezione piena contro tutti i tagli alle pensioni, ai sussidi e ai salari, e ha osservato che il movimento della disabilità è pronto a combattere. Il Primo Ministro Alexis Tsipras ha affermato che le richieste del movimento della disabilità sono ragionevoli, e che lui e il suo governo combatteranno per i diritti e le indennità delle persone disabili. Tsipras ha inoltre ricordato che un aggiornamento al sistema di protezione sociale è un problema per lui davvero cruciale”. La delegazione ESAEA ha incontrato il 3 dicembre anche il Presidente della Repubblica Prokopios Pavlopoulos, che ha affermato che “in tempo di crisi, una forte rete di sicurezza dovrebbe essere fornita dallo Stato alle persone con disabilità”.

Falsi invalidi, tagli veri
In questi anni di crisi, i media europei hanno rilanciato, in genere come esempio di sprechi “levantini” del bilancio pubblico greco, i casi di truffe legate ai sussidi di disabilità. Nella primavera del 2012 ha fatto il giro del mondo la descrizione di Zante come “isola dei ciechi”, quando il Ministero della Salute ha esaminato il fatto che quasi il 2% della popolazione fruiva di sussidi per la cecità – una quota di 9 volte superiore all’incidenza media della patologia in Europa; e così, mentre tra i beneficiari dell’indennità emergevano un tassista e un cacciatore, anche persone effettivamente cieche rimanevano impigliate nelle maglie ristrette contro i falsi invalidi, e i pagamenti dei loro sussidi venivano sospesi. Vardakastanis non nega la diffusione di questi fenomeni, ma li giudica poco rilevanti per l’immagine pubblica delle persone con disabilità: “Fortunatamente, la Grecia è una piccola nazione democratica, dove tutti conoscono le frodi o l’ingiustizia nel sistema. I cittadini greci sono consapevoli delle lotte delle persone disabili e della corruzione del sistema politico e sanitario, che approvava falsamente sussidi di disabilità in casi di persone senza disabilità. Le persone disabili non sono da biasimare per le autorità corrotte. Le persone disabili combattono per i propri diritti e la società greca ne è ben consapevole”. Vardakastanis cita a supporto di questa opinione una ricerca condotta da ESAEA nel novembre 2013 con interviste telefoniche a oltre 4.000 persone: se quasi l’80% del campione riscontra l’esistenza di una discriminazione nei confronti delle persone con disabilità, e il 60% un peggioramento delle loro vite negli anni della crisi, percentuali intorno al 90% degli intervistati riconoscono che lo Stato dovrebbe farsi carico dei costi aggiuntivi imposti alle famiglie dalla presenza di membri con disabilità e non dovrebbe tagliare le pensioni di invalidità, e la fiducia nel movimento delle persone con disabilità è molto più alta di quella verso altri organismi di rappresentanza o le istituzioni pubbliche.
Un’eco minore sulla stampa internazionale ha avuto in questi anni il grave deterioramento del sistema sanitario greco a seguito dei tagli di bilancio. Un articolo apparso sulla rivista “Lancet” nel 2014, riferito solo ai primi anni della crisi, ha descritto i dettagli delle misure di austerità (taglio del 26% tra il 2009 e il 2011 del budget per gli ospedali pubblici, dimezzamento della spesa farmaceutica e per i servizi di salute mentale a carico dello Stato) e i loro effetti sulla situazione sanitaria (riapparizione della malaria, aumenti a due cifre percentuali dei suicidi, incremento del 43% per la mortalità infantile), arrivando ad accusare di “negazionismo” le istituzioni nazionali ed europee che hanno minimizzato l’impatto delle “riforme strutturali” sulla salute. I dati riportati nel 2015 dalla stampa e da una campagna di crowdfunding per il sistema sanitario greco lanciata in Irlanda (come a fronte di una catastrofe naturale, o di uno stato di povertà endemica) non sono più confortanti: emigrazione del 40% dei medici generici, turni insopportabili e pagamenti sospesi per il personale sanitario rimasto in Grecia, cicli vaccinali mancati e carenza di farmaci di base. Una situazione che Vardakastanis così descrive: “Sempre più persone con disabilità e malattie croniche soffrono di più la povertà, dovendo pagare sempre di più per medicinali e parcelle mediche a causa dei propri problemi di salute. Molte persone disoccupate non hanno alcuna sicurezza sociale e non sono in grado di pagare i propri medicinali. Anche se c’è una legge che sottolinea che i malati cronici dovrebbero continuare a prendere le loro medicine gratuitamente, molti ospedali non possono fornirle a causa dei tagli di bilancio. Sappiamo di molte persone affette da patologie oncologiche, renali e altre che hanno smesso di prendere medicinali, e continuiamo a combattere per loro. Anche se qualcuno è in grado di pagare medicinali e parcelle, fronteggia sempre la burocrazia, la mancanza di dottori, code e ritardi infiniti”.

La lotta per i diritti
Vardakastanis collega in modo esplicito le condizioni di vita delle persone con disabilità e il tema dei diritti umani, incarnato dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, sottoscritta dalla Grecia e da una vasta maggioranza di Stati membri della UE ma rispetto ai cui principi, tra cui deistituzionalizzazione e educazione inclusiva, “il lavoro sull’attuazione delle clausole si è quasi fermato, dal momento che nazioni come la Grecia cercano di ridurre i deficit di bilancio”. A fronte di diritti la cui esigibilità è costantemente subordinata alle compatibilità economiche, non stupisce che un universo semantico ricorrente nelle parole di Vardakastanis sia quello agonistico, della lotta e del combattimento: “È difficile rendere i nostri sogni realtà, ma non accetteremo mai di essere ricollocati in istituti. Combatteremo per rendere i nostri sogni realtà anche in un periodo di crisi”. E i sogni per cui lottare sono “la protezione dei diritti delle persone disabili, l’inclusione sociale, condizioni di vita dignitose, l’eliminazione di tutte le ingiustizie e le forme di discriminazione contro le persone con disabilità, [che] sono gli ovvi diritti umani per cui combattiamo e continueremo a farlo negli anni a venire. Combattiamo per l’educazione, il welfare, il reddito, i sussidi, le pensioni, la copertura sanitaria e la cura”.
Il 2016 si è aperto con molte incognite: mentre Alexis Tsipras, nel messaggio di Capodanno, lo ha definito “l’anno che segnerà l’uscita finale dalla crisi economica e, al contempo, la fine della sorveglianza e il riacquisto della nostra sovranità nazionale”, restano forti le pressioni per ulteriori tagli alle pensioni. Il terzo Memorandum (siglato ad agosto 2015 tra governo greco e Commissione Europea) richiede una riforma generale della spesa sociale in cui l’introduzione del reddito minimo garantito – che la Grecia è insieme all’Italia l’unico Paese UE a non prevedere –sia finanziata da tagli dello 0,5% del PIL in altri settori del welfare. Il Parlamento greco sta discutendo a inizio 2016 misure su assistenza sociale e copertura sanitaria dei gruppi sociali non assicurati e vulnerabili che Vardakastanis ritiene vadano “nella giusta direzione”, ma debbano essere integrate da un Segretariato sulla disabilità (già richiesto a Tsipras nell’incontro del 3 dicembre) e da un “programma nazionale di politiche pubbliche” come unica via capace di garantire alle persone con disabilità la “sopravvivenza nella crisi”.
Nel discorso dell’8 luglio del 2015 al Parlamento Europeo, Tsipras ha affermato che la Grecia “è stata trasformata in un laboratorio sperimentale dell’austerità negli ultimi 5 anni”, riecheggiando le dichiarazioni di altri membri di SYRIZA, il partito di maggioranza di governo, su una Grecia “cavia” del futuro dell’Europa, ruolo che può valere anche per le politiche relative alla disabilità. Vardakastanis, ricordando le dimostrazioni e le proteste condotte dalla ESAEA negli ultimi 5 anni, è pronto a una battaglia dal valore non solo nazionale: “Il movimento della disabilità in Grecia non si arrende e non rinuncia mai. Le persone con disabilità affrontano il futuro come chiunque altro – in tempi di crisi, dovremmo garantire che nessuno sia lasciato indietro”.

Una risata vi seppellirà

Mi è capitato di leggere sulla rivista superabile magazine di agosto 2015, un articolo dal titolo “ Le nuvole sono noiose”. Raccontava di Stefano un ragazzo che era innamorato di Ludovica, il colpo di scena si ha quando gli chiede di occuparsi di suo fratello down, per un paio di giorni, perché lei doveva stare in ospedale dalla madre appena operata. Stefano era molto perplesso e preoccupato perché per lui questa era una prima volta, all’ inizio tira fuori un sacco di scuse per evitare questa responsabilità che ai suoi occhi è un vero e proprio “pacco”, ma poi Ludovica con qualche promessa e qualche moina lo convince ad accettare, così si ritrova proiettato in un mondo che non conosce, ma che capisce pian piano non essere così triste e difficile come si era immaginato. La prova del nove è al matrimonio della sua ex Alessandra a cui è invitato e dovrà andarci con Andrea, questo era il nome del fratello down di Ludovica.  Andrea si rivelerà l’ invitato più imprevedibile e proprio per questo più divertente di fronte al quale si svelano i sentimenti più repressi e nascosti. Un episodio emblematico è quello in cui Andrea approccia anche fisicamente Giovanna la più avvenente e procace ex compagna di liceo facendo morire di invidia tutti i maschi che avrebbero voluto essere al suo posto e non hanno mai avuto il coraggio di provarci. La lettura di questo articolo mi ha riportato indietro di più di 30 anni, quando ero convinto di dover trovare una ragazza che oltre alla bellezza e alla cultura umanistica dovesse conoscere già il mondo della disabilità, per esempio, avere un fratello o un parente disabile. Il bello è che trovai una ragazza con tutte queste caratteristiche, alla fine riuscii a corteggiarla e a dirle quello che provavo per lei, non disse no, ma pur rimanendo amici le nostre strade si separarono. Questa storia mi ricorda anche un altro episodio molto meno piacevole accaduto durante il matrimonio di mia sorella, quando gli invitati dello sposo vedendomi per la prima volta restarono scandalizzati dalla mia presenza e chiesero ai miei genitori perché mi avessero portato. Vi lascio immaginare la reazione di mia madre e quella un po’ più composta di mio padre che cercava di calmarla e consolarla, io credo che sia stato per loro uno dei giorni più brutti della loro vita. I tempi sono un po’ cambiati, le persone disabili sono più conosciute e “questo mondo” non spaventa più come una volta, o almeno così appare. Ho letto una notizia che mi ha fatto rabbrividire e ricordare altri tempi: nella “civilissima” Danimarca è in vigore un progetto per il quale entro il 2030 grazie all’ aborto terapeutico non nasceranno più bambini down. La Danimarca non è l’ unico paese ad avere adottato delle linee guida che prevedono una vera e propria “soluzione finale” della questione dei portatori di handicap. Anche l’ Inghilterra ha una legge che consente l’aborto di feti “difettosi” fino al nono mese di gravidanza. La giustificazione di questo è il non far nascere persone infelici, ma Andrea nella nostra storia risulterà quello che riuscirà a divertirsi e a far divertire gli altri invitati al matrimonio. Essere imperfetti, almeno secondo certi canoni, non significa essere infelici a priori. Jérôme Lejeune lo scienziato che ha scoperto la trisomia 21 e che ha utilizzato la diagnosi prenatale per aiutare i bambini con la sindrome di Down a curarsi, racconta di un episodio bellissimo: mentre riceveva un premio, un ragazzo Down gli saltò al collo per ringraziarlo per quanto l’avesse aiutato e si fosse sentito amato da lui e anche per questo non nascondeva la sua sofferenza per il fatto che la sua scoperta venisse usata contro i feti affetti da questa sindrome. Lui stesso si chiede:“È preferibile una società di uomini imperfetti ma che si sentono voluti o di persone efficienti che non possono chiedere mai e quindi nemmeno ricevere amore? Ci scandalizziamo giustamente se qualche paese europeo costruisce dei muri anti migranti ma anche questi progetti danesi ed inglesi sono dei muri per impedire ai disabili di entrare nella vita e nella società, è la cultura dello scarto che Papa Francesco denuncia quotidianamente. Questa società crede di poter essere felice se tutti i cittadini non sono portatori di problemi, ma chi può dire di non aver problemi? Josephine Quintavalle, la più nota esponente laica del movimento pro-life britannico, che davanti al tentativo della Danimarca di eliminare la sindrome di Down uccidendo chi ne è affetto, elogia l’imperfezione affermando: “L’uomo vuole essere efficiente per non avere bisogno”. Il problema è che in questo modo non è felice, ma solo Andrea con la sua spensieratezza e la sua allegria abbatte i muri del pregiudizio e dell’ipocrisia. Qualcuno una volta diceva: “Una risata vi seppellirà”; io credo e spero, che sarà così anche per quei muri che la nostra società tenta sempre di ergere. 

Compagni, che destino avremo? Tornano all’assalto le bluse gialle di Eresia della felicità

