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Autore: Nicola Rabbi

12. Il corpo: limiti e accettazione

L’esperienza di Claudio Imprudente
Credo di avere un buon rapporto con il mio corpo perché sento che sono il padrone del mio corpo, e non viceversa. Ovviamente, non è così scontato perché dietro c’è un discorso di accettazione della mia disabilità. Non è un percorso semplice, non è che una mattina mi sono svegliato e ho detto “Che bello avere un corpo disabile”, ma è un cammino lungo e ancora oggi non è finito. Poi presume la fiducia che ho ricevuto lungo la mia esistenza. La mia identità è un risultato di come gli altri mi vedono, certamente vedono un corpo imperfetto, ma vanno oltre all’imperfezione. Quindi questo andare oltre all’imperfezione mi ha fatto accettare il mio corpo. L’identità è un’alchimia di contesti che sono riusciti ad andare oltre al concetto di imperfezione. In fondo, quest’ultima esiste, è la perfezione che non esiste.
Il discorso dei limiti è molto affascinante perché tutti abbiamo dei limiti fisici e psicologici. Del resto c’è un solo uomo al mondo che corre in meno di dieci secondi i cento metri, quindi, tutti gli altri rispetto a lui sono limitati. Dico un esempio a caso, ma poi a me piace questa immagine: la nostra pelle è un limite del nostro corpo. Quando diamo una carezza c’è l’incontro tra il mio limite e quello dell’altro. La carezza provoca un piacere perché sono i due limiti che si toccano.
La disabilità è un limite più visibile, ma il concetto è sempre quello.

11. Scheda tecnica/“La sagoma”

Partecipanti:
– 7 animatori con disabilità
– 2 educatori (di cui uno conduce il laboratorio)
– 2 volontari

Durata del laboratorio:
2 incontri (almeno 4 ore)

Luogo:
ampia stanza

Obiettivo generale:
consapevolezza nella percezione del proprio corpo

Obiettivi specifici:
– verifica delle immagini di sé
– osservare il proprio corpo nella sua totalità e complessità
– riconoscere se stessi, le potenzialità e i limiti del corpo

Attività
1) Riscaldamento.
2) Sagome: dopo che tutti hanno fatto la sagoma, ognuno ha condiviso il suo vissuto nel fare questa attività. L’obiettivo è far vedere ai ragazzi coinvolti nell’attività che hanno un corpo distaccato dalla carrozzina e questo corpo è formato da tante parti.
Successivamente abbiamo disegnato le sagome dei ragazzi su dei cartelloni, e con materiale vario che avevano a disposizione (rafia, sughero, cartoncini, legno, carte di vario tipo e colori) dovevano segnalare sui cartelloni le parti funzionanti e quelle non funzionanti del proprio corpo.
3) Condivisione: come siamo stati nel fare questa attività, su cosa ci ha fatto riflettere, cosa ha mosso in noi.

Materiali:
cartelloni, pennarelli, rafia, sughero, cartoncini, legno, carte di vario tipo e colori 

Commenti dei partecipanti
D: io non conoscevo tutto il corpo. Ho scoperto che ho le gambe. Mi ha fatto capire che io ho più consapevolezza del mio corpo. Ho bisogno di aiuto quindi mi dimentico di avere le gambe. Il pene funziona perché lo uso per fare la pipì!
D: non mi sono mai vista sdraiata, ho avuto paura. Dopo è stato facile perché so bene cosa fare con le mie parti del corpo.
F: è la prima volta che lo faccio. Non sono nemmeno abituata a sdraiarmi per terra. Ho riscoperto parti del corpo. Ho avuto un po’ di paura. È stata una piccola conquista e devo lavorare sulla paura di cadere. Non avevo mai visto il mio corpo per intero e alcune parti non le conosco. Mi ha incuriosito ma ho paura. Penso sempre che gli altri siano migliori di me. Mi vergogno un po’ del fatto di non riuscire a fare le cose.

10. “Ma io il corpo lo uso?”

a cura di Giovanna Di Pasquale

Intervista ad Alessandro Bortolotti, ricercatore all’Università di Bologna dal 2007. Svolge le sue ricerche nell’ambito dell’Outdoor Education, della Prasseologia motoria e della Pedagogia speciale.

Rapporto fra corpo, identità, disabilità
Dal mio punto di vista fondamentalmente corpo e identità li identifico. Se così non fosse il rischio è che il corpo sia pensato come qualcosa fuori da noi, oggettivato. Parlo di qualcosa che non sono io ma il mio corpo. Se ci pensiamo, difficilmente io posso essere fuori dal mio corpo, succede, ci sono delle esperienze di questa natura ma sono eccezioni. Più spesso io sono il mio corpo che è un’altra maniera di dire quale è la mia identità. Su questo la disabilità innesca ulteriori riflessioni. Per quello che è il mio percorso, che viene dallo sport, ho per tanto tempo pensato che le persone si dovessero adattare alle proposte che venivano dal mondo, in questo caso sportivo. Su questo punto per me c’è stato un ribaltamento totale. Adesso penso che, pur non rinnegando quella parte che esiste nello stato di fatto, questo è un modello che diventa limitante se noi lo utilizziamo come chiave esclusiva per interpretare la realtà. Faccio un esempio: a parole lo sport di classe significa che bisogna fare sport nelle classi, questo un po’ mi spaventa perché pur essendo un modello interessante non può essere per tutti. Credo che noi dobbiamo pensare a ribaltare in modo totale l’approccio al movimento e all’educazione motoria. La questione è come far sì che il movimento sia adatto a tutti, e quindi è la mia proposta che si deve adeguare al soggetto e non più il soggetto che si deve attivare per rientrare a tutti i costi dentro una proposta. 

Quale approccio per un percorso intorno al tema del corpo e del movimento motorio a scuola
Parto dal concetto di uso del corpo e paradossalmente la prima riflessione che mi viene da fare è: ma io il corpo lo uso? O ancora una volta sono io che all’interno di un percorso cerco di trovare un senso? Il senso può anche essere che io sto fermo perché la percezione di me, il riflettere su di me, l’acquisire una consapevolezza avviene anche attraverso un’immobilità che non è imposta, ma è frutto di una scelta. Fare yoga o training autogeno o cose di questo tipo nell’immobilità, consapevole e scelta, possono dare di più di tante altre proposte di movimento che troviamo troppo spesso in modo automatico nelle scuole e nei gruppi. La parola chiave è consapevolezza, senso, cioè direzione della motivazione. Per questo è molto importante variare, fare tante proposte che abbiano al centro la dimensione della scelta. Proviamo a vedere nelle varie attività qual è la scelta che ti viene concessa e per fare cosa… È la scelta rispetto a un’azione oppure quella di entrare in relazione rispetto a un compagno? O ancora: è una scelta che fai tu o che viene da fuori? Questo ti mette di fronte a contesti, situazioni e condizioni diversi e, dal punto di vista educativo, stimolanti.
Cambiare le proposte allora per fare provare esperienze diverse e con criteri che esulano un po’ da quelli classici legati a un’educazione fisica tradizionale.
Su questo lo specialista sportivo può avere delle resistenze e fa fatica a rileggere le attività da un altro punto di vista, perché è stato impostato così e anche il mondo educativo spesso non ha tanta idea di quanto può essere stimolante, facilitante per le relazioni e l’apprendimento. Su questo non vedo una grande attenzione e forse neanche una grande preparazione di base. Io personalmente mi rifaccio a una scuola attiva, la prasseologia, che nasce in Francia e che in Italia è pressoché sconosciuta.

Collegamento fra gioco, sport e inclusione
Dal punto di vista dell’immagine sociale oggi il modello è quello delle Paraolimpiadi. Non è un modello sbagliato ma rischia di riprodurre in piccolo quello che avviene per tutti: c’è chi ce la fa e ha successo e gli altri che non ce la fanno.
Prendendo invece ad esempio i giochi di tradizione, ci si accorge che si può fare tanto altro e forse divertirsi molto di più. Bisogna uscire dal modello, non più solo il modello competitivo della vittoria, ma un modello che, pur presentando vittorie e sconfitte, non è così definitivo.
Difficilmente c’è un momento finale in cui si fanno le premiazioni perché si può sempre rimettere in discussione tutto, si può ripartire. È un modello molto più provvisorio, la vittoria e la sconfitta sono parziali. Poi ci sono tante altre possibilità, dalle attività espressive al rilassamento che hanno altre logiche. Anche nello sport ci sono le attività espressive ma, ancora una volta, sono ai fini della classifica e quindi diventano uno strumento per raggiungere qualcosa d’altro.
Nelle attività espressive il fine è proprio quello di esprimersi: mi esprimo per esprimermi.
Nel gioco autentico ti metti ed entri in gioco; se si è in quel livello si diventa davvero molto inclusivi perché le cose vengono fatte per il puro gusto di farle.

9. Scheda tecnica/“I limoni”

Partecipanti:
– 7 animatori con disabilità
– 2 educatori 

Durata del laboratorio:
2 ore circa
15 minuti di riscaldamento
1:15 ora di attività
30 minuti di condivisione

Luogo:
ampia stanza

Obiettivo:
consapevolezza nella percezione del proprio corpo

Obiettivi specifici:
– imparare a descrivere qualcosa per riuscire a raccontare noi stessi
– riflettere sulle differenze.

Attività
1) Riscaldamento.
2) Gioco dei limoni: ogni partecipante ha un limone e lo descrive nei minimi particolari. Alla fine della descrizione i limoni vengono posti all’interno di un sacchetto nero e mescolati. A turno ogni partecipante deve estrarre un limone e riconoscerlo. Se il limone non è quello descritto viene riposto nel sacchetto. Il gioco finisce quando tutti riconoscono il proprio limone facendosi anche aiutare dalla descrizione fatta sul foglio.
Dopo aver descritto il limone nei minimi dettagli, abbiamo provato a fare lo stesso con il nostro corpo…
 3) Condivisione: come siamo stati nel fare questa attività, su cosa ci ha fatto riflettere, cosa ha mosso in noi. L’obiettivo di questa attività è quello di imparare a descrivere bene tutti i particolari.

Materiali:
fogli, biro, limoni, sacchetto nero

Commenti partecipanti
D: descrivere i limoni è stato facile, in ogni dettaglio. Poi descrivere me stesso… che fatica, che imbarazzo!
F: facile raccontare come è fatto un limone, anche nelle sue ammaccature e imperfezioni. Raccontare le mie di imperfezioni invece è stata durissima. Anche perché non sempre ne siamo consapevoli ed evito di descrivere le parti del corpo che non mi piacciono.
S: la stessa difficoltà che ho incontrato a descrivere il limone l’ho avuta la volta scorsa a descrivere me stessa, perché non sono abituata a delineare i miei particolari e una parte del corpo che io non uso faccio fatica a raccontarla.
G: mi sono sentito bene a descrivere il limone, molto meglio che a descrivere me stesso, perché faccio fatica a pensare al mio corpo!

