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Autore: Nicola Rabbi

11. Il bisogno di essere considerate come le altre, anche nei casi di violenza

Intervista a Laura Raffaeli a cura di Simona Lancioni

Laura Raffaeli quando aveva 42 anni, in seguito a un incidente stradale, ha riportato due disabilità sensoriali: è divenuta completamente cieca e ha perso metà dell’udito. Questa nuova condizione l’ha indotta a impegnarsi su molti fronti: è attiva sui temi della sicurezza e della prevenzione degli incidenti stradali. Ma soprattutto ha fondato la Onlus Blindsight Project (http://blindsight.eu) con la quale porta avanti molte rivendicazioni (dall’abbattimento delle barriere sensoriali, a diverse campagne informative: sul cane guida, per i passaggi pedonali liberi, per l’audiodescrizione delle opere cinematografiche e teatrali, ecc.), gestisce con altre donne Pink Blindsight (www.pinkblindsight.net/), scrive libri. Dai suoi scritti, nel 2011, è stato tratto uno spettacolo teatrale, Laura per tutti, nel quale, tra le altre cose, con grande coraggio, racconta dello stupro subito dopo essere diventata cieca e ipoudente. Laura c’era al workshop di Milano, portando soprattutto l’attenzione sul tema della prevenzione, dell’educazione e della formazione.
Riportiamo una sua intervista rilasciata recentemente al Gruppo Donne UILDM.
Il tema della violenza nei confronti delle donne con disabilità è poco noto anche a coloro che sarebbero chiamati a dare risposte a questo fenomeno (pronto soccorso, centri antiviolenza, forze dell’ordine, consultori, ecc.). Attraverso quali iniziative pensi che si potrebbe aumentare la conoscenza e l’attenzione a questo tema? Non solo tra gli operatori, ma in generale?
Certo che si può aumentare la conoscenza e l’attenzione su questo tema, basta decidere di farlo, ma sul serio, e una volta per tutte! Non serve più il seminario, il convegno, l’articolo, ecc., perché ormai lo sappiamo tutti che è in atto un vero massacro di donne, sia dentro, che fuori casa, e quasi sempre per i più futili motivi, perché in realtà non esiste un motivo per violentare, abusare o stuprare qualcuno. Bisogna che tutti coloro che hai citato diventino consapevoli del fatto che tra le donne che si rivolgono a loro (almeno quando lo fanno) esistono anche le donne disabili. Che tra queste donne ci sono anche quelle che camminano, capiscono tutto, muovono tutto ma non vedono o non sentono nulla, o davvero poco per potersi difendere e, soprattutto, farsi comprendere. Quindi la mia proposta è mettere un punto, investire tutto il denaro destinato in spot e altre iniziative, direi inutili (visti i risultati), in formazione. Una formazione che anche la Blindsight Project potrebbe offrire (considerando che già svolge tale attività gratuitamente, dal 2006). Mi preme dire che da anni Blindsight Project in collaborazione con CulturAbile ha presentato un progetto di questo tipo al Ministero degli Interni, proponendo corsi di LIS, di comportamento con le persone disabili sensoriali, dell’uso di sottotitoli e audiodescrizioni per ogni video pubblicato da loro (in genere si tratta di video su temi importanti come, ad esempio, l’antifrode, la sicurezza stradale, e anche la violenza), ma, per cominciare, stiamo spettando la loro autorizzazione, che ancora non è arrivata nonostante l’interesse dimostrato e la voglia di realizzare quanto da noi proposto fosse davvero importante. Ecco, basterebbe cominciare dalle forze dell’ordine. Infatti, una volta informate queste, dovrebbe essere facile diffondere il messaggio a tutti gli altri servizi, o almeno spero. Al momento solo uno su un milione sa cosa fare di fronte a una donna sorda o cieca in difficoltà. Lo stesso vale per tutti gli altri disabili sensoriali.

Pensi che le donne con disabilità sensoriale siano sufficientemente informate e sensibilizzate a questo tema?
Penso proprio di sì, ciò che manca a noi donne disabili sensoriali non è la consapevolezza del pericolo o del cosa fare in caso di violenza. Ciò di cui avremmo bisogno è, come dicevo prima, essere considerate come le altre anche quando andiamo a denunciare, o ci rivolgiamo a un centro antiviolenza, spesso inadeguato ad esempio ad accogliere una donna sorda, o impreparato sul comportamento da tenere con una persona cieca. Vorrei che non fossimo come tutte le altre solo per ricevere le violenze, che nel nostro caso difficilmente vengono denunciate soprattutto per i motivi a cui ho accennato. A volte per noi è già difficile affrontare una giornata normale in mezzo a tanti vedenti ignari, figurati quante volte è necessario pensarci prima di decidere di sottoporsi alla polizia o a un pronto soccorso.


A tuo giudizio, quali sono le maggiori difficoltà che incontra una donna con disabilità sensoriale nel momento in cui decide di chiedere aiuto a qualcuno?
L’inaccessibilità e l’ignoranza, intesa come ignorare completamente le esigenze di chi non vede o non sente. Uno dei tanti esempi che posso portarti riguardo a chi è sorda è il problema della lingua. La LIS in questa nazione, come a Malta, non è ancora riconosciuta quale lingua ufficiale per le persone sorde, ne consegue che questa donna, se volesse rivolgersi a qualcuno, dovrebbe pagarsi pure l’interprete, e sai quante volte bisogna ripetere la stessa cosa, a vari personaggi, quando si decide di denunciare! Per chi è cieca c’è il problema dell’identificazione nel caso di uno sconosciuto, e dicendola tutta, con chi non vede o vede quasi niente, anche se l’aggressore non è sconosciuto spesso non si dichiara, e rimane comunque una testimonianza basata su percezioni tattili e olfattive (a volte più importanti di quelle visive, ma non tutti lo sanno, o lo capiscono). Soprattutto una donna cieca che ha subito violenza è più disorientata di una donna che vede, andrebbero quindi usati modi e maniere tali da poterla riportare, per quanto possibile, in un luogo diverso, quindi bisognerebbe dirle subito dove si trova, cosa c’è e chi ha intorno, chi sono le persone lì presenti e quale sia il loro ruolo, insomma con calma lei dovrebbe per prima cosa localizzarsi in un altro posto, diverso da quello impresso nella mente, e che non dimenticherà più. Le cose da fare sono varie, basta saperle, basta informarsi, non è giusto che le donne italiane con disabilità sensoriali del terzo millennio debbano ricordare che esistono e chi sono!

A cosa è necessario prestare attenzione quando si vuole progettare un ambiente o un servizio (ad esempio i centri antiviolenza, i pronto soccorso, i consultori, le stazioni di polizia, ecc.) per persone con disabilità sensoriali?
Credo basti attenersi alle regole della Convenzione Onu per le Persone con Disabilità, ratificata da un bel po’ d’anni [con la Legge 18/2009, N.d.R.] ormai anche dall’Italia (perché credo sia inutile ratificare la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica [del 2011, N.d.R.], se ci si scorda di quella che include tutte le donne disabili), e aggiungo che non sono documenti privati, sono testi che chi opera in questi settori dovrebbe conoscere, in modo scontato, dovrebbero far parte del loro bagaglio di conoscenza, del loro curriculum, altrimenti sarebbe come dover ricordare alla Polizia Stradale che esiste il Codice della Strada. Quindi è necessario procedere con l’abbattimento delle barriere sensoriali e con brevi corsi di formazione mirati sulle disabilità sensoriali al personale addetto, rivolti a tutti, dalle forze dell’ordine ai medici, dagli assistenti sociali agli psicologi. Una barriera sensoriale sconosciuta, ad esempio, è rappresentata dai vetri degli sportelli: infatti se non sono chiari e ampi impediscono la lettura del labiale a una persona sorda (che anche se segnante comunque legge se si scandiscono bene le parole, pure sottovoce). Un’altra barriera sensoriale sono i numeri verdi o di soccorso che non consentono di chattare. Rimane comunque il problema che chi non ha uno smartphone ed è sorda dovrebbe poter chattare da un computer. In un ambiente è sempre meglio mettere delle guide in terra (o loges), ma mi rendo conto che sono troppi i centri antiviolenza che hanno subito tagli e non ricevono i fondi necessari al loro importante compito, quindi, in questo caso, riguardo le disabilità visive, basterà avere il comportamento giusto, ma anche un sito web realmente accessibile, la stessa cosa vale per una eventuale applicazione. Ne approfitto per ricordare a tutti che le persone cieche o ipovedenti possono firmare, una cosa questa che, solo per ignoranza della legge, crea imbarazzi, disagi, panico tra chi richiede una firma, e rabbia da parte di chi dovrebbe metterla [Legge 18/1975, N.d.R.]. Vorrei concludere con un altro degli innumerevoli esempi che potrei portare: i documenti devono essere accessibili per legge, intendo moduli da compilare, da leggere, da firmare, ed è anacronistico l’uso del fax e del cartaceo, quando non è strettamente necessario o espressamente richiesto.

Pensi che le associazioni che si occupano di disabilità possano avere un ruolo nella prevenzione e nel contrasto alla violenza nei confronti delle donne con disabilità? Se sì, di che tipo?
Penso che tutti abbiamo la possibilità di avere questo ruolo, anzi dovremmo quasi imporcelo, ma tra le associazioni di categoria ovviamente quello che si può fare è unire le forze per avere ciò che dovrebbe già esistere, molto è quanto già detto qui. Naturalmente il tema della violenza è un tema che non colpisce solo la nostra nazione, va detto però che qui da noi siamo così indietro con le azioni utili, che ancora dobbiamo ricordare che non tutte le donne sono uguali, già questo non è un bel segno, anche se la voglia di cambiare e di fare ce l’abbiamo in tante (e sottolineo il femminile, visto che finora non siamo mai state presidenti della Repubblica o del Consiglio). Andrebbe quindi dimenticato questo strano modo di fare volontariato del tutto italiano. Riferendomi alle associazioni, vorrei dire loro che non esiste il più bravo, forse esiste solo chi prende più soldi di altri, ma questo non importa, ciò che importa è che si sia uniti davvero per risolvere almeno il problema dell’inaccessibilità, oltre a quello dell’ignoranza nei confronti delle disabilità sensoriali

Manifesti, volantini, filmati, spot, iniziative via web e nei social… Se decidessimo di realizzare una campagna per sensibilizzare al tema della violenza nei confronti delle donne con disabilità, e volessimo che questa fosse accessibile anche alle donne con disabilità sensoriali, quali sarebbero i formati e i supporti più adatti a veicolare il nostro messaggio?
Documenti accessibili (soprattutto i pdf) come vuole la Legge Stanca, e pertanto fruibili anche da chi usa screen reader. Audiovisivi di qualsiasi formato, ma necessariamente con sottotitoli, audiodescrizione e trascrizione in testo accessibile, come vuole la Convenzione Onu. Eventuali siti web costruiti anch’essi in conformità alla Legge Stanca, lo stesso vale per le applicazioni e tutto ciò che riguarda l’informatica, lo spettacolo e il web.

Nella tua esperienza di blogger e scrittrice, là dove hai affrontato il tema della violenza, hai avuto dei contatti, sostegno, interesse da parte delle associazioni o gruppi femministi e femminili? Se sì, quale relazione si è instaurata, ha portato a qualche risultato concreto? Se no, sempre che ti sembri interessante e importante, su cosa e come attivarla per avere un comune terreno di lavoro e una condivisione d’intenti?
No, nessun contatto da nessuna associazione o gruppi; infatti ho dato vita a Pink Blindsight, proprio perché avevo capito che, anche se è assurdo, bisogna ricordare che esistiamo anche noi donne cieche o sorde tra le donne che subiscono gli stupri, e che forse tra noi sono addirittura più frequenti, sebbene non siano quasi mai denunciati. La cosa che proprio non capisco è che dobbiamo ricordarlo anche alle altre donne. Con Pink Blindsight ho cercato di fare una rete, qualcuna ha cominciato a parlarne, e a quel punto tutte si sono mostrate interessate e contente di sapere, eppure fino a quel momento non era emerso niente. Del resto ho rotto un silenzio, non ti nascondo che l’ho fatto con grande dolore, ma forse per istinto materno ho pensato a quante adolescenti, a quante giovani donne come me passano gli stessi momenti, spesso dentro casa, e mi sono sentita una stupida a non aver detto prima a tutti… quante volte si può morire.

Hai qualche considerazione da aggiungere su questi temi?
Sì, vorrei che si prendesse in considerazione la differenza tra chi è nata disabile e chi lo è diventata, anche se da bambina, perché sono mondi simili ma molto diversi. Poi vorrei che tutti gli addetti al soccorso e al recupero contattino Blindsight Project, o me stessa direttamente, prima di spendere soldi in un locale, o per qualche attrezzatura che qualcuno spaccia per abbattimento di barriere, ma soprattutto per sapere come comportarsi e cosa fare in caso di sordità o cecità. Infine mi piacerebbe che le donne si conoscessero tutte tra loro, una volta per tutte e senza tanti raduni o convegni. Nel web ci siamo tutte, basta fare rete.

(Fonte: www.uildm.org/wp-content/uploads/2010/03/ViolenzaIntervistaRaffaeli.pdf) 

10. Fior di Loto: le reti informali per rispondere all’emergenza

di Laura Stoppa, psicologa, Giada Morandi, coordinatrice  e responsabile del progetto, e Sabahe Irzan, presidentessa di Verba (www.associazioneverba.org) 

Il fior di loto nasce da un seme che attecchisce immerso nel fango – sinonimo di ciò che è materiale, attaccamento, desiderio, avidità, odio, illusione – al buio come è l’ignoranza che non consente di individuare con chiarezza la verità nella vita. La semenza, però, cresce verso l’alto, attratta dal calore e dalla luce del sole così come gli esseri umani crescono ricercando per natura l’amore, la compassione, il vero. Il fiore rimane ancorato con le radici, ma si muove liberamente secondo il flusso di acqua, come succede ogni istante nell’evoluzione di ogni situazione.
In Oriente, questo fiore ha un profondo significato: rappresenta la purezza e il potere creativo in un ambiente avverso, la sapienza divina, il progresso interiore della coscienza dell’individuo verso il livello superiore ma, per via del suo generarsi spontaneamente, ricorda la nascita divina e la fertilità.
Per questi motivi, l’ASL TO1 – SSD Consultori Familiari e l’Associazione Verba hanno scelto “Il Fior di Loto” come nome e simbolo del nuovo ambulatorio ginecologico avviato presso il Poliambulatorio Valdese in via Silvio Pellico 28 a Torino, con l’obiettivo di garantire l’accesso alle prestazioni sanitarie ginecologiche anche alle donne con disabilità grave. Tale esigenza è emersa a seguito di una ricerca effettuata in collaborazione con il Dipartimento ad attività integrata di Ematologia e Oncologia dalla quale è emerso che le donne con disabilità grave, maggiormente esposte al rischio di insorgenza di tumore, fossero nello stesso tempo quasi escluse dai normali screening di prevenzione a causa dell’inadeguatezza delle strutture preposte. Grazie a questo privilegiato punto d’osservazione è emerso un secondo terribile fenomeno, la violenza contro le donne con disabilità. Così, come per lo screening preventivo, si è messa in moto la nostra macchina che ha portato alla creazione di uno spazio d’ascolto per le donne disabili che hanno subito una qualsiasi forma di violenza, da quella psicologica, sicuramente più diffusa, sino a quella fisica o sessuale.
Verba è un’associazione no profit nata nel 1999 che persegue esclusivamente scopi umanitari, sociali, solidali e culturali; si impegna a dare un aiuto spontaneo, volontario e concreto a chi si trova in situazione di bisogno; in modo particolare, con la maggioranza del direttivo e dei soci composta da persone disabili e, più specificamente, donne, orienta la sua attività sulle problematiche della disabilità al fine di promuovere specifiche iniziative nel campo delle pari opportunità e dell’inclusione sociale, cercando allo stesso tempo di contrastare il fenomeno della violenza. L’idea che le donne disabili vengano doppiamente discriminate perché donne e perché disabili è una delle anime dell’agire di Verba.
Una delle peculiarità dell’associazione è il suo lavorare attraverso una rete informale e quindi le difficoltà – emerse in questo workshop – di trovare un’immediata risposta a un’emergenza vengono superate attraverso l’informalità dei contatti che abbiamo instaurato. Crediamo che una donna vada considerata nell’insieme delle sue mille sfaccettature che si intrecciano e che, insieme, vanno a definire la sua unicità. Per questo motivo gli operatori che compongono la nostra associazione e collaborano nel progetto sono professionisti, ma anche volontari, mediatori culturali ed educatori alla pari, importantissima risorsa per superare il pregiudizio e l’iniziale diffidenza che a volte contraddistingue il primo contatto tra persone disabili e non. Se si presenta una donna disabile e straniera, andremo a offrire il nostro aiuto chiedendo la collaborazione di una mediatrice culturale nel rispetto di tutte le sue unicità; se, facendo un altro esempio, una donna vittima di violenza fosse diabetica o senza un arto, cercheremo una struttura che la possa accogliere e che sia attrezzata per offrirle il sostegno e le cure necessarie. Il nostro modo di rispondere, anzi di provare a rispondere senza nessuna presunzione, è proprio quello di lavorare tra le persone, alzare il telefono e insieme cercare la soluzione migliore. È quello che speriamo possa accadere anche con voi, magari superando i confini e chissà se questa rete si possa allargare!