Di Lucia Cominoli

Milano, sabato 25 luglio 2015, Torre del Filarete al Castello Sforzesco. Un plotone di duecento adolescenti di diversa età e provenienza gioca, compone e grida per quattro ore sui versi di Vladimir Majakovskij. Indossano una maglietta gialla, dei pantaloni neri e degli anfibi dello stesso colore. Una massa compatta e meticcia, di lingue, culture e fisionomie. Tra di loro ci sono anche due ragazzi con disabilità. Si rivolgono a un pubblico misto di familiari, addetti ai lavori, passanti e turisti attoniti. Parlano di desiderio, di slancio e di rivoluzione e ci invitano a seguirli fino alla Piazza del Duomo. Lì il culmine e l’apoteosi dell’happening, l’ultima tappa lombarda di Eresia della felicità, creazione a cielo aperto per Vladimir Majakovskij diretta da Marco Martinelli.
Il regista, fondatore con Ermanna Montanari del Teatro delle Albe di Ravenna, è tra gli autori della non-scuola, una poetica laboratoriale etica ed estetica sui generis, nata in opposizione ai canoni della pedagogia teatrale tradizionale con l’idea di mettere l’energia dell’esperienza creativa al centro dell’incontro con l’altro, del cambiamento umano e della comune responsabilità politica.
Quella di Eresia della felicità è una lunga storia, o meglio una genesi, perché questo spettacolo, se così si può chiamare, non è frutto di un atto di narrazione ma di creazione, una creazione non finita e in continuo divenire, mutevole e instabile come i corpi dei suoi protagonisti e gli sguardi dei suoi spettatori.
Per questo, prima di arrivare a Milano, è meglio fare un passo indietro e tornare a quel che accadde nel 2011 a Santarcangelo di Romagna. Lì a Santarcangelo 41, la quarantunesima edizione di uno dei più noti Festival di teatro contemporaneo in Italia e in Europa, Eresia fu per la prima volta sperimentata e insieme proposta al pubblico.
Ricordo bene la nuvola di polvere, gli schiamazzi e il caos che il primo giorno si sollevarono sul terriccio dello Sferisterio all’arrivo dei ragazzi.
Duecento adolescenti provenienti da Emilia Romagna, Brasile, Senegal, senza contare le tribù, così come ancora le chiama il regista Marco Martinelli, di Napoli, Stati Uniti, Belgio, Foligno, Conegliano Veneto, Milano e Mazara del Vallo. Una disordinata babele di figurine gialle si apprestava a entrare in azione davanti a un timido gruppo di spettatori seduti sul prato in prossimità delle mura cittadine.
A guidarli, su e giù dallo Sferisterio, un uomo sempre in corsa, tutt’uno con il suo microfono, le sue mani, le sue gambe e l’ultimo soffio di fiato rimastogli. Quell’uomo era ed è Marco Martinelli, fondatore con la moglie Ermanna Montanari del Teatro delle Albe di Ravenna, dal Novanta impegnato con gli attori e i collaboratori del gruppo, le cosiddette guide, in laboratori teatrali nelle scuole elementari, medie e superiori intorno a cui si è sviluppato ed è cresciuto il metodo della non-scuola delle Albe. Il metodo, volutamente definito antipedagogico, colpì alle origini per la sua carica eversiva, lontana dai dettami della pedagogia teatrale tradizionale benché fondante le radici nel teatro greco, nella dimensione corale in particolare, a favore della relazione con l’altro e di un attento impegno politico.
Un contesto in cui anche diversità e differenza trovano spazio, trasformandosi in risorsa.
Basta lasciar parlare la prima lettera del Noboalfabeto, il manifesto teorico-pratico dei principi della non-scuola: “A. Asinità. […]Vieni, sussurra la non-scuola all’asinello, vieni da me. Lascia perdere chi non ti ama. Da me troverai acqua e biada a volontà. Che tu sia benedetto, asinello errante! Vieni da me, e apri con la chiave dell’occasione l’asinin palato, sciogli la lingua, fai uscir dalla tua bocca quell’estraordinario rimbombo che la largità divina, in questo confusissimo secolo, nell’interno tuo spirito ha seminato. Vieni da me, e con me fai valere la tua barbara natura, raccogli i frutti e i fiori che sono nel giardino dell’asinina memoria. Vieni da me, e in me trovati con tutti, discorri con tutti, affratellati, unisciti, identificati con tutti, a tutti regala verità, domina a tutti, sii tutto! Nella non-scuola l’asino è l’adolescente, nella non-scuola l’asino è la guida: entrambi ragliano forte”.
I ragazzi erano pronti a mettersi in cerchio. Ragazzi diversi per origini, lingua e cultura che si mettevano con curiosità a confronto con le proprie biografie. Tra questi non si può certo dimenticare Carletto, un ragazzo con Sindrome di Down, serissimo e assolutamente compreso nel suo ruolo.
Al centro dello Sferisterio sostava una presenza complice: appeso al muro, il ritratto-santino di Vladimir Majakovskij, il poeta del Caucaso dai versi aguzzi.
Annoverato tra principali fondatori del Cubo-Futurismo Russo l’autore diverrà presto per i ragazzi modello assoluto, esempio di slancio, azzardo, grido di ribellione e inno alla bellezza, giovane fautore di un’utopia realistica e di una rivoluzione magnifica nata a colpi di poesia.
“Mi cucirò calzoni neri/Con il velluto della mia voce/E una blusa gialla/Con tre metri di tramonto”, così canta il poeta per parlarci di sé e presto scalpiteranno allo stesso modo le voci dei ragazzi, a svelarci la divisa di scena, i pantaloni neri, gli anfibi e la già mitica maglietta gialla.
Un piccolo segreto messo nero su bianco, è così, sembrano dirci i duecento, che si comincia la propria, piccola, personale rivoluzione. Ad accompagnarli alla conoscenza del poeta e drammaturgo russo non solo i laboratori condotti dalle Albe ma l’incontro con il professor Fausto Malcovati, uno dei massimi esperti di teatro russo, docente di letteratura russa alla Statale di Milano, grande amante dei versi del giovane Majakovskij. Il professore dedica ai ragazzi una vera e proprio lectio magistralis sul poeta e sulla Russia dell’epoca. Chiede ai ragazzi che cosa facevano a dodici anni. Qualcuno risponde candidamente “le medie”. “Ecco Majakovskij – risponde il professore – a dodici anni era in galera per attività sovversiva”.
A fare la differenza in quel che accadde dopo non furono tuttavia né la suggestiva cornice, né gli splendi versi del poeta. Fu piuttosto la moltiplicazione di quei versi nell’energia creativa di un coro. Fu il crescendo di un’esperienza di massa lunga e faticosa, in cui per un’intera settimana i duecento, vissuti insieme giorno e notte nella Foresteria del paese, ci hanno portato sotto la guida di Marco Martinelli all’interno del loro percorso di prova e di scoperta, rendendoci di volta in volta partecipi per quattro ore al giorno di esercizi teatrali e improvvisazioni che finivano per diventare esse stesse spettacolo. Composte come vere proprie orchestrazioni rituali, le stesse abitualmente utilizzate da Martinelli e dalle guide nei laboratori condotti nei singoli gruppi, le improvvisazioni si trasformavano in tappe fisse, come lo scongiuro iniziale, un leggero calcio sulle chiappe del proprio vicino, l’Ottava toscana tratta dall’Orlando Innamorato del Boiardo o ancora E cape, letteralmente le teste, esercizio nato con il gruppo di Scampia. Momenti cardine che diverranno giorno dopo giorno partitura costante dello spettacolo, attesi e riconosciuti dagli spettatori in continuo aumento. Una prova aperta, per certi versi un happening, o meglio, “una creazione a cielo aperto” come la definisce il titolo. Una regia anarchica che ci porta alle origini del fare teatro, alla potenza divina del rito. Dioniso, il dio del teatro, viene chiamato in causa più volte a sostenere il nostro sguardo e la nostra presenza e di quei versi ci farà custodi e testimoni. Majakovskij dalla sua conclude ogni giorno il ciclo, quando i ragazzi arrivano a gridarne in gruppo, la ciaccona, i versi.
La discussione che quest’esperienza di non-spettacolo ha generato intorno a sé a Santarcangelo 41 è stata continua, segno di un’eco lasciata da una traccia di natura diversa.
Nel momento in cui si diventa testimoni di Eresia della felicità accade infatti qualcosa di insolito, qualcosa di legato a sentimenti di partecipazione antichi: ci sente meno soli. Nei dialoghi che ne sono seguiti tra antropologi, teatranti e pedagogisti nessuno ha potuto negare quanto, al di là dei possibili risvolti dell’operazione, Eresia metta in campo questioni personali. “Le aperture pubbliche della non-scuola – spiega la critica Cristina Ventrucci – non sono saggi scolastici o esibizioni di abilità. E al contempo non si pongono come opere teatrali da guardare attraverso una lettura critica. Pongono quindi lo spettatore di fronte a una terza via, a una partecipazione diretta e molto personale. Sono momenti di teatro che suggeriscono una sospensione del giudizio e che pongono una domanda di appartenenza a una comunità”.
Lo stato di ebbrezza diffuso che ci coinvolse in quei giorni pensai che fosse inscindibile dall’energia dei ragazzi e mi chiesi se mai un’esperienza del genere avesse potuto essere replicata altrove. Mi risposi che no, non era possibile. E invece è accaduto in parte a Venezia, a Marghera, nel 2012, e soprattutto lo scorso luglio a Milano, al Castello Sforzesco, grazie a Olinda, la Cooperativa sociale che ha preso in gestione l’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini.
Anche questa volta giovani provenienti da tutto il mondo, con molti stranieri già parte delle classi di Milano, e un bambino, Riccardino, sette anni, che ha vissuto l’esperienza del terremoto a San Felice sul Panaro, senza contare l’irriducibile Carletto e un ragazzo in carrozzina. “Tra le bluse gialle siamo tutti uguali e tutti diversi” – spiegano i ragazzi – “perché è la diversità a renderci unici e uniti”. Così il ragazzo si muove sulla carrozzina aiutato dai compagni come un compito tra i tanti. Arriviamo in Piazza del Duomo, dove il plotone ci conduce al passo dei versi di Majakovskij e sventolando la bandiera della Patafisica di Ubu Roi. Improvvisamente tutto sempre possibile, modificabile tanto è forte il riconoscimento della massa in se stessa e in chi la sostiene. Mi chiedo se quello che vedo e la gioia che provo siano anacronistiche e mi rispondo con le parole di Martinelli: “Tenere la scioccheria come passaggio per il recupero della nudità, dell’essere umano disarmato: solo in quell’essere nudo possiamo schivare la truffa e sfiorare la felicità”.  Un dovere che anche i recenti fenomeni migratori ci pongono di fronte e che questi ragazzi hanno già fatto proprio. Conoscersi, mischiarsi, parlarsi, giocare, studiare, condividere l’esperienza di essere umani. Cos’altro può voler dire educare?

Spazi propri di libertà

A cura di Mario Fulgaro

Ai tempi del Liceo classico ho avuto modo di studiare in filosofia un certo Aristotele, che parlava dell’uomo come di un animale politico. All’Università questa accezione aristotelica assumeva in sociologia il significato più consono ai nostri tempi di animale sociale. Infatti ogni individuo è inserito in un contesto sociale nel quale interagisce con altri soggetti e realtà. Questo accade per tutti, disabili e non, uomini e donne, autisti e pedoni, commessi o negozianti e clienti, docenti e studenti, ecc. Si viene così a creare una rete di relazioni occasionali o durature che finisce col creare, nostro malgrado, legami più o meno confidenziali tra diverse persone.
È inevitabile, così, che anche il disabile incontri sul suo cammino verso qualche luogo di svago o necessità, gente che gli presti attenzione o anche uno sguardo fuggevole per imbarazzo, perché l’inclusione comprende anche uno scambio di emozioni, quali che esse siano, positive o negative. Tutto arricchisce e permette di affinare le proprie capacità di approccio verso gli altri.
L’empatia è alla base di tutto per me.
Il disabile che comprende le difficoltà di chi gli può stare di fronte e modula il suo stile d’approccio all’altra gente in base a questa sua sensibilità, aiuta a ricercare strategie utili per venirsi incontro. Così, sicuro con il mio scooter elettrico, mi reco spesso all’Ipercoop, dove non esito a chiedere aiuto al personale addetto al reparto frutta per fare la spesa, tanto che adesso mi conoscono bene quasi tutti come Mario, il pugliese. Il tutto per me non si esaurisce qui, infatti non esito a chiedere aiuto a chiunque per continuare a fare la spesa in altri reparti con la frase: “Scusi, lei che è donna, di sicuro saprà aiutarmi a cercare tal prodotto alimentare al prezzo più conveniente!”. Il baricentro del dialogo viene così leggermente spostato dalla disabilità, innegabile e tangibile, alle virtù femminili nel saper fare compere, pretesto questo per scambiare qualche battutina e rompere il ghiaccio. Si condivide e si scambia qualcosa di proprio per creare una sorta di alleanza, anche se occasionale, per superare l’impasse che ostacola. Poi si va via veloce a togliere ogni disturbo, con un grande “grazie, molto gentile, sapevo di potermi fidare di lei!”. Non soddisfatto ancora dei successi incassati, un attimo dopo sono alla “Baracca” del gelato, dove i gestori sono già pronti ad accogliermi con tanto di sorriso e scambio di commenti un po’ più confidenziali e amicali: “Grazie Mario per le cartoline che ci hai spedito da S. Giovanni Rotondo e Assisi! È stato bello lì?”. La conversazione si allarga inevitabilmente, toccando anche altri ambiti più personali e intimi, come quando si chiede se si è single oppure che incidente o malattia è occorsa fatalmente nel corso della vita: “La sclerosi multipla mi impone a tenermi sentimentalmente legato al mio scooter elettrico, ma a casa già mi aspettano le amanti nella veste di deambulatore e carrozzina manuale; purtroppo piaccio!”. Segue un sorrisino collettivo che finisce col coinvolgere anche altri clienti uditori, pronti anch’essi a prestare aiuto all’occorrenza. L’ironia e l’autoironia, condite da un largo sorriso, sono armi vincenti per abbattere ogni barriera che possa ostacolare un dialogo quanto più distensivo e piacevole. Pur non avendo amici a Bologna mi sento amico di tutti, e chi mi vuol bene mi segua!
In questo caso l’inclusione parte dal desiderio del disabile di aprirsi al mondo e trova risposte positive in ambiti conosciuti e sicuri, dove scambiare richieste di aiuto e offerte empatiche di ascolto e soccorso. In questo scambio è inevitabile che si venga a creare anche un legame di conoscenza più personale che finisce con l’aprire quella magica porta dell’inclusione, dove ognuno si può sentire un po’ più protagonista della propria vita, imparando e insegnando qualcosa di esclusivo e unico.
È quello che è accaduto anche a Lorella quando ha avuto urgenza di recarsi dal dentista per ricevere cure e trattamenti per i suoi denti. All’inizio il dentista ha da subito manifestato i suoi timori ad affrontare questa che per lui era una reale sfida: “Non posso mettere le mani su una paziente disabile, non so come gestire la cosa!”. Ma è nel carattere di Lorella non sfiduciarsi affatto e insistere, quindi con l’aiuto di suo padre e sua sorella ha saputo ben lavorare ai fianchi del dentista per convincerlo, trovando strategie per superare anche in questo caso l’impasse occorsa da entrambe le parti: “I primi trattamenti si possono benissimo fare in presenza di mio padre o di mia sorella!”. Il dentista poco alla volta ha saputo prendere le giuste misure sulla paziente, tanto da trovarsi sempre più a suo agio e senza alcun imbarazzo. Adesso s’intrattiene con la sua paziente in confidenziali e scherzosi dialoghi. La conoscenza anche in questo caso ha sortito i benefici effetti di apertura al dialogo e allo scambio.
Che gratificazione è ricercare e trovare spazi propri di libertà, dove esprimere il proprio essere, dove sentirsi in connubio il più possibile col mondo intero. Lorella esprime tutta la sua felicità, parlandoci del suo gruppo di tempo libero, grazie al quale ha la grande possibilità di recarsi in luoghi più ricreativi e distensivi, quali il cinema, pub, bar…
L’inclusione è anche sentirsi parte attiva, insieme ad altri, di un contesto accogliente, dove ci sia la possibilità di realizzare il bisogno naturale di spaziare liberi e appagare i propri desideri, concordando le proprie scelte con quelle di altri.
Danae ci offre le sue esperienze di apertura al mondo, quindi di inclusione, parlandoci del suo dottore di agopuntura col quale adesso intrattiene dialoghi a più largo spettro, toccando aspetti più personali: “Dottore, che cartone animato le piace di più?”. Dopo un attimo di esitazione, si accende un sorriso: “Ai miei tempi c’era Heidi o Remi!” una risposta del genere non può che trovare l’approvazione di tutti. Viva lo scambio, la condivisione che aprono alla conoscenza reciproca, quindi all’abbattimento, poco per volta, di ogni forma di timore o pregiudizio!
Danae sa poi che il suo giornalaio di fiducia le conserva tutti gli album che le interessano e questo le dà un grande senso di controllo sulla realtà che desidera, le dà maggiore sicurezza. L’inclusione ci viene anche dal controllo sui propri desideri esauditi, i quali ci appagano e ci aiutano a sentirci parte integrante di un tutto che ci sta attorno e non aspetta altro che incontrarci. Tutto sta a farsi conoscere con quello che di positivo ognuno possiede.
La riservatezza e il voler stare per conto proprio a osservare sono le modalità d’approccio di Andrea che, quando si reca al bar, preferisce non scambiare alcuna parola con i baristi, limitandosi a guardare il lavoro svolto all’interno del locale e chiedere: “Vorrei un cappuccino con brioche!” sperando che il nostro avventore possa avere a che fare con un cameriere stacanovista, sennò guai, potrebbe scoppiare il ’48! Ma nooo, dai! Dopo il cappuccino lo si può ritrovare al cinema, luogo prediletto dove trovare gentilezza e inclusione con i vari gestori: “Un bel film ci vuole proprio stasera!”.
L’inclusione trova anche la sua dimensione più alta nel sentirsi semplicemente soggetto attivo in un mondo che non ha necessariamente bisogno di frastornarci di allettanti proposte. Andrea, un epicureista dei nostri tempi.
Nel caso di Diego, invece, la sua modalità di inclusione avviene sempre attraverso la mediazione di suo padre, che funge da tutore dialogante al posto suo. Questo non toglie assolutamente spazio nell’animo di Diego per sentirsi ugualmente gratificato e incluso. Infatti quando il gelataio di fiducia, oltre a portargli il gelato richiesto, si intrattiene a far due chiacchiere con lui, il mondo gli si schiude tutto attorno per abbracciarlo e condirlo di protagonismo e centralità. E allora vai con stracciatella e zuppa inglese, è tempo di abbondare!
Stefania M. ricorda, con grande gioia, quando ai tempi della scuola i suoi compagni si prodigavano, in modo del tutto spontaneo, ad aiutarla nello svolgere i compiti o a mettere in ordine tutto il suo materiale di studio nella cartella. L’inclusione anche in questo caso ha aiutato a scardinare quell’antro buio dell’esclusione e della solitudine, dove la disabilità, in modo spontaneo, tende sempre a spingere chi ne è colpito. Non è il suo caso comunque che, anche se ammette di aver incontrato poche persone che le abbiano prestato aiuto e attenzione, affronta la vita regalando sorrisi e trovando nella sfera affettiva la realizzazione delle sue aspirazioni: “Ho un fidanzato e altri due spasimanti!” dice con singhiozzo nel riso contagioso.
Anche Titti ci parla spesso della pienezza raggiunta grazie all’amore del suo boy-friend. La sfera riguardante gli affetti più cari, familiari, amici, fidanzato in testa, è essenziale per sentirsi in pace con se stessi e, di conseguenza, con tutto ciò che si vive. I legami sentimentali hanno il grande potere di riempire di gioia e sicurezza il proprio animo che, di rimando automatico, investe di pace e serenità tutto ciò che appartiene alla vita.
Titti è felice quando il bagnino l’accoglie col sorriso e le chiede come sta, si sente partecipe del micro-cosmo di quell’istantanea di vita. L’inclusione molto spesso parte e si realizza in noi stessi, tanto da reclutare anche piccole attenzioni altrui e farle grandi.
L’inclusione è scambio, aiuto reciproco, complicità, un venirsi incontro per Stefania B. quando ci parla del suo rapporto esclusivo col suo medico: “Lui è sordo, quando è di spalle non riesce a comunicare e io so che devo parlargli solo quando mi guarda. Non tutti riescono a capirlo ma io sì! Ho visto gente andar via proprio perché non sapeva come fare. Non riusciva a capirlo. Io invece con lui ci parlo tranquillamente, non abbiamo difficoltà a comunicare!”.