8. Il corpo tra limiti e possibilità. Il corpo che può e il corpo che non può. Il corpo che non sa fare, il corpo che sa fare, il corpo che sa fare se ci sono le condizioni giuste

Seconda parte
“Il corpo è un veicolo meraviglioso, molto misterioso e complesso. Usalo, non lottarci contro; aiutalo. Nell’istante in cui vai contro di lui, vai contro te stesso”.
(Osho)

“Jaspers sottolinea come nel concetto di coscienza dell’Io sia presupposta la coscienza del corpo, ossia la capacità di percepire e unificare in un quadro di riferimento significativo una serie di sensazioni. Queste ultime, da un lato, ci forniscono una rappresentazione mentale del nostro corpo, quasi fosse un oggetto visto dall’esterno, dall’altro, evocano in noi un sentimento del nostro ‘essere corporei’, cioè del fatto che solo attraverso la corporeità siamo viventi. In una dinamica psicologica sana, infatti, la coscienza dell’Io non può prescindere da una percezione del corpo.
[…]
Già in questo primo quadro descrittivo della coscienza dell’Io corporeo, osserviamo che essa si estende al di là dei confini somatici propriamente detti, per coinvolgere anche il contesto ambientale e gli oggetti che vi sono presenti e con i quali siamo in relazione.
[…]
Un esponente tra i più significativi della psichiatria contemporanea, R.D. Laing (1959), ha affermato che la ‘sicurezza ontologica primaria’, cioè la capacità di affrontare la vita e le sue difficoltà, come pure di progettare il futuro, deriva e dipende dalla coscienza dell’Io corporeo, ossia da quel modo di sentire il corpo come realtà viva, reale e concreta, da cui non è possibile separarsi senza cessare di esistere.
[…]
L’immagine dell’Io corporeo è soggetta a una continua ristrutturazione, che è dovuta, in parte, alle stimolazioni endogene di tipo psicobiologico e, in parte, alle relazioni sociali e quindi alle modalità di adattamento e di reazione di fronte ad altre immagini corporee, in senso sia concreto-spaziale sia fantastico-emotivo.
[…]
D.W. Winnicott (1948, 1960) ritiene l’acquisizione di uno schema corporeo personale, e quindi di una coscienza del corpo adeguata, un fattore essenziale sia per la capacità di una relazione immediata e di un’analisi adeguata della realtà – ivi inclusa la potenzialità di superare le difficoltà e gli eventuali traumi dello sviluppo – sia, di conseguenza, per la costituzione di un Sé autentico”.
(Estratto da La coscienza dell’Io-corpo di Lucio Pinkus)

La prima parte del laboratorio, nonostante le perplessità iniziali, si è rivelata importante per l’autoconsapevolezza di sé. Come proseguire ora questo significativo percorso? Quali gli obiettivi per non dispere il percorso fatto l’anno precedente? Come si poteva proseguire il percorso intrapreso? Dal lavoro del primo anno era emerso che l’immagine dei disabili partecipanti al laboratorio era falsata, normalizzata dai famigliari. Un’immagine dove tutto è perfetto, dove un braccio piegato diventa magicamente dritto perché “Lo dice la mamma!”. Per riportare i ragazzi su un piano di realtà, con l’aiuto di una psicologa, noi educatori abbiamo deciso di porci come obiettivo, attraverso le attività proposte, di far  riconoscere se stessi nella loro totalità e complessità, con i loro limiti e potenzialità.

7. L’intervento corporeo nella relazione d’aiuto: il counseling biosistemico

di Maurizio Stupiggia e Rosanna De Sanctis, psicologi

Il nome “Biosistemica”, in base alla sua composizione, ci dà indicazioni relativamente ai presupposti e metodi su cui si basa. “Bio” fa riferimento alle dimensioni biologiche, neurofisiologiche ed embriologiche inerenti la componente organica della corporeità. “Sistemica” fa riferimento alla teoria generale dei sistemi in base alla quale è possibile concepire l’individuo come un sistema costituito da sottosistemi in interrelazione fra di loro.
Per delineare la struttura teorica biosistemica nell’ambito del counseling, possiamo dire che l’osservazione del counselor e il suo approccio metodologico si incentrano sull’emozione, in quanto fulcro centrale del vissuto, sia fisiologico che patologico; l’emozione è letta qui essenzialmente con mappe neurofisiologiche ed embriologiche, e al tempo stesso ne viene sottolineata la valenza sistemico-relazionale, in quanto costitutiva dell’esperienza sociale umana.
L’oggetto centrale di riferimento è quindi costituito dalle emozioni, in quanto fenomeno cruciale dal punto di vista clinico ed epistemologico dell’esperienza umana. L’emozione caratterizza permanentemente il vissuto e il funzionamento dell’uomo, dato che, per definizione, comprende in sé i processi fisiologici, le reazioni comportamentali, gli aspetti relazionali e i contenuti cognitivi di ogni esperienza umana nella sua completezza e complessità. L’emozione è, infatti, un crocevia dove si incontrano istanze differenti: sensazioni viscerali, movimenti muscolari, pensieri e immagini; tutto questo all’interno di una cornice ambientale che ne plasma l’origine e ne sovradetermina il senso.
L’inizio di ogni cronico disagio esistenziale, secondo l’ottica biosistemica, può infatti essere individuato nello sdoppiamento di due circuiti essenziali: quello delle ideazioni mentali e quello del vissuto corporeo. Se scissi, il corpo non ha più parole per nominare le sensazioni (potrà esprimersi attraverso sintomi psicosomatici), né la mente potrà parlare di ciò che il corpo non sente, perché inibito nella sensazione (e il disagio si esprimerà attraverso un continuo brusio mentale indistinto di sottofondo). L’emozione rappresenta l’evento psicosomatico per eccellenza, l’elemento trasversale che unifica lo psichico e il somatico, il terreno d’incontro tra pensieri e sensazioni corporee. Quando il linguaggio (la mente) e il suo inconscio (il corpo) si incontrano, si producono non più solo parole, ma azioni, fatti concreti e l’emozione sboccia come qualità emergente dell’interazione tra le componenti del sistema complessivo (pensieri, sensazioni, azioni).
Il counselor biosistemico presta perciò attenzione non solo all’aspetto simbolico del linguaggio, ma anche all’aspetto espressivo delle parole, intese come prolungamento degli arti, come parole a cui sia data corporeità. Si passa dalla scoperta del gesto come parola non detta (attraverso la lettura della comunicazione non verbale), alla parola come gesto non fatto (fornendo un nome alle sensazioni e ai gesti inibiti). L’intervento di counseling bioistemico si pone come obiettivo il ripristino del ciclo emotivo, non attraverso lo svelamento di verità nascoste, ma attraverso la costruzione della verità sulla base di ciò che appare nel qui e ora in assenza di interpretazioni e riferimenti a patologie: amplificando l’emozione, pensando con il corpo, creando i movimenti, l’emozione si trasforma in qualcosa di inatteso, di nuovo. Si tratta di una trasformazione qualitativa dello stato globale della persona, di un aumento della complessità connessa allo stato di salute, in antitesi con un impoverimento della complessità psicocorporea del soggetto.

La sofferenza psicologica
La sofferenza, secondo il modello biosistemico, può essere ricondotta alla sovrapposizione di processi diversi:
– dietro a sensazioni fisiche di disagio, spesso si celano emozioni bloccate, frequentemente riconducibili a esperienze primarie di inibizione d’azione di fronte allo stress (Laborit, 1979), situazioni, cioè, in cui non è stata possibile né una reazione di attacco, né una di fuga. Le reazioni impedite si scaricano all’interno del soggetto, comportando una secrezione ormonale, tipica dello stress (noradrenalina e corticosteroidi), che protratta nel tempo può anche originare malattie psicosomatiche;
– le emozioni bloccate possono cristallizzarsi in posture specifiche, connesse ai vissuti corporei che le accompagnavano, andando a creare una memoria muscolare sepolta dietro la sofferenza fisica. Lavorare sulla parte del corpo contratta, attraverso esercizi fisici, contatto, massaggi, specifiche posizioni corporee, può significare lavorare direttamente sull’emozione bloccata. Il lavoro posturale consente di accedere alla memoria corporea e di recuperare stadi di sviluppo non interamente vissuti, attraverso l’espressione dei vissuti emozionali connessi, che emergono come risultato dell’interazione sistemica di pensieri-sensazioni-azioni.
Ma quale meccanismo custodisce il blocco emozionale e può allo stesso tempo scioglierlo? Per comprenderlo, vediamo prima una descrizione del Sistema Nervoso Autonomo e del suo funzionamento.

Il Sistema Nervoso Autonomo
Il Sistema Nervoso Autonomo (SNA), conosciuto anche come sistema nervoso vegetativo o viscerale, è un insieme di cellule e fibre nervose che innervano gli organi interni e le ghiandole, controllando le funzioni vegetative involontarie. Ha la funzione di regolare l’omeostasi dell’organismo ed è un sistema neuromotorio che opera con meccanismi autonomi di controllo della muscolatura liscia, dell’attività cardiaca e dell’attività secretoria ghiandolare.
È costituito da porzioni anatomicamente e funzionalmente distinte, ma sinergiche:
– il Sistema Nervoso Simpatico: produce accelerazione del battito cardiaco, dilatazione dei bronchi, aumento della pressione arteriosa, vasocostrizione periferica, dilatazione pupillare, aumento della sudorazione (tipiche risposte dell’organismo a una situazione di allarme, lotta, stress). I mediatori chimici di queste risposte vegetative sono la noradrenalina, l’adrenalina, la corticotropina, e diversi corticosteroidi;
– il Sistema Nervoso Parasimpatico (chiamato anche Attività Vagale): produce un rallentamento del ritmo cardiaco, un aumento del tono muscolare bronchiale, dilatazione dei vasi sanguinei, diminuzione della pressione, rallentamento della respirazione, aumento del rilassamento muscolare, vasodilatazione a livello dei genitali, delle mani e dei piedi (normale risposta dell’organismo a una situazione di calma, riposo, tranquillità e assenza di pericoli e stress). Il mediatore chimico dell’attività parasimpatica è l’acetilcolina.
Il nostro corpo, in ogni momento, si trova in una situazione determinata dall’equilibrio o dalla predominanza di uno di questi due sistemi nervosi. La capacità dell’organismo di modificare il proprio bilanciamento verso l’uno o l’altro sistema è fondamentale per il suo equilibrio dinamico, sia dal punto di vista fisiologico che psicologico. Disfunzioni in tale alternanza sono alla base di disagi, disturbi, o vere patologie non solo sul piano strettamente organico, ma anche psicologico.   La Biosistemica ha avuto il merito di integrare le scoperte di Gellhorn (1967) relative al funzionamento fisiologico del Sistema Nervoso Autonomo con la comprensione delle ricadute sul benessere complessivo della persona della mancanza di armonia nell’alternanza dei due assi del Sistema stesso, aprendo nell’ambito delle relazioni di aiuto scenari di intervento innovativi. 

Bibliografia di riferimento
D. Boadella; J. Liss, La psicoterapia del corpo, Astrolabio, Roma, 1986.
F. Cristofori; E. R. Giommi (a cura di), Il benessere nelle emozioni, La Meridiana, Molfetta (BA), 2009.
J. Liss; M. Stupiggia, La terapia Biosistemica, Franco Angeli, Milano, 2000.
J. Liss, L’Ascolto Profondo, La Meridiana, Molfetta (BA), 2004.
J. Liss, La Comunicazione Ecologica, La Meridiana, Molfetta (BA), 1998.
R. Meares, Intimità e alienazione, Raffaello Cortina, Milano, 2005.
L. Rispoli, Esperienze di Base e Sviluppo del Sé, Franco Angeli, Milano, 2004.
D. Siegel, La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, Raffaello Cortina, Milano, 2000.
D. N. Stern, Le Forme vitali, Raffaello Cortina, Milano, 2011.
D. N. Stern, Il momento presente, Raffaello Cortina, Milano, 2005.
M. Stupiggia, La solitudine senza speranza: un approccio psicocorporeo al trauma, “Rivista italiana di analisi bioenergetica”, n. 1, FrancoAngeli, Milano, 2009.
M. Stupiggia, Corpo, piacere e creatività, in D. Scarponi; A. Pession (a cura di), Il dolore specchio, per la comprensione della sofferenza in pediatria, Clueb, Bologna, 2010.

6. Scheda tecnica/“Dicono di me…”

Partecipanti:
– 7 animatori con disabilità
– 2 educatori
– 2 volontari

Durata del laboratorio:
2 ore circa
30 minuti di riscaldamento
1 ora di attività
30 minuti di condivisione

Luogo:
ampia stanza

Obiettivo generale:
acquisire consapevolezza del proprio corpo

Obiettivi specifici:
verifica delle molteplici immagini di sé
acquisizione della presa di coscienza del proprio corpo

Attività
1) Riscaldamento.
2) Rispondere alla domanda: “Cosa pensano del mio corpo i miei amici, i miei educatori, i miei genitori e altri parenti tutti?”.
3) Condivisione degli elaborati e dei vissuti, dove è emersa un’immagine di se stessi spesso viziata dai giudizi delle persone vicine (famigliari, amici), a volte molto distante da una reale conoscenza delle proprie caratteristiche fisiche.