9. L’importanza delle Convenzioni per i diritti umani

di Isabella Menichini, dirigente Settore Disabilità, Salute mentale e Domiciliarità del Comune di Milano

Quest’iniziativa si inquadra nelle giornate milanesi che il Tavolo permanente della disabilità ha deciso di promuovere con l’idea di non ricordare il 3 dicembre, Giornata delle persone con disabilità, in maniera formale, ma con l’intento di promuovere iniziative per diffondere la buona cultura della disabilità e sensibilizzare la cittadinanza ai principi e valori nello stesso spirito che ha spinto la comunità internazionale a istituire la giornata stessa. Si cerca in questo modo di costruire insieme una comunità che sia più consapevole e inclusiva, che accetti e riconosca il valore della disabilità, che non sia discriminante. Sono questi i valori che sono scritti nelle Convenzioni per i diritti umani, ma spesso nella pratica non attuati. Personalmente ho cominciato a lavorare intorno a Giornate della Disabilità come queste oramai più di dieci anni fa e sono sempre più convinta che faccia bene mettere insieme le persone, le teste, le linee, i valori in cui crediamo e provare anche a confrontarci e a darci così qualche obiettivo ulteriore.
Il cammino dei diritti è faticoso; anche tutte le Convenzioni e i patti internazionali sui diritti sociali hanno sempre una clausola che li indebolisce, quella della (in)disponibilità delle risorse finanziarie.
I diritti sociali sono considerati dei diritti sempre un po’ più deboli perché la comunità internazionale ha comunque dovuto riconoscere che la loro implementazione è legata anche alla disponibilità finanziaria di ogni Stato membro. A maggior ragione è bene rimettersi sempre intorno a un tavolo e realizzare delle iniziative che aiutino noi, ma con noi tutti gli attori che sono nella comunità, a capire come possiamo proseguire nel cammino dell’attuazione concreta dei diritti.
Ho vissuto, lo considero un onore, il fatto di essere stata responsabile delegata italiana a New York per la stesura della Convenzione delle Nazioni Unite sulle persone con disabilità e quello dei diritti delle donne con disabilità è un tema che ha reso particolarmente orgogliosa la delegazione italiana.
Mi piace condividere la mia esperienza rispetto all’Articolo 6, che riguarda il tema delle donne e la disabilità. Noi a New York parlavamo come UE, eravamo un’unica voce dell’Europa che presentava le proposte nella sede delle Nazioni Unite. All’interno dell’UE, in realtà, questa idea di inserire un articolo dedicato alle donne con disabilità e quindi alle problematiche specifiche che le donne con disabilità possono portare – quindi il tema delle multi-discriminazioni – era stata introdotta dalla delegazione spagnola contro la quale sono andati un po’ tutti gli Stati, la Gran Bretagna, la Francia… Solo noi italiani l’abbiamo sostenuta.
Ho dovuto combattere non poco, anche all’interno della stessa delegazione italiana, perché ero convinta e lo sono tuttora, che una persona che porta con sé il rischio di esposizione a violenze legate a due condizioni diverse, cioè l’essere donna e l’essere persona con disabilità, ha una condizione che deve essere riconosciuta e in qualche modo presentata come situazione da proteggere e tutelare. Abbiamo avuto questo grande e abbastanza duro confronto, perché in realtà in molti tendevano a dire: “Cerchiamo di andare verso la conclusione, non creiamo problemi, non impuntiamoci su situazioni specifiche, a noi quello che interessa è il tema della disabilità, poi alla fine le persone sono tutte uguali”. Ma così non doveva essere. Devo dire che alla fine, nonostante sia stata una battaglia intensa, l’abbiamo vinta a livello di Comunità Europea. Il nostro portavoce ha dovuto sostenere questa posizione in maniera forte anche rispetto al resto degli Stati. Così è nato l’Articolo 6 e così è nato l’Articolo 16 della Convenzione che, se lo ricordate, è l’articolo dedicato al diritto a non essere sottoposte a nessuna forma di violenza e di maltrattamento e ha un riferimento specifico alle donne e alle bambine, persone minorenni con disabilità. Sono due articoli fondamentali ed è la prima volta che in un testo internazionale legato ai diritti umani vi si fa un riferimento esplicito: è un tema che impegna quindi noi operatori, con questa doppia attenzione al profilo di genere e alla disabilità.
Ultima notizia, che può essere utile, è che nella terza Conferenza internazionale sulla Disabilità di cui ero la coordinatrice scientifica, che si è svolta a Torino nel 2009, per la prima volta è stato introdotto il tema delle multi-discriminazioni. Sono emerse questioni molto interessanti su come rispondere a una serie di criticità e attraverso quali azioni; tra l’altro un gruppo ha lavorato in maniera concreta dando indicazioni su possibili piste di lavoro per costruire situazioni di maggiore inclusione a favore delle donne con disabilità e ridurre il rischio di esposizione alla violenza.
Detto ciò, come direttore di un Settore del Comune di Milano certamente impegnativo ma stimolante, dedicato al coordinamento dei servizi per la disabilità, credo che a partire da questo incontro ci si può anche dare qualche compito, da qui al prossimo anno, che è quello di studiare modalità di formazione dei nostri operatori, per esempio di chi opera nei centri diurni, e di aiutare a capire un po’ meglio quando ci sono segnali di violenza che non viene esplicitata. Credo che su questo si possa impostare un lavoro insieme a quelle istituzioni e associazioni che già su questo terreno sono forti, cioè quelle che si sono occupate di donne. Questo è un impegno che metto sul tavolo volentieri e che possiamo raccontarci il prossimo 3 dicembre.  

La Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità
Articolo 6
Donne con disabilità
1. Gli Stati Parti riconoscono che le donne e le minori con disabilità sono soggette a discriminazioni multiple e, a questo riguardo, adottano misure per garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali da parte delle donne e delle minori con disabilità.
2. Gli Stati Parti adottano ogni misura idonea ad assicurare il pieno sviluppo, progresso ed emancipazione delle donne, allo scopo di garantire loro l’esercizio ed il godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali enunciati nella presente Convenzione.

Articolo 16
Diritto di non essere sottoposto a sfruttamento, violenza e maltrattamenti
1. Gli Stati Parti adottano tutte le misure legislative, amministrative, sociali, educative e di altra natura adeguate a proteggere le persone con disabilità, all’interno e all’esterno della loro dimora, contro ogni forma di sfruttamento, di violenza e di abuso, compresi gli aspetti di genere.
2. Gli Stati Parti adottano altresì tutte le misure adeguate ad impedire ogni forma di sfruttamento, di violenza e di maltrattamento, assicurando, segnatamente alle persone con disabilità, alle loro famiglie ed a coloro che se ne prendono cura, appropriate forme di assistenza e sostegno adatte al genere ed all’età, anche mettendo a disposizione informazioni e servizi educativi sulle modalità per evitare, riconoscere e denunciare casi di sfruttamento, violenza e abuso. Gli Stati Parti assicurano che i servizi di protezione tengano conto dell’età, del genere e della disabilità.
3. Allo scopo di prevenire il verificarsi di ogni forma di sfruttamento, violenza e abuso, gli Stati Parti assicurano che tutte le strutture e i programmi destinati alle persone con disabilità siano effettivamente controllati da autorità indipendenti.
4. Gli Stati Parti adottano tutte le misure adeguate per facilitare il recupero fisico, cognitivo e psicologico, la riabilitazione e la reintegrazione sociale delle persone con disabilità vittime di qualsiasi forma di sfruttamento, violenza o maltrattamento, in particolare prevedendo servizi di protezione. Il recupero e la reintegrazione devono aver luogo in un ambiente che promuova la salute, il benessere, l’autostima, la dignità e l’autonomia della persona e che prenda in considerazione le esigenze specifiche legate al genere ed all’età.
5. Gli Stati Parti devono adottare una legislazione e delle politiche efficaci, ivi comprese una legislazione e delle politiche specifiche per le donne ed i minori, per garantire che i casi di sfruttamento, di violenza e di abuso contro persone con disabilità siano identificati, indagati e, ove del caso, perseguiti.

8. Donne con disabilità e discriminazione multipla

di Rita Barbuto, Direttore DPI Italia (www.dpitalia.org) e Regional Development Officer – DPI Europe (www.dpi-europe.org)

Il genere e la disabilità sono due dimensioni che, nelle realtà che viviamo, quasi nessuno coniuga. Il genere che costituisce, nel bene e nel male, l’elemento fondante delle culture e delle società è eclissato nel mondo della disabilità. Questo oscuramento è alla base, senza ombra di dubbio, delle violazioni dei diritti umani per la persona che è donna e ha una disabilità.
La doppia discriminazione che vivono le donne con disabilità, in quanto donne e in quanto persone disabili, è evidente, ma è difficile farla emergere perché tali donne non hanno le parole per esprimerla e denunciarla. In genere, ogni donna, per cultura e tradizione, nelle società in cui viviamo, è ingessata in un ruolo emarginante e discriminante. In particolare, la donna con disabilità vive in una condizione ancora più difficile poiché, spesso, questo ruolo non le viene neanche riconosciuto: non è un essere umano, non è una cittadina, bensì un essere senza diritti, priva di sesso, corpo, intelligenza, desideri, emozioni.
Nel relazionarsi con il mondo, la donna con disabilità è continuamente esposta ad atteggiamenti e sguardi che le rimandano paura, compassione, pietà, intolleranza; reazioni, queste, che sono profondamente umilianti per il suo essere e la sua persona. Questo vuol dire non essere riconosciute, non essere visibili, in un mondo in cui l’immagine femminile è condizionata da canoni astratti di bellezza e di fascino, che induce a percepire le donne disabili delle donne mancate.
Nell’opinione comune, infatti, la donna disabile ha un corpo asessuato e privo di femminilità. Questo corpo, proprio perché non desiderabile e impersonale, è spesso oggetto di abuso (fisico, sessuale, psicologico, ecc.).
Essere invisibili, trasparenti, vuol dire non essere riconosciute come persona, nella dimensione più intima e profonda della propria identità fisica, emotiva e di pensiero, che esiste in mezzo agli altri in una relazione di reciprocità. I contesti familiari, scolastici, sociali, professionali, ecc. in cui vivono non consentono certo di intrecciare relazioni in cui le donne con disabilità possono viversi pienamente per quello che sono: cioè donne! La donna con disabilità, infatti, fa fatica a trovare conferme negli individui con cui interagisce; anzi è più volte esclusa ed emarginata dai suoi ambienti di vita, e questo le produce un livello di autostima molto basso che condizionerà, nel corso della sua vita, ogni suo pensiero e ogni sua azione, limitandola fortemente nelle possibilità di fare esperienze e di misurarsi non solo con gli altri, ma anche con se stessa. Lo stesso processo di costruzione dell’identità della donna con disabilità viene minato già durante i primi anni di vita quando nel contesto familiare, inconsapevolmente, non ci sono riconoscimenti per la sua femminilità. Infatti, quando nasce una bambina, per lei è già stato disegnato, anche se inconsapevolmente, un progetto di vita, da parte dei genitori, in particolare dalla madre. Questo disegno è un copione che si ripete da secoli: crescerà, andrà a scuola, avrà amici e amiche, diventerà una piccola donna, avrà il fidanzato, si sposerà, avrà figli, ecc. Quando nasce una bambina con disabilità questo disegno viene meno e nel suo percorso di crescita si sviluppa un forte legame di dipendenza dalla figura materna. Il contenimento esclusivo della madre rischia di generare un ritorno all’utero e la bambina con disabilità sarà per sempre la bambina della mamma, dunque un soggetto potenzialmente privo di sessualità adulta. La dimensione della sessualità, già tabù di fondo nella disabilità, non viene qui riconosciuta, al punto che il linguaggio materno neanche la nomina! Il corpo materno che nega la sessualità della bambina disabile e nel contempo vive una sua sessualità con capacità generativa, è un corpo in cui la bambina con disabilità, diventata ormai donna, non può riconoscersi, così da ostacolare fortemente la strutturazione dell’identità di genere di quest’ultima.
Solitamente, la donna viene riconosciuta in quanto tale dall’altro, prima dalla madre, poi dal padre e successivamente dal partner, giungendo così alla definizione della sua identità di genere. Questo processo diventa molto più complesso per la donna con disabilità, perché il riconoscimento del genere qui non avviene.
Come per tutte le altre donne, anche per quella con disabilità il momento di scoperta del proprio corpo e della propria sessualità avviene durante l’adolescenza. L’adolescenza è una fase molto delicata nella vita di una persona. Ci sono trasformazioni morfologiche e fisiologiche del corpo e con esse anche un’esplosione di sensazioni fisiche, mai provate prima, nei confronti delle quali ognuna può reagire in modo diverso, mettendo in moto dinamiche intrapsichiche e relazionali che testimoniano la crescita di una persona che da bambina sta diventando adulta. La donna con disabilità, invece, non è quasi mai consapevole di quanto le sta accadendo perché condizionata da una famiglia e da un ambiente di vita che tende a reprimere quelle emozioni che sono tipicamente femminili: è una donna disabile che non sarà mai moglie, madre, amante!
L’esclusione sociale, di cui la donna con disabilità è vittima, viene determinata non dalla sua condizione di disabilità, ma dal forte pregiudizio, in base al quale la persona che la vive è ritenuta incapace di contribuire attivamente a una vita sociale piena e in quanto tale improduttiva. Una persona che deve essere nutrita e lavata, ogni tanto istruita e inserita al lavoro, ma sempre in luoghi separati per non turbare l’equilibrio di una società che non riesce a guardare in faccia i suoi veri fantasmi.
L’esclusione sociale è un fenomeno che tiene le persone disabili separate in tempi e spazi che non sono quelli ordinari degli altri cittadini. Potremmo dire che esso ripropone, su un piano oggettivo esterno, un’esperienza di alienazione che avviene dentro ciascun individuo ogni qual volta si trova in una situazione nuova o incontra qualcuno o qualcosa che è altro da sé e che non conosce. Entrare in contatto con tutto ciò che è nuovo spaventa e in quanto tale può portare a un allontanamento dal proprio vero essere. Poiché è molto difficile gestire il rapporto con persone che usano un linguaggio poco intellegibile, che usano altre modalità di comunicazione, che si spostano con una carrozzina e così via – situazioni queste che rappresentano realtà nuove con cui entrare in relazione – risulta molto più facile, perciò, alienarle sul piano psichico e separarsene sul piano oggettivo.
La donna con disabilità è esclusa tra gli esclusi. Essa non gode di pari opportunità né rispetto alle altre donne, né rispetto alla categoria degli uomini disabili.
“Nell’ambito del movimento delle persone con disabilità si è presunta l’irrilevanza del genere così come irrilevanti sono stati considerati la dimensione sociale, di classe, etnica e dell’orientamento sessuale. La disabilità viene considerata un concetto unitario che eclissa tutte le altre dimensioni. L’approccio attuale rivela la tendenza a nascondere il genere nell’esaminare le vite delle persone con disabilità, trascurando di esplorare l’influenza che il genere ha su di esse. In sostanza, il movimento delle persone con disabilità non ha ancora riconosciuto la discriminazione multipla, determinata dalla combinazione di genere e disabilità, sperimentata dalle donne con disabilità, e questo ha comportato una mancanza di interesse nel progettare interventi e pratiche, politiche e azioni per soddisfare le necessità specifiche di queste ultime.
La radicale messa in discussione da parte delle donne del secolare predominio del genere maschile su quello femminile, che ha sovvertito l’ordine simbolico che si basava sulla non uguaglianza di valore dell’essere uomo e dell’essere donna, e che ha prodotto la giusta condanna degli abusi e delle violenze perpetrati sulle donne, sembra non interessare e coinvolgere le donne con disabilità.
Il pensiero femminista continua a ignorare ed escludere le donne con disabilità, le donne si sono unite agli uomini, senza o con disabilità, relegandole a un livello inferiore della loro riflessione intellettuale e politica. L’impegno a veicolare un’immagine di donna forte, potente, competente e attraente, è una delle ragioni per cui le donne con disabilità sono escluse dal movimento femminista; infatti l’immagine che si ha di loro di donne indifese, eterne fanciulle, dipendenti, bisognose e passive rinforza lo stereotipo tradizionale della donna. La donna con disabilità considerata da sempre non adatta a ricoprire i tradizionali ruoli di madre, moglie, casalinga e innamorata non è altrettanto considerata adatta a ricoprire i nuovi ruoli di una società in cui domina il mito della produttività e dell’apparenza”. (Cfr. Manuale di Consulenza alla pari Da vittime della storia a protagonisti della vita, a cura di Rita Barbuto, Vincenza Ferrarese, Giampiero Griffo, Emilia Napolitano, Gianna Spinuso, Comunità Edizioni, p. 37). 
Le donne disabili vedono negato da più parti il loro diritto a realizzarsi come donne, madri, compagne, professioniste, a causa di pregiudizi e visioni preconcette che limitano le loro scelte. Ad esempio, quando una donna disabile dice di volere un figlio, gli altri, e in primo luogo i medici, rispondono in modo allarmante poiché ritengono che questo non sia possibile in quanto, a causa di pregiudizi atavici, la maternità è realizzabile solo da una donna che sia completamente sana. Sana secondo canoni e costruzioni mentali stabiliti a priori per i quali le persone con disabilità sono sempre dei malati, di cui ci si deve prendere cura e che quindi non possono prendersi cura di altri, né tanto meno di un bambino che deve nascere, di cui già si ipotizza una vita infelice. Se questo è ciò che si pensa, non si costruiranno mai, ad esempio, una sala parto che tenga conto dei bisogni particolari delle donne con disabilità e cosa peggiore è che queste stesse donne sono state condizionate talmente da tale modo di pensare, che quasi mai osano discutere questa visione che gli altri hanno di loro, cioè la negazione della loro possibilità a procreare, al punto di non essere consapevoli neanche del loro desiderio di maternità!
Oppure, nel caso di donne disabili che hanno realizzato il loro desiderio di essere madre, esse non sono riuscite e non riescono a vivere questo ruolo pienamente. La presenza di barriere architettoniche impedisce, infatti, alle donne di passeggiare insieme ai loro ragazzi, di accompagnarli a scuola o dal medico, di condividere quei momenti di vita che sono molto importanti in una relazione affettiva tra madre e figlio.
Lo stesso diritto alla vita delle donne con disabilità è continuamente messo in discussione. Sono loro che rischiano maggiormente a essere sottoposte a forzate pratiche eugenetiche – sterilizzazione, aborto forzato e sperimentazione medica – per la paura che possano mettere al mondo figli disabili. Sono loro che sono state e sono lasciate morire bambine, perché non produttive; che chiederanno di sottoporsi a morte eutanasica, perché le loro condizioni economiche saranno tali da non consentire di vivere una vita dignitosa.
Ricordiamo, inoltre, quanta violenza gratuita viene fatta negli istituti, specie nei confronti di donne non in grado di rappresentarsi da sole o quanto accade in ambito medico, dove il corpo della donna con disabilità, di solito, non viene trattato con alcuna riservatezza, ma puramente come oggetto da studiare che, molto spesso, viene esposto in video, riviste mediche, ecc. senza neanche il loro consenso. Spesso queste ragazze e donne che si trovano ad affrontare problemi fisici femminili si scontrano con pratiche violente da parte di professionisti sanitari inadeguati a relazionarsi correttamente con i loro corpi. Molte di loro, infatti, hanno trascorso gran parte delle loro vite nude, esposte agli sguardi glaciali e curiosi di coloro i quali avrebbero dovuto prendersi cura di loro e delle loro profonde intimità.
Pertanto, per una donna con disabilità diventa molto importante rivendicare i propri diritti per vivere una vita che sia degna di questo nome. È tempo che le donne con disabilità acquisiscano la piena consapevolezza delle proprie potenzialità e della propria umanità, attraverso cui sviluppare un senso di autostima sempre più forte, per tutelare anche quelle donne che non sono ascoltate perché interdette e perché vittime di segregazioni, in una cultura che non dà spazio a differenze.
Ed è proprio all’interno di questi contesti che la donna con disabilità deve assumersi la responsabilità di agire per un cambiamento culturale, sociale, politico, ecc. in cui tutti, indistintamente, possano ritrovare quei valori etici universali che riconoscano la dignità dell’essenziale diversità del genere umano.