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente

Ciao carissimo Claudio
sono Federico, leggo sempre la tua rubrica, mi colpisce sempre la parola diversamente, a volte mi chiedo “Diverso da chi?”. Io sono omosessuale, un altro bel marchio che la società ci mette… Già dire disabile, omosessuale o altro è marchio, la distinzione… Ma da che cosa? Si tratta poco l’argomento omosessualità, eppure ci vuole veramente coraggio a portare i marchi, ma non è impossibile.
Ti saluto e ti auguro ogni bene.
Federico da Chieti

Carissimo Federico,
sono perfettamente d’accordo con te.
Anzi spesso ho scritto di quanto sia inutile dare dei nomi, fare delle classificazioni, delle tabelle… È oggettivo come a volte questo conduca alla superficialità dei giudizi e alla banalizzazione. Ancora oggi rifletto su questa corsa alla classificazione che investe tutti gli ambiti della nostra vita a partire dalla scuola. Nel confronto a riguardo con l’Emerito Professore Canevaro, mio caro amico, abbiamo spesso parlato proprio di questo, a proposito dei BES, i cosiddetti Bisogni Educativi Speciali che hanno introdotto nell’ambiente scolastico sigle e siglette piuttosto arbitrarie e fortemente condizionanti rispetto al percorso dei singoli, un vero e proprio marchio alla base, come quello di cui parli anche tu. Il bisogno crescente di siglare e di classificare fa parte infatti della nostra società e si riscontra ovunque, non solo nelle scuole ma in tutti gli ambiti che contengono ciò che chiamiamo diversità, dall’omosessualità, all’incontro con lo straniero, alla disabilità, come se certe frontiere possano aiutare a trovare in fretta soluzioni a dei problemi che in realtà sono molto più complessi. Perché l’idea collettiva, e non sto parlando solo di integrazione scolastica, è quella che catalogare ci aiuti a definire e a circoscrivere meglio i problemi.
Quello che è recentemente successo a Venezia ne è la dimostrazione… Una vera e propria messa all’indice, da parte del sindaco Luigi Brugnaro di 49 volumi di favole e fiabe per ragazzi, ritirati dalle scuole perché considerati libri gender. Chiaramente non sto scrivendo per fare valutazioni politiche su un personaggio che fra l’altro si è insediato nella città lagunare da poco, né tantomeno giudicare delle considerazioni che per me rimangono strettamente personali. Sto raccontando un fatto. Il fatto è che ben 49 volumi sono stati ritirati dalle scuole perché considerati libri gender. Erano stati introdotti dalla precedente giunta con l’obiettivo di offrire agli insegnanti e ai bambini strumenti per affrontare il tema delle differenze di genere, di religione, nazionalità e cultura. La prima cosa che mi salta all’occhio è che, come capita spesso in questi casi, si è sparato sul mucchio. Tra i libri vietati ci sono infatti dei capolavori della letteratura per l’infanzia, capaci di insegnare ai nostri bambini valori fondamentali come l’amicizia, il coraggio, il rispetto e soprattutto l’esistenza della diversità.
Io credo che di solido non può esserci nulla nell’integrazione. L’inclusività deve fondersi per poi diventare liquida (o perlomeno gassosa), così da insinuarsi in ogni frontiera che la nostra cultura pregna di stereotipi produce. Proprio perché l’integrazione è liquida entra ed esce continuamente da questi schemi, quindi va fatta lavorando con le persone, non con tipologie di persone. I marchi, in questa liquidità, finiscono per annegare…
E ciò vale anche per l’omosessualità, per questo non posso che concordare con ciò che dici. Piano piano vedrai che anche certi tabù verranno superati. Anche grazie a persone come Papa Francesco.
Grazie mille e buona vita
Claudio Imprudente

Caro Claudio,
mi trovo a scriverti questa lettera in un momento di estremo dolore: abbiamo appena scoperto che nostro figlio di appena 5 mesi ha la SMA 1. Proprio ora che stavamo prendendo le nostre abitudini, che ci stavamo capendo, che stavamo vivendo una vita normale dopo i primi mesi di rodaggio con un neonato, ci è piombata addosso questa bomba. Lorenzo (così si chiama) è un bambino sveglissimo, sorride e parla alla sua maniera, solo che si muove poco. All’inizio sembrava pigrizia ma purtroppo le analisi genetiche non hanno lasciato dubbi. I movimenti si ridurranno sempre più e purtroppo riguarderanno prima o poi anche il respiro e il linguaggio. Una cura non c’è, ci sarebbero delle sperimentazioni tra l’altro lontano da casa nostra e non so quanto valga la pena parteciparvi. Vorrei che la breve vita di Lorenzo fosse trascorsa a casa e con gli amici e non in ospedale come cavia: la sperimentazione consisterebbe in sei iniezioni nell’arco di tredici mesi e lui potrebbe anche essere il bimbo controllo a cui non verrebbe somministrato niente: ne vale la pena? Tredici mesi sono comunque tanti a quest’età e potremmo passarli a casa o al mare o dovunque tranne che in ospedale. Tra l’altro le sperimentazioni attuali non stanno dando risultati, perciò saremmo quasi orientati a lasciar perdere.
C’è però un’altra scelta a cui siamo messi davanti ora, se così si può chiamare: decorso naturale della malattia (che potrebbe anche essere breve, entro i due anni di età) o respirazione assistita (che, attraverso la ventilazione non invasiva prima e la tracheotomia poi, invece potrebbe prolungare la vita fino a vent’anni)? L’egoismo potrebbe portarmi a scegliere la seconda opzione, anche se molto impegnativa, ma mi chiedo: Lorenzo non potrà muoversi né probabilmente parlare, gli sarà insegnato il linguaggio aumentativo, ma come farà a relazionarsi con gli altri? Non potrà nemmeno mangiare e dovrà stare quasi sempre disteso. Riusciremo a portarlo fuori di casa quando sarà più grande? Riusciremo a fargli scoprire il mondo? E poi: proverà dolore? Su questo gli studi sulla SMA non hanno ancora molti riscontri. E inoltre ci hanno già detto che siccome in questi bambini l’intelligenza è pari o superiore alla norma, saranno frustrati perché, nonostante la loro forza di volontà, potranno fare poco o niente. Un’altra cosa che mi ha spaventato è che l’educatrice del linguaggio aumentativo ci ha riferito che una delle prime frasi dette da molti bambini SMA1 è “Ho paura” o “Mi viene da piangere”. Come posso fare questo a mio figlio? Farlo vivere nella paura e nell’incomunicabilità? Scusa se sono così diretta: certo la tua situazione penso sia diversa, ma com’è stata la tua infanzia? Come hai fatto a relazionarti con gli altri che non fossero i tuoi familiari? Ecco perché la strada naturale a volte mi sembra più giusta: accompagnarlo per quello che gli resta nella felicità e nella tranquillità della nostra casa è ora il mio scopo di vita. Una soluzione non c’è… Vorrei che tutto questo fosse un incubo e invece al posto di scegliere che asilo nido far frequentare a mio figlio mi trovo a scegliere quanto e come farlo vivere. Non ti nascondo che sono arrabbiata col Signore… ma questo è un altro capitolo…
Ti ringrazio infinitamente se saprai darmi qualche ulteriore spunto di riflessione…
Grazie
T

Cara T., non è passato un giorno, da quando ho ricevuto la tua email, in cui non ho riflettuto su quanto mi hai scritto…
Non ti nascondo che mi hai fatto mettere in discussione con tutte le domande e le contraddizioni che hai messo in campo.
Mi chiedevi come è stata la mia infanzia, giustamente c’è da mettere in evidenza come io non fossi affetto da una malattia degenerativa, ma ero comunque impossibilitato a muovermi e a comunicare. La tavoletta, come mediatore tra me e gli altri, arriverà solo verso i dieci anni! Fino ad allora i miei interlocutori per eccellenza sono stati i miei genitori e mia nonna, che comprendevano i miei pensieri attraverso lo sguardo, loro capivano che io capivo e anche senza fare troppi discorsi cercavamo di relazionarci. Dovrò aspettare le scuole medie per fare altre conoscenze, oltre la mia famiglia, per mezzo della tavoletta.
So bene quanto la mia situazione sia differente rispetto a ciò a cui voi andrete incontro, ma c’è una domanda che accomuna me e Lorenzo: “Perché proprio a me?”. Non ho una risposta, ma in questi anni ho fatto un percorso, che mi ha permesso di abbracciare la situazione, nel senso di stare nel mio limite, con le difficoltà che questo comporta giorno dopo giorno.
Con ciò cosa ti vorrei dire, cara T., tu in questi mesi sei accanto a Lorenzo e stai vivendo questa situazione personale, chi sono io per giudicare?
Mi chiedi quale spunto di riflessione posso darti a riguardo e giustamente mi fai notare come altre sarebbero dovute essere le tue preoccupazioni… L’unica cosa che posso suggerirti è di non smettere di confrontarti con gli altri, così come io ti ho parlato della mia esperienza, ti invito ora a scrivere ancora, ad altre persone più o meno note, che si siano avvicinate alla condizione di cui parli. Perché la necessità di condividere è spartire il peso specifico delle cose. Di che cosa, in questo caso? Dell’handicap. Al di là dell’esattezza fisica del termine, mi è sempre piaciuto pensare che l’handicap (molto più del deficit) abbia un peso specifico e che questo sia variabile, non dato. Perché questo passaggio dal dato all’indefinito possa avvenire, occorre che la gravità sia distribuita. Non è solo un modo per condividere la fatica data da una situazione (la situazione di handicap per l’appunto), ma per condividerne il portato, le prospettive di consapevolezza che può aprire. Nel momento in cui divido il peso, ecco che aumento la capacità di rivelare delle cose. Non condivido unicamente la fatica, ma la condizione in cui la fatica mi pone. Distribuire non ha solo l’obiettivo (egoistico o mosso dalla necessità) di alleggerire, quindi di sottrarre, ma anche quello di condividere in termini di crescita, di disvelamento. Si rinuncia a una parte di peso per distribuire la consapevolezza alla quale il peso porta.
Questi sono solo i miei pensieri ma spero comunque d’esserti stato d’aiuto, un abbraccio a te e al tuo bambino.
Claudio Imprudente

A veder come disegna un matto

Di Roberto Parmeggiani

Gualtieri è un piccolo Comune della provincia di Reggio Emilia, vicino al confine tra Emilia Romagna e Lombardia.
Se ci arrivi, come me, in un pomeriggio di domenica, con il cielo basso e grigio, la pioggia che cade fine e un po’ di foschia che sale dal Po, potresti avere la sensazione di fare un salto nel tempo.
Potrebbe sembrare di tornare nel medioevo, quando la città venne costruita e vide risiedervi negli anni i marchesi di Gualtieri.
Oppure potresti avere la sensazione di trovarti all’inizio degli anni ’50 quando l’ennesima alluvione distrusse buona parte della città. Quasi tutto, tranne lo spazio rinascimentale di Piazza Bentivoglio, quadrato perfetto con portico su tre lati e il palazzo che porta lo stesso nome.
Se poi esci un po’ dallo spazio cittadino e ti addentri nel boschetto che separa il centro abitato dal Po, potrebbe capitarti di vedere un uomo un po’ strano che cammina tra quegli alberi, si tocca la testa e, fissandoti da lontano, cambia direzione senza salutarti, magari per andare a raccogliere un po’ di fango dall’argine del fiume, per poi utilizzarlo per modellare le sue sculture.
La giornata che ho trascorso a Gualtieri, un viaggio non solo nello spazio ma anche nel tempo, mi ha permesso di comprendere quanto sia forte il legame tra un artista e la sua terra. In questo caso tra Antonio Ligabue e la sua Gualtieri, città che non lo ha visto nascere ma che lo ha accolto con carezze e schiaffi.
Nato nel 1899, figlio naturale di un’italiana emigrata, non ha mai conosciuto il padre.
Nel 1900 perde anche la madre e viene affidato a una coppia di svizzeri tedeschi. Forse proprio per la scomparsa della madre, il legame con la matrigna, che vede alternarsi momenti di amore e altri di odio, sarà causa di grandi sofferenze. L’infanzia passa infelice tra lo studio in un collegio per handicappati e alcuni mesi trascorsi in una clinica per malati mentali a causa di alcune forti crisi nervose che metteranno fortemente alla prova la relazione familiare.
È proprio a causa di un grave crisi nervosa, l’ennesima, che la madre adottiva decide di denunciarlo e per questo verrà espulso dalla Svizzera e portato nella città natale del padre, Gualtieri.
Qui non conosce nessuno. In un primo momento scappa, tentando di ritornare in Svizzera ma senza successo. Comincia, allora, a vivere come un vagabondo, venendo immediatamente etichettato come “matto del paese”.
Ciò nonostante, la passione per il disegno scoperta durante la permanenza nella scuola per handicappati, non lo abbandona per cui riempie il suo tempo disegnando e dipingendo, attività che lo soddisfa e che più di altre gli permette di comunicare al di fuori il grande caos che porta dentro di sé.
Trova ospitalità presso un ospizio fino a quando, tra il 1927 e il 1928, conosce il pittore Mazzacurati che, oltre a insegnarli alcune tecniche pittoriche, da quel momento si prenderà cura di lui.
Trascorrerà altri brevi periodi in manicomio, l’ultimo dei quali per aver percosso un soldato tedesco
con una bottiglia. Ne uscirà definitivamente nel 1948.
Ed è proprio in quegli anni che la pittura diventa il centro della sua vita, un desiderio di esprimere sulla tela, con colori e tratti decisi, le immagini che abitavano la sua mente.
Destino vuole che anche la sua fama si allarghi e un po’ di fortuna, lentamente, sembra volgere a suo favore.
Critici, mercanti d’arte e giornalisti iniziano a interessarsi a lui, garantendogli in poco tempo la notorietà che merita, fin quando nel 1961 viene allestita la sua prima personale a Roma, e successivamente anche Guastalla, altro paese reggiano, gli dedica una grande mostra antologica.
Nel maggio del 1965 al matt [il matto] muore, facendo di Gualtieri una città d’artista, casa del cosiddetto buon selvaggio della pittura italiana. 

Ritratti
Uno dei soggetti che più di altri Ligabue ha dipinto è proprio se stesso.
I suoi infiniti autoritratti.
Come ha scritto Luciano Manicardi, monaco di Bose, nel catalogo della mostra che ho potuto visitare proprio a Gualtieri, questi autoritratti sono “specchio di ferocia e di violenza, specchio di pietà e di tenerezza, specchio di smarrimento e di paura”.
Sono la ricerca di un’identità, di un riconoscimento che prima di tutti deve avvenire da lui stesso.
Una sorta di continua necessità di guardarsi allo specchio per ritrovarsi, se stesso e le proprie radici, quell’inizio al quale tutti torniamo quando perdiamo il filo della nostra identità.
Ritratti che fissano sulla tela un’immagine, quel momento specifico che mi dice chi sono.
Ma questo della ricerca interiore è solo uno degli aspetti dell’autoritrarsi.
I dipinti, infatti, sono per l’artista il mezzo attraverso cui rendere pubblica la propria inquietudine, quel dolore, quelle ferite che lo affliggono. Comunicarle all’esterno, alle persone che lo vedono e che, per semplicità, lo definiscono matto e basta, senza chiedersi cosa ci sia dietro quella parola. Certamente la diversità che deriva dalla malattia mentale fa paura ma, ancora oggi è così, è molto più semplice semplificare piuttosto che tentare di approfondire, come se negando la complessità si eliminasse la difficoltà.
Ecco allora che quei ritratti colorati e con sembianze a tratti deformate sono anche il grido di un uomo che chiede solo di essere visto per ciò che è, oltre l’apparenza che prende forma dal pregiudizio e dalla paura.

Animali feroci
Un altro dei suoi soggetti prediletti sono le bestie feroci.
Tigri, tante tigri e i rapaci, in particolare il falco.
Scene di lotta in cui gli animali si presentano in tutta la loro forza fisica, con movimenti decisi, figure di una violenza ancestrale che, ancora una volta, vede l’origine nella memoria emotiva dell’artista. Un ulteriore tentativo di ricreare la propria immagine, frutto di un’identificazione profonda soprattutto con i rapaci.
Come i rapaci, infatti, quando sono chiusi in gabbia, strofinano e sbattono il becco sulle sbarre alla ricerca di una via di fuga, così anche Ligabue, istintivamente, strofinava il suo grande naso sulle reti, definizione di un confine che da una parte lo potesse contenere e dall’altra liberare.
Anche in questo Ligabue, come artista, definisce un modello che tutti ci accomuna.
Chi, infatti, non ha mai sentito la necessità di un contenimento, di un sentirsi al sicuro, di un perimetro di relazioni e spazi dentro il quale sapere chi è?
Chi, allo stesso tempo, può dire di non aver mai sperimentato quel desiderio di fuga, di spazi infiniti, in cui sentirsi unici, anonimi, l’ultimo vero baluardo della nostra personale libertà?
Una lotta tra il bisogno di essere definiti e quello di appartenere all’indefinito che caratterizza profondamente la natura umana.
Lasciando Gualtieri, faccio una passeggiata nel bosco che divide la città dal fiume.
Quel luogo, ultimo rifugio del pittore, mi affascina per il mistero che porta in sé.
Raggiunto il Po, lo guardo scorrere, instancabile.
Come la vita, che procede indipendentemente dalla nostra capacità di tenere il suo ritmo.
E penso alle persone che, come Antonio Ligabue, si devono confrontare con quel ritmo che tutti consideriamo normale, mentre per loro normale non lo è.
E penso a come noi, i normali, finiamo per imporre quel ritmo a tutti, anche a noi stessi quando invece avremmo bisogno, anche solo momentaneamente, di un altro ritmo.
Ecco che allora, come al mio arrivo, forse per colpa della foschia che si è alzata e per quell’odore di sottobosco umido che mi riempie le narici, rivedo Ligabue muoversi tra quegli alberi, fermarsi a fissar qualcosa che vede solo lui, correre, urlare, spaventarsi.
Riconosco gli sguardi che ho visto nei suoi autoritratti, sento la forza della natura che egli ha rappresentato attraverso i suoi animali e comprendo che, al di là di tutte le interpretazioni che si possono fare, ciò che resta e ciò che importa sono i suoi dipinti.