Commenti dei partecipanti
D: Dicono di me i miei genitori che io sono simpatico, bello, bravo, intelligente, buono ma… troppo ingenuo per uscire da solo.
D: I miei genitori dicono che con il mio corpo io posso fare tutto… Camminare, correre, saltare, e giocare a pallone. Vestirmi e svestirmi da sola. Lavarmi la faccia, le mani e i denti da sola. Scrivere sulla tastiera e usare il computer. Mangiare da sola. Usare il telecomando della tv e usare la Nintendo DS. Scrivere e leggere.

5. “Sono dov’è il mio corpo”

di Maria Angela Leni, psicologa e psicoterapeuta della famiglia a orientamento relazionale sistemico

Se questo laboratorio è decollato non è solo merito dell’équipe della Cooperativa Accaparlante e degli animatori disabili che si sono messi in gioco. Molto hanno fatto anche dei professionisti esterni come Maria Angela, psicologa, che nel primo anno ci ha ispirato e consigliato in molte attività rimanendo sempre aggiornata sull’efficacia delle attività.

 “Sono dov’è il mio corpo”. Con questa frase Pietro Iotti, nel libro nel quale racconta le memorie di un deportato a Mauthausen (Cfr. P. Iotti, T. Masoni, Sono dov’è il mio corpo: memoria di un ex deportato a Mauthausen, Editrice La Giuntina, Firenze, 1995) sottolinea la grande sofferenza legata alla perdita della propria individualità provocata dai campi di sterminio.
Questa frase sottolinea inequivocabilmente lo stretto e imprescindibile legame tra identità e corpo, un binomio indissolubile sia nell’evoluzione della storia dell’umanità, sia nello sviluppo del singolo individuo.
Il bambino fin da piccolissimo conosce attraverso il corpo, relaziona attraverso il corpo; è dal distacco fisico del bambino dalla figura di accudimento  che inizia, in modo inequivocabile, il percorso di individualizzazione e di costruzione del sé. Per il bambino piccolo il percepire se stesso come un prolungamento del corpo della madre è l’embrionale consapevolezza di essere. Prima ancora, durante l’età gestazionale, la memoria sensoriale esiste e compartecipa alla formazione della memoria quale background culturale dell’individuo.
La progressiva conquista delle competenze motorie sanciscono la consapevolezza di essere qualcosa di staccato dalla madre, qualcosa di altro. Il percorso della costruzione della propria identità e della propria personalità è un viaggio che dura tutta la vita, ma pone le sue prime basi nell’infanzia. Il percorso di sviluppo identitario e di sviluppo delle autonomie motorie sono strettamente correlati durante tutta la vita dell’uomo.
La psiche e il corpo vivono in un’identità duale non scindibile; le culture di tutte le popolazioni, in vario modo, riconoscono questa unitarietà.
La dimensione corporea nella disabilità si configura come dimensione che diacronicamente vede una parabola ascendente dall’esclusione, dalla marginalizzazione e dall’occultamento (come era nell’antichità) all’affermazione come dimensione ineludibile oggi nello sviluppo del sé, nella formazione dell’identità e nei processi formativi e relazionali della persona con disabilità. Tale parabola dell’affermazione del corporeo collima perfettamente con l’evolversi dell’immaginario sulla disabilità, un immaginario che solo di recente si è affrancato da immagini negative, di limite, di difficoltà, di sofferenza. 
È dal Novecento che si assiste a una sostanziale rivoluzione della cultura pedagogica specifica. La strategia di fondo fa leva sulla stimolazione sensomotoria, sul toccare e manipolare le lettere per far apprendere a leggere e a scrivere anche bambini con ritardo mentale.
Questo ha affrancato l’importanza del ruolo del corpo nello sviluppo delle potenzialità e nei processi formativi della persona disabile, nel processo di accettazione di una diversità non più sentita solo come stigma, ma accettata e mostrata come una delle caratteristiche imprescindibili del sé (Trisciuzzi, 2006). A partire dal corpo prende il via il processo di costruzione identitario, in quanto l’immagine di sé intrapsichica e interiormente socializzata delle persone con disabilità oggi si nutre di una percezione del sé che passa attraverso un corporeo non più reso oggetto di stigmatizzazione negativa, come ci dimostrano le tendenze di una recente cultura sulla disabilità.
Il corpo gioca un ruolo fondamentale sempre, ma in modo diverso a seconda della disabilità. Nello studio delle paralisi infantili e delle cerebropatie si evidenzia come queste disabilità intaccano in modo inequivocabile l’aspetto sociale e socializzante del movimento e dell’abilità motoria. Il movimento ha un valore di abilitazione sociale: infatti sostiene tutti quegli aspetti della normale vita quotidiana che permettono al soggetto di conquistare un riconoscimento sociale.
Affrontare la tematica dell’esperienza psicologica della disabilità significa definire il valore che viene attribuito a questa realtà umana. Ogni persona definisce i propri valori in uno scambio continuo con gli individui con i quali vive. I più profondi valori su cui si regge la convivenza civile sono messi in crisi dalla realtà dell’handicap: la parità dei diritti dei cittadini, il loro diritto a una qualità della vita, il diritto all’istruzione, al lavoro, all’autonomia e alla salute rischiano di essere un problema. L’organizzazione sociale è fatta per i sani. Spesso il vissuto dominante nei confronti della disabilità, e nei confronti della famiglie, è l’ambivalenza, con i tentativi più comuni per superarla quali l’evitamento, la compassione e la banalizzazione del problema.
Anche nel disabile la costruzione della personalità e del diventare adulto attraversa i medesimi percorsi e processi del bambino normale.
L’intrapsichico non può essere considerato un territorio isolabile. Esso si presenta come una sorta di specchio in cui fenomeni esterni si riflettono. I pensieri, i nostri sentimenti , le emozioni, i desideri dipendono dalle relazioni che ognuno vive con se stesso e con gli altri. La posizione che l’essere umano occupa o che teme di dover subire, determina di volta in volta gli stati d’animo, di benessere o di malessere.
La percezione di se stessi nasce, per tutti, dai confronti diretti, sia sull’aspetto fisico che su tutti gli altri aspetti. Ma la percezione nasce anche dalle comunicazioni interattive che riceviamo, cioè dalle differenze con cui le persone significative si rapportano con noi e con gli altri.
La disabilità è un evento eccezionale che appare a chi ne è colpito tanto più ingiusto quanto più è raro. Con la propria costanza richiede una modificazione permanente dell’adattamento alla realtà secondo canoni socialmente divergenti. Vivere in mezzo agli altri con un corpo diverso mette a disagio e spinge a compiere sforzi enormi per mimetizzarsi e cancellare la diversità.
Il bambino disabile, quando non è ancora consapevole della propria minorazione, spontaneamente sembra adattarsi al proprio corpo compromesso, organizzando la realtà in base alle proprie possibilità residue. Il tetraplegico per esempio esplora lo spazio rotolando in esso: gli oggetti lontano vengono da lui esplorati solo come fonti di stimoli visivi e uditivi, trascurando i requisiti tattili.
Con il procedere della crescita questo adattamento al proprio corpo scompare, lasciando posto all’ansia, alla reattività, alla frustrazione e all’iperdipendenza dagli altri. Le aspettative degli altri, le modalità di utilizzare la realtà esterna, contrastanti con quelle del bambino compromesso, hanno fatto sentire inadeguate le strategie operative messe in atto, che così vengono abbandonate come non buone. Spesso il bisogno di cancellare la diversità diventa ossessionante per il disabile.
Il limite prestazionale, dato dal deficit motorio, è certamente spiacevole perché il mondo è a misura dei sani e gli adattamenti compensatori del disabile non sono mai del tutto efficienti. Il confronto con l’efficienza dei sani è frustrante. Tuttavia le differenze nelle abilità sarebbero forse più tollerabili, se non rappresentassero uno svantaggio inevitabile sul versante dei rapporti. Spesso in gara non ci sono solo i risultati prestazionali, bensì gli affetti delle persone care. Perdere a causa della differenza, gare per conquistare l’attenzione, l’amore, la stima degli altri, è intollerabile, perché uccide il valore di esistere e pone nella posizione degli sconfitti a vita.
Accorgersi di essere inserito in una partita dove viene assegnata, per definizione, la parte perdente blocca l’autostima facilitando, così, come risposta il disadattamento sociale. Ecco che il disabile scopre il potere dell’impotere come arma contro la disperazione.
Infatti, quando la disabilità si evidenzia in un soggetto, questi viene a trovarsi rispetto ai suoi simili in una posizione di estraneità, così come i genitori non possono non soffrire della presenza nella loro famiglia di un figlio disabile: la ferita narcisistica della madre, così come la reazione di sofferenza e d’angoscia nel padre sono equiparabili. Questi disagi vengono inevitabilmente comunicati al disabile e incidono sull’idea che egli si fa di se stesso.
L’aggressività, la rabbia sono risposte vitali e appropriate, se la persona disabile ha abbastanza risorse; se invece si sente sconfitta, la risposta inevitabile è la depressione. La depressione è la mossa più immediata e comprensibile: essa si esprime nella rinuncia a interagire, a conoscere, a crescere, a operare nella misura del proprio desiderio. Si reprime il desiderio perché fonte di frustrazione. L’atteggiamento di rinuncia depressiva non viene conservato a lungo, ma suscita reazioni di intolleranza nei sani: essi si sentono accusati di ritiro. La depressione è un comportamento che implicitamente definisce gli altri colpevoli della propria superiorità di essere sani, e nello stesso tempo impotenti a modificare la situazione.
Il vedere se stessi anche con gli occhi degli altri, permette al disabile di conquistare un potere relazionale non sindacabile. Lo specchio, nella percezione di se stesso, è un ottimo strumento di supporto per il disabile, uno strumento che lo può aiutare a ri-conoscersi, nei tempi corretti.
Lo specchio permette l’acquisizione della consapevolezza del proprio corpo. Spesso il disabile non si osserva più da tanto tempo nella sua complessità e nella totalità del suo corpo. Si limita d osservare le parti sane o quelle che altri vogliono fargli vedere. Lo specchio restituisce la sua vera fotografia, senza nascondere niente e senza esprimere alcun parere.
Il disabile, spesso, ha bisogno di vedere e rivedere il proprio corpo, di nominarlo, toccarlo e, infine, riconoscerlo come proprio. Egli deve riconoscersi nell’immagine riflessa dallo specchio.
Deve individuare ciò che del corpo funziona e ciò che non funziona, quale parte è sana e quale malata, cosa può essere definito bello e cosa brutto, quale parte gli piace di se stesso e quale no: deve saper valutare cosa può essere modificato e cosa no.
Il vedersi, il riconoscersi aiuta a ricomporre l’essere e il pensare in una coesione strettamente funzionale alla costruzione dell’identità: aiuta la mente a essere dove è il corpo, anche quando la mente fugge e si rifugia in una realtà immaginaria e parallela, in una dissociazione tra il sé pensato e il sé fisico.

Disabilità, attaccamento e corporeità
Richiamando gli studi sull’attaccamento (Ainsworth, 1989) è opportuno sottolineare i principi su cui il bambino costruisce i primi costrutti relazionali interni veicolando esperienze di tipo corporeo. L’attaccamento è un processo motivazionale, attivo, di adattamento, basato sulle strategie di soddisfazione dei bisogni di sicurezza, formulate in relazione alle caratteristiche dell’ambiente. (Bowlby 1980,1988; Ainsworth,1989) . Possiamo definirlo in base a tre criteri: il bisogno di vicinanza alla figura di attaccamento in condizioni di stress; l’aumento del benessere e la diminuzione dello stato di allarme in presenza di tale figura; l’aumento del disagio e di ansietà se si verifica la minaccia di non potere entrare in contatto con questa fonte di rassicurazione.
Nell’età adulta, si modifica rispetto alla forma infantile non tanto riguardo al contenuto ma riguardo all’oggetto che diventa un suo pari nella sfera relazionale.
È inevitabile, quindi, evidenziare come questi modelli siano turbati dall’evento malattia sia sul versante del bambino sia sul versante genitoriale (materno e paterno).
Tenendo presente che l’attaccamento rappresenta un processo attivo da parte del bambino, a cui la madre è biologicamente programmata per rispondere, dobbiamo considerare che un bambino ammalato è meno abile nell’attivare le risposte di attaccamento in sua madre, e una madre preoccupata è meno libera di rispondere alle richieste di suo figlio in modo sereno e sicuro. Le diagnosi infauste pongono spesso pesanti interferenze alle risposte naturali del legame di attaccamento, deprimendo la madre e disorientandola di fronte ai segni deboli eccessivi del bambino. Il bambino che non riesce ad allungare le mani verso la sua mamma o che non può sorridere davanti allo sguardo amorevole del padre, faticherà ad attivare le risposte funzionali dell’adulto.