I progetti realizzati in Europa attraverso il Programma Daphne
DPI (Disabled Peoples’ International) Italia Onlus, con una serie di ricerche realizzate grazie a 4 progetti finanziati dal programma Daphne e in partenariato con diversi paesi europei (Spagna, Francia, Gran Bretagna, Germania, Ungheria, Croazia, Romania e Portogallo), ha messo in evidenza che le donne con disabilità sono maggiormente esposte alla violenza.

Progetto “Disabled Girls and Women – Victims of Violence – awareness raising campaign and call for action
Attraverso lo studio e la comparazione della legislazione nazionale dei paesi partner del progetto riguardante le donne e le persone con disabilità in generale e l’analisi dei documenti internazionali è emerso chiaramente la completa mancanza di attenzione ai bisogni specifici delle donne con disabilità. Inoltre, è stato chiaramente evidenziato che anche in Europa essere una donna con disabilità significa ancora oggi essere esposta a continui rischi: dalla violazione dei Diritti Umani, all’esclusione sociale, alla deprivazione nella vita privata. e che le violenze fisiche, psicologiche ed emotive, subite e raramente espresse, portano le donne con disabilità a ripiegarsi su se stesse, non riconoscendosi né come persone né come donne. 

Progetto “Alba – Nuove occasioni di cura e sostegno offerte alle donne a contatto con la disabilità”
Con questo progetto si è voluto indagare la violenza che può nascere all’interno del contesto familiare quando è presente una persona con disabilità. Questa indagine si è realizzata facendo comunicare due mondi femminili quello delle donne con disabilità, vittime di violenza, e quello delle madri di persone con disabilità, vittime e autrici di violenza.
Una considerazione di grande rilievo è stata l’aver individuato una stretta vicinanza tra le madri e le donne, più di quanto si potesse pensare. Infatti, dal lavoro svolto sia con le madri che con le donne, è emerso che entrambe vivono grosse difficoltà per diventare visibili nelle proprie esigenze e per vivere la propria femminilità. Nei tre paesi (Francia, Italia e Spagna) dove è stata condotta la ricerca è emerso chiaramente che il mondo della disabilità è permeato da atteggiamenti di non accettazione e di forte discriminazione: da un lato, le donne disabili sentono di non rispondere agli standard fissati, dall’altro le madri vivono i loro figli disabili come persone che hanno disatteso le loro speranze e le loro aspettative. Le prime sono violentate nei loro diritti umani e in diversi contesti della società che non le accetta per quello che sono; le seconde vivono una duplice situazione: possono essere potenziali autrici di violenza sui loro figli, allorquando non li accettano o impediscono loro un cammino di indipendenza e autonomia, ma diventano anche potenziali vittime della violenza dei loro figli o delle richieste di assistenza e presenza, fatte dai figli anche in età adulta.

Progetto “I Care… Disabled women and personal assistance against violence”
Nel progetto sono state coinvolte: donne con disabilità, che hanno sviluppato empowerment, rispetto alla propria condizione di disabilità, e che nella strada della emancipazione si chiedono quali percorsi attivare per ottenere privacy, cura e rispetto del proprio corpo sia da se stesse che dagli altri; assistenti personali, donne specializzate nel lavoro di cura indispensabili per una donna con disabilità, che nell’esercitare la loro professionalità non sempre si soffermano ad analizzare aspetti quale riservatezza e rispetto dell’intimità e poca importanza attribuiscono al corpo e alla relazione con il corpo delle persone disabili.
Gli obiettivi del progetto erano: sviluppare consapevolezza degli atteggiamenti e comportamenti violenti sulle donne con disabilità all’interno di azioni di cura; raccogliere esperienze positive in questo campo; promuovere nuovi percorsi di empowerment tra donne con disabilità.
È emerso chiaramente la funzione importante dell’assistenza personale, come servizio fondamentale finalizzato all’indipendenza e autonomia della persona con disabilità, con l’obiettivo di garantire una migliore qualità della vita e condizioni di pari opportunità. Ciò però rappresenta una condizione di notevole ambivalenza, in quanto il trovarsi continuamente accanto una persona vuol dire non godere pienamente di una vita privata: le assistenti a volte prendono decisioni al loro posto e di questo è importante che se ne discuta. La ricerca ha messo in evidenza che quando questi due mondi si incontrano può scatenarsi una lotta sottile, inconscia e sommersa dove in realtà l’una e l’altra rincorrono lo stesso desiderio: esercitare il proprio potere per affermare la propria identità. Questa lotta per il potere di una sull’altra è causa, molto frequentemente, di conflitti e violenze all’interno di questa relazione. 

Progetto “Lighthouse – Health Institutions: A Place of Violence for Women with Disabilities? An Issue of Ethics and Human Rights”
L’obiettivo fondamentale di questo studio è stato quello di conoscere la situazione delle donne con disabilità in quanto utenti del sistema sanitario, cercando di far emergere le forme di violenza che esse hanno subito in alcune situazioni. Inoltre, esso intendeva essere uno strumento di lavoro per sviluppare iniziative e definire misure o linee di azione che assicurino l’uguaglianza di opportunità alle donne con disabilità come per tutti gli altri cittadini, a proposito del diritto di accesso a un sistema sanitario di qualità. Dalla ricerca è emerso che le donne con disabilità all’interno delle strutture sanitarie subisco: violenza fisica (la donna con disabilità percepisce che il suo corpo è alla mercé di altre persone, interessate al lato meccanico e fisiologico del suo funzionamento); violenza strumentale (l’accessibilità alle attrezzature sanitarie, come il lettino ginecologico, la macchina per la mammografia, il lettino del dentista, le strumentazioni oculistiche, le strutture riabilitative); violenza istituzionale (legata alle procedure che caratterizzano una determinata istituzione sanitaria, vale a dire le regole su cui si basa il suo funzionamento).

La situazione in Italia
Non bisogna credere, errore che comunemente invece viene fatto, che in Italia la situazione sia diversa, che la condizione di vita delle donne con disabilità sia sicuramente migliore che in altri paesi, che la povertà economica e culturale in cui sono segregate le donne con disabilità sia tipica dei paesi in via di sviluppo e che quindi non è la condizione di un milione settecento ventuno mila cittadine italiane. Concentrandoci principalmente sui problemi della violenza e dell’abuso, molto alto è il rischio di violenza fisica e sessuale delle donne con disabilità, la percentuale di rischio raddoppia rispetto a chi non vive tale condizione. Sono viste come un target facile. Studi effettuati nei paesi industrializzati mostrano che dal 39 al 68% di ragazze e dal 16 al 30% di ragazzi con ritardo nello sviluppo mentale saranno sessualmente abusati prima del loro diciottesimo compleanno (Cfr. Sobsey, 1994, as reported in Reynolds, 1997 cited in Rousso 2000). Donne con disabilità psichiatriche o che vivono in istituto sono anche ad alto rischio di violenze o abusi. Anche se una donna riesce a fuggire da una situazione violenta, pochi centri anti-violenza sono accessibili.
Non esiste alcun riferimento sulle donne con disabilità in nessuna legge emanata a favore delle donne in Italia. Soprattutto, nonostante le donne con disabilità siano quelle maggiormente esposte a violenze di nature sessuali, fisiche e psicologiche, non vi è nessun riferimento a loro nella Legge n. 66 del 15 febbraio 1996 “Norme contro la violenza sessuale”. Possiamo ipotizzare che la mancanza di riferimenti legislativi sta alla base di una completa assenza di dati relativi alle violenze a agli abusi subiti dalle donne con disabilità in Italia. Anche nell’ultimo report Violenza e maltrattamenti contro le donne commissionato dal Ministero per i Diritti e le Pari Opportunità e realizzato dall’Istat sulla base dei risultati dell’indagine sulla sicurezza delle donne, realizzato tra gennaio e ottobre 2007, non vi è alcun dato riguardante le donne con disabilità.
La non esistenza di dati non significa che il fenomeno non esiste. Anzi, significa che è un fenomeno ampio e complesso che dovrebbe essere invece studiato perché la sua conoscenza è essenziale per lo sviluppo, a livello istituzionale, delle politiche e dei servizi necessari per affrontarlo. Infatti, riteniamo che la mancanza di politiche e servizi a favore delle donne con disabilità sia alla base delle innumerevoli violenze che esse sono costrette a subire e non denunciare. Come fanno a denunciare i propri aguzzini se dipendono da loro per la propria sopravvivenza? Come fa una donna con disabilità che subisce violenza sessuale, fisica e psicologica a denunciare il proprio familiare da cui dipende per poter mangiare, alzarsi del letto, lavarsi e andare al bagno se non ha una propria indipendenza economica per avere una casa propria? Se non comprende che le denigrazioni, il controllo dei comportamenti, le strategie di isolamento, le intimidazioni, le forti limitazioni economiche subite da parte del familiare è una violazione dei propri diritti umani? Come fa a denunciare l’operatore da cui dipende per soddisfare i bisogni primari, se non è consapevole della violenza a cui la sta sottoponendo, se cioè non è consapevole che essere strattonata, spinta e colpita fisicamente è una violenza? Come fa a denunciare un istituzione/struttura alla quale si rivolge nella speranza di essere accolta e protetta?  