Capacitados: in Spagna una serie TV parla di disabilità con intelligenza (e ottimi ascolti)

Di Massimiliano Rubbi

Un programma televisivo che si occupi di disabilità senza cadere nel pietismo né al contrario nel titanismo, mantenendo al contempo un interesse per il pubblico generalista che gli valga l’uscita dalle riserve indiane ritagliate nei palinsesti per le trasmissioni a carattere sociale. Una chimera, o nella migliore delle ipotesi una sfida, per la televisione italiana; una realtà consolidata per quella spagnola, che ha mandato in onda nell’estate 2015 – il sabato pomeriggio e nel canale “La 2”, la vice-ammiraglia del gruppo televisivo pubblico TVE – la seconda stagione della serie Capacitados. La trasmissione, che si presenta come “la serie che sta cambiando il concetto di disabilità” e sin dal titolo punta sul capovolgimento del termine disabili (in spagnolo discapacitados), si propone espressamente di “mettere in evidenza i talenti delle persone con disabilità nei luoghi di lavoro e lasciarsi alle spalle gli stereotipi che devono affrontare, con un’impostazione lontana dal paternalismo e dalla condiscendenza”.

Dal documentario alla serialità
Capacitados è promossa da FSC Inserta, la sezione della Fondazione ONCE che si occupa di formazione e inserimento lavorativo di persone con disabilità, ed è stata ideata nel 2009 non come serie TV, bensì come documentario, alla cui base stava un’idea semplice e geniale: mettere personaggi famosi al fianco di persone con disabilità e nelle loro medesime condizioni di svantaggio, per evidenziare non tanto le difficoltà che queste ultime devono affrontare quotidianamente, quanto le capacità che le rendevano più abili di quanto un datore di lavoro potesse immaginare. Il merito di questa idea originale è di Juan Nonzioli, direttore creativo dell’agenzia pubblicitaria ispano-cilena Shackleton: “Volevamo fare qualcosa per convincere gli imprenditori che le persone con disabilità hanno qualità e talenti che stavano rimanendo inutilizzati. Ci è allora venuto in mente che meglio che dirlo noi sarebbe stato che se ne convincessero gli imprenditori stessi. Abbiamo cercato tre personalità del mondo di impresa di grande rilievo in Spagna, e abbiamo proposto loro di provare a fare il proprio lavoro con una disabilità per un giorno, accompagnate da una persona con una disabilità reale. Così, il presidente di Coca Cola Spagna Marcos de Quinto, la presidente di Microsoft Iberica María Garaña e lo chef Ferrán Adriá si sono messi nei panni di un cieco, di un sordo e di una persona in sedia a rotelle. Questa esperienza si è impressa in loro e si è trasformata in un documentario che ha avuto una forte ricaduta”. Il documentario di 30 minuti Capacitados, trasmesso nel febbraio 2010 da TVE – La 2, è stato visto da circa 500.000 spettatori, per poi essere proiettato in molti cinema ed essere candidato al Premio Goya, il riconoscimento più prestigioso per il mondo audiovisivo spagnolo.
Monserrat Balas, direttrice di comunicazione e nuove tecnologie di FSC Inserta, rivela che il successo di Capacitados è andato al di là delle aspettative: “A dire il vero, quando abbiamo lanciato la campagna e il primo documentario, che è stato una proposta dell’agenzia, non prevedevamo che il format avrebbe avuto un’accoglienza così buona, non solo come prodotto televisivo, ma anche come esperienza per tutti quelli che vogliono accostarsi al mondo della disabilità, almeno per poche ore”. Da questo inatteso successo, e dall’interessamento di TVE, è scaturita la decisione di produrre una serie televisiva a partire dalla medesima idea originale, con 13 puntate di circa mezz’ora ognuna, trasmesse alla fine del 2012. Nei diversi episodi, per citare solo i personaggi più noti in Italia, l’attrice María Valverde si muove in carrozzina elettrica per le vie di Madrid al fianco di una ragazza con paralisi cerebrale, mentre il campione di motociclismo Jorge Lorenzo si cimenta in una corsa in pista con atleti paraplegici e l’alpinista Edurne Pasabán accompagna un ragazzo con autismo nella impresa di comprare gli ingredienti per cucinare una pizza e prepararla, per poi interpretarne in un video la condizione mentale. In ogni puntata vengono inoltre raccolte le impressioni sia del personaggio famoso, inserito per un giorno in un contesto mai sperimentato, che della persona con disabilità che in tale contesto ha imparato a vivere abitualmente.
La prima stagione della serie, trasmessa la domenica nella fascia preserale delle ore 20.00, ha fatto registrare ottimi ascolti per un programma di questo genere, con una media di quasi 150.000 spettatori. Per quali ragioni Capacitados funziona presso il pubblico? Secondo Balas, “la serie mette in pratica in modo molto eloquente e molto semplice il principio dell’empatia, e permette allo spettatore, almeno per qualche minuto, di sentirsi come una persona con disabilità, perché si identifica con il personaggio conosciuto. Chi non ha mai pensato come vivrebbe senza poter camminare, senza poter vedere o senza poter udire? La serie ti invita a realizzare questo esperimento di vita, e per questo si mette in contatto tanto bene con la gente”. A determinare il successo della serie, e di ogni episodio in rapporto agli altri, è un meccanismo di rovesciamento delle parti: “Quello che davvero conquista è la chimica che si produce tra i personaggi con disabilità e il volto popolare, in situazioni assolutamente veridiche e senza fingere, nelle quali si scambiano i ruoli: è la persona con disabilità che aiuta quella che si presuppone essere una persona assolutamente audace”.

Le novità della seconda stagione
Capacitados ha quindi meritato il rinnovo per una seconda serie di 12 episodi, trasmessa come si è detto tra maggio e agosto 2015. Se alcune puntate seguono il modello della prima stagione (il tennista Juan Carlos Ferrero sfidato a una partita in carrozzina dal tennista della nazionale paralimpica Roberto Chamizo), in altre il meccanismo del mettersi nei panni non vale più: ad esempio, il coreografo Poty incontra il gruppo di danza “Así somos”, composto da ballerini con Sindrome di Down, per guidarli a mostrare le proprie capacità. L’effetto combinato di empatia e ribaltamento dei ruoli viene così meno, ma come puntualizza Nonzioli “ci sono disabilità nelle quali mettersi nei panni dell’altro non è possibile, come le disabilità intellettive. E in questa seconda stagione abbiamo incluso l’acondroplasia [una forma di nanismo] o la sordocecità, per rendere visibile un ampio spettro di disabilità. L’idea di mettersi al posto dell’altro a volte si ottiene in forma letterale e altre volte attraverso l’accompagnamento per una giornata. In ogni caso, promuovere l’importanza del mettersi al posto dell’altro è e continuerà a essere il grande messaggio della serie”. Secondo Balas, la serie, nella prima e ancor più nella seconda stagione, “ci sta offrendo l’opportunità di aprire una finestra su un ampio ventaglio di disabilità più sconosciute al grande pubblico, come l’acondroplasia, la malattia mentale, la spina bifida, ecc., che ci permettono di mostrare che avere una disabilità non impedisce di realizzare numerosi compiti. Possiamo dire che con la prima edizione della serie ci siamo aperti un varco nella mente dei telespettatori e abbiamo cominciato a rompere gli schemi preconcetti che potevano avere intorno a un concetto ancor oggi sconosciuto per molti: la capacità e, a volte, il talento delle persone con disabilità per svolgere un lavoro e una vita come qualunque persona. Con questa nuova stagione di Capacitados cerchiamo di consolidare il posizionamento di una nuova immagine della disabilità nell’ambito lavorativo”.
L’esperienza maturata nella prima stagione, secondo Nonzioli, ha permesso inoltre di affinare il livello di qualità televisiva del programma senza inficiarne l’autenticità: “Stiamo imparando strada facendo che cosa funziona meglio e come dobbiamo impostare le sceneggiature per sfruttare al massimo le risorse. Quando parlo di sceneggiatura, parlo di una scaletta di situazioni che impostiamo per i protagonisti: ‘si incontrano in un bar, vanno al mercato a fare compere, viaggiano in metro…’, ma non scriviamo mai dialoghi. Ciò che succede nell’azione è reale, è ciò che avviene davvero e il modo in cui reagiscono alle difficoltà”. E proprio l’abilità, davanti e dietro la telecamera, nel rendere interessante la normalità di questo realismo costituisce probabilmente la forza della serie, e la sua differenza in positivo rispetto all’approccio generalmente adottato dai mezzi di comunicazione mainstream per parlare del tema: “I programmi che trattano della disabilità in genere erano stati noiosi e con un trattamento documentaristico serioso e minoritario. Capacitados ha sempre voluto giocare nel campionato dell’intrattenimento e insieme dell’educazione. È positivo, ridi, ti emozioni e apprendi. E soprattutto, capisci che i luoghi comuni che consideriamo assodati in relazione alla disabilità entrano in discussione quando vedi persone che sono avvocati, ingegneri, musicisti, sportivi, con vite normali e felici”. In un panorama televisivo in cui, come in altri Paesi, è la TV spazzatura a fare gli ascolti di massa, “questo programma che tratta di un tema non molto attrattivo, che parla di problemi e difficoltà, è riuscito ad aprirsi un varco a livello nazionale, e questo è un piccolo grande passo”.

Effetti da esportazione
Una visione innovativa e normalista della disabilità potrà avere certamente effetti sulla cultura della società nel suo complesso, nel medio-lungo termine. Ma va ricordato che Capacitados nasce con la precisa finalità di promuovere il cambiamento in un ambito specifico come l’inserimento lavorativo – e l’impatto del programma sui potenziali datori di lavoro pare essersi dimostrato molto più immediato. In base ai dati forniti da Balas, l’andamento dei contratti di inserimento per persone con disabilità promossi da FSC Inserta ha avuto due balzi in avanti negli ultimi anni: nel 2010, dopo il lancio del documentario, con 4.346 nuovi contratti (il 30% in più degli anni precedenti), e nel 2013, l’anno successivo alla trasmissione della prima stagione, con 6.272 nuovi contratti un incremento del 26% sul 2012. L’obiettivo di superare i “preconcetti derivati da una educazione sbagliata e dal timore per ciò che ci è estraneo”, che la serie “riesce a smontare perché apre una finestra sulla realtà di un collettivo che in fondo non è molto lontano dal resto delle persone”, appare dunque raggiunto, e non stupisce che FSC Inserta, sempre attraverso Balas, si dichiari “desiderosa di conoscere le nuove cifre delle contrattazioni dopo la trasmissione di questi 12 capitoli della nuova stagione di Capacitados”, attendendosene “almeno gli stessi frutti delle edizioni precedenti”.
ONCE (che sta per Organizzazione Nazionale dei Ciechi Spagnoli), alla cui Fondazione fa capo FSC Inserta, non è una associazione di rappresentanza qualunque, bensì una realtà con ricavi annuali che superano i 2 miliardi di Euro, finanziati in larga parte da una lotteria di lunga storia e grande successo in Spagna. Sarebbe quindi lecito attendersi che la serie rimanga confinata alla peculiarità del contesto spagnolo in cui essa è stata ideata e promossa. Balas, al contrario, ritiene Capacitados “un’esperienza e un format assolutamente esportabile”, segnalando che sia in Colombia e in Argentina sono già stati prodotti documentari basati sulla stessa idea originale. Anche Nonzioli crede al potenziale internazionale della serie, “ma non lo abbiamo ancora fatto funzionare a sufficienza all’estero. Penso che presentandolo adeguatamente avrebbe una buona accoglienza. È il prosieguo di questo viaggio. È un format molto esportabile perché si può fare con famosi di ogni Paese. Magari lo facessero, in Italia certamente sarebbe incredibile”. I responsabili di palinsesto delle emittenti italiane, sempre in cerca di format televisivi che abbiano dato buona prova di sé all’estero (con uno sguardo un po’ troppo spesso rivolto all’Olanda), sono avvisati.

Insegnare musica con una cura speciale alle diverse abilità: succede a “Resonaari”, in Finlandia

A cura di Emanuela Marasca, Alessio Plona, Massimiliano Rubbi

Markku Kaikkonen è direttore della scuola “Resonaari” Special Music Center di Helsinki, in Finlandia. Una scuola di musica che ha sviluppato speciali soluzioni musicali-educative anche per persone che hanno qualche problema o difficoltà nel prendere parte alle normali lezioni di strumento musicale. Lo abbiamo contattato in una lunga intervista via skype per saperne di più.

Cosa è per lei la musica?
Ѐ una parte importante della mia vita personale ma anche la mia professione. Come insegnante di musica e pedagogista, per me l’importante è scoprire come rendere possibile a tutti fare musica, e credo che questo mondo sarebbe migliore se tutti avessero la possibilità di imparare a suonare uno strumento e di suonare insieme. Io credo che la musica sia fondamentalmente una connessione sociale tra tutte le persone, e il mio compito come insegnante di musica è di rendere questa connessione possibile, in modo che questi effetti e significati positivi si creino automaticamente. 

Qual è stato il suo personale percorso nella musica? E come è entrato in contatto con il mondo della disabilità?
Nella scuola di musica ho iniziato con la musica classica e nel tempo libero suonavo in rock band, poi ho studiato insegnamento musicale presso l’Accademia Sibelius dell’Università delle Arti di Helsinki, e ho iniziato a essere sempre più interessato alle persone che hanno problemi dell’apprendimento in questa area. Durante i miei studi, ho incontrato persone che hanno lavorato nell’area dell’educazione speciale con le arti, come la danza, per esempio Wolfgang Stange a Londra, o il mio insegnante Petri Lehikoinen che ha lavorato in vari luoghi con diversi stili musicali. Ne ho tratto vantaggio, e così mi sono orientato a questa speciale area dell’insegnamento.

A cosa pensa quando pensa alla diversità in senso ampio?
Personalmente penso che siamo tutti differenti, e per questo siamo tutti dotati di individualità; abbiamo differenti punti di forza o di debolezza, e noi insegnanti abbiamo bisogno di affrontare ogni persona individualmente, credendo nelle sue potenzialità di apprendimento. A questo punto di partenza attitudinale aggiungo che dovremmo ricordarci di rispettare chiunque come artista, come musicista, e da queste basi abbiamo solo bisogno di trovare il modo migliore per ognuno per dare avvio al processo di apprendimento.

Ci parli della sua scuola, Resonaari, che crediamo sia stato il completamento del suo percorso professionale: come si lavora, quali sono le attività musicali in programma? Come possono chiedere di entrare nella scuola le persone con disabilità?
In Finlandia abbiamo lezioni di musica per tutti alla scuola primaria, secondaria e alle scuole superiori, come una educazione musicale generale, ma non ci sono strumenti da suonare, come il violino o la chitarra, solo le basi generali della musica. Abbiamo poi un ottimo sistema di scuole di musica, a cui si iscrive chi vuole imparare a suonare uno strumento come hobby. Resonaari è una tra queste scuole, e ha sviluppato speciali soluzioni musicali-educative anche per persone che hanno qualche problema o difficoltà nel prendere parte alle normali lezioni di strumento musicale. Facciamo tutto il tempo lavoro di ricerca e sviluppo nell’area dell’educazione musicale speciale, il che rende la nostra scuola leggermente differente rispetto alle altre nella zona di Helsinki. Allo stesso tempo, da quando abbiamo avviato queste connessioni con il lavoro di sviluppo e di ricerca, abbiamo una buona rete nell’area di Helsinki, in Finlandia e un po’ anche a livello internazionale. In questo modo, credo che ciò che abbiamo fatto a Resonaari abbia avuto grande effetto in modi variegati e in diverse aree: i corsi di musica e di educazione speciale, e anche la musicoterapia. Resonaari è quindi una scuola di musica, ma allo stesso tempo è qualcosa in più di una scuola di musica.

In Resonaari includete anche persone normodotate, o siete più specializzati nell’inclusione musicale di persone con disabilità, come in una scuola speciale?
In Resonaari quasi tutto il nostro lavoro ha una sorta di aspetto speciale nelle modalità di apprendimento. Allo stesso tempo, Resonaari sta avendo tante cooperazioni con artisti finlandesi, e non siamo chiusi nella nostra casa, ma siamo aperti alla società, è qualcosa che proviamo a fare. Una maggior cura per l’apprendimento, in alcuni casi, significa che dobbiamo cercare soluzioni pedagogiche nuove, totalmente nuove; in alcuni casi, dobbiamo dedicare davvero molto più tempo rispetto al normale nell’insegnare qualcosa, e ci sono diverse soluzioni educative speciali. Abbiamo bisogno di cura poiché è una scuola speciale, ma, allo stesso tempo, veramente aperta alla società e alla collaborazione con le scuole attorno a noi.