La famiglia e la disabilità
La famiglia è una struttura complessa e articolata, presente in tutti i sui sistemi sociali conosciuti. La famiglia può essere definita come “un sistema aperto che funziona in relazione al suo contesto socio-culturale e che si evolve durante il ciclo di vita” (Walsh, 1986). È un sistema non riconducibile alla semplice somma delle sue parti, non è sufficiente descrivere l’insieme delle caratteristiche dei suoi membri per comprenderla, occorre tener conto dell’interconnessione dei comportamenti dei componenti. Ogni azione è anche reazione, il cambiamento in un individuo influenza il sistema nel suo complesso (Carta, 1996). La famiglia è in grado di modificarsi, adattarsi ai cambiamenti sia interni che esterni. Le famiglie sono infatti anche “sistemi evolutivi” (Carta, 1996) che si trasformano insieme agli eventi della vita e alla crescita dei membri che le costituiscono.
Lo sviluppo della famiglia è caratterizzato dalla successione di relazioni diadiche privilegiate, lette su uno sfondo di relazioni triadiche (Fivaz – Depeursinge, 1999) che si presentano asimmetriche nell’infanzia per divenire simmetriche nell’età adulta e ritornare asimmetriche nella maturità con l’ingresso nella costellazione familiare dei membri di una nuova generazione.
Questo sviluppo temporale è scandito da compiti evolutivi o eventi critici (Carli, 1999) che danno forma a una nuova configurazione nella vita del soggetto, configurazione che cambierà il sentimento di sé, e le relazioni fondamentali dei suoi rapporti e dei suoi individui. Il superamento di ogni gradino evolutivo è un successo conseguito dalla famiglia nel suo insieme.
La famiglia (Bowen, 1979; Haley 1963; Boszomenyi – Nagy e Spark, 1973; Framo, 1992), è un sistema emozionale pluri-generazionale. La famiglia nucleare risulta essere quindi un sottosistema che reagisce al passato e che, nel presente, costruisce un futuro. Esiste quindi un asse verticale lungo il quale nel tempo vengono trasmessi modelli di relazione e di funzionamento, e un asse orizzontale su cui si possono fondare alleanze e vivere competizioni. I livelli di maggiore stress si sperimentano quando un evento problematico si innesta sull’asse orizzontale proprio nel momento in cui un conflitto o uno snodo evolutivo pongono difficoltà sull’asse verticale dei rapporti intergenerazionali. A questo punto non è difficile immaginare quanto l’evento stressante di un handicap in un figlio comporti negoziazioni e riaggiustamenti in questo naturale fluire del ciclo vitale di una famiglia. La disabilità presentata da un figlio non consente adattamenti familiari relativamente stabili, proprio per la natura evolutiva del soggetto e delle sue necessità. La crescita di qualunque bambino impone costanti modifiche dell’equilibrio familiare, ma esse si muovono lungo un continuum protocollato secondo ritmi socialmente stabiliti. Non così per il bambino disabile e per le sue esigenze.

Il corpo e la sessualità
Anche il disabile, nel crescere, incontra l’area della sessualità, strettamente connessa al tema del corpo e dell’allevamento del soggetto sia sul versante della consapevolezza del sé sia dei propri limiti, confrontati con i compiti evolutivi.
Il corpo (Stern, 1985), sia sano che malato, è il luogo di crescita della persona, emergente radice di sé, rappresenta l’inizio di ogni sviluppo umano. È il territorio di incontro della cura di ciò che di prezioso rappresentiamo. Il rispetto del corpo significa anche rispetto del proprio essere e della propria natura sessuata. La matrice pulsionale nasce con il corpo e subisce un processo di adattamento al contesto sociale che ne regola l’espressione per tutto il corso della vita. Tale adattamento si differisce e si contraddistingue a seconda delle culture e degli stili di comportamento della famiglia. La cultura occidentale promuove l’espressione sessuale libera, ma contemporaneamente regola con precisione le condizioni in cui la condotta sessuale può essere accettata. In primo luogo, la sessualità è associata all’esplorazione di rapporti extrafamiliari. In secondo luogo, la condotta sessuale riguarda una area della privatezza e del pudore. In terzo luogo è associata al concetto di libera scelta, di legame elettivo, che non può essere imposto. Infine, la sessualità è correlata al mito della bellezza fisica e dell’efficienza, è cioè considerata un diritto per soggetti giovani, belli o almeno per adulti e anziani di successo. È considerata una forma imbarazzante se associata a deformità, disabilità e deficit, trattata con compassione, come una pulsione che induce schiavitù ed esprime degrado nei malati, negli anziani e nei disabili. La pulsione di per sé non è niente di tutto questo: è semplicemente una spinta alla ricerca del benessere corporeo nella relazione con gli altri membri della specie, associata o meno alla finalità di stringere legami e di procreare. Inizialmente dirige le condotte di presa di coscienza e di esplorazione del sé corporeo, rendendolo luogo di interesse e di ricerca del benessere.

Bibliografia di riferimento
A. M. Sorrentino, Figli disabili. La famiglia di fronte all’handicap, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006.
A. Carlino Bandinelli , S. Manes, Il Disegno del bambino in difficoltà, FrancoAngeli, Milano, 2004.
M. Andolfi, La famiglia trigenerazionale, Bulzoni, Roma, 1988.
M. Andolfi, Il padre ritrovato. Alla ricerca di nuove dimensioni paterne in una prospettiva sistemico relazionale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001.
M. Andolfi, C. Angelo, P. D’Atena, La terapia narrata dalle famiglie, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001.
I. Boszormenyi-Nagy, G. Spark, Lealtà invisibili, Astrolabio, Roma, 1973.
M . Bowen, Dalla famiglia all’individuo, Astrolabio, Roma, 1978.
J. Bowlby, Attaccamento e perdita, Bollati Boringhieri, Torino, 1980.
J. Bowlby, Una base Sicura, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1988.
S. Cirillo, Cattivi Genitori, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005.
P. Di Blasio, Psicologia del bambino maltrattato, Il Mulino, Bologna, 2000.
P. Di Blasio, Protocollo sui fattori di rischio e dei fattori protettivi nella valutazione psicosociale dei minori e delle famiglie, Università Cattolica, Milano, 2004.
G. Fava Vizziello, V. N. Stern, Dalle cure materne all’interpretazione. Nuove terapie per il bambino e le sue relazioni: i critici raccontano, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1992.
E. Fivaz-Depeursinge, J. Corboz Warnery, Il triangolo primario, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000.
E. Scabini, L’organizzazione familiare tra crisi e sviluppo, FrangoAngeli, Milano, 1995.
F. Walsh, La resilienza familiare, Raffello Cortina Editore, Milano, 2008.

4. Scheda tecnica/“Il mio corpo e il corpo che vorrei”

Partecipanti:
– 7 animatori con disabilità
– 2 educatori
– 2 volontari

Durata del laboratorio:
2 ore circa
15 minuti di riscaldamento
1:15 minuti di attività
30 minuti di condivisione

Luogo:
ampia stanza

Obiettivo generale:
acquisire consapevolezza del proprio corpo

Obiettivi specifici:
– riconoscimento e analisi delle proprie qualità
– creazione di relazioni, condivisione

Attività
1) Riscaldamento: il riscaldamento è stato fatto in tutti gli incontri. Un momento indispensabile per creare un contesto accogliente e positivo e per risvegliare il corpo attraverso semplici gesti e stimolare la concentrazione con dei giochi.
2) Descrizione di sé: ogni partecipante ha descritto se stesso in forma scritta, successivamente ha condiviso il lavoro con gli altri.
3) Disegno di una persona immaginaria o reale, e descrizione e spiegazione.
4) Condivisione: come ci siamo sentiti nell’attività in gruppo, difficoltà emerse.

Materiali:
fogli, biro,matite colorate, scotch
Importante: abbiamo deciso di inserire la durata del laboratorio, quantificandola in minuti e ore, per realizzare una scheda tecnica completa. In realtà molti di questi incontri si sono allungati. Come spiegato nell’intervista, avere la possibilità di dedicare più tempo, senza l’ansia della risposta immediata e potendo lasciare ai partecipanti lo spazio giusto per rielaborare i vissuti, è stato fondamentale per la riuscita del percorso.

Commenti dei partecipanti
D: Io adoro disegnare. Ho disegnato me stessa, così, come penso di essere. Poi una volta in cerchio con gli altri, nel momento della condivisone, ho fatto molta fatica, ho trovato difficoltà a trovare le parole. Molto più facile è stato fare l’altro disegno: ho disegnato mio padre, con la maglietta di Superman e l’ho descritto agli altri nei minimi dettagli… L’altezza, le mani grandi, gli occhiali, i suoi movimenti usuali… Un po’ come vorrei essere anche io!
G: La qualità del disegno non è eccezionale, ma sono contento perché l’ho fatto da solo. La persona che ho disegnato è di fantasia, è in piedi e il suo corpo funziona bene. Io invece sono in carrozzina, anche se vorrei non esserci. Tutti mi dicono che sono uguale agli altri, anche se in realtà io mi accorgo che non è proprio così.
L: Ho disegnato un personaggio di fantasia, probabilmente un alieno, con un grande seno e delle gambe lunghe. Molto colorato. Descrivere me stessa non è stato facile, ma sono riuscita a tirare fuori le emozioni perché sono spesso da sola e non parlo con nessuno, in questo contesto invece qualcuno mi ascolta. Probabilmente ho disegnato un alieno perché vorrei essere totalmente cambiata, vorrei un seno più prosperoso, lo stomaco più piccolo e… tanto altro.

3. Il corpo che comunica. L’immagine che abbiamo del nostro corpo è parte integrante della nostra identità. Nominare, conoscere, comprendere il corpo

Prima parte
“Secondo alcuni autorevoli testi di tecnica aeronautica, il calabrone non può volare, a causa della forma e del peso del proprio corpo in rapporto alla superficie alare. Ma il calabrone non lo sa e perciò continua a volare”.