7. La violenza dell’invisibilità

di Valeria Alpi

Un paio di anni mi fu chiesto di intervenire sul tema della violenza alle donne con disabilità. Mi sono sentita subito in grande imbarazzo perché il tema mi sembrava totalmente sconosciuto e invisibile. Eppure sono una donna, sono disabile, ho tante amiche con disabilità, che a loro volta conoscono altre donne disabili; ho lavorato per un decennio, tra le varie attività, a uno sportello informahandicap dove incontravo persone disabili e le loro famiglie, ma anche gli educatori, gli assistenti domiciliari, gli operatori dei servizi socio assistenziali, gli insegnanti, i vicini di casa, insomma… qualunque persona si venisse per un qualche motivo a trovare a contatto con la disabilità. Mai una volta qualcuno mi ha segnalato un caso di violenza a una donna disabile, né per contatto diretto, né per sentito dire (“Sai che ho saputo che…”). Inoltre sono giornalista, mi sono occupata soprattutto di maternità delle donne disabili, sia di quelle che hanno figli sia di quelle che desiderano averne; mi occupo quotidianamente di temi sociali, ci scrivo sopra, cerco di veicolare una buona cultura della disabilità, ma niente: la violenza continuava per me a essere silenziosa e invisibile. Tranne ovviamente qualche caso clamoroso sbattuto in prima pagina dai mass media tradizionali, ad esempio donne con deficit intellettivi segregate in casa e abusate, oppure abusate nelle strutture residenziali.
Poi mi sono guardata intorno, e ho scoperto che alcune forme di violenza sono sempre state sotto i miei occhi, anche se si tratta di forme più subdole, meno evidenti, meno eclatanti perché non portano alle percosse, alle ferite, agli occhi neri, ai lividi, allo stupro. La violenza che intendo io è quella che nega alla donna disabile il diritto all’adultità, a essere riconosciuta come una donna adulta che possa prendere anche qualche decisione sulla propria vita, banalmente partendo dalla maglietta che si vuole indossare per uscire di casa. Ci sono genitori o operatori che vestono appositamente male la figlia o donna disabile, in modo che non possa risultare attraente per gli altri, “perché non si sa mai, un qualche male intenzionato che si voglia approfittare di lei ci può essere e dopo sono guai, soprattutto se resta incinta”. Ci sono genitori o operatori che non portano mai la figlia o donna disabile dalla parrucchiera, “perché tanto anche se le sistemo i capelli cosa cambia? Non la vorrà comunque nessuno disabile com’è”. Ci sono genitori o operatori che non depilano le gambe della figlia o donna disabile, anche se è estate e si indossano vestiti più corti, “perché tanto sono gambe disabili, sono comunque fatte diversamente, un pelo in più o in meno non fa la differenza”. Ci sono genitori o operatori che mandano al lavoro la figlia o donna disabile coi pantaloni macchiati “tanto non se ne accorge nessuno, si nota solo che è disabile mica come è vestita”. Ci sono genitori o operatori che fanno indossare il pannolone alla figlia o donna disabile “perché è più comodo, non devo portarla sempre in bagno che si fa fatica”. Ci sono genitori o operatori che non permettono alla figlia o donna disabile di avere la possibilità di decidere come utilizzare anche solo un euro della propria pensione di invalidità. Ci sono genitori o operatori che si rifiutano di comprare alla figlia o donna disabile degli ausili per migliorare la sua autonomia, “tanto autonoma non lo sarà mai fino in fondo”. Ci sono donne disabili che vestiranno con la tuta da ginnastica per tutta la vita perché la tuta facilita le operazioni di chi si deve prendere cura di lei.
Quanti casi conosciamo di questo tipo? Quanti ne abbiamo visti? Tantissimi.
Dove risiede la violenza? Proprio nel concetto di invisibilità: perché alla base di tutte le forme di violenza c’è essenzialmente la violazione di un diritto umano fondamentale, quello di essere vista come persona e come donna. Essere visibili vuol dire essere riconosciute come persone capaci e aventi diritto a esprimersi ovunque: in ambito familiare, scolastico, sociale, professionale.
E badate bene: il rischio di una violenza di questo tipo non riguarda solo le donne con disabilità gravi, che compromettono seriamente l’autonomia, il movimento, il linguaggio o la capacità intellettiva. Mi ricordo, ad esempio, che frequentavo le scuole medie e il seno mi diventò prosperoso. Chiesi a mia madre di andare insieme a comprare un reggiseno, perché senza mi sentivo in imbarazzo. E la risposta di mia madre fu “Tu non ne hai bisogno”. Fino a quel momento la mia disabilità motoria era stata un piccolo “accessorio” della mia vita: avevo comunque una buona autonomia, potevo a mio modo camminare, vestirmi da sola, andare in bagno da sola, mangiare da sola. Studiavo, andavo bene a scuola, volevo fare l’Università, sapevo che un giorno avrei lavorato come tutti gli altri, sapevo che un giorno avrei pure guidato l’automobile, con i giusti ausili al volante. Avere amici, giocare con loro, uscire con loro non era mai stato un problema. Mi sentivo destinata a una vita molto normale, con qualche difficoltà motoria in più, ma del tutto normale. Cominciai invece a capire che agli occhi dei miei famigliari la mia vita sarebbe stata normale fino a un certo punto, cioè in tutto ma non nell’essere una donna completa.
La donna con disabilità non è una donna, è una persona disabile. Punto e basta. Dovrà passare la sua vita a gestire la sua disabilità, ma non a gestire la sua femminilità. Ma se non si parte dall’educazione al proprio corpo, alla propria espressione della sessualità, come si può riconoscere la violenza? Penso alle donne citate prima: forse se un giorno qualche male intenzionato abusasse di loro, saprebbero riconoscere ciò che sta loro succedendo? Sessualità non è il sesso, sessualità è comunicazione, è la parte di se stessi che si decide di comunicare agli altri: può essere la scelta di un vestito, ma anche di una canzone, di un piatto che si cucina per l’altra persona, di un braccialetto, di una pettinatura,… Bisogna lavorare sul diritto all’accesso alla conoscenza del proprio corpo e alla comunicazione di quello che si è. Occorre un grande lavoro di informazione, sensibilizzazione e formazione, a più livelli diversi: un lavoro culturale con le famiglie, gli educatori, gli insegnanti, gli operatori, gli assistenti domiciliari, i volontari,… Perché la donna con disabilità è perfettamente legittimata a richiedere di essere vista in quanto donna. 

6. Integrare la lotta contro la violenza e la lotta contro le discriminazioni

di Rosalba Taddeini, coordinatrice attività dell’associazione Differenza Donna (www.differenzadonna.org) di Roma, e promotrice del Progetto Aurora dell’Associazione Frida

Faccio parte di una grande associazione che si chiama Differenza donna che gestisce cinque centri antiviolenza tra Roma e provincia.
Sono una delle promotrici del Progetto Aurora che ha previsto l’apertura di uno sportello per donne con disabilità vittime di violenza. Anche io sono una delle disabili invisibili e sono una forte promotrice della lotta contro le discriminazioni di genere soprattutto di questo tipo di specificità.
Se si pensa a una società ricca si pensa a una società che si prende cura delle proprie minoranze. Io vi racconto che la donna vittima di violenza non è una minoranza.
Nei nostri centri, su 2000 donne il 2,5 per cento è disabile, quindi anche loro non rappresentano più un numero così esiguo. Sono donne che cominciano a uscire da questa situazione e hanno bisogno di risposte, che molte volte nei servizi mancano per la loro diversità, le loro particolarità, come per esempio non avere un linguaggio consono e comprensibile.
Nei centri antiviolenza molte volte manca la mediatrice di lingua dei segni se sono sorde, spesso anche nei centri pubblici non c’è la pedana per passare con la carrozzina o non c’è una attenzione particolare per chi ha una disabilità visiva.
Purtroppo questi due mondi sono stati molto lontani fino a oggi. Questo non lo dico io, lo dicono i movimenti per la lotta contro le discriminazioni delle persone disabili, lo dice il movimento femminista. Una filosofa americana ci ricorda che la donna disabile mette dentro alle altre donne il senso di impotenza; per una donna non disabile si trova una soluzione, per una donna disabile è più difficile perché c’è il senso di impotenza che provano le donne normodotate.
Ci sono vari modi di essere donna disabile, in questo anno di progetto mi sono accorta che oltre alle donne invisibili perché magari portano una disabilità come la mia (un braccio che si vede o non si vede o una donna che non sente bene) ci sono altre forme di disabilità come quelle, purtroppo molto attuali, delle donne che sono sfigurate con l’acido che ti porta via le mani, il naso, l’orecchio, nuove forme di disabilità appunto…
Ci sono delle attività che potremmo fare nel contrastare la violenza contro le donne, partendo proprio dall’autonomia, dalla propria capacità di autonomia, dalla comprensione della propria libertà: non solo libertà fisica ma anche e soprattutto mentale. Solo partendo da questo le donne riescono a non incappare nei luoghi di violenza.
Io credo moltissimo che i movimenti che fino a oggi hanno fatto delle battaglie parallele si debbano riunire e capire come sostenersi a vicenda. Domani a mezzogiorno avrò un incontro con un servizio sociale che purtroppo ha tolto con il tribunale l’affidamento di una bambina di tre anni a una donna che ha un serio ritardo mentale. Finché la donna è stata con l’uomo violento non è successo niente, potevano crescere la bambina tranquillamente, ora si trova uccisa due volte nell’anima. È uscita da questa situazione di violenza e le viene tolto l’affidamento della propria figlia, abusata dal padre.
Bisogna mettersi insieme per capire come contrastare anche queste doppie discriminazioni che possono avvenire. Alcune volte, i servizi non hanno una cultura di genere e anche sulla disabilità può succedere che si pensi che una persona con un ritardo mentale non abbia capacità genitoriale normale, mentre la capacità genitoriale non viene lesa.

5. Disponibilità, rapidità e senso del limite: una storia di accoglienza a Cascina Biblioteca

di Andrea Brizzolari, direttore Cooperativa Cascina Biblioteca (http://cascinabiblioteca.it) di Milano

Vi porto una piccola storia di accoglienza.
Cascina Biblioteca è una cooperativa sociale di Milano che da diversi anni si occupa di persone con disabilità, sviluppando una ricca serie di servizi e progetti. Progetti di residenzialità e progetti diurni, oltre l’autonomia abitativa, per il tempo libero e l’inserimento lavorativo. Infatti siamo anche giardinieri e, attraverso lo strumento della cura del verde, inseriamo le persone nel mondo del lavoro.
Cascina Biblioteca è anche un luogo, a Milano, una cascina di proprietà del Comune che in questi anni è rifiorita grazie al lavoro sinergico di diverse realtà del non-profit milanese: Anffas Milano, Fondazione Idea Vita, Consorzio SiR, Rotary San Donato e noi di Cooperativa Cascina Biblioteca; tutti insieme abbiamo investito energie, passione e risorse economiche per rendere Cascina Biblioteca un luogo capace di produrre inclusione sociale, al servizio della città, dando risposta ai bisogni di persone con disabilità.
Ci siamo trovati un giorno a ricevere una richiesta di aiuto tramite il Soccorso Rosa: ci veniva domandato di prendere in carico una giovane donna con disabilità che aveva anche una storia di abusi, subìti nel contesto familiare. Noi non ci eravamo mai occupati di situazioni di questo tipo, ma siamo rimasti molto colpiti da questa storia e quindi non ce la siamo sentita di girarci dall’altra parte. Come inchiodati di fronte a questa domanda di aiuto, abbiamo dato la nostra disponibilità. Tant’è che, dopo un paio di giorni dalla richiesta, abbiamo subito iniziato a lavorare con la giovane donna, inserendola in una delle nostre residenze. Ce ne siamo occupati in stretta collaborazione con il Soccorso Rosa e una volontaria che agiva in sinergia con la responsabile del Centro antiviolenza.
La giovane iniziava la sua giornata svegliandosi in uno dei nostri alloggi dove viveva con altre donne con disabilità intellettiva, arrivando poi in Cascina, dove frequentava un servizio e svolgeva una serie di attività diurne e lavorative. Ha manifestato presto una grande passione per gli animali e quindi abbiamo valorizzato questa sua inclinazione e l’abbiamo occupata in attività con i cavalli al maneggio, dove ha svolto anche attività in favore di altre persone. Manifestando una grande passione per i cani, abbiamo poi fatto sì che una volta alla settimana andasse a fare delle attività in un canile, prendendosi cura di un animale. Nel pomeriggio veniva coinvolta in ulteriori iniziative e verso sera tornava a casa, dove viveva la sua quotidianità, nell’appartamento semi-protetto che era diventata come casa sua e che condivideva con altre persone.
Ad agosto ha trascorso le vacanze al mare con il gruppo di Cascina Biblioteca.
Racconto tutto questo per dare un’idea immediata su come ci siamo resi disponibili a un’accoglienza concreta, mettendo a disposizione la varietà delle nostre attività, che si sono rivelate poi importanti pure per stabilire relazioni autentiche e incontri significativi. Ciò è stato possibile anche grazie alla generosità delle persone che lavorano nella nostra Cooperativa, che si sono messe fin da subito a disposizione, per accogliere nel migliore dei modi possibili questa persona.
Se dovessi individuare delle parole chiave di questa vicenda, direi sicuramente la parola rapidità: non sempre siamo così veloci, ma in questa circostanza sono stato contento perché abbiamo dato una risposta in modo molto rapido. Altra parola chiave è disponibilità: noi non avevamo nessun tipo di esperienza di persone con disabilità che avevano subìto una violenza, avevamo esperienza con persone con disabilità soprattutto di tipo intellettivo, però ci siamo ugualmente messi in gioco, gli operatori e coordinatori hanno tirato fuori una disponibilità incredibile, sono stati a disposizione di questa giovane donna anche fuori l’orario di lavoro.
Professionalità è un’ulteriore parola chiave. Abbiamo messo in campo tutta la nostra professionalità come operatori sociali, aprendo senza indugio la nostra cassetta degli attrezzi.
Infine, l’ultimo concetto chiave che citerei è il senso del limite. Noi sappiamo bene che non potevamo essere l’unica risposta per questa giovane donna con disabilità vittima di violenza, né lo volevamo essere, ma auspichiamo quello che sottolinea l’assessore Majorino: che a Milano si lavori per creare un ponte tra il mondo delle realtà che si occupano delle persone con disabilità e i centri che si occupano di violenza sulle donne, in modo da mettere insieme le risorse, sperimentando e provando così a immaginare, noi che ci occupiamo di disabilità, di allargare la gamma delle risposte che possiamo dare alle donne con disabilità, senza tirarci indietro quando sono vittime di violenza.

4. Il Soccorso Rosa: quando le linee guida necessitano di innovazione

di Nadia Muscialini, presidente Soccorso Rosa Onlus, già responsabile Centro antiviolenza ospedaliero presso AO San Carlo Borromeo di Milano (www.soccorsorosa.net) 

Cerco di portare il mio contributo parlando di quello che è il lavoro all’ospedale e di ciò che ho capito di questo tema durante gli anni passati ad assistere donne e vittime di violenza domestica. L’ospedale è un luogo molto particolare; è un luogo di sofferenza dove arriva gente malata, spesso in situazioni di emergenza e dove è necessario nella maggior parte dei casi agire in fretta, subito; l’ospedale è un posto di complessità perché vi accedono anche situazioni che non sono prettamente sanitarie, spesso ai problemi sanitari sono associati anche problemi sociali o di altro tipo.
L’ospedale è però anche un luogo di speranza e innovazione, e credo che queste due parole, insieme a creatività, siano fondamentali per affrontare questo tema.
Quando in ospedale arrivano persone con problemi clinici urgenti e complessi vi sono dei protocolli, delle linee guida da seguire, ma è vero anche che non sempre, anzi spesso, questi protocolli, queste strade già definite non possono essere percorse e i sanitari devono valutare e trovare delle strade nuove, percorsi alternativi che permettano di dare risposte a chi chiede aiuto arrivando alla struttura in situazioni di emergenza.
Soccorso Rosa è un centro antiviolenza ospedaliero nato nel 2007 che nel corso degli anni ha avuto modo di accogliere donne portatrici di diversi tipi di disabilità.
Di solito le donne seguite dal team di Soccorso Rosa non vengono in prima battuta al Centro antiviolenza, ma accedono alla struttura ospedaliera perché hanno problemi di salute e necessitano di cure mediche; grazie al fatto che nella maggior parte dei casi i sanitari non si fermano alle problematiche cliniche, ma approfondiscono anche quella che è la vita di una persona, ci sono arrivate così segnalazioni di donne portatrici di disabilità vittime di violenza domestica, impossibilitate a fuggire a causa delle loro difficolta e per questo costrette a subire terribili maltrattamenti.
Per questo genere di utenti non ci sono linee guide da seguire, ma per fortuna si incontra sempre qualcuno che è disposto a fare innovazione e a sperimentare strade nuove. Le vittime di violenza domestica hanno sempre situazioni complesse che necessitano di interventi multidisciplinari e interistituzionali. La presenza di qualche disabilità rende tali approcci ancora più complessi, per cui spesso è necessario avere il coraggio di inoltrarsi in sentieri inesplorati dove ti confronti con pregiudizi e resistenze.
È capitato infatti che per donne in carico ai servizi competenti e con certificazioni di invalidità, la problematica della violenza e maltrattamenti venisse negata o posta in secondo piano.
Ci sono tempi più lunghi, modalità di comunicazione diverse per occuparsi di persone portatrici di qualche tipo di disabilità.
Vorrei quindi a questo punto portare un esempio esemplificativo sia di questo concetto sia del nostro modo di procedere che deve essere necessariamente flessibile, individualizzato e creativo.