Una domanda pratica: a quale età gli studenti possono accedere a Resonaari e come li coinvolgete? La scuola è aperta al pomeriggio, qualche pomeriggio a settimana, una volta a settimana?
Nella scuola pubblica gli studenti hanno una lezione di musica, ma possono iscriversi a una scuola musicale come Resonaari o un’altra scuola, e così vengono dopo la scuola, o per alcuni dopo il lavoro, e possono dedicarsi al loro hobby. Iniziamo con lezioni individuali, una volta alla settimana, ma appena è possibile, man mano che gli studenti iniziano a esercitarsi, proviamo a farli suonare a coppie o a piccoli gruppi, per poi passare nelle band. La maggior parte degli studenti che frequentano le scuole musicali in Finlandia hanno una lezione musicale a settimana o due, e forse dopo scelgono anche lezioni extra ma non tutti i giorni. Quanto all’età, l’educazione musicale in Finlandia è precoce e molto buona, e normalmente i gruppi di educazione musicale di prima infanzia sono aperti a tutti. I bambini iniziano la scuola a 7 anni, dopo un po’ iniziano anche una lezione di strumento, e se gli insegnanti si accorgono di qualche bambino con difficoltà nell’apprendimento o nella partecipazione, in quel momento è normale che chiamino noi e chiedano se possono accedere a Resonaari perché abbiamo più esperienza nel gestire queste difficoltà.

Il normale percorso degli studenti finisce intorno ai 20 anni, quando dovrebbero andare al lavoro; per tutti loro è la fine dell’esperienza anche con Resonaari, oppure continuano a tenersi in contatto con la musica suonando anche in età adulta nella scuola?
Dipende: abbiamo anche adulti che hanno studiato musica come hobby, o persone che vengono al Resonaari quando sono teenager, e così rispetto alle normali scuole di musica finlandesi, dove ci sono questi limiti di età, a Resonaari è leggermente differente perché nel nostro caso l’età non è importante, verifichiamo la situazione individualmente. Abbiamo anche gruppi dove abbiamo persone anziane, e siamo fortunati perché abbiamo la possibilità di testare nuovi tipi di didattica anche con queste età.

Come detto prima, quando si insegna musica si deve avere cura di competenze, abilità e approcci individuali. Quanto al suonare insieme, riuscite a integrare i diversi tipi di disabilità, di età, e anche di livelli in una band?
Sì, se pensiamo al suonare in una band è semplice dare differenti tipi di compiti a ogni componente, così la band è un sistema davvero inclusivo. Ad esempio, anche se uno può suonare con un solo dito, la sua parte artistica può essere davvero importante per il risultato finale in un’esibizione, e così, se abbiamo differenti background o abilità in una band nei differenti esecutori, la questione pedagogica è come creare arrangiamenti con parti importanti per tutte le persone, anche se hanno background leggermente diversi.

Mi è stato detto che usa un metodo didattico denominato Figurenotes per insegnare, leggere e ascoltare musica. Può dirci chi ha creato questo metodo, e come lo ha incontrato e scelto di introdurlo a Resonaari?
Il mio collega Kaarlo Uusitalo ha sviluppato originariamente il metodo Figurenotes e poi me lo ha proposto, e abbiamo iniziato a collaborare nel 1997 facendo test e creando molti progetti pilota con differenti gruppi-obiettivo su Figurenotes, in contesto pedagogico ma anche di riabilitazione o anche terapeutico. Abbiamo semplicemente creato diversi tipi di progetti pilota per scoprire se e quando Figurenotes funzionasse bene, pensando all’educazione musicale speciale e alle persone che hanno difficoltà a capire la cosiddetta notazione convenzionale; per loro possiamo essere una chiave importante per il mondo della musica.

Nel suo lavoro giornaliero, quali sono le principali difficoltà che deve affrontare ogni giorno a Resonaari e come superarle?
Il lavoro per gli insegnanti è sempre una situazione un po’ nuova; non so se sia una difficoltà o ciò che rende il lavoro divertente, perché le persone sono così diverse e hai sempre bisogno di trovare nuove strade e usarle, trovare soluzioni migliori e insegnarle. Questo rende il lavoro interessante, ma qualche volta anche frustrante, e quindi è importante avere colleghi, è importante condividere idee e incontrare altre persone. Io sono felice che a Resonaari abbiamo una buona squadra e condividiamo le nostre esperienze e idee, ma sono felice anche di essere parte di questo processo in Finlandia, all’estero e anche in Italia, così impariamo sempre di più.

Ci racconti dei suoi studenti. Quali sono i generi musicali e gli strumenti che preferiscono?
A Resonaari insegniamo soprattutto la cosiddetta musica afro-americana, per cui suoniamo in band e usiamo tastiere, chitarre, bassi e batterie, ma anche altri strumenti come la fisarmonica o il flauto, e alcune persone suonano il violoncello e strumenti di questo tipo. Stiamo quindi imparando questi generi musicali, abbiamo il rap, la dance, abbiamo una country band, una band che suona musica heavy, altri ancora che suonano pop, abbiamo anche il rock and roll. Ci sono però altre scuole di musica che hanno iniziato a lavorare con differenti tipi di gruppi e che hanno iniziato ad aprirsi a persone con bisogni educativi speciali, ed è possibile che abbiano uno stile musicale totalmente differente, come musica classica o altro, quindi il metodo non implica un genere musicale particolare. 

Ha mai avuto studenti che hanno frequentato la sua scuola e dopo hanno fatto della musica la loro professione?
Sì. Molti dei nostri studenti fanno musica come hobby, ed è qualcosa di divertente per loro, la scuola è nata con quello scopo; ma ora, dopo quasi 20 anni di lavoro, alcuni dei nostri studenti stanno iniziando a fare della musica la loro professione. Questi musicisti in particolare, i Pertti Kurikan Nimipӓivӓt, hanno rappresentato la Finlandia allo Eurovision Song Contest. Loro suonano punk. Sono tutte persone con disabilità intellettiva. È davvero divertente ripensare a quei musicisti quando imparavano a suonare, non comprendendo quasi niente di cosa significasse suonare insieme, e adesso la musica ha iniziato a essere la loro professione. C’è anche un’altra band, “Resonaari Group”, formata da alcuni dei nostri studenti, per cui la musica ha iniziato a essere una parte sempre più importante della loro vita: paghiamo loro un salario, e nel contratto c’è il titolo musicista. Ora abbiamo 2 musicisti a tempo pieno, sono persone con disabilità dello sviluppo intellettivo, e questo significa che dobbiamo ripensare a cosa significa essere musicista professionista per sviluppare questa professione, e certo questo è stato interessante per me e per i miei colleghi. L’area dell’educazione musicale speciale è davvero interessante perché è aperta e crea possibilità di apprendimento per tante persone, e in questo modo può anche aprire, per alcuni, la possibilità di lavorare come musicista o nel business della musica.

Con questo “Resonaari group”, o con altri gruppi formati da studenti, non musicisti, avete scambi con altre scuole musicali? Riuscite a suonare dal vivo in altre scuole o per un pubblico aperto? E quale effetto ha la musica suonata da persone con disabilità sul pubblico, su un piano emotivo?
Facciamo molti concerti nella nostra scuola, dove i nostri musicisti si esibiscono in un ambiente sicuro, ma abbiamo spesso anche esibizioni in altri posti durante l’anno: una volta all’anno, per esempio, facciamo un concerto aperto a tutti in un night club a Helsinki, nel centro città. Abbiamo fatto anche grandi concerti al Savoy Theatre, nel centro della città, e ci siamo esibiti insieme ad artisti finlandesi, ed è stato interessante e magnifico per noi: questi artisti si sono incontrati con le nostre band e stanno tuttora collaborando, alcuni hanno iniziato a essere amici per i nostri musicisti, la trovo una cosa simpatica. Anche per il pubblico è molto bello, perché improvvisamente si trova a contatto con la diversità sul palco, e per la società che forse pensa che alcuni dei nostri musicisti sono emarginati, e adesso, improvvisamente, sono persone attive nel centro della società. Essere sul palco, esibirsi, per alcune persone è una cosa totalmente nuova, e gli altri cominciano a comprendere le potenzialità che tutte le persone hanno; forse non ci hanno mai pensato prima, ma ora, andando ai concerti e vedendo che è possibile, cominceranno a essere più aperte mentalmente anche in altri luoghi.

Ultima ma importante domanda: se dovesse raccontarci uno o due aneddoti che esprimono nel miglior modo la sua esperienza a Resonaari e il senso che questo tipo di scuola può creare nella società allargata, con un imparare a imparare che si estende anche a livelli diversi, quali storie sceglierebbe?
È una domanda difficile, ma se il punto di partenza sono i diritti umani che appartengono ad ognuno, noi abbiamo successo creando un sorriso per tutti, è davvero importante il sorriso quando qualcuno capisce e impara qualcosa. Quelli sono grandi momenti, perché aprono le porte alla motivazione o all’apprendimento, e se abbiamo successo nell’insegnare qualcosa, anche le persone che non hanno avuto prima queste possibilità di imparare improvvisamente sono in un processo di apprendimento. Forse qualcuno comincia a essere un musicista, non lo sappiamo, ma comunque comincia a essere più attivo e a vivere la società, ed è una piccola rivoluzione culturale. Come insegnanti, abbiamo bisogno di queste soluzioni educative musicali speciali e in questo modo creiamo una musica possibile per tutti e la rendiamo maggiormente inclusiva, con effetti in tutta la società.

“Resonaari” Special Music Center
Kulosaaren Puistotie 26
00570 Helsinki
Direttore: Markku Kaikkonen
markku.kaikkonen@resonaari.fi 

Una pizza per due

Di Stefano Toschi

Nell’anno dell’Expo e dell’Enciclica del Papa Laudato Si’, viene spontaneo riflettere sui temi legati al cibo, all’alimentazione, al Pianeta. È di pochi giorni la notizia che gli scienziati avrebbero trovato un pianeta analogo alla Terra: noi facciamo molta fatica a conservare il nostro, chissà se, ora, potremo andare a inquinarne e a sfruttarne un altro. Questi temi, comunque, sono più grandi di noi. Nel mio piccolo, il discorso sull’alimentazione è sempre stato molto complesso. Per una persona disabile, nemmeno un gesto base come nutrirsi è scontato. Io, ad esempio, non posso farlo da solo: ho bisogno di qualcuno che mi aiuti, ma posso scegliere cosa mangiare anche se so che non devo esagerare con la quantità. Quando c’era mia mamma, avevo instaurato alcune abitudini e alcune routine alimentari: essendo lei diventata anziana, era rassicurata da esse. Inoltre, qualora fossi stato male di notte a causa della cena, per lei, negli ultimi anni, sarebbe stato un problema e una fatica. Un piccolo vizio che ci concedevamo era la pizza del sabato sera: ordinata sempre nella stessa pizzeria, ce la dividevamo perché, per entrambi, una intera era troppa. Adesso che mia mamma non c’è più, e che due operatori si alternano nella mia assistenza, il rito della pizza è rimasto, se non fosse che, da pizza del sabato, è diventata pizza del mercoledì. Perché? Perché i miei collaboratori sono filippini. Vi chiederete cosa c’entra. Ebbene, ho scoperto che, nel mondo… Tenetevi forte… Esistono persone a cui la pizza non piace. Incredibile, vero? Però, all’operatore che è con me il sabato sera, la pizza non piace e non la digerisce. Così, la divido con quello del mercoledì. E ho scoperto che, in generale, i filippini preferiscono il riso alla pizza. All’inizio mi sembrava una cosa assurda. Poi, con loro, abbiamo condiviso gusti e abitudini alimentari. Ora il riso abbonda sulla mia bocca, per contro, loro hanno imparato a variare maggiormente il loro menù. Nel tempo, ho avuto collaboratori e amici di tante nazionalità: Albania, Polonia, Costa d’Avorio, Camerun, Romania, Filippine, non le ricordo quasi nemmeno tutte. Con ognuno, la condivisione del pasto è stato un momento di grande conoscenza personale. Per due ragioni: sia per lo scambio di culture e tradizioni diverse, sia perché io, come dicevo, non riesco a nutrirmi da solo: questo gesto, così necessario, è sempre stato quello che ha segnato un passaggio nel livello di confidenza con i miei commensali. Ogni tanto scherzo sul fatto che ho due amici storici, dai tempi del liceo, di cui uno è bravissimo a darmi da mangiare, uno a darmi da bere… Soprattutto il vino! Per me è importante anche come uno mi porge il cibo. Alcune volte, infatti, ho rischiato seriamente di soffocare perché mi era stato porto male un boccone. Dunque, mangiare con me è, insieme, un momento di convivialità e confidenza, ma, anche, un momento che richiede attenzione all’altro e insegna una vera condivisione del pane. Dai miei collaboratori stranieri ho imparato quanto il cibo possa farti sentire un po’ più vicino a casa, quando sei a migliaia di chilometri da essa. Cucinare e condividere il cibo della tradizione è un modo per sentirsi legati alla propria terra e alle proprie origini. Io mi sono abituato a odori e sapori che non conoscevo, che, per essi, sono un po’ come la madeleine di proustiana memoria. Come, per noi bolognesi, i tortellini vogliono dire Natale, così, per tanti migranti, ci sono piatti e profumi che vogliono dire casa. Quando si è lontani dalla famiglia, in un Paese straniero, ogni flebile legame con la propria terra e le proprie tradizioni rappresenta un’àncora alla normalità di quella che è stata la propria vita fino a quel momento. Il cibo, che, per noi occidentali, è sopratutto cultura e socializzazione, e la sua presenza è data per scontata, per molti, in altre parti del mondo, è ancora un problema. Nel 2015 si muore ancora di fame. Sembra incredibile, ma, nel mio piccolo, se posso dare per scontata la presenza di cibo sulla mia tavola, non posso dare per scontato di poterlo mangiare. Trovandomi da solo, non potrei. Ancora di più, dunque, per me cibo significa condivisione e socialità, perché io non posso mai mangiare da solo. D’altra parte, la tavola è anche il luogo di grandi trattative, il momento in cui le parti sono meglio disposte al confronto. Anche per me è sempre stato un momento significativo, perché, se è vero che, come si dice, a tavola non si invecchia, capisco perché io mi mantengo sempre giovane: chi siede con me al desco sa quando inizia, ma non quando finisce, dal momento che, dovendomi imboccare, con i miei tempi, i pasti sono sempre molto lunghi. Anche in questo caso posso fare un elogio alla lentezza, che permette di parlare, conoscersi e, ai miei amici e operatori, di mantenersi giovani con me.

Corpo. Cavallo. Passione!

Di Tatiana Vitali, una cavallerizza, e di Sofia Selleri, educatrice e istruttrice AIASPORT

Tatiana

Per chi mi conosce è chiara la passione che io ho per i cavalli, e per i lettori provo a raccontare come è nata questa avventura che con il tempo è diventata lo sport che pratico. Sono passati 21 anni da quando espressi il desiderio di provare a cavalcare dopo aver visto le mie amiche fare questa esperienza a una gita scolastica alle scuole superiori. Ritornata a casa decisi di iscrivermi a un maneggio che fosse in grado di accogliere persone con disabilità, perché oltre al piacere volevo anche sicurezza e professionalità. Presi contatto con “L’Associazione AIASPORT Onlus” – Attività equestre per disabili di San Lazzaro di Savena (BO) e mi iscrissi immediatamente. Forte era il desiderio di iniziare questa avventura e nello stesso tempo, data la mia situazione motoria, era anche una sfida con me stessa cercando di giocare con le mie paure. In tutti questi anni ho montato diversi cavalli e di tutti ho un bellissimo ricordo nel cuore. Altrettanto posso dire degli istruttori che nel tempo si sono succeduti al mio fianco. Per permettermi di montare l’istruttore mi prendeva in braccio, saliva la scaletta e mi posizionava sul cavallo, gli operatori mi affiancavano nel cammino. Il mio percorso di equitazione ha avuto un’evoluzione: inizialmente aveva la caratteristica riabilitativo-motoria, rinforzo dei muscoli, facilitare l’allineamento del tronco-capo per farmi acquisire equilibrio con la percezione-consapevolezza del mio corpo nello spazio. Ho dovuto interrompere l’equitazione per un anno e mezzo per motivi indipendenti dalla mia volontà e dai miei desideri. Fino ad allora ero stata affiancata solo da figure maschili, ma per un cambio di lavoro queste persone non erano più presenti. Ho vissuto quel periodo in modo molto doloroso perché mi era venuto a mancare quel momento di libertà che dedicavo tutto a me stessa nel mio tempo libero. La coordinatrice Maria Laura Tabacchi, conoscendomi e sapendo quanto io desiderassi riprendere l’attività, fece tutto il possibile per farmi tornare a cavalcare. Ricominciai affiancata dall’istruttrice Sofia Selleri con la quale entrai fin da subito in sintonia perché anche lei ha una forte passione per i cavalli, li conosce, li accudisce e sa come muoversi nel rispetto dell’animale. Sofia, essendo una donna minuta, non poteva sollevarmi e arrivai a un compromesso con me stessa accettando che mio padre fosse presente e mi prendesse in braccio per posizionarmi sul cavallo. Per fortuna, dopo alcuni anni, dalla Fondazione Dott. P. G. Rusconi Bologna è stato donato all’associazione un sollevatore e grazie all’utilizzo di questo ausilio non dipendo più dalla forza fisica delle persone. Guardando al futuro per me significa equitazione per sempre. Oggi la mia partecipazione al maneggio è di tipo ricreativo-sportiva, cioè legata al piacere di avere prima il contatto con l’animale attraverso la cura, poi montarlo. L’équipe che mi affianca è così composta: oltre a Sofia c’è Aris, un fisioterapista, e Nicolas che tiene il controllo del cavallo attraverso la longhina; durante il percorso con la loro calma mi trasmettono sicurezza, fiducia e voglia di provare cose nuove. Ultima ma non per importanza c’è Zara una bella cavalla nera molto tranquilla, con una lunga coda e una folta criniera, che in questi anni mi accompagna nei miei tragitti sia interni che esterni al maneggio. Nei percorsi interni faccio esercizi di dressage e Sofia, sempre al mio fianco, mi parla proponendomi visualizzazioni mentali che mi aiutano molto a rilassarmi, ad esempio mi dice: “immaginati forte come una quercia che non ha paura del vento”, oppure facendo aumentare il passo al cavallo mi dice: “il maneggio diventa un fiume da attraversare”. Faccio anche passeggiate all’esterno nel parco immersa nella natura, superando così i miei momenti di paura che di tanto in tanto si ripresentano. Non mancano anche i momenti di sfida con me stessa che orgogliosamente voglio riuscire a superare e quando Sofia mi propone qualcosa di nuovo spesso la mia risposta è: “Proviamo! Mi piacciono le sfide!”. E ora ho iniziato a guidare Zara senza l’operatore davanti. Questo lo posso fare perché ho più fiducia in me stessa e nel cavallo e sento di più il controllo dell’animale. Essere sul cavallo mi fa sentire libera perché sono separata dalla carrozzina e sento il mio corpo muoversi, sento un massaggio piacevole dalla testa ai piedi e non è la stessa cosa fare lo stesso percorso sulla carrozzina perché il cavallo, con il suo movimento, mi dà delle sensazioni che con la carrozzina non sento. Inoltre ho una visuale a 360°, ho un dietro, un davanti e i lati, e mi sento come sorretta e abbracciata dalla natura. Le zampe del cavallo sono le mie gambe. Il cavallo risveglia le mie fantasie personali, mi ha portato a confrontarmi con le regole e il rispetto dello stesso, è necessario avere delicatezza nel contatto con l’animale e riuscire a riconoscere le intese. L’emozione che provo quando guardo negli occhi Zara è indescrivibile, vedo in quegli occhi dolci serenità, e la rilassatezza del suo corpo rispetta la mia immobilità. L’attività equestre ha permesso a me e agli operatori che mi accompagnano di condividere la nostra passione per i cavalli e di vivere insieme un’esperienza fisica, dinamica e gioiosa.  