(Igor’ Ivanovič Sikorskij)“Quando un disabile ha una percezione equilibrata e di accettazione della propria situazione, più facilmente è portato a credere che gli altri lo guardino perché si incuriosiscono di alcune cose, ad esempio della protesi, della carrozzina, dei suoi movimenti, della deambulazione particolare; se invece egli rifiuta la sua menomazione o se ne vergogna, tenderà a percepire la curiosità degli altri in modo umiliante, pensando di essere considerato in maniera negativa, con disprezzo e pietà. […] Nel sentirsi guardata la persona sembra acquistare un ruolo passivo di ‘centro’, di bersaglio. In questa situazione la relazione con l’altro diventa asimmetrica: ‘io ho vergogna di me davanti allo sguardo dell’altro’ (Sartre 1943): guardare significa possedere, il soggetto decade a oggetto.
Come prima conseguenza l’Io e le sue qualità diventano evidenti ed enfatizzate, assumono un risalto particolare nel campo della coscienza.
[…]
L’handicappato vive il proprio aspetto come una apparenza negativa, centro di un’attenzione che non può evitare né modificare immediatamente: in generale egli si sente ‘ferito’ dagli sguardi e cerca di sottrarsi a quel particolare tipo di attenzione in cui si sente considerato come un corpo minorato, piuttosto che come una persona. Il corpo non è più un ‘io sono’, che ha autonome possibilità espressive e comunicative, ma è scaduto a livello di un ‘oggetto esposto al mondo’, di cui gli altri dispongono.
Lo sguardo può anche essere considerato un atto incompiuto che costituisce la fase preliminare di una relazione; in questo senso lo sguardo rientra nel contesto della comunicazione non verbale, come inizio di una organizzazione e trasmissione di significati che si realizza tramite il veicolo semantico.
[…]
La persona handicappata, ‘centrata’ dagli sguardi prolungati o furtivi, conclude: sono diverso, il mio corpo non è una ‘modulazione esteriore’ di una libera e personale intimità, ma è un ‘corpo oggetto’, il corpo che ho, anziché il corpo che sono.
Ma il corpo non è soltanto strumento di comunicazione verso l’esterno, il corpo è anche il custode del mio segreto personale, esso racchiude e difende la mia intimità”.
(Estratto da Il corpo che ho, anziché il corpo che sono. Il disabile di fronte allo sguardo degli altri  di Gianni Selleri)

Tante volte noi educatori ci siamo chiesti se i nostri colleghi disabili conoscono il loro corpo e come lo usano nei vari contesti in cui si trovano. Tante volte ci siamo domandati se i nostri giovani disabili sanno di avere un corpo e se quel corpo, per loro, è anche veicolo di relazione. Relazione che nel nostro lavoro è fondamentale. Ma come si fa a costruire relazioni con il corpo se non lo si conosce o si ha paura di usarlo? Per rispondere a questi interrogativi noi educatori abbiamo deciso di promuovere un laboratorio sul corpo. Ci siamo dedicati alla consapevolezza della percezione di sé cercando, con le attività proposte, di acquisire una presa di coscienza del proprio corpo partendo da una verifica delle immagini del sé. 

2. Sulla propria pelle: le ragioni di un laboratorio

a cura di Giovanna Di Pasquale

Intervista a Luca Cenci e Tristano Redeghieri

Come nasce il laboratorio
L’idea del laboratorio nasce dalla convinzione che il corpo sia uno dei maggiori strumenti per relazionarsi con gli altri. Essendo un insegnante Isef specializzato nell’attività motoria per bambini da 0 a 5 anni uso molto il corpo per relazionarmi con il bambino, proponendo giochi e attività attraverso il contatto fisico. Nel lavoro che svolgiamo qui in Cooperativa Accaparlante, l’obiettivo è quello di “portare fuori” la disabilità non solo con contenuti teorici, ma attraverso il protagonismo attivo delle persone disabili. In questo senso è fondamentale essere il più possibile consapevoli del rapporto che si ha con il proprio corpo che, spesso, nella persona disabile è un corpo non consono ai canoni riconosciuti e convenzionali. (T)
La consapevolezza poi è una conseguenza della conoscenza, senza conoscenza non si può parlare di consapevolezza né tanto meno di accettazione. Avevamo l’esigenza di capire, soprattutto per le persone più giovani (all’inizio il laboratorio era nato per loro) che rapporto avessero con il proprio corpo. Nel lavoro quotidiano infatti il corpo era nominato solo in funzione dell’attività di fisioterapia o per la gestione delle routines della vita quotidiana (lavarsi, vestirsi, mangiare..) (L)
La presentazione del percorso non è stata così difficile. Neanche noi sapevamo dove saremmo arrivati. Siamo partiti descrivendo l’idea di fare un laboratorio sul corpo, anche in modo blando. Con il prosieguo del lavoro, nel gruppo si è creato un clima di un certo tipo, un’intimità di un certo tipo che ha dato vita a un ambiente protetto che ha reso possibile lavorare in profondità su tutto il resto. In questo senso la presentazione non è stata una parte fondamentale perché siamo partiti sperimentando insieme a loro. Non abbiamo detto che avevamo già degli obiettivi definiti da raggiungere o standard a cui uniformarci, abbiamo solo detto: iniziamo raccontando il nostro corpo poi vediamo fino a dove possiamo spingerci.(L)
Abbiamo presentato questo percorso cercando di fare capire quanto è importante il corpo nella relazione, quanto si usa per relazionarsi con gli altri, facendo esempi tratti dalla quotidianità. Uno degli obiettivi era quello di fare acquisire maggiore consapevolezza del proprio corpo e di come lo si usa nei vari contesti, se e quanto lo si usa.
Il laboratorio sul corpo è stato inevitabilmente un laboratorio con il corpo, in cui giochi, situazioni, ecc. venivano provati sulla propria pelle. È stato una sorta di reincontro con il proprio corpo, corpo che – dalle parole delle persone coinvolte – non incontrano spesso.
Non l’incontrano né lo conoscono. (T)

Le aspettative
Non avevo delle aspettative già definite, il laboratorio è stato costruito in base all’andamento del percorso stesso, volta per volta decidevamo su cosa puntare cercando un collegamento fra gli incontri per dare continuità al percorso. Anche i partecipanti, per me, non si aspettavano niente di specifico però è emersa da subito una grande curiosità per dove si sarebbe arrivati. Per molti aspetti la stessa cosa vale per noi.
Quando ci rendevamo conto che saltava fuori qualcosa di interessante, abbiamo cercato di seguirlo sempre nel rispetto dei tempi delle persone e facendoci aiutare anche da esperti L’arma vincente di questo percorso è stato il tempo lungo in cui è stato articolato, tempo che è stato dilatato quando gli elementi che emergevamo avevano bisogno di essere ripresi e approfonditi. Non si è trattato di una lezione dopo l’altra, ma di nuclei tematici che si sono sviluppati per tutto il tempo che noi, ma anche i partecipanti, abbiamo ritenuto necessario in funzione della rielaborazione di quanto avveniva negli incontri. Essere in un luogo protetto ci ha permesso di lavorare anche sull’intimità del corpo. (T)
Le aspettative erano quelle che si hanno di solito quando cominciamo un laboratorio, perché quella sul corpo non è l’unica attività laboratoriale che la Cooperativa propone. I partecipanti quindi si aspettavano di fare al mercoledì attività incentrate sì sul corpo, ma sempre con lo stile e il metodo già sperimentati da loro stessi in tanti altri laboratori.
Di diverso c’era la curiosità verso una tematica totalmente sconosciuta soprattutto per le persone che abbiamo scelto di coinvolgere. La selezione non è stata casuale, abbiamo molto riflettuto su chi coinvolgere per il lavoro che andavamo ad affrontare. Conoscendo molto bene il gruppo, ci siamo orientati verso i più giovani e verso chi, tra i più maturi ci sembrava avere più blocchi in questa area.
Anche per quanto riguarda le mie aspettative mi sono sentito molto vicino a quelle del gruppo, ero molto curioso ma del tutto ignaro del potenziale che poteva avere un laboratorio di questo tipo e non mi aspettato certo di arrivare a trattare di temi personali, intimi e anche molto belli, che invece sono riusciti a emergere. (L)

Il percorso
Il laboratorio è stato realizzato su tre anni con l’obiettivo generale di lavorare sulla consapevolezza della percezione di sé. Conosco il mio corpo? Quanto lo conosco? Come lo uso nei vari contesti, se lo uso?
Per partire abbiamo chiesto aiuto a esperti, in particolare a un’amica psicologa. Con lei ci confrontavamo su quanto, volta per volta, veniva fuori dagli incontri per mirare meglio gli incontri successivi. Questo monitoraggio ha permesso di individuare anche obiettivi specifici legati alla reale immagine di sé, al ruolo dello sguardo degli altri come mediatore nell’immagine di sé. Ci siamo accorti che i più giovani riportavano nelle parole con cui si descrivevano molto della visione dei genitori che, in alcuni casi, era molto lontana da quanto si vedeva nello specchio. Altro obiettivo specifico è l’uso del corpo in un contesto di lavoro o di attività o nello sport.
Le persone con disabilità conoscevano molto bene il loro corpo dal punto di vista fisioterapico, cosa funziona, cosa non funziona ma non sapevano cosa fa piacere o non piacere sul loro corpo.
Il terzo anno abbiamo lavorato sul corpo come piacere e non piacere, come corpo capace di dare e ricevere piacere e benessere, per esempio attraverso il massaggio, il tocco con acqua calda e fredda, la memoria di gesti motori come “stirarsi” la schiena che possono essere rifatti anche nella quotidianità da soli o, se non si riesce, chiedendo aiuto a qualcuno.
Uno degli esperti che hanno collaborato con noi in questo terzo anno ha detto una frase: “È lecito che io non mi muova ma è lecito che qualcun altro mi muova, perché questo mi faccia stare bene”. Questa frase l’abbiamo poi ripresa tante volte nel corso del laboratorio.
È stato un percorso legato alla consapevolezza e di conseguenza anche all’autostima, perché il nostro corpo parla e non è solamente usato. Negli scritti delle persone disabili seguiti agli incontri dedicati al massaggio questo corpo parlava del benessere che avevano provato, delle emozioni belle e positive che avevano provato. (T)
Il primo anno si è trattato di giochi con il corpo: iniziamo giocando, proviamo a vedere come riesce a muoversi il nostro corpo, quello che possiamo fare e quello che non possiamo fare.
Il secondo anno è stato molto incentrato sulla conoscenza del sé, dei limiti e delle possibilità, ciò che il mio corpo può fare o non può fare, sa fare o non sa fare. Avere un limite non significa non poter fare niente, su questo abbiamo costruito la parte finale del percorso cercando strategie e adattamenti, costruendo anche piccoli ausili in maniera semplice e giocosa che potessero aiutare a compiere gesti come portare una tazzina di caffè. La cosa più difficile è stata per tutti riconoscere i limiti e le difficoltà. Una volta preso atto di ciò, si è potuto cominciare a ragionare su come si può fare per raggiungere un obiettivo in un altro modo, un aspetto questo centrale nella disabilità. Nel terzo anno abbiamo deciso di sperimentare ciò che piace al mio corpo e ciò che non piace, attraversando il tema del piacere e dei rapporti fra corporeità, emozionalità, sessualità. Spesso in famiglia o nelle strutture i momenti dedicati al corpo sono frettolosi o meccanicamente finalizzati al lavarsi, mentre noi sappiamo che una doccia, ad esempio, è anche un momento di rilassamento, benessere in cui scelgo quanto stare sotto l’acqua, la temperatura, ecc. Ecco queste scelte spesso non sono possibili per le persone disabili.
Questo ultimo anno è stato quello più delicato dal punto di vista emotivo perché parlando di piacere si è arrivati a parlare di cose molto personali in un clima intimo e protetto dove si poteva parlare senza la paura di essere giudicati. Un ragazzo che ha una disabilità acquisita, dopo alcuni massaggi ha cominciato a raccontare di quando da bambino ha iniziato a perdere l’uso delle gambe. È un avvenimento di tanto tempo fa e questo ragazzo che lavora con noi da parecchi anni non aveva mai parlato francamente di quel passaggio delicatissimo per lui. Un’altra ragazza per la prima volta ha voluto parlare della sua unica esperienza sessuale vissuta a vent’anni, questo per lei è stato non solo importante ma anche, sono le sue parole, “bellissimo che mi sia tornata in mente quell’emozione”.
C’era chi il primo anno faceva fatica ad accettare il contatto con noi ma anche il contatto con il proprio corpo, che in alcuni casi coincideva con la carrozzina. In un’attività fatta davanti allo specchio in cui descrivere il proprio corpo, molti parlavano di un tutto unico: io sono seduto sulla mia carrozzina, la carrozzina è il mio corpo. Fondamentale invece distinguere e separare, imparare e sperimentare che si hanno le gambe, la schiena, i piedi che per molti dei partecipanti erano parti del corpo completamente sconosciute.
Una delle ragazze più giovani che era venuta in Cooperativa con l’obiettivo di scrivere sui film, sull’arte, sulle cose che più la interessavano non voleva essere coinvolta in nessuna attività che comportasse il contatto corporeo. È entrata, quindi, in questo laboratorio con moltissime remore e preoccupazioni. L’ultimo anno era lei che richiedeva di essere tolta dalla carrozzina e messa a terra e aveva fiducia in come gli altri si avvicinavano a lei, anche perché la sua maggiore consapevolezza le permetteva di guidare e di indicare come fare gli spostamenti e i movimenti.
Questo anche in una prospettiva di vita adulta può significare essere capace di dare indicazioni a figure esterne alla famiglia su come gestire i momenti fondamentali della quotidianità. (L)