La storia di K.
K., 39 anni, anche se ne dimostrava molti di più, aveva una disabilità cognitiva di natura organica probabilmente congenita e presentava evidenti dismorfismi.
Pur non essendo completamente autonoma, se assistita e affiancata adeguatamente, era in grado di vivere da sola e di fare la maggior parte delle cose necessarie alla gestione della vita quotidiana.
K. viveva con il marito, altra persona portatrice di serie disabilità e in carico ai servizi sociali e sanitari di competenza.
La donna aveva anche un grave diabete che a causa di valori glicemici peggiorati in maniera repentina e importante aveva spinto i sanitari ad approfondire con ricoveri in day hospital la situazione clinica fino ad allora sotto controllo. I valori della glicemia fino a quel momento erano stai tenuti sotto controllo dalle indicazioni dietetiche che i sanitari avevano spiegato con cura alla donna e che lei era in grado di gestire a domicilio.
Durante i ricoveri in day hospital dove si fornivano a K. pasti adeguati si riscontrò che i parametri incriminati erano tornati a livelli normali: a questo punto l’infermiera sensibile e attenta che affiancava la donna decise di approfondire con la donna e così riuscì a farsi raccontare ciò che accadeva a casa. L’infermiera scoprì, osservandola, che il corpo di K. era ricoperto di bruciature ed ematomi.
K. le raccontò dietro le sue delicate richieste che il marito le spegneva addosso le sigarette, che faceva la spesa comprando nutella, pizze e altri alimenti che lei non poteva mangiare, inducendo così rialzi importanti della glicemia e anche il coma glicemico.
K. grazie a indicazioni dell’infermiera aveva imparato a scappare di casa, con il suo cane, ogni volta che il marito cercava di aggredirla. Andava al parco vicino a casa dove poteva passare anche tutta la notte per evitare i maltrattamenti del marito, che le sottraeva anche i soldi della pensione per procurarsi alcool e sigarette.
L’infermiera ci chiamò, approfondimmo e cercammo di capire come intervenire perché la donna non rientrava nei parametri usuali delle nostre procedure: K. non era in grado di fare denuncia da sé e, avendo noi l’obbligo di segnalazione come pubblici ufficiali, scrivemmo all’ufficio della Procura della Repubblica dedicato alle fasce deboli. Successivamente abbiamo dovuto inventarci una serie di percorsi alternativi a quelli usuali al fine di riuscire a offrirle protezione e assistenza.
Intanto, nonostante l’abitazione fosse intestata alla donna e lei era in grado di occuparsi di sé oltre che della casa, l’assistente sociale del territorio propose come prima cosa un suo inserimento in comunità, impossibile però con il suo cagnolino che rappresentava per la donna un affetto troppo importante per separarsene.
Se avessimo dovuto attenerci in maniera rigida ai protocolli che avevamo attivi per le vittime, non saremmo riuscite a darle aiuto.
Ad esempio K. non era in grado di agire autonomamente su questioni più complesse della sua routine quotidiana e così quando fu convocata dal medico legale per la valutazione delle lesioni, convocazione che la spaventò molto, non era in grado di andarci autonomamente, così concordammo con il medico legale che per la valutazione medico-legale sarebbe venuta lei in ospedale, luogo conosciuto. Accogliemmo il medico inviato dalla Procura nei nostri locali e facilitammo anche la visita.
In questo caso abbiamo adattato le consuete procedure per le vittime di violenza domestica ai bisogni e alle capacità della signora.
I problemi più grossi riscontrati nella gestione del caso di K. ci vennero dai servizi sociali che avevano in carico sia lei che il marito. Ignorando completamente le nostre indicazioni, del Pubblico ministero e dell’avvocato che difendeva la donna, l’assistente sociale che seguiva il marito insisteva – dopo che era stato dimesso da una comunità terapeutica (dal momento che faticava a trovare una collocazione residenziale per l’uomo) e nei confronti del quale era stato emesso un decreto di allontanamento per proteggere la donna – che K. accettasse il suo collocamento presso la casa coniugale, chiedendo per altro a K. di continuare a offrire assistenza al marito.
La povera donna, incapace di dire di no, si sarebbe così trovata ad assistere al proprio domicilio il l’uomo da cui subiva maltrattamenti e che grazie all’intervento celere del magistrato aveva ricevuto un ordine di allontanamento.

Dai diritti sulla carta alle opportunità di cura
La mia riflessione più generale è la seguente: per la risoluzione di problemi nuovi è necessario dotarsi di creatività e innovazione e, nel caso specifico della protezione e dell’accoglienza delle vittime, anche di una grande umanità.
Sebbene la nostra società sia per legge una società in cui ognuno ha diritto a considerarsi uguale agli altri, vi sono alcune situazioni in cui nella realtà non è così e non si può esercitare concretamente questo diritto all’uguaglianza, come del resto ci ricorda la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità: se non esistessero discriminazioni non ci sarebbe stata la necessità di promulgarla.
Credo che debba essere impegno di tutti noi fare in modo che i diritti sanciti sulla carta possano tramutarsi in vere opportunità di cura. Credo che le istituzioni, nate per rispondere a dei bisogni, sono fatte di persone e la differenza nel funzionamento delle organizzazioni la fanno le singole persone: ognuno di noi quindi deve agire concretamente affinché un diritto esistente sulla carta si trasformi in possibilità reale di uguaglianza.
Le organizzazioni inoltre dovrebbero collaborare una con l’altra e questo dovrebbe essere l’obiettivo anche di quelle deputate all’assistenza di vittime di violenza o di persone portatrici di disabilità.
Sono da trovare delle strade percorribili per far uscire dalle storie di violenza le donne, nonostante la disabilità congenita o causata dalla violenza stessa!
Quando giungono a Soccorso Rosa delle donne disabili che necessitano il ricovero in una struttura di protezione ci chiediamo dove collocarle perché sorge innanzi tutto un problema di budget.

La storia di S.
Per un’altra donna con un ritardo cognitivo, un problema di sordità, vittima di abusi e con una patologia organica, chiesi alle strutture di accoglienza della rete del Comune chi sarebbe stato in grado di accoglierla e gestirla con le sue difficoltà.
Il problema più grosso che abbiamo avuto per offrire assistenza a S. che aveva quattro problemi grossi evidenti, scappata in emergenza, senza avere in tasca un certificato di disabilità perché la famiglia dove venivano agiti gli abusi non l’avevano mai voluto far fare, fu il fatto che essa non poteva essere presa in carico dai servizi per disabili perché le mancava la certificazione di invalidità e non poteva essere presa in carico dalle case di accoglienza della rete dei centri antiviolenza perché era un caso troppo complesso e quindi, a causa delle disabilità, non gestibile all’interno di quelle strutture.
Il problema più grosso era quello della presa in carico amministrativa della vittima.
Chi pagava per l’accoglienza?
I servizi sociali per persone con disabilità non prendevano in carico S. perché la certificazione era in corso e la rete antiviolenza non la prendeva in carico perché impreparata a gestire un caso così diverso da quelli usuali.
Inutile dire che a S., nonostante l’evidenza delle sue difficoltà e le resistenze burocratiche ad accettare queste limitazioni, qualche mese dopo è stato riconosciuto, dalla commissione deputata, il 100% di invalidità.
Il punto però è che per la risoluzione di questo caso così complesso abbiamo dovuto lottare contro le procedure delle organizzazioni poco flessibili e sclerotizzate in percorsi che non riescono a gestire la complessità delle vicende delle persone, e chiedere aiuto e attingere alle risorse di una comunità che si occupa dell’accoglienza a persone con disabilità.
Con gli operatori della comunità, che non erano preparati a gestire il problema dei maltrattamenti e abusi, abbiamo poi affrontato anche questo aspetto specifico che si ripercuoteva quotidianamente sulla vita quotidiana e le relazioni con l’ospite.

Gestire l’emergenza
Rispetto al numero totale di casi che gestiamo all’anno che sono tra i 500 e i 600, quelli delle vittime portatrici di disabilità sono sicuramente molto pochi, io credo soprattutto per la difficoltà di accesso e di identificazione della violenza. Quindi non vi sono procedure e sinergie consolidate, ma mettendo insieme operatori e risorse di strutture con obiettivi completamente diversi siamo riusciti a trovare una strada che ci ha fatto fare passi da gigante nella gestione dell’imprevisto e della complessità e ci arricchito tutti quanti.
Ricordiamo che i beni sociali più preziosi sono l’amore, l’amicizia e la soddisfazione di prendersi cura dei nostri cari e la stima e il rispetto dei colleghi. Credo che nel nostro essere individui e operatori socio-sanitari che hanno anche e soprattutto problemi di budget e di risorse, bisogna essere in grado di essere creativi e come con il vestito di Arlecchino cucire insieme ritagli di tessuto (risorse); dobbiamo metterci insieme per capire come unire le risorse e le specificità delle cure e dell’assistenza delle donne vittime di violenza portatrici di qualche disabilità.
Finisco questo mio breve intervento citando una poesia riportata sulla copertina di un testo di Zygmunt Bauman: “Non sei una monade isolata, ma una parte unica e insostituibile, non dimenticarlo, sei un elemento essenziale nel groviglio dell’umanità”. Noi siamo un po’ questo. 
Credo che la differenza nel fare buona assistenza risieda nelle persone, soprattutto in coloro che si mettono in gioco in prima persona. Un altro problema per affrontare la violenza di genere, e non so se ciò sia valido anche per il problema dell’assistenza a persone con disabilità, è che manca un piano nazionale. La realtà, dovuta al federalismo e alla gestione dei finanziamenti da parte dei Comuni, è che una donna, e ciò vale anche per i minori, da Milano non può trasferirsi a Torino perché nessuno paga la retta della struttura, dovendo stare così nelle sue strutture del territorio. Ma se la donna è in fuga come si fa?
Relativamente alle donne vittime di violenza con disabilità ci troviamo in difficoltà a gestire un collocamento di protezione in emergenza, perché non esistono strutture deputate ad affrontare entrambi i problemi o perché i servizi per disabili non si fanno carico dell’inserimento in struttura per il problema della violenza. Questo solo perché non è usuale ed è un tema che non è ancora stato affrontato sistematicamente.
Bisogna quindi creare una rete vera che risponda ai bisogni reali delle persone. Le organizzazioni devono essere flessibili perché sono state fatte per rispondere ai bisogni degli individui e delle famiglie e in questo caso delle donne vittime di violenza portatrici di disabilità.
Quando si riuscirà a passare dalla sistematizzazione dei dettami di una Convenzione alla possibilità che gli interventi divengano dei diritti esigibili per tutti i cittadini, delle donne mancate?
L’Italia è infatti il paese delle donne mancate, degli uomini mancati, degli anziani. Come si riesce a costruire un diritto, perché ciascuna donna colpita da violenza possa vedersi corrisposta anche dal punto di vista amministrativo e soprattutto di costruzione di autonomia per il futuro? C’è una cosa importante, che l’assessore Majorino ha detto e che ho apprezzato. Ha detto che bisogna stare moltissimo su due fronti: da una parte valorizzare la prevenzione, dall’altra il sistema della presa in carico per realizzare percorsi di autonomia, di vita indipendente. Se riuscissimo a settare la politica sul fatto che si agisca su questi campi di intervento, potremmo attrezzare il sistema del welfare italiano, per dare delle risposte a donne disabili oggetto di violenza e vittime anche di altre forme di debolezza. Penso che questo debba essere l’obiettivo cui debba tendere la nostra riflessione. Dalla volontà della riflessione nasce la possibilità di costruire delle domande che abbiano un senso politico e chiamino le politiche pubbliche al proprio senso, veramente politico.

3. Persone e modalità della violenza

di Simona Lancioni, responsabile del centro Informare un’h (www.informareunh.it) di Peccioli (PI) e componente del Coordinamento del Gruppo donne UILDM

Per riconoscere la violenza nei confronti delle donne con disabilità è necessario prima di tutto contemplare mentalmente che anche le donne con disabilità possono essere vittime di violenza. Se a livello mentale non viene nemmeno presa in considerazione questa ipotesi, possiamo escludere che la violenza, anche quando presente, verrà rilevata, a meno che non si manifesti in forme particolarmente eclatanti (ad esempio con percosse). Fanno da filtro alcuni pregiudizi: che la violenza possa riguardare solo donne rispondenti a certi canoni estetici (ad esempio: la donna non disabile e fisicamente attraente, escludendo anche, in modo del tutto arbitrario, che anche una donna con disabilità possa risultare attraente), e che essa sia una forma di espressione della sessualità. In realtà la violenza è un comportamento finalizzato alla sopraffazione, e la sopraffazione si esercita più facilmente nei confronti di chi è più debole, questo particolare rende le persone disabili particolarmente esposte al rischio di subire violenza. Inoltre non tutte le violenze sono di tipo sessuale, ma anche quando investono la sfera sessuale, sarebbe erroneo considerarle come espressione della sessualità: l’espressione della sessualità infatti implica un mettersi in relazione all’altro, nella violenza invece non si cerca la relazione, ma c’è un’imposizione unilaterale dell’atto sessuale attraverso la forza.
Le donne con disabilità sono esposte a due tipi di violenze: uno legato al genere, l’altro alla disabilità.
La violenza legata al genere si sviluppa con gli stessi meccanismi riscontrati nei casi di violenza verso qualsiasi donna, con in più l’aggravante che, per i casi in cui la donna abbia dei limiti di autonomia e il comportamento oppressivo sia posto in essere da chi le presta assistenza, il percorso di fuoriuscita dalla violenza risulta notevolmente più complesso.
La violenza legata alla disabilità assume connotazioni molto specifiche. Uno degli strumenti che è stato messo a punto per descriverla è un adattamento della “Ruota del potere e del controllo” (la Power and control wheel: people with disability and their caregivers) che esamina la violenza all’interno del rapporto tra la persona con disabilità e il suo (o la sua) caregiver (la persona che presta assistenza). Questo tipo di violenza può essere agito anche da donne (essendo esse, almeno in Italia, le figure maggiormente impegnate nei lavori di cura), e può essere rivolta anche nei confronti degli uomini. Si pensi, ad esempio, alla minaccia espressa dal caregiver di non prestare più assistenza alla persona con disabilità se questa non soggiace al suo volere, oppure alla gestione dei beni della persona disabile come se fossero proprietà del caregiver, o, ancora, al ricorso alla sedazione della persona disabile, non per motivi di salute, ma per alleviare il lavoro di cura.
Sempre in relazione alla violenza legata alla disabilità va segnalata la particolare fragilità delle persone disabili (in maggioranza donne) ricoverate in strutture residenziali. In questi contesti l’esposizione alla violenza è favorita dall’esorbitante asimmetria di potere/controllo tra chi gestisce le strutture e chi vi è ospitato/a. Purtroppo la cronaca ci regala un triste campionario degli orrori che possono verificarsi nelle istituzioni totali.
La violenza sulle donne e quella nei confronti delle persone con disabilità andrebbero prevenute attraverso interventi educativi volti a superare gli stereotipi di genere e a educare al rispetto delle differenze. Tuttavia, qui in Italia, diversi progetti di prevenzione della violenza promossi nelle scuole sono stati osteggiati da molti genitori e da alcuni movimenti prevalentemente, ma non solo, di ispirazione cattolica, che hanno inteso l’educazione al rispetto dei generi, e dei diversi orientamenti sessuali, come “promozione dell’omosessualità”.