Sofia
La mia passione per i cavalli è nata con me, da sempre, da quando ho ricordi, il pensiero e l’immagine dei cavalli mi risvegliano gioia, entusiasmo, amore. I miei genitori raccontano che quando ancora non parlavo dicevo “Cacao, Cacao”, mia mamma non capiva e mi chiedeva se avevo fame, se mi scappava la popò… finché io risposi, schioccando la lingua col suono che ricorda il passo del cavallo “Clop clop Cacao!”. Mia mamma mi rispose “cavallo, Sofia, vuoi dire cavallo!?” e io ero tutta contenta. Così è nata la fama che ho detto Cacao (cioè cavallo), prima di dire mamma, e questa immagine ancora non mi lascia. Il problema è che per una bimba di Milano, che abitava al settimo piano, non era per niente facile perseguire un sogno così bucolico e dispendioso, e i cavalli ho continuato a desiderarli e a giocarci solo con la fantasia per anni. Giocavo al maneggio, avevo dei cavallini che tenevo scuderizzati in piccole stalle di cartone sotto alla libreria, mentre al primo piano della libreria, sopra le scuderie, c’erano gli alloggi delle Barbie; il tappeto rettangolare era il maneggio dei cavalli. Le mie Barbie gestivano una scuderia ben attrezzata (mio padre mi aveva costruito con il legno ostacoli e calessi, e con il pellame selle e finimenti) e tutti i giorni le Barbie si occupavano di nutrire, ferrare e accudire sei cavalli, gestire lezioni con i clienti, ecc. Quando avevo più o meno 10 anni, durante le vacanze estive, mio papà mi regalò le mie prime lezioni di equitazione, in un piccolo maneggio vicino al mare. Io ero come impazzita per questa mia esperienza vera con i cavalli, aspettavo solo il momento di andare da loro, di cavalcarli, di stargli vicino, di annusarli! Quando tornavo in città, durante la scuola, guardavo le foto, facevo disegni, sniffavo i pezzetti di criniera che tenevo dentro ai porta rullini fotografici e così più o meno sono andata avanti finché, dopo la maturità, ho lasciato Milano e sono tornata nel mio luogo d’origine: la campagna bolognese. A questo punto il percorso è stato facile. Per prima cosa ho chiesto ai miei genitori di regalarmi un cavallo, poi sono andata ad abitare da sola in campagna, ho iniziato a tenere a pensione i cavalli degli amici, ho comprato un secondo cavallo e la pensione si è ingrandita, fino a diventare per me un vero e proprio lavoro senza che quasi me ne accorgessi, animata dalla forza che solo una grande passione regala. Da quando ho 24 anni, terminati gli studi in Pedagogia, gestisco, prima sola, poi con mio marito che è un cavallaio come me, una scuderia dove viviamo con una ventina di cavalli, due bimbi, galline, oche, capre, gatti e cani. Vivere con un branco di cavalli e altri animali (nonostante tenerli puliti sia pesante) mi dà tuttora gioia e benessere, senso di libertà, di appartenenza al ciclo della natura e della vita e non posso immaginare per me qualcosa di diverso. Per diversi anni ho lasciato da parte la pedagogia e la mia laurea “sull’attività equestre per disabili” nel cassetto, ero troppo presa da tutti i miei animali e a fare la mamma. All’AIASPORT avevano bisogno di un operatore e mi sono presentata perché mi rendevo conto che, anche se stavo benissimo con i miei animali, avevo però anche bisogno di relazioni, di scambio, di diversità. Il lavoro in AIASPORT mi ha offerto una crescita e tanta ricchezza personale, i cavalli possono piacere e offrire il benessere della loro calma e forte presenza a bambini piccoli e in età scolare, a ragazzi spavaldi, timidi o alla ricerca di un mestiere da imparare, ad adulti silenziosi, residenti in centri d’accoglienza da sempre, a persone in difficoltà e per le quali il diritto e la possibilità di divertirsi possono essere molto molto difficili da cogliere. Con Tatiana c’è stato da subito un gran feeling. La sua grande passione per i cavalli, l’amore per gli animali, la sua simpatia, mi hanno velocemente conquistata, io potevo capirla molto bene, so intimamente cosa Tatiana prova quando si avvicina ai cavalli, sento la sua gioia profonda, il suo entusiasmo mi contagia e mi chiedo quale e quanto sia per lei il piacere che prova nel cavalcare un animale così bello che cammina e si muove per lei e con lei, mi sforzo di immaginarlo, paragonandolo al mio piacere di cavalcare, con la certezza che a lei il movimento e la calda e forte corporeità del cavallo regalano emozioni ancora più grandi che a me. La stima che ho per Tatiana, e il mio affetto, si sono sempre più consolidati nel tempo. Apparteniamo allo stesso mondo, dice lei giustamente, ci unisce la passione, l’amicizia, la forza, la voglia di scherzare, di ridere, di capirci anche senza parole. Forse ci unisce il nostro segreto più dolce e antico, di due bambine simili che hanno tanto sognato qualcosa che pareva irraggiungibile e che anno dopo anno continua, con la stessa intensità, a regalarci piacere ed emozioni.

Per saperne di più:
www.aiasport.it

Vasi comunicanti

A cura di Mario Fulgaro

Il gruppo che compone il Progetto Calamaio è un gruppo, ci piace spesso sottolinearlo, formato da persone estremamente diverse tra loro, non solo per la presenza o meno di una o più disabilità, ma per storie, età, caratteri, provenienze e sfere d’interesse. Le nostre individualità, lo abbiamo scoperto piano piano, ci qualificano anche come uomini e donne, nei rapporti sociali e nei confronti dell’altro sesso. Non è un caso se in questi anni abbiamo lavorato molto su temi legati al corpo, l’estetica, l’affettività e la sessualità, su quanto il piacere e l’immagine agiscono nella percezione di noi stessi dentro e fuori dal tessuto sociale. Perché è anche su questi aspetti che si fonda la nostra autonomia, il nostro essere o meno riconosciuti come parte di qualcosa in cui essere attori di cambiamenti personali e culturali.
La vera novità di quest’anno è stata tuttavia una presa di distanza, complessa e in certi casi destabilizzante, che ci ha permesso di portare il discorso su un livello successivo. Tutto è nato da una semplice domanda: quanto il nostro pensare e agire verso l’esterno è condizionato dalla nostra appartenenza di genere? O meglio, quanto l’essere maschi o femmine influisce sulle nostre scelte, desideri e paure in ambito familiare, lavorativo e privato? Cosa trasmettiamo, da questo punto di vista, nel nostro lavoro a scuola?
La parola “genere”, abbiamo scoperto, apre a tanti mondi, non essendo solo legata al puro dato biologico (quello è il sesso!) ma alle categorie e agli stereotipi che storia, cultura e società hanno finito per disegnare e imporre sui ruoli dell’uomo e della donna.
A sollecitare la nostra curiosità e ad aprire ufficialmente il dibattito ci ha pensato il recente incontro con la Casa delle donne di Bologna, nato nell’ambito del progetto “Biograf-fie” e dedicato al complesso rapporto violenza-fiducia. Ad aiutarci, il confronto con i ragazzi del Servizio di Giustizia Minorile di Bologna grazie, perché no, al loro confuso e irrisolto punto di vista in cui non è stato affatto difficile riconoscersi. Non sono mancati spunti anche dall’arte, raggiunti grazie alla visione di alcuni spettacoli teatrali nell’ambito della rassegna di teatro ragazzi “Teatro Arcobaleno”, dedicata per l’appunto al tema delle differenze di genere, cui abbiamo avuto accesso presso Pubblico, il teatro di Casalecchio di Reno e La Baracca Teatro Testoni Ragazzi, con l’idea di avvicinare i più piccoli alla diversità.
Raccogliere ora tutto questo e dare un punto di vista personale, ammetto, è una bella impresa… Trovo sempre molto scomodo il coinvolgimento nella disputa dialettica tra le presunte qualità superiori delle donne o degli uomini perché di mio ho sempre percepito una forte e implicita complementarietà tra i due sessi.
I ruoli possono e devono, a volte, differenziarsi proprio per sopperire alle manchevolezze dell’uno o dell’altra in una spirale di vicendevole aiuto. È inevitabile che in questa spirale subentri, spontaneamente e in modo del tutto inconsapevole, quel “gioco al massacro” che vede la parte più debole, il più delle volte femminile ma non sempre, subire le scelte della parte più dominante. Le recriminazioni che ne conseguono sono, molto spesso, il frutto di caratteristiche individuali che ingabbiano ognuno in uno specifico ambito d’azione. Capita, dunque, che, chi mostra per natura un atteggiamento più remissivo o poco competitivo, sia portato a evitare qualsivoglia tipo di scontro e ad accettare così quasi con rassegnazione le decisioni altrui. Ma questo, lo sappiamo, è un fatto di carattere e il sesso c’entra poco.
Però è anche vero che Madre Natura ha decretato da sempre elementi distintivi tra i due generi, maschile e femminile, per cui alcune mansioni sono più ad appannaggio dell’uomo rispetto alla donna e viceversa. Così, è sempre più probabile che ci siano più figure maschili in sedi di comando che non femminili, in quanto il potere si associa meglio con aspetti comportamentali legati più al cinismo, alla prevaricazione, alla forza, alla sicurezza di sé. Tutte queste caratteristiche elencate appartengono per naturale attribuzione più agli uomini che alle donne, alle quali si addice più un ruolo di maggiore sensibilità emotiva e caratteriale. Non a caso i figli, quando avvertono carenze affettive, ricercano al loro fianco la figura femminile della madre, mentre quando sentono il bisogno di un aiuto più deciso e forte guardano la figura paterna. So che la maggior parte delle donne che mi leggerà non la penserà così ma io credo, e farò con ciò un’affermazione forte, che dietro ogni stereotipo ci sia un fondo di verità. Ma questo è il mio punto di partenza, non certo la mia conclusione.
Al di là di ogni distinzione di tipo antropologico possiamo comunque parlare anche di altro, utile ad aiutarci a scardinare o riaffermare luoghi comuni che, nostro malgrado, finiscono con l’influenzare la nostra opinione sulla realtà che ci circonda e, molto spesso, ci sovrasta e influenza. Sarà per questo che, quando a 19 anni mi sono casualmente ritrovato tra le mani un succinto libercolo a carattere filosofico e sociologico sui comportamenti umani plasmati dalla società ho avuto l’irrefrenabile curiosità di leggerlo e tra le sue righe ho potuto riscoprire quanto di sciocco e al contempo intrigante ci sia nel modo di agire dell’essere umano.
Partendo dal pensiero di Karl Marx, si puntava infatti l’attenzione soprattutto sull’aspetto economico delle relazioni umane, sottolineando così come il benessere diffuso abbia aiutato a scalfire, ma non superare del tutto, le discrepanze sociali tra chi possiede in termini materiali di danaro e chi invece possiede in altre qualità. È certo che chi ha un maggiore benessere economico e monetario, ha la grande chance di svolgere una vita più agiata e tranquilla, di conseguenza il suo modo di rapportarsi al mondo sarà più sicuro ed elitario.
Oggi come oggi, la donna assume sempre più un ruolo di supporto all’uomo nel bilancio economico familiare, provvedendo anche lei a rimpinguare le casse della propria famiglia attraverso un lavoro extra familiare. Proprio in quest’ultima definizione lavorativa della donna sta il nuovo disagio femminile, in quanto se fino a un cinquantennio fa il gentil sesso provvedeva innanzitutto alla cura e alla gestione degli affari interni alla famiglia, adesso deve supportare la stessa propria famiglia attraverso un impegno lavorativo aggiuntivo, in grado di sopperire a un qualche buco finanziario di casa. Sempre nello stesso opuscoletto si affermava, riprendendo e facendo propria la concezione filosofica di Feuerbach, che la società è il frutto dell’azione degli individui, che attraverso scelte politiche apportano cambiamenti a volte radicali nella costruzione di quella evoluzione sociale che, a sua volta, finisce con l’influenzare e il ridisegnare i comportamenti umani all’interno della collettività. Nessuno, uomo o donna che sia, è esente da tutto questo processo di cambiamento e di evoluzione, che impone una graduale trasformazione della propria ottica e del proprio raggio di azione. La donna, in ogni fase storica di evoluzione sociale, si è ritrovata a dover adattare le sue specifiche qualità a ciò che il sentire comune imponeva. In questo scambio tra l’individuale bisogno di riscatto e i canoni sociali predominanti è stato inevitabile quella sorta di travaso di privilegi dalla parte fino ad allora più favorita alla parte più svantaggiata. Tutto questo ha comportato una ridefinizione delle mansioni e dei compiti, come dei diritti e delle opportunità tra i due generi.  Questa, che può apparire come una fase transitoria, rivela solo una trasformazione sociale che è e sarà sempre in itinere, conducendo il genere umano alla scoperta di nuove forme di relazione, sia all’interno della famiglia che fuori di essa, nel mondo circostante.
Forse basterebbe ricominciare da capo, dall’educazione, dall’osservazione dei bambini. Quanto li lasciamo liberi di esprimersi indipendentemente dal genere? Ci avete mai pensato? Vi invito a leggere quanto scrive la mia collega Lorella sullo spettacolo Io Femmina, e tu? di Letizia Pardi e Francesca Pompeo, visto qualche tempo fa a La Baracca Teatro Testoni Ragazzi. Cosa ne pensate?
Sul palcoscenico c’era al centro un ring, dove due attori, un ragazzo e una ragazza, indossavano dei guantoni da boxe.
Dibattendo sui vari ruoli tra maschi e femmine, lei diceva a lui: “Dato che voi maschi dite che noi femmine lavoriamo meno di voi, adesso voi maschi provate un po’ voi a tener dietro a una casa, facendo tutti lavori domestici accudendo anche i bambini, mentre io vado a lavorare e facendo i lavori da uomo, come l’elettricista, o attaccare quadri. Vedrai che non dirai più che i lavori domestici di noi donne sono meno faticosi dei lavori maschili!”.
Questa frase, pronunciata dall’attrice all’inizio dello spettacolo prima di far fare al suo amico tutto quello che gli aveva detto, mi ha colpito molto e un pomeriggio ci ho improvvisamente ripensato, osservando i miei nipoti muoversi davanti al baule dei loro giochi, accanto a cui mi siedo anch’io quando devo fare loro da babysitter. Mi sono accorta che la mia Giulia, oltre a giocare con i giochi da femmina, come le bambole, i puzzle o leggere i libri di fiabe, adora giocare soprattutto con un camioncino di nome Ivo. Con Ivo si divertono tutti e due, sia Giulia che suo fratello Lorenzo, perché il camioncino elettrico emette una musica parlante, che fa: “Io sono Ivo il fuoristrada sportivo, ho grandi ruote per correre veloce, a perdifiato per la città”. La cosa bella poi, è che Ivo permette loro di giocare insieme anche se sono un maschio e una femmina e hanno età diverse.
Anche Lorenzo, a dirla tutta, prende spesso i giochi di Giulia, come al solito tutti mischiati con i suoi nel baule, e nella maggior parte dei casi si tratta di bambole.
Francamente non so se come zia ci avrei fatto caso se non fossi andata a vedere questo spettacolo. I bambini presenti al Teatro Testoni erano molto divertiti. Chissà con che cosa hanno giocato quel pomeriggio!