Il ruolo dei conduttori
Io ero molto in difficoltà nell’ultimo anno al momento della condivisione. Il livello di profondità toccato ha messo in moto in noi conduttori una sorta di attesa implicita di dover andare sempre più in profondità. Era come se non ci bastassero commenti generici ma avessimo bisogno di riflessioni e descrizioni sempre più dettagliate. Un’aspettativa sbagliata, come ho capito a posteriori, che andava a contrastare il rispetto dell’intimità di ciascuno, il nostro essere persone che hanno voluto condividere emozioni anche forti ma che hanno diritto di scegliere quando fermarsi, e di dire tanto ma non tutto. Questo limite rafforza e non indebolisce la qualità della relazione nel gruppo in quel contesto.
Per noi il ruolo dell’educatore è quello di proporre delle possibilità che si possono sperimentare anche fuori di qui, ma questo sta alla persona, alla sua famiglia, al contesto che c’è intorno, ai servizi. Soprattutto sta all’individuo andarsele a prendere queste possibilità. Ovviamente questo può spaventare anche molto, le famiglie in primis, ma anche le persone con disabilità stesse che vengono a chiedere: “Ma perché dobbiamo parlare del piacere del corpo quando fuori di qui questo piacere non lo sperimentiamo mai?”.
Questa è una delle parti che più mi ha messo in difficoltà. (L)
Io avevo un’aspettativa alta verso le persone “più vecchie” che vengono qui da più tempo, di loro non mi bastava il dire un sì o un no ma cercavo di tirare fuori le loro motivazioni sul fatto che una determinata cosa fosse bella o brutta, e per questo facevo a volte domande troppo dirette. La paura è stata quella di superare il limite nonostante pensassi molto prima di chiedere ancora. Mi rendo conto adesso che avevo bisogno di capire se questo percorso avesse smosso qualcosa in loro, perché a volte mi sembra che siano abituati a dire va tutto bene o va tutto male, ma faticano a esprimere i motivi interni di questo pensiero. Queste difficoltà sono state però anche quelle che hanno portato le maggiori soddisfazioni, sentire le persone contente ed emozionate per aver fatto emergere, anche attraverso l’aiuto delle domande che facevo, sensazioni nascoste o dimenticate mi ha dato una grande soddisfazione. Siamo riusciti perché ci siamo dati i giusti tempi per la rielaborazione e perché nessuno è stato mai obbligato a parlare. Abbiamo condiviso il tempo del silenzio e l’imbarazzo che spesso ne nasce. Anche questo per me è stato utile perché l’imbarazzo è un’emozione viva.
Un altro aspetto difficile per me è stato pensare che stavamo percorrendo un terreno di esperienze che fuori, nella vita di tutti i giorni, non trovano spazio o non vengono recepite. Mi sono domandato spesso “E adesso cosa succede? Fuori di qui cosa succede? Creo più frustrazione o più giovamento?”. E infatti questo è stato uno degli argomenti con i genitori, affinché non fosse un percorso solo fine a se stesso. (T)

Il coinvolgimento delle famiglie
Durante gli incontri del laboratorio le famiglie sapevano, ma non sono state direttamente coinvolte. Lo sapevano dalle richieste che facevamo loro rispetto all’abbigliamento più adatto o altre cose simili di tipo pratico, lo sapevano da quello che i loro figli raccontavano tornando a casa. Erano molto curiosi e quasi in attesa di sapere… Ci è sembrato giusto quindi coinvolgere in un qualche modo anche loro.
Alla fine c’è stato un momento, importante, di restituzione dell’esperienza nella globalità per comprendere meglio insieme cosa è stato questo percorso che ha fatto tornare a casa i loro figli a volte esaltati, sempre molto coinvolti emotivamente. Abbiamo raccontato loro cosa succedeva in quella stanza un po’ misteriosa dove il gruppo si trovava e lavorava per tre ore. Un racconto non semplice e non lineare perché dare voce ad attività che muovono sensazioni ed emozioni è molto difficile.
Nel laboratorio poi sono emersi ricordi e racconti molto intimi e anche dolorosi o emozionanti; questo è potuto accadere per il clima intimo e la promessa di riservatezza che era implicita. Nel raccontare ai genitori, quindi, abbiamo voluto rispettare questo tratto e abbiamo scelto insieme alle persone disabili cosa dire e restituire ai genitori, e anche a un pubblico più grande come possono essere i lettori di una rivista e cosa invece continuare a tenere protetto. Anche da parte dei genitori nell’ascolto delle parole dei loro figli o nella visione di alcuni spezzoni di attività c’è stato grande coinvolgimento e grande commozione, un rispetto direi, nell’impatto con un’immagine anche inedita delle persone che sono i loro figli. (L)
La scelta di non coinvolgere direttamente i genitori è stata anche dovuta dalla necessità di non farsi mettere dei paletti in maniera anticipata. Come già si è detto, per noi il ruolo di educatori è legato a costruire più occasioni possibili con e per le persone, una sorta di palestra dove provare direttamente in prima persona per poi, se si vuole e si riesce, continuare nella quotidianità.
Con questa scelta le persone con disabilità sono state protagoniste anche nel racconto con i propri genitori, hanno deciso se avevano voglia di raccontare e, quando lo hanno fatto, è stato con le loro parole. È stato anche un modo di rinnovare la relazione con i genitori con argomenti nuovi che toccano la dimensione del corpo e anche l’essere adulti, le scelte, gli imbarazzi, le emozioni. (T)

Pensieri per non concludere
Tempo e continuità: il tempo del laboratorio era sacro. Nonostante i mille altri impegni o richieste, il mercoledì mattina tutto il gruppo era al laboratorio, punto. Non esisteva niente che potesse intralciare. Non mettere pause in mezzo è stato fondamentale per non rompere quella sorta d’incantesimo costruito settimana per settimana.
Un percorso come questo tocca corde molto sensibili: è d’obbligo farsi aiutare da chi è esterno e da chi ha competenze più specifiche. Noi siamo educatori con una formazione di un certo tipo, dentro al laboratorio gli esperti non c’erano ed eravamo noi due a gestire questo turbinio di sensazioni ed emozioni. C’era paura, e c’era anche la voglia di poter dare risposte, ma noi non siamo tuttologi. Non è un’esperienza che puoi fare senza il supporto di altri più specializzati e senza una rete di confronto esterna data dai colleghi e dalla supervisione.
Noi come Cooperativa lavoriamo molto sul ruolo attivo della persona con disabilità. Ma il corpo ha veramente un ruolo quando io sono con me stesso e con gli altri? Ne parliamo tanto ma poi dobbiamo anche utilizzarlo questo corpo. Un’attività molto bella è stato quando nell’ultimo incontro le persone disabili hanno assunto il ruolo di massaggiatori e ci hanno massaggiato con tutte le loro difficoltà e con modi personalizzati per riuscire a farlo.
Dopo tre anni di percorso c’erano quelle condizioni di fiducia nell’altro e di confidenza nel proprio corpo per cui è stato possibile per le persone disabili assumere un ruolo attivo nel dare piacere agli altri e provare per questo grande soddisfazione. Anche il corpo disabile può avere un ruolo attivo nella relazione con gli altri, relazione che ci ha fatto vivere l’esperienza rara e preziosa di essere alla pari da un punto di vista esistenziale per il coinvolgimento emotivo che, al di là dei ruoli professionali e istituzionali, ha toccato tutti noi. (T) (L)

1. Qual è la percezione che hanno del proprio corpo le persone con disabilità?

A cura di Luca Cenci e Tristano Redeghieri, educatori

Come Adamo presto al mattino,/che cammina uscito dalla capanna di fronde rinfrancato/dal sonno,/ guardami mentre passo, odi la mia voce, avvicinami,/toccami, accosta la palma della tua mano al mio corpo/mentre passo,/non avere paura del mio corpo.
(Walt Whitman, Foglie d’erba)

Sono ormai passati tre anni da quando ci siamo posti la domanda che ha scatenato questo percorso: qual è la percezione che hanno del proprio corpo le persone con disabilità del nostro gruppo di lavoro? Una domanda semplice, quasi banale all’apparenza. In realtà, una domanda che va a toccare molte delle corde che costruiscono l’identità.
L’idea era quella di lavorare sulla percezione del proprio corpo, ascoltare le persone con disabilità, capire cosa pensavano e come vedevano loro stesse il proprio aspetto, la propria figura. Un momento fondamentale per capire come proseguire il lavoro, per accorgersi degli ampi margini che c’erano tra percezione, spesso fomentata dall’esterno, e reale conoscenza.
Un dato di fatto è che tutti noi modifichiamo il rapporto con noi stessi da come veniamo guardati: tutte le persone che conosciamo, che incontriamo sono come degli specchi, e ciò che vediamo riflesso negli occhi degli altri influenza l’immagine che costruiamo di noi stessi. Tutto questo risulta ancora più accentuato per le persone con disabilità. La conseguenza è che si trovano spesso un’immagine di se stessi falsata, costruita dagli altri, perdendo così ogni consapevolezza sulla realtà.
Uno dei trait d’union che collegano questi tre anni di percorso è proprio il tentativo di raccontare il nostro corpo dal nostro punto di vista, cercando di non farci influenzare (anche se non sempre è possibile) da quell’immagine che viene solitamente costruita più su giudizi altrui (famigliari, amici, colleghi) che su una reale conoscenza delle proprie caratteristiche fisiche.
L’obiettivo del laboratorio si incentra proprio su questo, su una reale conoscenza del proprio corpo, su di una maggiore consapevolezza della propria identità.
Così siamo partiti con delle attività molto semplici, come la descrizione individuale del proprio corpo osservandosi allo specchio, il raccontare cosa pensano e cosa dicono gli altri del proprio corpo, in maniera scritta e orale. Successivamente abbiamo sperimentato momenti pratici, chiedendo ai partecipanti dei movimenti, dei piccoli esercizi fisici, chiedendo loro l’esposizione di quei movimenti fatti o solo tentati, con l’obiettivo di aiutare i partecipanti a essere obiettivi sulla valutazione di se stessi. Tutto questo con una presa di coscienza delle proprie qualità facendosi magari aiutare dagli altri componenti del gruppo, con un riconoscimento delle proprie qualità e una acquisizione di consapevolezza del proprio corpo.
Con questi giochi pratici è emerso un altro tema importante, sviluppato poi negli anni successivi: è emerso come le persone con disabilità siano a conoscenza del proprio deficit, che è la loro immagine più manifesta, di come conoscano le proprie difficoltà evidenziate dalla diagnosi, ma difficilmente riescano a individuare le proprie potenzialità e abilità.
A nostro favore ha giocato sicuramente il contesto nella quale lavoriamo. Il Gruppo Calamaio ormai da trent’anni lavora su temi come la relazione, la conoscenza di sé e dell’altro, la consapevolezza. Il nostro obiettivo è quello di favorire sempre più una cultura dell’inclusione. Anche quando è scomoda e quando mette in crisi.
Abbiamo deciso di inserire le schede tecniche di alcune attività, all’interno di tre percorsi di dieci incontri ciascuno, quelle che reputavamo più significative.
Dai commenti dei partecipanti è possibile iniziare a verificare quale era la percezione del proprio corpo all’inizio del percorso e successivamente di come questa percezione si sia evoluta nel tempo. Le loro parole condivise sono state il metro che ci hanno permesso di regolare il percorso e le attività, parole in alcuni casi molto intime e delicate, che a volte ci hanno costretto a tirare il freno e altre volte ci hanno permesso di forzare la mano. Per questo abbiamo selezionato alcuni commenti (confrontandoci con loro su quello che doveva rimanere nella “nostra stanza” e quello che poteva uscire), perché per capire questo percorso è indispensabile leggere le parole di chi lo ha vissuto in prima persona.