Misure di contrasto e di risposta
Una volta preso atto dell’esistenza del fenomeno della violenza nei confronti delle donne con disabilità è necessario pensare a delle misure di contrasto e di risposta. A questo punto si pone il problema dell’accessibilità e dei diversi modi in cui essa andrebbe declinata: in relazione ai diversi tipi di disabilità (motoria, sensoriale, intellettiva), in relazione ai luoghi (ad esempio: accessibilità delle strutture di primo soccorso e delle strutture di accoglienza), e in relazione ai servizi (per la comunicazione, per l’assistenza fisica, per il supporto a chi ha una disabilità intellettiva).
Per inventare percorsi di uscita dalla violenza occorre mettere in campo competenze relative sia alla violenza (e ai suoi meccanismi), sia alla disabilità. Però occorre anche uscire da certe rigidità: non è detto che la risposta più adatta a una donna con disabilità vittima di violenza sia una comune casa rifugio pensata per le donne che hanno subito violenza, potrebbe essere, ad esempio, una struttura pensata per le persone disabili. Non è detto che chi agisce violenza sia sempre un uomo, né che la vittima di violenza sia sempre e necessariamente la persona disabile e non, sempre ad esempio, la caregiver schiavizzata dalla persona con disabilità di cui si prende cura. Per le donne impegnate nella lotta alla violenza sulle donne ipotizzare che anche le donne possano essere autrici di violenza nei confronti delle persone con disabilità non è un’acquisizione semplice da elaborare. Ma l’onestà intellettuale impone di tenere aperta la mente a tutte le possibilità, anche quelle più scomode e dolorose per noi.

Molta documentazione d’interesse è raccolta nella pagina dedicata al tema della violenza contro le donne curata dal Gruppo donne UILDM

2. Prendersi cura delle inevitabili specificità

di Pierfrancesco Majorino, Assessore alle Politiche Sociali e Cultura della Salute Comune di Milano

Nell’ambito delle giornate che, in occasione del 3 dicembre, come assessorato delle Politiche Sociali abbiamo deciso di realizzare con il Terzo settore, per riflettere e ragionare su le politiche, gli interventi, i servizi – tra difficoltà e innovazioni – riguardanti le persone con disabilità, è importante accendere un faro, quindi ritagliare uno spazio di discussione sulla questione molto rimossa della violenza di genere in relazione a donne con disabilità. Esse sono portatrici, inevitabilmente, di fragilità e, pertanto, possono essere più facilmente sottoposte alla pratica dell’abuso, all’assenza del rispetto, al ricatto o addirittura alla violenza fisica efferata.
Il 94,5 per cento dei casi di violenza degli uomini sulle donne, registrati dai Centri antiviolenza della città di Milano, sono episodi consumati tra le mura domestiche a opera di un compagno, di un amico, di un operatore, che ha a che fare con la donna stessa. Ragioniamo su un fenomeno che purtroppo è molto radicato, è trasversale e taglia ceti e condizioni sociali, svolgendosi nell’ambito di relazioni date come assolutamente naturali o perché c’è un legame vero e proprio d’amore, di affetto, o perché c’è una relazione già preesistente.
È vero che spesso il tema della violenza sulle donne con disabilità non è considerato come una questione da affrontare con delle inevitabili specificità, in relazione al quale realizzare nei servizi un salto di qualità, innanzitutto nella capacità di intercettare le problematiche connesse, ma anche in un’ottica di prevenzione rispetto all’abuso e alla violenza, per coglierla prima che essa si manifesti all’esterno. Diciamo sempre che, quando si ragiona di violenza di genere, siamo di fronte a una punta di iceberg rappresentata dai grandi, tragici e dolorosi episodi e poi, sotto il livello del mare, vi è una costellazione di pratiche anticipatorie assolutamente terribili che tendono a creare condizioni di segregazione o ad alimentare meccanismi di ricatto. Credo che, anche nel caso della violenza agita sulle donne con disabilità, dobbiamo ragionare proprio di questo: di come riusciamo ad affrontare la violenza in relazione agli episodi più drammatici ed efferati, ma anche di come porre attenzione a tutto ciò che è il vissuto che li precede, che in qualche modo li può alimentare, in alcuni casi costruendo le precondizioni, legate in particolare a relazioni distorte tra le persone.
Credo che dobbiamo fare un lavoro di questo tipo: da una parte, mi permetto di dirlo con molta modestia – senza pensare di dare lezione a nessuno – abbiamo bisogno di decidere che di questo problema ce ne facciamo carico e ce ne occupiamo, cosa che non sempre è accaduta, anzi; dall’altra dobbiamo comprendere come riuscire a dire alle donne e alle ragazze con disabilità di questa città che non sono sole, per la presenza di servizi, centri, soggetti a cui potersi rivolgere. In questo caso è evidente che dobbiamo giocare in una messa in relazione tra le esperienze organizzate che si occupano di disabilità (che la persona disabile incontra in ragione della propria condizione, nella necessità di trovare sostegno) con ambiti che si occupano di violenza di genere, quindi centri antiviolenza, convenzionati, pubblici e privati, che agiscono su questo fronte.
“Le donne con disabilità non sono sole” è la cosa che affermiamo, ma vorremmo dir loro anche: “Non siete sole contro la violenza”. Qui dobbiamo fare un lavoro in più, nel senso che va sviluppata un’azione ancora più sottile ed efficace nel sapersi rendere utili e prima ancora nel sapere intercettare il problema. Penso che questo balzo di qualità sia da fare nel momento della prevenzione della violenza e in quello della presa in carico della donna che la subisce, così come nella fase di sostegno e ricostruzione dell’autonomia della persona che subisce violenza. Se è vero che la violenza di genere si consuma in mura domestiche o in relazioni spesso conosciute e praticate, mettendo in gioco la dinamica della relazione tra i generi e la dimensione del ricatto, chiama in causa la ricostruzione della biografia futura. Tutto ciò che riguarda la questione cruciale dell’uscita dalla violenza per le donne con disabilità ci chiede un di più di sensibilità e strumenti. È il motivo per cui questa discussione e confronto non è per noi un eccentrico dibattito che ci è stato proposto, bensì è un momento molto significativo per irrobustire il complesso degli interventi già esistenti, quindi migliorare la qualità della rete e dell’offerta nel campo delle politiche sociali. Essenziale è procedere nella formazione degli operatori, delle operatrici, perché intercettare la violenza, riuscire a comprenderla come tale in questo caso, delle donne con disabilità, non credo che sia né facile, né agevole, né per forza facilitato dalla donna o ragazza che la subisce, perché i condizionamenti possono essere tanti e di vario tipo. Credo che vada particolarmente presidiata, come si evince anche dai materiali che hanno istruito vari momenti di confronto sul tema a livello nazionale, la questione della formazione dell’operatore che gioca un ruolo particolarissimo perché figura molto rilevante in questo caso, in quanto può essere sia il principale alleato contro la violenza sia il soggetto che la esercita.
Penso che sia davvero importante questa riflessione collettiva, assolutamente non banale, ogni intervento aggiunge un punto di vista, uno sguardo, un pensiero utile nella direzione in cui vogliamo andare. Lo dico senza retorica, per contrastare la violenza sulle donne con disabilità bisogna portare avanti un messaggio che non costituisca un’ulteriore segregazione in risposta alla violenza, con un’idea assolutamente positiva di promozione dei diritti delle ragazze e delle donne con disabilità, che sono innanzitutto ragazze e donne.
Credo anche che sia molto importante riuscire a non dare per scontata la relazione con le istituzioni preposte all’azione repressiva, all’accertamento, quindi con la magistratura e le forze dell’ordine. Noi abbiamo istituito a Milano un Tavolo inter-istituzionale sulla violenza di genere, formalizzando il rapporto tra Comune e Rete centri antiviolenza, che in alcuni casi hanno una storia gloriosa e pluridecennale. Siamo ancora al momento un po’ liturgico del confronto, vogliamo lavorare di più e meglio sulla formazione specifica degli operatori, proprio su come interpretare la violenza, che tipo di prime risposte dare e così via.
Ci troviamo totalmente in sintonia, ora andrò in Consiglio comunale dove porterò questa sciarpa rossa che simboleggia il “Posto occupato”, ricevuta ora dalla Rete delle donne AntiViolenza di Perugia, anche noi abbiamo dato vita a momenti di questo genere, è un testimone utile in una corresponsabilizzazione che ci deve sempre vedere coinvolti.
Sono convinto del fatto che la rete degli attori sociali che intervengono nel campo delle politiche sociali nella città di Milano non può che essere grata di questo contributo che può arricchire la qualità dell’operato di tutti. Vi ringrazio di questo confronto, tappa di un lavoro in comune. 

1. Diventare organismi ricettivi

di Martina Gerosa 

Le statistiche dicono che il numero di donne uccise in Italia è stabile, non ci sarebbero indicazioni di aumenti improvvisi. E dunque le donne morte in questi giorni sotto i colpi di uomini assassini sono state colpite da un’insolazione o sono danni collaterali di un’estate particolarmente calda. Non amo le statistiche, perché penso che anche una sola persona ha diritto di vivere, e ha un nome, un volto, una storia. Ma come uomo sono colpito da quanto leggo, da quanto vedo. Proprio perché ho sempre amato le donne, moltissimo, e continuo anche adesso, che ho superato i sessant’anni. Tranquilli, sono fedele per natura, e non sto parlando solo di passione amorosa, ma proprio di amore per le donne, che hanno riempito la mia vita di colori, di emozioni, di episodi, di condivisione, di speranze, di battaglie, di risate, di malinconia, di dolore, di gioia, di cose concrete da fare insieme, giorno dopo giorno.
Non mi è mai passato per la testa di usare violenza fisica nei confronti di una donna, e non perché vivo in sedia a rotelle. Potrei riuscirci anche da qui, su questo non ho dubbi. È proprio perché l’idea di possesso, di proprietà sulla donna, non mi appartiene, non fa parte del mio bagaglio di viaggio nell’esistenza. So di non possedere del tutto neanche me stesso, dal momento che il corpo non sempre risponde ai comandi del cervello o del cuore. Figurarsi se posso immaginare una sorta di dominio su un essere diverso da me. Io amo la relazione, la curiosità, la diversità di approccio, la possibile convergenza di saperi e di istinti, la piacevolezza dell’aspetto, la freschezza mentale, la spregiudicatezza, l’imprevedibilità, l’estro interiore, la tenacia, la concretezza, la tenerezza, la fragilità, la forza, la resistenza delle donne.
Le donne non si riposano mai, o quasi. E spesso sono proprio le giornate della solitudine, quelle che coincidono con la fine dell’anno o con il Ferragosto, a risultare le più pericolose per la loro incolumità, perché gli uomini non accettano di rimanere da soli, si portano questa tara fin da bambini, da quando cercavano di infilarsi nel lettone, fra mamma e papà. Le donne sono molto più indipendenti, anche nella sofferenza. Ecco perché mi piacerebbe che il Ferragosto venisse dedicato a loro, alle nostre compagne di vita. Una giornata del rispetto e dell’amore, senza bisogno di cerimonie o di gesti retorici, ma solo di un pensiero collettivo. Un pensiero capace di raggiungere le menti bacate degli uomini capaci di violenza. E comunque un pensiero che renda merito alla presenza delle donne, fondamentale nella nostra vita. Buon Ferragosto, amiche e compagne.
(Franco Bomprezzi, “Dedichiamo il ferragosto alle donne”)
[Testo apparso il 13 agosto 2013 su FrancaMente, blog di Franco Bomprezzi su Vita.it [http://blog.vita.it/francamente/2013/08/13/dedichiamo-il-ferragosto-alle-donne]  

Ricordo come fosse ieri il giorno dello speciale flash mob di Reatech a Milano, sul finire di settembre 2013, quando Franco e io ci trovammo fianco a fianco in piazza per i diritti delle persone con disabilità. Fu allora che gli parlai la prima volta della vicenda in cui mi ero imbattuta, per cui stavo cercando come un segugio qualsiasi traccia mi portasse a capire come affrontare e gestire situazioni di donne con disabilità vittime di violenza.
Il saggio amico mi parlò allora di Simona Lancioni del Gruppo Donne UILDM: “lei sta facendo una ricerca accurata di ciò che esiste in Italia sul tema”, così mi disse.
Simona – che poi sarebbe diventata una grande amica – l’avrei conosciuta due mesi dopo tra Firenze e Siena, a Empoli, al convegno di presentazione del progetto dello sportello Aurora dedicato al tema della violenza sulle donne con disabilità curato da Rosalba Taddeini e le straordinarie donne dell’associazione Frida di San Miniato con l’AIAS di Empoli. Della “violenza silenziosa sulle donne con disabilità” e dello stesso progetto Aurora Franco aveva raccontato sul finire d’agosto sulla testata Superando, di cui era direttore.
In mezzo, in occasione del Ferragosto, Franco aveva scritto il bellissimo, commovente inno d’amore dedicato alle donne troppe volte vittime di violenza che, a distanza di due anni, in una nuova calda estate, ripropongo sentendo forte la presenza del nostro “cavaliere ruotante” nell’assenza.
Questa monografia di HP-Accaparlante la dedichiamo all’amico e compagno di strada Franco Bomprezzi, che sarebbe stato con noi a moderare il workshop nazionale “Donne con disabilità: inventare e gestire percorsi di uscita dalla violenza” tenutosi il 1° dicembre 2014, se la malattia non l’avesse costretto a dare forfait, fino all’ultimo credette infatti di potercela fare, a essere presente in un’iniziativa di cui sentiva la grande importanza.
Al di là delle idee e delle esperienze che sono state condivise in quell’occasione, raccolte ora in questa monografia, è stato fondamentale “incontrarsi”, da ogni parte d’Italia, per condividere, mettere in comune ciò che è stato detto (molto) e fatto (poco) nel nostro Paese per le persone con disabilità vittime di violenza.
Da dove ha origine questo workshop?
Alla mia domanda “Dove si può orientare una donna con disabilità vittima di violenza?” rivolta a una moltitudine di esperti (psicologi, assistenti sociali, medici, ricercatori e formatori…) da cui mi sarei aspettata chiari suggerimenti per l’azione, per mesi ho ricevuto di tutta risposta un imbarazzante silenzio.
Ma come mai questo mio nuovo interesse di ricerca? Nel 2013, a primavera inoltrata, era ormai già quasi estate, ricevetti un messaggio come in una bottiglia gettata nell’oceano di internet da una giovane donna che manifestava sofferenza per la condizione in cui viveva tra le mura domestiche. Dapprima non diedi più di tanto peso alla sua richiesta di aiuto, che via via, attraverso uno scambio di messaggi sempre più fitto ho avvertito come impellente.
Se sulle disabilità ero competente sia a livello di esperienza che di conoscenza, anche scientifica (era questo il motivo per cui mi aveva intercettata), di violenza di genere io non sapevo fino a quel momento nulla. Sapevo solo che troppo spesso tra le notizie dei media ce n’è una che racconta di un atto efferato di violenza sulle donne, ma non avendola mai percepita come realtà vicina, tra le tante sofferenze del mondo non me ne ero mai fatta carico.
Questa volta la violenza sulle donne bussava alla porta del mio cuore e della mia intelligenza.
La violenza combinata con la disabilità è davvero micidiale: di una matassa già normalmente complessa da districare diventa ancora più difficile trovare il bandolo.
L’informazione sul tema della violenza di genere nella società è sempre poco fluida, condizionata da molti stereotipi, figuriamoci cosa possa accadere in presenza di disabilità. Ho focalizzato inoltre un primo problema quasi banale, che ho iniziato a sollevare in ogni occasione mi si presentasse: numeri di telefono e sportelli possono non essere mezzi sufficienti per garantire l’accessibilità dei servizi antiviolenza, anzi in certi casi possono essere barriere.
La prima persona con cui ho trovato il modo di confrontarmi sul tema a cuore aperto è stata Giovanna Di Pasquale del Centro Documentazione Handicap di Bologna. Possibile che non ci fossero punti di riferimento nei nostri territori, per poter affrontare la situazione della giovane donna con i mezzi e le competenze necessari?
Nell’autunno 2013, a Milano, Corvo Rosso, alias Furio Sandrini, filosofo e satirista, portò –supportato da Giovanna Daniele e altri – in tutte le biblioteche civiche una straordinaria mostra di ben novantanove tavole: “No al silenzio! Basta violenza sulle donne” a cui si accompagnarono incontri ed eventi, per quasi due mesi.
Fu grazie a questa iniziativa, veramente pregevole, che trovai finalmente il bandolo della matassa. Scorrendo il programma degli eventi a cui presi parte, anche solo per capire di più del tema che stava prendendo la mia mente oltre che il mio cuore, ne trovai uno in cui sarebbe stato presentato il progetto Aurora dedicato alla violenza sulle donne con disabilità! Determinante per me, per comprendere ciò che stavo osservando, è stato scoprire il famoso schema, mai visto prima di allora, “La ruota del potere e del controllo” del progetto Duluth nel Minnesota (Stati Uniti). Tutte le donne fin da ragazze a mio parere dovrebbero conoscerlo.
Uno degli incontri che mi colpì maggiormente fu con la dottoressa Nadia Muscialini di Soccorso Rosa. La stessa dottoressa che avrei ritrovato qualche mese dopo, nel febbraio 2014, a un incontro della Rete Antiviolenza del Comune di Milano in occasione del 3° Forum delle Politiche sociali. Il centro antiviolenza Soccorso Rosa dell’Ospedale San Carlo è stato, insieme a Cascina Biblioteca, l’approdo sicuro per la giovane donna che seguivo, dopo mesi di travagliate ricerche.
Per affrontare la violenza sulle persone con disabilità non bastano più solo le ricerche che dimostrano, insieme ai più recenti dati Istat, che il fenomeno è molto grave, colpendo da 4 a 6 individui su 10 contro i 3 su 10 tra i cosiddetti normodotati.
È tragico pensare oggi che, un anno dopo, sia stato praticamente annientato un servizio come Soccorso Rosa, che tra tutti è stato l’unico, insieme a Cascina Biblioteca e a un paio di altre importanti realtà del non profit, ad aprirsi a una richiesta di aiuto tanto particolare.
Grazie a un’elevata capacità di attenzione e intelligenza, flessibilità mentale e creatività fuori dal comune e soprattutto un grande cuore da parte degli operatori, a Milano – in un contesto politico favorevole, pur in presenza di difficoltà legate alle rigidità burocratiche – una rete di persone ha saputo attivarsi in modo da costruire un possibile percorso di fuoriuscita dalla violenza per una persona con disabilità al di là di schemi, procedure e regole, anche col fondamentale supporto dei saperi e delle esperienze che contemporaneamente si sviluppavano altrove in Italia.
Come diffondere la conoscenza sul fenomeno della violenza sulle persone con disabilità e rendere possibili percorsi innovativi ed efficaci ovunque e sempre?
L’auspicio è che questa monografia che raccoglie contributi su questi temi così raramente approfonditi e condivisi, venga portata laddove ci siano persone con mente e cuore aperti, il famoso organismo ricettivo di cui scrisse Simone Weil ne La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano (SE, Milano, 1990):
Un organismo ricettivo, cioè persone il cui compito primo, la cui prima preoccupazione sia quella di discernere i pensieri latenti, i bisogni latenti, e di comunicarli…
Per un simile compito è indispensabile un interesse appassionato per gli esseri umani, chiunque essi siano, e per la loro anima; una capacità di mettersi nei loro panni e di far attenzione ai sintomi dei pensieri inespressi, un certo senso intuitivo della storia che si sta compiendo, e la facilità di esprimere per iscritto sfumature delicate e relazioni complesse.
Date la vastità e la complessità delle cose che debbono essere osservate, si dovrebbe avere un gran numero di osservatori di questo genere; ma in realtà ciò è impossibile. È dunque urgente utilizzare a questo fine, senza eccezione, chiunque ne sia capace.
Buona lettura, buon lavoro e arrivederci al prossimo workshop nazionale.