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente

Donne du du du… In cerca di?
Hai proprio ragione caro Adelmo Fornaciari, quando fai cantare le donne dal palco delle città italiane… Le donne sono sempre in cerca di qualcosa, a volte sono guai (ma per colpa di chi?) e il più delle volte, come tutti noi, sono alla ricerca della propria identità.
Ma c’è di più, soprattutto se pensiamo a come la loro figura si è evoluta negli anni, dal punto di vista dell’immagine, a partire dagli stereotipi che porta con sé (bellezza, maternità, accoglienza) fino alle responsabilità legate all’impiego del proprio corpo (dalla libertà sessuale al diritto all’aborto). Detto ciò non si può infatti negare che il potere decisionale femminile sia ancora una faccenda strettamente vincolata alle leggi della comunità. La domanda che forse oggi va riproposta è quanto questa comunità si metta o non metta in relazione alle scelte del singolo e con quale legittimità.
Leggendo la monografia di questo numero avrete incontrato molte esperienze che aprono la riflessione ma che invitano anche a rimboccarsi le maniche, per fare in modo di non ripetere gli errori del passato, come la storia già ci insegna in molti campi.
Mi piacerebbe ora dare voce in questo spazio ad altre storie che, per esempio, ci raccontano di che cosa vuol dire per una donna con disabilità costruirsi un percorso professionale all’interno di un contesto scolastico o, ancora, come affrontare la nascita di un figlio con disabilità anche quando questo non è del tutto voluto dalla mamma. Un tema delicato quest’ultimo che ha generato tra i miei lettori un dibattito tra due posizioni diverse, che riporto ora così come le ho ricevute a commento in risposta a un mio articolo sul Messaggero di Sant’Antonio, “A me che importa?”, condiviso qualche tempo fa sui social. Io ho detto la mia. Voi, ditemi la vostra!

Ciao Claudio,
sono una ragazza di 29 anni con due lauree, con un lavoro precario ma stupendo, con pochi amici ma con un fidanzato filosofo, con una famiglia di vecchio stampo e un canarino giallo, che mi capisce al meglio, con una paraparesi spastica alle gambe dalla nascita e un cervello curioso e testardo. In questi giorni sono a letto per una seria sciatalgia alla schiena e così piuttosto che fissare orizzontalmente il soffitto, dispiacermi per aver perso una settimana di supplenza alla scuola dell’infanzia dove erano previste le mie attività preferite, ho letto più libri possibili tra cui il tuo, Una vita imprudente. Mi mancano da finire due tirocini e la tesi poi potrò essere anche un’insegnante di sostegno… Ma secondo te visto la mia piccola invalidità, potrò veramente aiutare nel migliore dei modi i bambini e essere una buona insegnante?
E se mi assegnassero un bimbo autistico che scappa come un fulmine? Come faccio a raggiungerlo se sono più lenta di lui nel correre? Mi è venuta questa perplessità perché le segreterie che mandano le convocazioni non hanno studiato l’ICF e non fanno interagire i funzionamenti delle persone…
Tu cosa ne pensi?
Grazie per quello che fai nelle scuole, grazie per i libri che hai scritto, grazie perché penso a te come a un amico… Più vero di quelli che continuano a vantarsi di organizzare cene di volontariato e non sanno scrivere nemmeno una volta l’anno.
Detto ciò mi prendo un altro libro… Perché l’immobilità ci può rendere colti!
Ciao,
Valentina

Cara Valentina,
beh, per risponderti mi piacerebbe partire dal tuo nome… Valentina un nome un programma… Un programma pedagogico si potrebbe dire… Hai mai pensato che a impedirti di afferrare il bimbo autistico non fosse tanto la tua disabilità quanto il tuo nome? Pensaci bene… Giochi di parole a parte, sai che mi piace scherzare, quello su cui vorrei farti riflettere è l’identità che caratterizza il tuo nome e te stessa, Va-lentina, maestra con disabilità. Muoversi lentamente è senza dubbio un tratto che contraddistinguerà il tuo modo d’insegnare… Questo, di certo, non lo potrai cambiare. Nemmeno io, in fondo, mi chiamo Claudio per caso… A guardarci bene significa claudicante, ovvero zoppo. Eppure questi dati di realtà non ci impediscono di pensare in grande e arrivare con la mente dove altri arrivano prima con il corpo. I bambini si adeguano con empatia e naturalezza a chi sta loro accanto e sanno benissimo che cosa tu sei o non sei in grado di fare. Probabilmente quel bambino si rivolgerà a te in un momento di gioco e di ragionamento, mentre, a prenderlo in corsa ci penserà un’altra insegnante. Lavorare insieme, ecco un altro punto importante. Partire dalle nostre caratteristiche e difficoltà significa infatti sapersi confrontare come gruppo su un piano di progettazione comune che tenga conto delle abilità e non abilità di tutti. Una vera ricchezza per i bambini che ne beneficeranno, che impareranno così a vivere tra la diversità delle persone e delle identità. Rallentare la scuola non significa fare cattiva scuola ma, anzi, significa aggiungere un grande valore: la lentezza.
Detto ciò… Vai, vai lentina!


Gentile Claudio,
leggo un articolo che hai scritto sul Messaggero di Sant’Antonio riguardo ai fratelli di persone disabili… A me è capitato di intervenire su una famosa rivista di moda alla confessione di una giovane donna che dichiarava di aver abortito perché il figlio che portava in grembo non era perfetto ma destinato a divenire disabile. L’ho rimproverata, forse troppo duramente, lo ammetto, per aver ucciso la sua creatura e come risposta ho avuto la testimonianza di una ragazza che aveva un fratello disabile. Raccontava di mille sacrifici e del pentimento dei suoi genitori per non aver eliminato per tempo quella creatura che non rispondeva esattamente ai loro canoni. Io sono rimasta a bocca aperta perché, nonostante tutti i sacrifici e le privazioni, penso che un essere umano sia da amare sempre e comunque.
Ecco come risponde Lucia T. alla nostra lettrice e il dialogo che ne è seguito:
Lucia T: Cara Rossana, la disperazione di quella sorella dovrebbe insegnarti che non bisogna mai giudicare, condannare, rimproverare aspramente, ma solo cercare di comprendere e rispettare le scelte individuali, spesso frutto di un dolore e un travaglio inimmaginabili…
Rosanna L: La vita, una volta concepita, deve essere protetta con la massima cura; l’aborto, come l’infanticidio, sono abominevoli delitti. Per non citare lo stesso attuale nostro Santo Padre Francesco che ha definito l’aborto una falsa compassione cara Lucia.
Lucia T: La tua giovane età, e la mia, purtroppo, già avanzata, mi spingono ad approfondire un argomento che mi sta molto a cuore, la carità cristiana. A voi giovani, da vecchia insegnante, non mi stancherò mai di chiedere una costante riflessione sul messaggio cristiano che considero di una bellezza rivoluzionaria, l’accoglienza e il perdono. E come ha detto molto saggiamente il nostro grande pontefice.
Rosanna L: Cara Lucia, come ho ammesso già prima so di essere stata dura ma so anche per certo che i figli non sono nostri ma un dono di Dio, di conseguenza eliminare quelli che non rispondono alle nostre aspettative ha ben poco di cristiano… Mi ricorda gli antichi spartani che gettavano nel dirupo i figli con qualche difetto fisico.
Lucia T: Non credo che il pontefice parlasse di falsa compassione per parlare di comprensione nei confronti di chi compie questa scelta. Io ho due figli desiderati e amati con tutta me stessa. Averli potuti avere e tenere è stata un’immensa fortuna, non mi sento per questo una brava cristiana bensì una donna cui è stato concesso un dono immenso.

Prima di rispondere a Rosanna e Lucia, riprendo con voi un estratto del mio articolo sul Messaggero di Sant’Antonio, che francamente non immaginavo avrebbe scatenato un simile dibattito e su tale fronte:
Ma chi erano Caino e Abele? Primo e secondogenito di Adamo ed Eva, una storia che tutti noi conosciamo. Il primo assassino e il primo martire della storia. L’invidia come causa del primo crimine, del primo rapporto difficile tra fratelli.
Quando sento parlare di Caino e Abele, tuttavia, non penso solo ai conflitti della storia mondiale ma, scendendo più vicino, non posso non accorgermi di altri rapporti tra fratelli e sorelle che vivono in mezzo a noi, come il mondo dei siblings, fratelli e sorelle di persone con disabilità.
Essere genitori o fratelli di una persona con disabilità sono esperienze diverse. Certo il rischio, care Rosanna e Lucia, è quello di sovrapporre i due ruoli che sottintendono la stessa domanda: perché è capitato a me?
Il tema è senza dubbio delicato e, indipendentemente dalle posizioni religiose, credo sia importante restare aperti all’ascolto e concentrarsi sulle origini di questa domanda. Il corpo che abbiamo ricevuto, nel bene o nel male, è il nostro e siamo noi, uomini e donne, che dobbiamo imparare a relazionarci con esso anche quando contiene in sé una nuova vita. Giudicare a mio parere è deleterio, sia come genitori che come fratelli oltre che come semplici cittadini.
Il vero problema è capire, al di là delle opinioni, perché la disabilità sia ancora vissuta in termini di sfiga, amplificando una serie di dinamiche culturali già in atto.
Il rifiuto nasce quando siamo bloccati dagli steccati che circondano le nostre convinzioni. Uscire da quegli steccati è rischioso. Mi viene in mente a tal proposito una recente pubblicazione per l’infanzia di Davide Calì e Serge Bloch, Il nemico. Una favola contro la guerra, Terre di mezzo Editore. Un soldato isolato in trincea immagina al di là del confine un nemico terribile e sanguinario. Un giorno si troverà a dover uscire dal suo rifugio e a incontrare il nemico faccia a faccia. Scoprirà e conoscerà un soldato molto simile a lui con le sue stesse paure e sogni. Una storia semplice ma emblematica.
La disabilità non è un nemico che ci colpisce alle spalle, è qualcosa che ci sta di fronte e che ci costringe a uscire fuori dalle trincee per guardarla negli occhi. Perché lo stesso accade dall’altra parte, proprio come ci racconta il nostro soldatino: È quasi l’alba e il nemico ancora non si vede. Ho capito dov’è. È nel mio buco! Anche lui ha pensato di sorprendermi nel sonno e di far finire questa guerra. A quest’ora mi starà aspettando ma forse ha capito che io sono nel suo buco e che non posso uscire.
Buona vita!

La relazione con lo spazio e il senso di spaesamento

Di Roberto Parmeggiani

Ogni artista esprime il proprio stile attraverso caratteristiche precise che, spesso, sono radicate nelle esperienze più intime e personali.
Come se fossero l’espressione del vissuto, della storia, delle vicende che, in un qualche modo, l’hanno formato e che trovano, nel linguaggio artistico, un mezzo di espressione e comunicazione adeguato.
Cildo Meireles, brasiliano e uno dei più importanti artisti del secondo dopoguerra, non fa eccezione. La sua cifra artistica, infatti, è strettamente legata alla sua storia, agli incontri e alle scelte fatte, quelle personali e quelle sociali cui ha partecipato più o meno attivamente.
Nato a Rio de Janeiro nel 1948, scopre l’arte moderna e contemporanea quando si trasferisce a Brasilia dove, oltre a intraprendere studi artistici, frequenta vari luoghi dell’arte e si forma leggendo e scrivendo per varie pubblicazioni.
Le sue prime opere sono legate a maschere e sculture africane. Resta, infatti, molto colpito da una mostra che visita presso l’università di Brasilia su maschere originali africane e decide di reinterpretare ciò che ha visto, spinto dal desiderio di ricercare le origini, sue e della società in cui vive.
Un punto di svolta si ha nell’incontro con il movimento Grupo Neoconcreto, di Rio de Janeiro, che, oltre a riportarlo nella sua città natale, gli permette di aprirsi all’idea di spazio, a nuovo concetto di arte.
“Ogni volta che tentiamo di definire cos’è l’arte, abbiamo una divisione tra quello che è e quello che non è considerato l’oggetto dell’arte. Nell’epoca pre-classica, arte e religione erano sinonimi. Nella Grecia classica, arte e architettura erano ugualmente legate. Solo più tardi si è creata una distanza tra l’artistico e l’architettonico. Abbiamo cominciato a vedere l’arte come la documentazione o la riproduzione del reale. Quello che mi ha attratto del neoconcretismo è stata la possibilità di pensare all’arte in termini che non si limitassero solo al visivo”.
Tornato a Rio, nel 1967, il disegnare passa in secondo piano a favore della tridimensionale, opere cioè che conquistano lo spazio e lo occupano.
Ecco allora che lo spazio diventa una delle sue ossessioni, caratteristica principale del suo operare artistico, componente fondamentale nell’enfatizzare i paradossi e le metafore del sociale, inteso come luogo della vita di tutti.
Lo spazio diventa un luogo da riempire di significati, di pensiero, di arte e, soprattutto, di oggetti e materia, scelti per le caratteristiche simboliche o sensoriali. L’obiettivo principale dell’artista è quello di mettere insieme elementi contrastanti dal punto di vista semantico o visivo che, in relazione con lo spazio e interagendo con lo spettatore, attivino una riflessione sul contemporaneo.
Sia che le opere siano molto grandi o, all’opposto, molto piccole ciò che Meireles vuole ottenere è un momento di spaesamento che porti lo spettatore a riconoscere quello che vede ma in un contesto diverso dal solito.
“Gran parte della mia opera si inserisce all’interno della discussione circa lo spazio della vita umana, la qual cosa è tanto ampia quanto vaga. Lo spazio, nelle sue diverse manifestazioni, abbraccia arene psicologiche, sociali, fisiche e storiche… Non importa realmente se avviene o meno un’interazione tra lo spazio utopico e quello reale. Credo ci sia un aspetto quasi alchemico: anche tu stai venendo trasformato da quello che fai”.
Tra le decine di opere che Meirels ha realizzato, ne scelgo due tra quelle che ho avuto il piacere di vedere dal vivo e che, mi sembra, possono favorire una miglior comprensione di quanto ho scritto sopra. Si tratta di Eureka/Blindhotland del 1975 e Babel del 2001, un progetto che riprende e attualizza alcuni lavori realizzati dall’artista utilizzando vinili negli anni ’70.

Eureka/Blindhotland
Per visitare l’opera si entra in un ambiente delimitato da tende sottili, una specie di grande stanza asettica. All’interno si trovano vari oggetti e, al centro, una bilancia che può essere utilizzata per pesare quegli oggetti.
La sorpresa si ha nel momento in cui realizzi che ci sono oggetti di volume diverso ma di stesso peso, mentre altri esattamente uguali ma con un peso differente.
L’obiettivo di questa esperienza artistica è di portarti a riflettere sull’iper-valorizzazione che diamo al senso della vista a scapito degli altri sensi, a come siamo educati a non dare peso ad altri fattori oltre che quello visuale, una sorta di pregiudizio visivo che ci convince di poter valutare un oggetto come una persona, un luogo come un’esperienza solo facendo riferimento a ciò che vediamo, che abbiamo visto o che crediamo di aver visto.
L’opera è chiaramente una metafora della società odierna e dello stile delle relazioni che tutti noi instauriamo. Non solo e non tanto sul valore che diamo all’apparenza e all’immagine, in generale, ma sulla parzialità con la quale giudichiamo l’altro, sia esso cibo, arte o persona. Ci accontentiamo di ciò che vediamo (e spesso di ciò che qualcuno ci ha detto di aver visto) pensando che gli elementi che riusciamo a raccogliere con la vista siano assoluti e sufficienti per poter dare una valutazione.

Babel
Si tratta di una grande torre formata da radio di diverse epoche, sincronizzate su stazioni differenti. Come la Torre di Babele originale, l’opera si offre agli spettatori come un monumento alla confusione e allo stordimento causato da un insieme di informazioni sonore tanto diverse quanto contemporanee. Un effetto di spaesamento viene dato, inoltre, dal fatto che da radio esteticamente antiche e vetuste escano suoni attuali e moderni.
Mentre nella Babele biblica gli operai che stavano costruendo la torre vengono puniti con la confusione delle lingue che li farà disperdere su tutta la terra, quest’opera di Meireles ci porta a riflettere rispetto a come la comunicazione odierna sia troppo spesso causa di confusione e di allontanamento gli uni dagli altri invece che strumento di relazione. Non solo e non tanto per le diverse lingue che parliamo ma più che altro per lo stile comunicativo che ci spinge più a parlare che ad ascoltare. Siamo, in fondo, come quelle radio, produciamo suoni sperando che qualcuno li ascolti ma non siamo disposti ad ascoltare, a nostra volta, ciò che gli altri dicono.
Che tu sia nativo o immigrato, abile o disabile, bambino o adulto non importa più, si realizza una sorta di inclusione al contrario dove tutti, invece che aver creato un contesto in cui ognuno possa esprimersi al meglio, si illudono e si accontentano di una realtà che falsamente ti fa sentire al centro delle relazioni. Al centro sì, ma da solo.
Due parole, quindi, restano di questo artista che ha attraversato il tempo e lo spazio.
Parzialità e spaesamento insieme a relazione e comunicazione.
Parole e temi estremamente contemporanei come la critica che fa Cildo Meireles, il quale non è interessato nel definire il bene o il male, il giusto o lo sbagliato. A lui interessa, in quanto artista, attivare un pensiero, una riflessione su ciò che viviamo perché possiamo essere il più possibili consapevoli del contesto in cui siamo inseriti e, in particolare, delle relazioni e della comunicazione che possiamo mettere in atto.
Parzialità e spaesamento, quindi, come quel luogo dove sostare per poi rimettersi in viaggio più consapevoli.