14. Accesso negato: un progetto europeo su donne disabili e servizi di supporto

a cura di Massimiliano Rubbi

Ben poca ricerca è stata dedicata finora, non solo in Italia ma anche in Europa, alle barriere che separano le donne con disabilità che subiscono violenza (una condizione che si stima le colpisca da due a tre volte più spesso della popolazione femminile media) e i servizi che dovrebbero fornire loro supporto. Una rara e importante eccezione è il progetto europeo “Access to Specialised Victim Support Service for Women with Disabilities who have Experienced Violence”, svolto in 4 Paesi della UE dal 2013 fino a gennaio 2015 e guidato dall’Istituto Ludwig Boltzmann per i Diritti Umani di Vienna, con un finanziamento da parte del programma Daphne della Commissione Europea.
Dopo una ricostruzione del quadro legale e politico nei 4 Paesi, il progetto ha coinvolto in discussioni di “focus group” 106 donne disabili, 59 delle quali sono state intervistate in maggiore profondità; dall’altro lato, 602 fornitori di servizi a donne che subiscono violenza sono stati coinvolti in un’indagine online, e sono state condotte 54 interviste con loro rappresentanti. Un corpus significativo di buone pratiche e raccomandazioni è stato ricavato dalla scoperta di numerose e variegate barriere che impediscono alle donne disabili che subiscono violenze di uscirne.
Abbiamo chiesto a Sabine Mandl, una delle direttrici del progetto come ricercatrice sui diritti delle donne all’Istituto Ludwig Boltzmann, di discuterne il processo e i principali risultati.

Da quali bisogni e con quali scopi è nato il progetto europeo “Access to Specialised Victim Support Services for Women with Disabilities who have experienced Violence”?
• Per esaminare se i Paesi partecipanti (Austria, Germania, Islanda, Regno Unito) adempiono ai loro obblighi nazionali come affermati nella Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità, nella Convenzione ONU sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna e in altri strumenti legali e misure tese alla protezione delle donne non disabili, e in particolare delle donne con disabilità che hanno subito violenza.
• Per individuare se e quali servizi specializzati di supporto alle vittime (ricoveri, servizi di aiuto telefonico, servizi di consulenza, ecc.) offrono servizi per donne con disabilità che hanno subito violenza.
• Per scoprire quali sono i bisogni e gli interessi specifici delle donne con disabilità in relazione alla violenza.
• Per analizzare se le donne con disabilità sono consapevoli dei loro diritti e del supporto disponibile se hanno subito violenza.
• Per analizzare se le donne con disabilità che hanno subito violenza accedono alla e fanno uso della gamma di servizi mainstream e risorse forniti da attori governativi e non governativi, e se ottengono l’assistenza che si aspettano.
• Per scoprire se questi servizi hanno le risorse necessarie per rivolgersi ai bisogni e agli interessi speciali delle donne con disabilità.
• Per individuare e sviluppare esempi di buone pratiche per l’accesso senza barriere a servizi specializzati di supporto alle vittime in relazione ai bisogni individuati nelle donne con disabilità.
• Per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo tema, che rimane tabù.
• Per facilitare e rafforzare la messa in rete tra fornitori di servizi alla disabilità e strutture specializzate di supporto alle vittime.
• Per generare una nuova base di conoscenze e raccomandazioni da cui strutture specializzate di supporto alle vittime, fornitori di servizi alla disabilità, decisori politici ai livelli nazionali e UE e altre parti interessate che lavorano nel campo possano trarre conclusioni e informazioni su come migliorare i servizi per le donne con disabilità che hanno subito violenza.
• Per fornire una voce alle donne con disabilità, che sono tradizionalmente emarginate dalla ricerca mainstream e sulla disabilità.

Quali sono le difficoltà più rilevanti che le donne con disabilità affrontano nel chiedere aiuto, ai parenti e ai servizi, quando subiscono violenza?
Un formidabile schieramento di barriere è stato individuato dalle donne disabili quando hanno provato ad assicurarsi assistenza e una vita libera dalla violenza. Le donne erano sovente dipendenti dagli autori delle violenze per l’assistenza nelle proprie vite quotidiane, sia in casa che in contesti istituzionali. Erano spesso titubanti nel denunciare gli autori delle violenze nel caso in cui non fosse disponibile un’appropriata assistenza alternativa. I fornitori di servizi specializzati spesso hanno creato barriere all’accesso; alcune donne non sono state credute o sono state ignorate, ci sono state mancanza di informazioni accessibili, servizi inaccessibili, atteggiamenti negativi da parte del personale del servizio o mancanza di finanziamenti per un supporto accessibile.
Tuttavia, i servizi di supporto formale o informale sono stati anche fonti vitali di supporto, e tutte le donne disabili intervistate hanno concordato sul fatto che siano importanti. Ciononostante, il supporto nei diversi paesi è stato sperimentato in diversi modi. Donne disabili hanno riferito di non essere state prese sul serio o di non aver ricevuto assistenza adeguata, a causa di carenza di conoscenze sulla disabilità o del necessario accesso a risorse. In tutti i Paesi, sono stati particolarmente utili i servizi specializzati informali, compresi peer counselling, movimenti di empowerment, corsi di autodifesa e gruppi di auto-aiuto. Complessivamente, poche donne hanno denunciato la violenza alla polizia, e la maggioranza di loro non sono state prese sul serio.

Quali sono le difficoltà specifiche per le donne con disabilità nel percepire che stanno subendo violenza, specialmente se di tipo psicologico?
Tutte le donne che abbiamo intervistato hanno parlato di esperienze post-traumatiche. Alcune di loro sono state capaci di parlare delle loro esperienze di violenza solo dopo molti anni. La maggior parte delle donne hanno ricevuto assistenza psicoterapeutica o psicologica per anni; spesso la violenza ha peggiorato le loro disabilità o menomazioni, o è stata la causa di problemi di salute mentale.

Quali sono le principali difficoltà per i servizi di assistenza alle donne vittime di violenza nell’ospitare e gestire donne con disabilità? E quanto queste difficoltà sono motivate da carenza di risorse finanziarie piuttosto che da carenza di riconoscimento di bisogni specifici?
Molti servizi hanno risposto che sentono di non avere abbastanza conoscenza sulle diverse forme di violenza a cui le donne con disabilità sono esposte, specialmente quelle che vivono in centri residenziali o semi-residenziali. Il progetto era basato su una definizione di violenza molto ampia: oltre alla violenza fisica, psicologica, sessuale, erano incluse anche la violenza strutturale e istituzionale. Tutte le donne con disabilità hanno fatto riferimento alla violenza fisica e psicologica e moltissime alla violenza sessuale. La maggioranza delle donne hanno parlato anche di casi di discriminazione nelle proprie vite quotidiane e del sentirsi molto dipendenti da badanti o membri della famiglia.

Di che cosa hanno più bisogno le donne con disabilità che sono state vittime di violenza per acquisire una nuova prospettiva per le proprie vite?
Dal punto di vista delle donne, l’assistenza personale sarebbe molto utile per essere più indipendenti e in grado di prendere decisioni proprie. Anche il peer counselling è stato citato molto spesso: le donne apprezzerebbero essere assistite/consigliate da donne che conoscono le loro situazioni di vita.
In generale, tutte le donne hanno espresso l’interesse al fatto che tutta la società sia più inclusiva, e che le donne con disabilità abbiano uguali possibilità e opportunità di prendere parte alla vita pubblica e privata a tutti i livelli e in tutte le aree.

Dall’esperienza che avete ricavato durante tutto il progetto, ritenete meglio (e più facile) avere nuovi servizi specializzati nella violenza sulle donne con disabilità, oppure estendere l’accessibilità dei servizi generali di supporto contro la violenza sulle donne e/o la specializzazione nella violenza di genere dei servizi generali di supporto per le persone con disabilità?
Dalle nostre esperienze, ci sono due elementi: la maggior parte delle donne raccomanda con forza di rendere i servizi generali di supporto alle vittime più accessibili (ridurre una grande varietà di barriere: es. ambientali – ascensori, bagni accessibili, sistemi di guida – e di accesso all’informazione – sito web, opuscoli anche in audio, lingua dei segni o scrittura semplificata, ecc.) e più consapevoli e sensibilizzati (personale formato su violenza e disabilità, più donne con disabilità che lavorano nei servizi…).
Peraltro, le donne hanno sottolineato pure l’interesse al fatto che, in aggiunta, occorrano anche “servizi specializzati per donne con disabilità che hanno subito violenza”, es. in Austria, come “esempio di buona pratica”, NINLIL (www.ninlil.at).
Le donne hanno anche evidenziato che le organizzazioni per le persone con disabilità (centri residenziali, centri di cura, laboratori per persone con disabilità, ecc.) e le organizzazioni di utenti dovrebbero essere più consapevoli della violenza specifica di genere e stabilire meccanismi per la protezione e la prevenzione della violenza. Le donne hanno affermato che al momento le donne con disabilità che subiscono violenza non sono supportate a sufficienza né dai servizi di supporto alla vittima (concentrati principalmente sulla violenza domestica verso le donne non disabili) né dalle organizzazioni per le persone con disabilità (non concentrate affatto sulla violenza specifica di genere).

Dal progetto è emersa la necessità di ridefinire la nozione di violenza psicologica, includendo forme più sottili collegate alla condizione di dipendenza dagli altri (senza con ciò includere qualunque forma di conflitto relazionale)?
Alle donne con disabilità è stato chiesto di definire la violenza a partire dalle loro percezioni ed esperienze. Per molte donne la violenza è onnipresente e ovunque; specialmente quando si tratta di violenza psicologica, è a volte difficile tracciare una linea e fare distinzioni tra violenza strutturale/discriminazione, violenza istituzionale e violenza psicologica – es. le donne che vivono o hanno vissuto in istituzioni hanno riferito la violazione al loro diritto a privacy e autonomia. Un risultato del progetto è che le forme di violenza contro le donne con disabilità sono più complesse e plasmate da caratteristiche aggiuntive, come la violenza specifica sulla disabilità (impotenza relativa, la percezione che le donne non potessero rispondere, il grado di controllo esercitato sulle donne, il fatto che ausili motori fossero eliminati o resi inefficaci o che le donne fossero iper-medicate).

Quali sono le principali differenze che avete osservato tra i 4 Paesi (Austria, Germania, Islanda, Regno Unito) coinvolti nel progetto?
In generale si può affermare che in tutti i Paesi partecipanti si sono ricavati risultati simili in termini di diverse esperienze di violenza e strutture di supporto (supporto formale e informale, barriere, raccomandazioni). Tuttavia, si sono potute individuare alcune differenze specifiche nazionali rispetto ad aree di interesse. In Islanda, ad esempio, sono state più discusse le questioni della sterilizzazione forzata e della tutela; nel Regno Unito sono stati sollevati come un problema i matrimoni forzati o combinati in collegamento con donne nere o di minoranze etniche; in Germania, ad esempio, ci si è rivolti alle donne con disabilità che vivono in istituzioni, che sono molto isolate e raramente in grado di cercare aiuto al di fuori dell’istituzione; in Austria è stato significativo che la maggior parte delle donne intervistate fossero state esposte a violenza sessuale nella prima infanzia, e i padri fossero la maggior parte delle volte gli autori della violenza.

Quanto è importante l’azione sul contesto culturale per ridurre l’esposizione delle donne con disabilità a forme di violenza, e quali azioni concrete si potrebbero intraprendere in merito?
La dimensione culturale è interessata in tutti i Paesi, dato che l’argomento “violenza contro le donne con disabilità” è ancora tabù entro le loro società. In tutti i Paesi le donne con disabilità si sono sentite economicamente e socialmente svantaggiate, con possibilità e opportunità molto limitate di prendere parte alla vita pubblica. In particolare le donne con disabilità, perfino in confronto con gli uomini con disabilità, sono quasi escluse dal mercato del lavoro e sono molto dipendenti finanziariamente dai fondi pubblici; molte donne sono colpite dalla povertà. Tutte le donne hanno richiesto in modo sostanziale l’uguaglianza di genere e l’inclusione delle donne con disabilità.