Nota: Molti dei contributi della monografia nascono dal primo workshop nazionale “Donne con disabilità: inventare e gestire percorsi di uscita dalla violenza”, realizzato in collaborazione con l’Assessorato Politiche Sociali del Comune di Milano e tenutosi il primo dicembre 2014 presso la Casa dei Diritti con il patrocinio dell’Associazione Italiana Disability Manager. L’incontro è stato moderato da Claudio Arrigoni, giornalista della Gazzetta dello Sport e blogger di InVisibili del Corriere della Sera. I testi sono stati raccolti grazie alla stenotipia curata da CulturAbile Onlus, che ha garantito l’accessibilità dell’evento alle persone con disabilità uditiva.

8. L’altra faccia della medaglia: la voce dei figli

Abbiamo deciso di chiudere questa riflessione dando la parola ai figli.
Perché, in fondo, esistono tanti padri quanti sono i figli e nel nostro tentativo di restituire un’immagine il più completa possibile del mondo paterno contemporaneo, non possiamo dimenticarci dell’altra faccia della medaglia.
Abbiamo deciso di non realizzare vere e proprie interviste, bensì abbiamo proposto ad alcune persone con disabilità di raccontarci, secondo la loro diretta esperienza, quale ruolo ha giocato il loro papà nella loro vita.

Un punto di riferimento
Insieme alla mia nonna materna, mio padre è stato una figura di riferimento fondamentale nella mia formazione, sia in quello che io potevo offrire al mondo, sia nella visione che ho del reale. Il suo essere uomo di grande cultura ha avuto un forte ascendente su di me, tanto da sentirmi sempre protetto sotto la sua egida. Questo avveniva soprattutto quando avevo da imbattermi con l’ottusità di alcuni professori o, in senso più ampio, quando avevo da svolgere mansioni di responsabilità nella scuola come nel mondo. Mi bastava dire di essere il figlio dell’avvocato Fulgaro, per ricevere un trattamento più di rispetto da parte dell’altra gente e questo mi dava sicurezza. Sapevo a chi chiedere aiuto, la sua poliedricità gli consentiva di aiutarmi in qualsiasi campo.
Quando sono sopraggiunti i primi problemi di salute a 14 anni, ho trovato non poche difficoltà a relazionarmi innanzi tutto  nell’ambito della scuola, le mia assenze mi facevano restare indietro e mi mettevano in difficoltà. Il fatto che mio padre potesse essere un supporto per lo studio è stato importante. Per via delle mie assenze legate ai ricoveri per la malattia, sono nati contrasti con un professore che ha deciso di essere severo con me e voleva che io recuperassi tutte le materie: mio padre ci parlava e mi aiutava nella mia battaglia con lui. Poi al liceo questi problemi sono continuati e io avevo anche rinunciato a combattere discutendo, litigando; mio padre mi ha aiutato concretamente a finire il liceo in questa situazione. Mi aiutava proprio a fare i compiti, lì dove poteva, per alleggerirmi.
Avevamo un rapporto molto complice, mi sentivo libero di parlargli delle mie difficoltà e di chiedergli aiuto, lui era sempre comprensivo e sempre disposto ad aiutarmi. La conflittualità non ha mai fatto parte del nostro rapporto neanche in adolescenza: mio padre era un tipo allegro e brillante, mi ha trasmesso questa allegria e questo modo di stare al mondo, per me è stato un modello da seguire sempre e comunque. Era un filosofo a tutto tondo, mi ha trasmesso insegnamenti e saggezza, anche perché per i miei problemi di salute ho iniziato ad avere difficoltà a relazionarmi con la gente, lui mi spronava a fare cose, ad uscire, ad andare avanti a testa alta sempre.
È stato principalmente lui a seguirmi nella mia malattia, usando i contatti che aveva con amici medici e portandomi in giro per visite e operazioni, cercava di accorciare i tempi e di ottenere interventi veloci.
Appena finito il liceo, mio padre ha avuto un ictus che mi ha fatto sentire perso, era lui che mi portava per mano ed era la mia guida; da quel momento la mia malattia è peggiorata.
Con i miei fratelli aveva un rapporto di complicità pari al mio, con la differenza che io avevo maggiori necessità e bisogni, dovevo essere seguito di più. È sempre stato una figura molto presente e importante in casa nonostante fosse molto impegnato con il lavoro, ne faceva quattro (avvocato, insegnante, artista, poeta). Mia madre era ancora più presente, casalinga per volontà di mio padre, ma da quando c’è stata la diagnosi della mia malattia lui ha capito di dover essere più presente, che il suo aiuto e il suo sostegno erano maggiormente indispensabili, per questo ha rinunciato in parte ai suoi impegni. All’inizio mia madre è stata la prima a venire in mio soccorso, poi ho chiesto io a mio padre di seguirmi perché ne avevo bisogno, lui così ha iniziato a starmi accanto e a combattere la mia battaglia per finire il liceo con me. 

Non ha mai fatto distinzioni
Mio padre nella mia vita ha avuto un ruolo legato solo all’aspetto materiale: lui era quello che lavorava e quindi sosteneva la famiglia economicamente.
Era mia madre che si occupava delle cure, che mi accompagnava a fare le visite mediche, mio padre non ha mai partecipato attivamente.
L’incontro con lui  avveniva solo di sera, ma si dialogava poco. Quando eravamo piccole, io e mia sorella, non ha mai trascorso del tempo per giocare con noi.
Era una sorta di padre-padrone, dettava le sue regole e io ero tenuta a seguirle. È una figura tuttora autoritaria, per niente affettiva.
Non mi confidavo mai con lui, non c’è mai stato un rapporto intimo.
L’affetto che provava per me non me lo dimostrava con gesti espliciti, forse attribuibile anche alla sua mentalità, alla sua cultura.
Nell’educazione però non ha mai fatto distinzioni tra me e mia sorella.
Mi ha trasmesso solo il suo senso del dovere.
Mi è stato d’esempio e mi ha trasmesso la passione per il lavoro. 

Mi ha sempre insegnato ad arrangiarmi
Mio padre mi ha insegnato il valore dei soldi e si è messo ha spiegarmi quanto valeva la lira (allora c’erano ancora le lire). Anche quando io ho perso la mamma, la prima volta che sono andata in macchina da sola e ho dovuto pagare io, se non avessi saputo quanti soldi dare sarebbe stato un problema.
Lui mi ha insegnato la destra e la sinistra per poter dare indicazioni a qualcun altro, cioè agli autisti che mi accompagnavano.
Dopo la morte di mia madre,  quella che telefonava ai trasporti per dire che mi serviva una macchina nel tal posto, alla tale ora… ero io. Le prime volte mi confondevo perché fino a quel momento non ci avevo mai pensato a fare ciò.
Mio padre mi ha sempre insegnato ad arrangiarmi, l’insegnamento più grande che ho avuto è stato questo. Infatti appena potevo fare qualcosa, io ero esortata a intervenire perché “se puoi fare qualcosa, falla!”. Ero chiamata a contribuire in qualsiasi modo anche economicamente.
Mi ha educata, ad esempio a tavola a mangiare quello che c’era senza protestare. Lui era quello che mi spingeva alla mia indipendenza, mi ha preparata a sapermi organizzare, perché a un certo punto si è trovato a non essere più in grado di aiutarmi fisicamente. Appena ho scoperto questo e la mia voglia di andare fuori di casa, il mio dire “Ormai sono grande e voglio farmi una mia vita”, il voler uscire dall’iperprotezione data da mia nonna che non riusciva ad ammettere di non poter più accudirmi (l’abbiamo dovuta convincere, fu uno degli scogli maggiori che abbiamo dovuto affrontare), ho deciso di prendere una mia indipendenza, una mia strada.
All’epoca ero iscritta all’AIAS (mi aveva iscritto mio padre), un’associazione di genitori che in quel periodo si ponevamo principalmente, e con preoccupazione, il tema del “dopo di noi”. Ma c’era un altro tema molto importante per i figli, quello dell’indipendenza  e di ciò che si desidera per se stessi. 

Credo che ci debba essere un equilibrio tra me e lui
Mio padre è presente nella mia vita. È una figura importante per me.
Della cura della mia persona si occupa principalmente mia madre, ma mio padre interviene nel momento del bisogno.
Quando esprimo la mia volontà di uscire non mi contraddice, anzi mi accompagna anche in discoteca.
Spesso mi abbraccia e mi bacia ma io non voglio che lo faccia.
Quando ero bambino giocava molto con me e al momento della messa a letto mi raccontava delle storie.
Mi ricordo che quando mia sorella era piccola mio padre trascorreva più tempo con lei, ora invece si occupa più di me e stiamo più tempo insieme.
Io penso che sia un buon padre perché mi accompagna fuori e perché mi sta vicino anche se a volte la vicinanza è troppa e ritengo che sia così per via della mia disabilità.
Il rapporto con mio padre tutto sommato mi piace, ma non mi piace il fatto che mi lasci poco spazio.
Credo che ci debba essere un equilibrio tra me e lui.

Con quegli occhi furbi mi potrà dire…
I miei genitori mi hanno raccontato che alla mia nascita i medici avevano comunicato loro una diagnosi molto dolorosa che proprio non si aspettavano: dovevo essere un vegetale  con poca possibilità di sopravvivenza.
Mio padre mi ha detto che inizialmente per lui è stata molto più dura la fase dell’accettazione della mia condizione di bambina disabile rispetto a mia madre perché lei, facendomi fare un percorso di riabilitazione molto intenso all’estero per diversi anni, ha avuto più possibilità di vedere persone simili a me  e confrontarsi con altri genitori. Lui invece, quando ci si trovava in compagnia, si sentiva a  disagio dimostrando il suo imbarazzo nell’avere una bambina con le mie difficoltà. Questo problema con gli anni è sfumato e oggi non esiste più, sento mio padre molto più sereno.
Lui però, osservandomi,  ha iniziato a pensare e poi  a modificare, inventare e  creare degli ausili sia per la mia postura che  ludici, che allora non esistevano ancora. Negli anni ha continuato a costruire per me ausili creativi per migliorare la qualità della mia e della nostra vita in vari ambiti, dal divertimento allo sport, alla vita sociale. Questo suo fare è stato il modo di mettere in pratica la sua creatività oltre che  di sentirsi utile e partecipe ai miei bisogni e desideri.
Fin da bambina ho un ricordo di mio padre che anche nell’accudimento della mia persona era ed è sempre presente insieme alla mamma per aiutarla. Ho sempre sentito la sua vicinanza anche a livello morale, nonostante non mi abbia mai nascosto la realtà, e a volte anche la fatica;  mi sta accompagnando nel viaggio della mia vita sostenendomi e credendo in me. Non vi nascondo che avendo due caratteri molto simili, caparbi, orgogliosi, tosti soprattutto nel periodo adolescenziale spesso ci scontravamo e nessuno dei due voleva cedere. Oggi è più facile per noi discutere e trovare un accordo anche se alle volte deve intervenire il “mediatore”, la mamma.
Durante tutti questi anni ho raggiunto degli obiettivi impensabili all’inizio della mia vita, sicuramente grazie a quella forza di  volontà che ho sempre respirato attraverso la  vicinanza e  l’esempio dei miei genitori. Negli anni siamo riusciti a creare attorno a noi una rete di supporto, dalle istituzioni  ai servizi agli amici, in modo da permettermi di crescere e di non sentirmi più a disagio, ma sentirmi cittadina attiva all’interno della società.
Guardandomi allo specchio riconosco in me alcune caratteristiche molto simili a quelle di mio padre: lui infatti è sempre stato propositivo nell’affrontare le problematiche senza mai abbattersi e anch’io credo di essere una persona positiva. Lui è sempre pronto ad aiutare le altre persone e questa dote nel mio piccolo la sento mia, mi sento soddisfatta e realizzata quando posso aiutare gli altri anche tramite il lavoro che svolgo. Sono come lui piuttosto caparbia e  orgogliosa nel voler risolvere situazioni non di facile soluzione, ma la calma  nel suo agire lo avvicinano molto alla mia lentezza nell’operare. Un lato del nostro carattere estremamente identico è la ricerca della precisione  che comunque non guasta a mantenere ordine intorno a noi.
Dico grazie a mio padre per tutto l’affetto che mi dà. 