(Tutte le citazioni sono da: www.escritoriodearte.com/artista/cildo-meireles
Traduzione di Roberto Parmeggiani)

“Vite In Progress”. Un progetto socio-educativo rivolto ai ragazzi con disagio sociale

Di Dario Bove

Mi era stato chiesto dalla redazione di HP-Accaparlante di scrivere due righe relative al progetto educativo VIPS, che nel 2010 ha preso avvio presso l’USSM – Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni di Bologna, nato e decollato perché fortemente appoggiato dall’allora Dirigente del Centro di Giustizia Minorile dell’Emilia Romagna, Dott. Giuseppe Centomani, e dalla Direttrice dell’USSM, Dott.ssa Teresa R. Sirimarco.
Ci ho messo davvero un’eternità… Più di due anni per riuscire a raccontare cosa possono avere in comune un gruppo di ragazzi che hanno incontrato i Servizi della Giustizia Minorile per le più svariate ragioni, un Educatore Professionale e alcune Assistenti Sociali, un campione mondiale di trial bike, alcuni giocatori della Virtus Basket e del Bologna Calcio, tre band canore di varie correnti musicali e un cantante rap dal nome non proprio… accattivante.
La risposta, in realtà, l’ho trovata dietro l’angolo. Riordinando i bauli della memoria, ma ancor prima i cassetti della mia scrivania e, di conseguenza, il materiale cartaceo dei progetti educativi che ho realizzato in questi tre anni, come per magia, neppure uscissero da un libro di Michael Ende o dalla scatola animata di Jumanji, le motivazioni che mi avevano portato a riunire sotto un unico tetto tutte queste persone… hanno (ri)preso vita.
Già, ripreso, perché la loro biografia era iniziata con l’idea di “VIPS – Variazioni Inconsuete, Partenze Stonate”, un progetto educativo rivolto, appunto, a ragazzi seguiti dai Servizi della Giustizia Minorile di Bologna, ma ancor prima una follia partorita da alcuni operatori dell’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni di Bologna.
VIPS ha preso forma concreta nel dicembre 2010: la decisione di provare a contattare alcuni personaggi noti del mondo dello spettacolo e dello sport, per domandare loro di realizzare non performance artistiche, ma momenti di confronto con ragazzi i cui sogni erano, all’epoca, stati interrotti dall’incontro con l’azione deviante e l’ingresso nel circuito penale, aveva preso piede in noi per gioco, e come tale – un gioco, quindi – è rimasto anche in seguito. E forse è stata proprio questa l’arma vincente di VIPS.
Le prime risposte a mezzo e-mail e le prime telefonate dei personaggi contattati mi sorprendevano e mi emozionavano allo stesso tempo: quando mai, prima, mi era capitato di parlare con personaggi famosi? Proprio quei VIPS che immaginavo così lontani dai ragazzi che quotidianamente seguo, erano, al contrario, così disponibili a esserci, nonostante i loro numerosi impegni e l’assoluta assenza di una qualsiasi forma di compenso prevista dal progetto…
Ho scelto allora di credere davvero in VIPS e di dare forma, oltre che corpo, all’idea.
Da ciò, il progetto, cornice di una serie di incontri con gli artisti, ma anche di momenti di preparazione dei singoli eventi, di appuntamenti del gruppo di coordinamento del progetto, formato da adulti istituzionali (gli educatori e gli assistenti sociali dei vari servizi del CGM di Bologna) e da ragazzi in carico a tali servizi.
Siamo partiti così, un po’ in sordina… senza crederci troppo, ma allo stesso tempo, coordinandoci.
Il progetto si è sviluppato nell’arco di un anno e mezzo e, oltre ai momenti di confronto, ha visto inizialmente la formazione di un gruppo di peer educators, nei quali abbiamo fortemente creduto, che ha tratto spunto dal modello misto della Peer Education.
I singoli ospiti da invitare sono stati quindi individuati dai ragazzi stessi e, diciamolo, in alcuni casi dagli operatori sociali, e sempre il gruppo di coordinamento ha preparato la presentazione di apertura dell’incontro.
VIPS, infatti, ha deciso di aprire le porte anche all’esterno, invitando a partecipare le comunità educative, i centri socio educativi e alcune scuole del territorio, perché l’incontro con le difficoltà temporanee e l’accettazione del limite che si frappone tra noi e il sogno ambito potrebbe riguardare ognuno di noi. La metodologia utilizzata dal progetto ha permesso di rendere protagonisti di ciascun incontro non solamente Vittorio Brumotti o Mondo Marcio, i Gem Boys o i Marta sui tubi, ma anche i peer educators che hanno potuto – ed egregiamente saputo – essere, insieme agli ospiti, testimonial di come può essere possibile cadere, rialzarsi e spendere le proprie capacità e le proprie potenzialità in ambiti positivi, distanti dai contesti devianti ai quali alcuni di loro, per tanto tempo, per scelta o per necessità, hanno dovuto far parte.
I momenti di confronto hanno concesso la libera espressione di domande senza censure e la formulazione di risposte naturali (o naturalmente non pervenute), ma anche il racconto di tante storie, così diverse e, in parte, così uguali.
E di fronte all’impegno che occorre per alzarsi tutte le mattine e allenarsi con tenacia nella propria pratica sportiva, o a quello che serve per riuscire nel proprio percorso scolastico, formativo o lavorativo, così come a quello necessario per accettare la quotidianità lenta e inesorabile che scandisce molti dei momenti della vita all’interno di un istituto penitenziario, come di una comunità educativa… beh, grazie a VIPS ho compreso che il rispetto che bisognerebbe mostrare, è davvero lo stesso: è possibile essere campioni, nella propria vita, continuando a inseguire i propri sogni, nonostante le difficoltà del momento, gli ostacoli più o meno insormontabili che si possono incontrare e i limiti che – a volte – proprio per andare avanti è necessario accettare. 

Il progetto
Il progetto “VIPS – Variazioni Inconsuete, Partenze Stonate” è nato a seguito delle osservazioni educative effettuate in questi anni di lavoro, attraverso le quali si sono potute riscontrare le potenzialità che i ragazzi che entrano nel circuito penale possiedono, ma delle quali, spesso, proprio loro stessi non sono consapevoli.
Tali competenze lasciano trasparire, in molti casi, capacità artistiche e creative, che portano i ragazzi a inseguire sogni più o meno realizzabili, che spesso si scontrano con dure realtà quotidiane o con l’impossibilità oggettiva di perseguire – anche solo idealmente – un obiettivo, realizzabile o meno che sia.
Il progetto si è posto la finalità di offrire un momento di confronto con artisti e/o sportivi che hanno lavorato con impegno per realizzare un proprio sogno, non scoraggiandosi davanti agli ostacoli incontrati, ma continuando a inseguire con tenacia il proprio obiettivo.
VIPS ha individuato, tra i suoi obiettivi principali:
– favorire il benessere psicofisico dei ragazzi partecipanti, attraverso l’espressione dei propri desideri e, attraverso un rinforzo positivo, dell’autostima;
– favorire l’espressione e il riconoscimento delle competenze possedute, attraverso la realizzazione di un dibattito con gli artisti/sportivi.
La metodologia di lavoro adottata è quella della Peer Education, che prevede che non siano più gli adulti a trasferire contenuti, valori ed esperienze, ma che siano, invece, i giovani stessi a confrontarsi fra loro, esprimendo i loro punti vista, analizzando gli eventuali problemi e individuando in modo autonomo delle soluzioni, pur consapevoli di poter contare sulla collaborazione di adulti esperti. A tal proposito si sono individuati alcuni ragazzi con spiccate abilità relazionali e sociali, che, dopo una iniziale formazione di base (a opera di educatori, assistenti sociali e psicologi dei servizi della Giustizia Minorile) hanno potuto fare parte del gruppo di coordinamento di progetto e hanno saputo affrontare il ruolo di educatori tra pari, riuscendo a ri-abilitare le proprie competenze positive e a trasmettere esperienze, coraggio, insegnamenti e valori ai coetanei che hanno preso parte agli incontri.
Ogni incontro di preparazione si è svolto alla presenza di un adulto facilitatore, al quale non era stato però attribuito alcun potere decisionale, ma unicamente di mediazione nella facilitazione dell’espressione di ciascuno, ed è stato debitamente documentato da un diario di bordo dell’esperienza, redatto dai ragazzi, all’interno del quale sono state riportate le conclusioni alle quali si perveniva al termine di ciascun incontro di coordinamento.
Il ruolo di responsabilità affidato agli stessi ragazzi ha permesso loro, seppure non sempre in modo fluido e privo di incomprensioni, di appropriarsi del progetto e delle sue finalità, di sentirlo proprio e di avere fiducia in quello che loro stessi stavano provando a portare avanti, in una dimensione di gruppo all’interno del quale ciascuno aveva un proprio ruolo.
Ragazzi protagonisti, quindi, sin dalle prime battute, capaci di seguire, insieme agli operatori, il ciclo del progetto in ciascuna delle sue fasi (dall’ideazione alla formulazione, dall’implementazione alla valutazione) e di individuare gli obiettivi verso i quali tendere.
Gli incontri si sono realizzati presso i locali dell’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni di Bologna. A rotazione, a uno dei ragazzi che componevano il gruppo di coordinamento veniva affidato il compito di moderatore dell’incontro, cosa che consentiva a tutti i partecipanti di poter interagire con il testimonial invitato.
Gli incontri realizzati sono stati sei, della durata di circa due ore ciascuno, e ogni incontro è stato, per ognuno di noi, denso di significato e carico di emozioni: in quei momenti, infatti, in una stessa stanza e con la medesima timidezza, si dava voce ai sogni comuni di adolescenti e adulti, quei sogni che è difficile riuscire ad accantonare, anche quando la vita te lo impone.

Eredità materiali e morali


Di Stefano Toschi

I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie dell’ardore che la Vita ha per se stessa.
Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi,
e non vi appartengono benché viviate insieme.
Potete dar loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri,
poiché essi hanno i propri pensieri.
Potete custodire i loro corpi, ma non le loro anime,
poiché abitano case future, che neppure in sogno potreste visitare.
Potete sforzarvi di essere simili a loro,
ma non cercate di rendere essi simili a voi,
poiché la vita procede e non si attarda su ieri.
Voi siete gli archi da cui i vostri figli come frecce vive,
sono scoccati lontano.
(K. Gibran, Il profeta)

Quando si parla di disabilità, c’è un tema scottante che, spesso, viene sottovalutato dalle famiglie delle persone interessate: il tema del dopo di noi. Purtroppo, i genitori dei disabili crescono nel loro ruolo con la convinzione di dover proteggere e difendere i propri figli da tutto e da tutti (sentimento che, di per sé, nutrono i genitori anche di figli del tutto normodotati) e con l’assunto incontrastabile che nessuno meglio di loro sia in grado di prendersi cura della prole con deficit. Ritengono, a volte anche parzialmente a ragione, che nessun medico, infermiere, operatore, educatore, potrà mai assisterli meglio di loro: anche laddove il paragone sia con professionisti della sanità o del sociale ai massimi livelli, resteranno sempre convinti di compensare le proprie carenze con tutto l’amore che riversano nelle azioni assistenziali. Certamente, come si dice, se c’è l’amore c’è tutto, ma questo vale da un punto di vista strettamente sentimentale e relazionale, mentre, quando si mettono in gioco fattori che richiedono competenze specifiche, il troppo amore rischia di fare danni, anche irreversibili, al corpo e alla psiche dei giovani disabili. Infatti, essi stessi possono crescere con due opposte sensazioni al riguardo: la stretta convinzione che solo i genitori li amino e siano in grado di occuparsi di loro, oppure, al contrario, il senso di ribellione per la costrizione di un rapporto quasi esclusivo con i parenti, con scarsa apertura al mondo esterno e a frequentazioni più variegate e socialmente soddisfacenti. Tuttavia, è nella natura delle cose che i figli sopravvivano, quasi sempre, ai genitori. Il venire meno di questi ultimi, nel momento in cui si trovano a essere gli unici interlocutori, assistenti e punti di riferimento di un figlio disabile, rende la persona con handicap completamente spaesata, timorosa, angosciata da questa nuova condizione di orfano. Tante associazioni, oggi, lavorano sulle e con le famiglie con figli diversamente abili, in primo luogo per garantire una adeguata successione nell’assistenza dopo la morte dei famigliari, ma, ancor prima, per contribuire a modificare la mentalità degli interessati. Il lavoro è arduo: è necessario essere in grado di convincere i genitori di non essere sempre indispensabili, di far loro capire che il figlio è altro da sé, un individuo, spesso in grado di fare cose che nemmeno si immaginano. Poi, bisogna far capire loro che il figlio ha talenti, doti e qualità nascoste, perché soffocate dall’eccessiva apprensione e desiderio di tutela. Talvolta, anche il soggetto disabile stesso va persuaso di possedere tante qualità, perché, laddove gli sia stato in qualche modo impedito, pur in buona fede, di esercitarle, la scoperta di esse diventa sorprendente per tutti. In Italia, esistono esperienze di cohousing per disabili che stupiscono costantemente tutti i soggetti interessati: ragazzi con disabilità più o meno gravi si rivelano in grado di portare avanti progetti di vita autonoma fino a quel momento mai nemmeno immaginati per loro. I genitori sono, quasi sempre, quelli che, di fronte all’uscita di casa del figlio, così come avviene per qualsiasi, normalissimo giovane, restano traumatizzati. Ma, si sa, le mamme italiane sono famose in tutto il mondo per essere particolarmente chiocce! Quando i genitori (tutti!) deresponsabilizzano i figli, cercando di agire per loro, di proteggerli e tutelarli eccessivamente da quelli che percepiscono come i pericoli del mondo esterno, si generano giovani adulti incapaci di provvedere a se stessi, soprattutto nelle difficoltà – inevitabili – della vita. Quando il disabile è stato eccessivamente salvaguardato dal mondo esterno, venendo meno la rete familiare, si verificano più facilmente situazioni spiacevoli come tentativi di truffa per impossessarsi dei beni, soprattutto nei confronti di persone con qualche problema psichico, ma anche i disabili fisici possono essere oggetto di qualche truffa, in quanto non sono in grado fisicamente di controllare i loro possedimenti. Ci sono associazioni meritorie, dicevamo, nate appositamente per aiutare le persone disabili nel passaggio dalla vita familiare a quella autonoma, che fanno un ottimo lavoro (se glielo lasciano fare), ma, a mio avviso, il sistema migliore per la serenità di tutti è creare una rete di amicizie che possano accompagnare le persone disabili nei momenti più difficili della loro vita. Parlando di me, ad esempio, posso dire di avere avuto 3 o 4 amici, che lavorano nel sociale con diverse mansioni, che quando mia madre non era più in grado di assistermi mi hanno aiutato nelle questioni pratiche, mi hanno sostenuto moralmente e mi hanno consentito di trovare dei collaboratori che mi hanno permesso non solo di continuare la mia vita in tranquillità, ma, anzi, sotto certi aspetti di migliorarne la qualità. Ad esempio, mia madre, negli ultimi tempi, essendo molto stanca a causa dell’età e della malattia, non riusciva più a cucinare, mi preparava sempre lo stesso menù e in scarsa quantità, aveva paura che vomitassi, cosa che per lei, soprattutto di notte, sarebbe stato un grosso problema. Adesso non ho più queste preoccupazioni. Sarebbe importante che le persone disabili fossero preparate al momento del distacco dalla famiglia attraverso delle prove di vita autonoma, in cui apprendere e affrontare le piccole cose di ogni giorno. Ad esempio io, anche se non ho mai fatto esperienza di vita autonoma prima della scomparsa di mia madre, andavo sempre in vacanza con i miei amici da quando avevo 20 anni, quindi per 2 o 3 settimane l’anno ero costretto a fare delle scelte: cosa mangiare, come vestirmi, ecc. Questo, pian piano, mi ha abituato alla mia vita autonoma, o meglio a una vita comunitaria, in cui le decisioni piccole e grandi si prendono insieme e le responsabilità sono comuni. Ma, per fare questo, bisogna che i genitori abbiano il coraggio di lasciare i figli disabili alle cure di persone esterne. L’autonomia del proprio figlio, si diceva, spaventa qualsiasi genitore: tuttavia, il genitore della persona con deficit deve essere in grado di superare questo timore, proprio per non far sentire il figlio handicappato, bensì un soggetto degno di fiducia e con la possibilità di costruire un progetto di vita che non si riduca in un mero assistenzialismo, scevro di prospettive di tipo educativo, sociale, affettive.
La vera eredità che i genitori dovrebbero lasciare è proprio questa mentalità, che aiuta ad affrontare le sfide della vita, o, almeno, consente di avere una rete di amicizie in grado di aiutare la persona con deficit nelle proprie scelte di vita. Solo così il dopo di noi può diventare un periodo di vita sereno e soddisfacente, sicuramente diverso da quello precedente, ma non per questo peggiore.