Il rapporto finale rivolge molte raccomandazioni alle politiche UE e nazionali, ai servizi per la disabilità e a quelli specializzati nel supporto alle vittime, alle organizzazioni di persone con disabilità e a quelle di utenti. Quali tra esse pensate siano più importanti e urgenti da realizzare nei Paesi europei?
Francamente parlando, penso che tutte quelle raccomandazioni siano importanti e tutte le organizzazioni e i livelli a cui ci si rivolge siano significativi agenti di cambiamento. Ritengo che debbano essere prese iniziative da entrambi i lati – dal livello politico e da quello di base –, è necessario un approccio cosiddetto top-down e bottom-up. Dal mio punto di vista, anche il ruolo della società è essenziale. C’è bisogno di una cultura che promuova l’inclusione a tutti i livelli e in cui l’uguaglianza e le eguali possibilità non siano solo frasi vuote – e perciò la politica deve fornire il quadro rispettivo e deve essere sostenuta dai media.

13. Ripensare le politiche pubbliche e il ruolo dei servizi

di Raffaele Monteleone, docente di Politiche Sociali – Laboratorio di Sociologia dell’azione pubblica “Sui generis”, Università degli Studi di Milano-Bicocca

Sono davvero onorato di partecipare a questo primo incontro nazionale su come “inventare e gestire percorsi di uscita dalla violenza per donne con disabilità”. Cercherò di prendere questo mandato in modo un po’ laterale, discutendo di quello che so e vedo nel mio lavoro quotidiano di ricerca, che incrocia – purtroppo e con una certa frequenza – i punti di debolezza del sistema di presa in carico del nostro welfare.
Mi ha molto colpito il fatto che il tema della violenza sulle donne con disabilità, discusso e rappresentato dalle diverse voci che hanno contributo a questo dialogo molto fertile, emerga come un tema affatto specialistico, nel senso che le questioni che sono state poste hanno una portata assolutamente generale: costituiscono delle sfide con cui ripensare nel complesso le politiche pubbliche che cercano di dare risposte alle persone colpite non solo da disabilità, ma – più in generale – da forme di fragilità sociale.
Il tema della violenza sulle donne con disabilità, di fatto, illumina questioni di interesse generale e temi che dovrebbero trovare collocazione all’interno di un dibattito pubblico ampio e aperto.
Credo che sia necessario, innanzitutto, elaborare gli strumenti per riconoscere i problemi, nominarli e parlarne pubblicamente, di questo sentiamo tutti un gran bisogno. Penso infatti che la questione del riconoscimento pubblico di alcune delle questioni toccate sia centrale, perché permette di lavorare sulla costruzione di una cultura diffusa che sappia fare prevenzione della violenza e che renda la società molto più accogliente sul terreno dell’inclusione delle persone con disabilità. Diversi interventi hanno toccato questo punto, a partire da quello dell’assessore Majorino, che ha sottolineato quanto sia importante costruire percorsi di formazione: oltretutto anche chi si occupa di violenza di genere e disabilità deve ripartire da capo, perché non è certo che sia attrezzato – più di tanto – a confrontarsi con la complessità delle situazioni; bisognerebbe, poi, immaginare percorsi di formazione rivolti alle famiglie, così come agli operatori, professionali e non, perché agire per contrastare forme di violenza sulle donne con disabilità vuol dire, per esempio, fare formazione rivolta ai famigliari di persone con disabilità, che rischiano di conoscere la violenza all’interno delle mura domestiche; in secondo luogo una questione cruciale è la formazione di chi opera nel mondo dei servizi: bisognerebbe fare un grande sforzo, per cercare di sorpassare quella cultura dell’autoreferenzialità dei professionisti che sono sistematicamente abituati (e addestrati) a operare su problemi complessi con forme di riduzionismo specialistico.
I problemi complessi, in quanto tali, richiederebbero forme di intervento non di tipo riduzionistico; questi problemi non sono trattabili in modo adeguato con quello che il sistema dell’offerta attualmente è capace di offrire e nemmeno con gli strumenti d’intervento che ciascuno a livello operativo ha a disposizione o riconosce come concretamente disponibili.
I servizi un po’ dappertutto (a nord come a sud) lavorano poi per competenze d’intervento molto separate; questa separazione a volte si trasforma nel gioco dello scarica barile: “se sei un disabile non certificato forse non devi parlare con me”, “se sei una donna vittima di violenza forse non devi parlare con me”. Ma sappiamo, per esperienza, che quasi tutte le situazioni che prevedono degli interventi da parte dei servizi sono, nel caso delle donne con disabilità vittime di violenza (ma non solo), delle situazioni assolutamente al confine, molto poco standard nella loro ordinarietà. Ecco, le politiche pubbliche dovrebbero costruire contesti e strumenti per intervenire in modo personalizzato: non si possono assumere i punti di partenza delle persone come eguali perché non lo sono affatto, e questa oltretutto rappresenta una forma di discriminazione istituzionale.
Se vogliamo davvero parlare di empowerment e se c’è un punto da cui partire, è quello di costruire sistemi di presa in carico che siano davvero orientati alla capacitazione degli individui. Di fatto, i sistemi istituzionali tipicamente sono incapacitanti, sottraggono capacità, non riconoscono risorse pur presenti e non sanno costruire condizioni di integrazione e sinergia tra diversi interventi. Mi ricollego all’intervento di Nadia Muscialini, è bellissimo ciò che ha detto: “le organizzazioni dovrebbero essere dei mezzi per raggiungere dei fini”, ma la cosa capita raramente, sembra piuttosto che le organizzazioni siano attivamente impegnate per non cambiare, presidiando i propri terreni e i propri confini, in cui si fanno sempre le stesse cose, magari sempre di più, perché quello che viene semmai richiesto è di avere più risorse per fare sempre le stesse cose al di là di una valutazione ragionevole su quello che producono. Dovremmo auspicare, invece, un cambiamento di mentalità (e di culture organizzative): gli operatori pubblici e privati, professionali e non dovrebbero ragionare sulle proprie organizzazioni concependole come mezzi e non come fini in sé, mettendo al centro la complessità delle vite delle persone che dovrebbero sostenere e supportare.
Queste sono alcune delle sfide che ho cercato di mettere insieme in modo rapido e che, invece, bisognerebbe imbastire e riordinare un po’ in vista di un futuro incontro nazionale. Occorre capire fino a che punto siamo, come collettività, attrezzati per rendere i dettami della Convenzione internazionale sui diritti delle persone con disabilità un riferimento stringente per fare e valutare le politiche, in senso generale e nel caso in cui alle limitazioni derivanti dalla disabilità si aggiungano anche le fragilità legate alla violenza di genere.

12. La Rete delle donne AntiViolenza Onlus (RAV) di Perugia

di Anna, Francesca, Paola, Silvana, Stefania, Silvana e tutte le altre della Rete delle donne AntiViolenza Onlus (RAV) di Perugia

La Rete delle donne AntiViolenza Onlus (RAV) di Perugia ha potuto portare al workshop di Milano solo un rapido saluto (fatali le coincidenze ferroviarie!) diretto a confermare che la violenza degli uomini sulle donne non tiene conto delle diversità funzionali, anagrafiche, di quelle linguistico-culturali… ma viene esercitata con la stessa arrogante, a volte impalpabile, ma non meno devastante ferocia, su ciascuna di noi per una questione di genere, solo per il fatto che apparteniamo al secondo sesso.
In quell’occasione è stato anche consegnato a Pierfrancesco Majorino, assessore alle Politiche sociali e Cultura della salute del Comune di Milano, il poster autoprodotto dalla RAV “Posto occupato”, iniziativa nazionale cui l’associazione ha aderito, a monito che in quello spazio (sedile del cinema o teatro, luogo di lavoro, fermata di autobus, parcheggio, propria abitazione, consiglio comunale, ecc.) avrebbe potuto sedere/trovarsi una donna, la cui esistenza è invece stata spazzata via da mariti, compagni, vicini di casa, uomini convinti del loro potere assoluto e pienamente giustificati dalla mentalità diffusa che pone il genere maschile in posizione preminente. 
Come spesso accade, ignoriamo avvenimenti che ci fa male ammettere, o di cui più semplicemente non sappiamo l’esistenza perché non rientrano nell’insieme delle relazioni personali, sociali cui quotidianamente siamo immerse. Con amarezza riconosciamo che ciò è valido anche per il fenomeno, culturalmente occultato, della violenza di genere esercitata sui corpi difformi nel fisico, nelle funzioni sensoriali o mentali delle donne con disabilità.
La Rete delle donne AntiViolenza Onlus di Perugia nasce nel 2009 a Perugia e cresce con il contributo di donne provenienti da esperienze diverse, in rete comunque, con l’obiettivo – per tutte – di giungere al superamento della violenza di genere.
Le nostre azioni sono rivolte al contrasto della violenza e delle discriminazioni maschili sulle donne in quanto donne, con disabilità, con diversi orientamenti sessuali, appartenenti alle minoranze etniche, religiose o linguistiche.
Lavoriamo per: sostenere le donne che sono state segnate dalla violenza di genere, che vengono coinvolte in gruppi di parola e auto mutuo aiuto; attivare azioni di sostegno quale, ad esempio, la partecipazione come volontarie all’estensione alle 24 ore del telefono donna regionale; promuovere l’autoformazione continua e aperta, su richiesta, ad altre associazioni; realizzare progetti formativi e di sensibilizzazione nelle scuole di ogni ordine e grado.
Riconoscere che ogni atto di discriminazione o di violenza sulle donne costituisce una violazione dei diritti fondamentali dell’essere umano, è sicuramente una affermazione di principio di grande importanza, in quanto crea una connessione tra forme di violenza apparentemente assai lontane e diverse tra loro, come le mutilazioni genitali femminili, i delitti d’onore, la violenza economica, il mobbing sul lavoro, gli atti persecutori, accomunandole tutte come violazioni della dignità delle donne.
Numerose e insospettabili sono le situazioni di violenza rivolte a donne che vivono con la disabilità, incontrate nel corso della nostra esperienza diretta a supporto delle donne segnate dalla violenza, o raccolte in forma indiretta nel rapporto quotidiano con servizi sociali, scuole, con la realtà quotidiana nei nostri territori (Perugia e il suo comprensorio).
Le storie si possono raggruppare in tre aree:
– donne adulte con disabilità congenita o acquisita che all’interno della relazione sentimentale/familiare si trovano a subire oltraggi psicologici che portano alla diminuzione, annullamento della loro autostima, e/o maltrattamenti e percosse che ne indeboliscono la già precaria condizione di salute;
– preadolescenti o adolescenti che vengono circuite da coetanei o adulti che prestano loro attenzione con finalità di scherno o stupro. Tra queste poco più che bambine, in ben due storie, abbiamo nutrito il forte sospetto che la violenza fosse bonariamente esercitata dal padre così da poter garantire una vita sessuale normale anche a quelle figlie sfortunate;
– infine, ci interessa portare all’attenzione le storie di donne adulte, madri di minori e non con disabilità, che vedono la loro maternità, manifestatasi in modo imperfetto, punita con violenze fisiche/stupri, con continue denigrazioni a livello psicologico o con l’abbandono (diffusissimo), per relazioni meno problematiche e paternità meno responsabilizzanti.
Infine sul tema specifico del workshop milanese, la Rete ha iniziato da alcuni anni, a Ponte Felcino, una frazione di Perugia che presenta una realtà multiculturale e socialmente variegata, un gruppo di parola e di espressività corporea, rivolto a donne che vivono situazioni di difficoltà. Inoltre, nella sede presso la casa dell’associazionismo di Perugia e con le donne provenienti dal centro antiviolenza, abbiamo avviato gruppi di Auto Mutuo Aiuto rivolto a donne vittime di violenza. A tal fine abbiamo anche allo studio forme di cohousing.
Ci piacerebbe proporre di realizzare proprio a Perugia la seconda edizione del workshop “Donne con disabilità: inventare e gestire percorsi di uscita dalla violenza”, in una data tra il 24 novembre e il 1° dicembre 2015.

Per contatti:
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