7. Racconto, quindi esisto. La necessità dei padri di raccontarsi

Nel suo testo La valigia di mio padre, Orhan Pamuk racconta di cosa significhi per lui essere uno scrittore. Il percorso e il ragionamento che ci propone partono dal racconto della relazione con suo padre e dal timore di aprire la valigetta che gli aveva lasciato in eredità, dentro la quale il padre conservava ciò che aveva scritto. Paura del confronto, da una parte, e desiderio che suo padre fosse solo suo padre e non un padre scrittore, dall’altra. Nasce quindi una riflessione rispetto a cosa significhi scrivere e a chi è lo scrittore, anche in relazione alla propria storia più personale.
“Lo scrittore che si chiude in una stanza con i suoi libri o intraprende un viaggio dentro se stesso scoprirà anche la norma indispensabile della grande letteratura: l’abilità di raccontare la propria storia come se fosse la storia di un altro e la storia di un altro come se fosse la propria”. (Cfr. O. Pamuk, La valigia di mio padre, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2007).
Prendendo in prestito il ragionamento di Pamuk, mi chiedo se, quando un padre scrive della propria esperienza, compie lo stesso percorso descritto dallo scrittore.
Parlando di sé, raccoglie anche la storia di tutti gli altri? Racconta la propria esperienza come se fosse l’esperienza di ogni altro padre?
Io credo di sì, perché penso che nel momento in cui qualcuno decide di raccontare il proprio mondo, piccolo o grande che sia, nel momento in cui descrive il proprio vissuto, anche quello più personale, ci presenta argomenti, emozioni e desideri che sono parte della storia di ogni padre.
Raccontare come una necessità, quindi. Quella di conoscere, di condividere e, soprattutto, di affermare la propria esistenza, in un contesto sociale che, come abbiamo già detto, ancora fatica a capire qual è il ruolo specifico dei padri.

7.1. Quando un padre si dedica, prima alle radici poi alle gemme
Massimiliano Verga ha tre figli: Jacopo, Cosimo e Moreno.

A volte dice che ne ha 2+1, poi però rettifica e sostiene di averne tre.
È tre volte padre, perché per ogni figlio la sfida e il libretto di istruzioni è diverso, anzi sostiene che il libretto di istruzioni lo devi scrivere tu, mettendo in fila ciò che l’esperienza, sempre differente, ti insegna.
Nel suo Un gettone di libertà Massimiliano racconta il proprio percorso di padre, un’autobiografia che passa dalla passione per l’Inter alle difficoltà legate al sistema assistenziale ma anche un insieme di riflessioni sui propri ruoli, quello di padre e quello di figlio. Questo, infatti è l’aspetto forse più interessante e nuovo, rispetto ad altri testi che parlano di paternità. Leggendo il libro scopriamo l’intreccio tra la sua esperienza in quanto padre e quella come figlio. Nel momento in cui assapora il gusto della prima paternità, infatti, Massimiliano Verga scopre che suo padre “è una persona diversa da quella che gli ha dato il nome”.
Questa specie di cortocircuito, tra l’essere padre e l’essere figlio, porta l’autore a unire le due riflessioni e ad affermare che “è vero che i figli sono di chi li cresce. E non conta il sangue. Il sangue è un dettaglio. Non è il sangue a renderti genitore di un bambino […] Sì i figli sono di chi li cresce. Ma questa frase ha senso soltanto se dai un significato preciso e inappellabile a che cosa si debba intendere per ‘crescere un figlio’ […] I figli non appartengono a nessuno. Quando li metti al mondo è tuo dovere crescerli come meglio ti viene. Hai una responsabilità nei loro confronti, ma non sono tuoi […] la paternità non è un fatto di sangue. Per come la vedo io, la paternità e qualcosa d’altro: è un susseguirsi di domande e voglia di esserci”.
Massimiliano parla del suo essere padre, dal punto di vista particolare del suo essere figlio e, soprattutto, del suo essersi scoperto un figlio “diverso”. Come se, a un certo punto, non potessimo parlare di cosa significa per noi essere padri, avere una responsabilità sui figli e sul loro futuro, se prima non facciamo i conti, fino in fondo, con la nostra esperienza in quanto figli. Come se potessimo dedicarci ai rami e alle gemme solo dopo aver conosciuto le radici e, per quel che è possibile, dopo averle curate.
Oltre a questo nucleo, nel libro c’è un altro aspetto specifico del ruolo paterno che trovo molto interessante e che si potrebbe raccogliere in tre parole chiave: l’autonomia, la libertà, il futuro.
“Non esiste un manuale di istruzioni sulla paternità buono per tutte le occasioni. Esiste soltanto una risma di fogli bianchi che i tuoi figli ti aiutano a riempire. Fogli pieni di inevitabili errori, poesie improvvisate, arrabbiature ricorrenti, dolci sorprese… Dei miei tre figli, uno è disabile. Moreno non vede, non parla e non può capire quasi nulla di quello che gli succede intorno. Moreno  non sarà mai un uomo libero, anche se io fossi il padre migliore del mondo. Perché Moreno non può scegliere”.
Un’affermazione forte che, come abbiamo visto nelle interviste rivolte ai padri, non sempre è condivisa o forse richiederebbe un confronto approfondito rispetto a ciò che si intende con il termine libertà. Ma, al di là di un semplice giudizio, la cosa interessante del ragionamento di Verga è la necessità per il padre di interrogarsi, riflettere e disegnare il proprio personale percorso che unisca questi tre temi: come l’autonomia del figlio, rispetto alla costruzione del proprio futuro, può esplicitarsi attraverso atti, più o meno piccoli, di libertà?

7.2. Quando un padre impara a cadere
Diogo Mainardi, giornalista e scrittore brasiliano, trapiantato a Venezia, porta alla nostra attenzione un aspetto importante della genitorialità, quello dell’accettazione dell’imperfezione dei figli.

Ne La caduta – I ricordi di un padre in 424 passi Mainardi racconta del figlio Tito, nato a Venezia con un danno cerebrale molto grave causato dell’imperizia di un medico durante il parto. Al centro della narrazione ci sono le infinite cadute di Tito e la sfida a riuscire a fare 424 passi consecutivi. Un passeggiata, potremmo dire, durante la quale l’autore connette arte, scrittura, storia. È un libro sentimentale senza essere sentimentalistico, riconduce la loro vita privata a una circolarità che riguarda tutti, che tutti coinvolge. Perché, in fondo, lo svolgersi della vita non è una linea retta ma una serie di cerchi che si susseguono nello spazio e nel tempo.
Dopo i primi tempi di angoscia e terrore per ciò che era successo all’ospedale e per quella vita inaspettata che i due genitori si trovano tra le mani, succede qualcosa di inaspettato e, allo stesso tempo, inconsciamente desiderato, un’occasione per cambiare il punto di vista.
Anna, la moglie di Mainardi e la mamma di Tito, cade inciampando in un tappeto. Non si fa nulla ma, come spesso capita quando vediamo qualcuno cadere, scoppia una risata. Il primo è Tito, si mette a ridere e lo stesso fanno Diogo e successivamente anche Anna.
“La paralisi celebrale di Tito diventò immediatamente più familiare. La comicità slapstick era un linguaggio che capivamo tutti. Tito cade. Mia moglie cade. Io cado. Ciò che ci unisce – che ci unirà sempre – è la caduta”.
Caduta come simbolo della precarietà, della fragilità, della difficoltà e come passaggio necessario di ogni crescita. Chi, infatti, non è caduto quando in casa stava imparando a camminare oppure dalla bicicletta mentre cercava di imparare a stare in equilibrio sulle due ruote?
A tutti è successo ed è proprio attraverso quelle cadute che abbiamo imparato qualcosa.
Cosa succede, però, se le cadute non rimangono un fatto dei primi anni di vita ma si definiscono come un aspetto caratteristico della persona?
Cosa succede, non tanto a un livello di praticità, per il quale è possibile identificare strategie adeguate, quanto a un livello simbolico? Cosa si fa con quell’aspetto di imperfezione che giornalmente viene sottoposto alla nostra attenzione e che ci definisce come incapaci e imperfetti?
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Vertigo
Quando Tito cammina, i suoi muscoli si contraggono. Quando i suoi muscoli si contraggono, lui si spaventa. Quando lui si spaventa, i suoi muscoli si contraggono ancora di più.
Vertigo, in Brasile, venne tradotto con il titolo di Um Corpo que Cai (Un corpo che cade). Tito è un corpo che cade.
Ogni passo fatto da Tito equivale a un gradino salito da James Stewart, nel campanile di San Giovanni Battista. Sí: manca Alfred Hitchcock. Sí: manca Kim Novak. Sí: manca la colonna sonora di Bernard Herrmann. Il resto – l’ho già detto – è identico. Gli occhi sbarrati. La bocca aperta. La lingua secca. Le gambe rigide. Il sudore che scorre dalle basette. Lo zoom in. Lo zoom out.
Nelle ultime scene di Vertigo, James Stewart vince finalmente la paura dell’altezza e sale sul campanile di San Giovanni Battista.
Dice:
– Ce l’ho fatta.
Anche Tito, gradino dopo gradino, ce la sta facendo.
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Alla fine di Vertigo, Kim Novak cade dal campanile di San Giovanni Battista. Cade e muore. James Stewart sopravvive. Tito è James Stewart. Cade e sopravvive.
Tanto peggio per Kim Novak”.
Il ruolo del padre, nel percorso di accettazione del figlio, bilancia quello della madre. Il padre infatti sostiene il figlio nel distacco dal mondo protettivo materno, necessario ma che a un certo punto va abbandonato, aiutandolo a sperimentare le sue capacità, affrontando difficoltà e cadute, senza sentirsi in colpa per ciò che succede, probabilmente perché più facilitato nel chiedere al figlio adattamento, responsabilità e un confronto franco con la realtà.
Da qui, infatti, parte quel processo di accettazione che, pur riguardando tutti, chiede alla persona con disabilità uno sforzo maggiore, forse un cadere e un rialzarsi una volta in più. E il padre può svolgere un compito importante nel chiedere al figlio uno sforzo e un dolore necessario a questo rituale, centrale nel processo di crescita. Se parliamo di accettazione, inoltre, dobbiamo riconoscere al padre una maggiore capacità di accettare difetti e limiti del figlio perché, al contrario della madre, riesce più facilmente a non ricondurli a una propria responsabilità; il padre riesce più facilmente a rinunciare al figlio del desiderio, il figlio cioè come lo si sarebbe voluto, per accettare il figlio reale, così come è. L’accettazione da parte dei genitori, intesa come riconoscimento dell’identità psicofisica del figlio, indubbiamente favorisce un percorso di accettazione anche nel figlio.
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Come i genitori di Christy Brown, Anna e io imparammo a ignorare tutte le prognosi da bestioli dei medici, ottimistiche o pessimistiche. Come i genitori di Christy Brown, Anna e io imparammo a festeggiare ogni passo in avanti di Tito, per quanto barcollante.
A partire da un determinato momento, imparammo a festeggiare perfino i suoi capitomboli. Nei primi anni, Tito si sfracellava cadendo. Con il tempo andò sviluppando sempre nuove tecniche per attutire le cadute.
Saper cadere ha molto più valore che saper camminare”. 

7.3. Quando un padre disegna un orizzonte
“Io, quando ho saputo di te bambina mia, mi sono sentito derubato del futuro. Non parlerà mai, mi avevano detto. Anzi no, l’avevo saputo dalla Rete spulciando gli inevitabili e numerosi siti dedicati alla sindrome che stavano per diagnosticarti […] È del tutto insospettata la quantità di attese implicite che governano un evento come il diventar genitori. Attese che esplodono tutte assieme davanti ai tuoi occhi proprio quando ti accorgi d’improvviso che non puoi più attenderle […]
Il problema, con un figlio disabile, è che il futuro è, assieme, segnato e del tutto imprevedibile. Non mi avresti salutato dai gradini con la manina il tuo primo giorno di scuola. Non mi avresti raccontato della gita con i tuoi compagni in quel posto bellissimo che all’inizio non ci volevi neppure andare […] E poi nessuna possibilità di vederti uscire la sera con gli amici tra una quindicina d’anni, attanagliato dalla voglia di non permettertelo ancora e dal desiderio di vederti più grande. Di litigare con te perché non studi o studi troppo, perché non ti impegni abbastanza o non ti diverti abbastanza, perché pensi solo ai ragazzi o non ci pensi per nulla E i nipoti? …lasciamo stare […] Il problema è che la genitorialità, questa parola oggi buona per far allentare i cordoni della borsa ai finanziatori di turno di qualsivoglia intervento sociale, è essenzialmente progetto. Almeno al maschile. E io sono “al maschile”. Ossia sono tuo padre, e che cos’è un padre se distoglie gli occhi dall’orizzonte per piegare il proprio sguardo solo sulle necessità quotidiane di cura? Nulla. L’esperienza del nulla infatti è quella che segue immediatamente quella del furto del futuro”.
Igor Salomone, professionista dell’educazione, scrive un diario nel quale raccoglie la sua esperienza di padre. In Con occhi di padre – Viaggio intorno a quel che resta del mondo l’ autore descrive situazioni, eventi, ci offre alcune riflessioni ma anche le sue emozioni di uomo che si trova ad affrontare la sfida della paternità con una figlia, però, che scardina tutte le sue certezze, che mette in crisi l’immaginario comune di chi si trova ad accogliere un figlio.
Questo brano sottolinea alcuni aspetti centrali nella relazione genitoriale e, nello specifico, paterna: futuro e progetto.
Come è stato detto più volte, il padre ricopre una funzione di differenziazione. Aiuta il figlio, o dovrebbe aiutarlo, a differenziarsi dal contesto familiare volgendo il proprio sguardo al di fuori di tale contesto, cercando un orizzonte proprio, un percorso personale. Partire, cioè, staccarsi dal conosciuto per scoprire il proprio futuro.
Ma com’è possibile questo, quando tuo figlio è disabile e, come ci dice Salomone, non potrà corrispondere all’idea sociale e condivisa di figlio? Come riuscirà il padre a favorire la differenziazione quando il figlio richiede assistenza continua?
“L’essenza dell’umano è trasmettersi, ovvero consegnarsi a qualcuno perché a sua volta si consegni a qualcun altro. E a noi, amore mio, sembra negata ogni chance di parteciparvi?
… Forse l’ho già detto, ma io sono tuo padre e il mio compito è portarti nel mondo in questo mondo, insegnandoti a incontrarlo. Quindi, non è costruirtene uno tutto per noi e viverci felici fino alla fine del nostro tempo”.
Differenziare e progettare, quindi, significano integrare e non escludere, passeggiare nel mondo come cittadino e non come straniero, protagonista della storia secondo le proprie abilità e potenzialità. Non, quindi, la ricerca di una realtà parallela ma l’acquisizione degli strumenti adatti a far parte di questo mondo.

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.4. Quando un padre cerca di mettere insieme i pezzi

“Una spiaggia infinita di sabbia fine, un orizzonte blu, un sole che non tramonta mai e un secchiello rosso”.
Ecco com’è il piccolo paradiso di Maria, una bambina allegra e sorridente. Diversa dalla maggior parte delle altre bambine perché autistica.
Maria ha un papà che si chiama Miguel.
Miguel ha sempre disegnato, prima per lavoro poi per permettere a sua figlia Maria di ricordare, o meglio, di poter gestire, conservare, organizzare i suoi ricordi.
Maria vive alle Canarie con la madre, mentre suo padre Miguel vive a Barcellona.
Maria e io di Miguel Gallardo è il racconto di una vacanza, di un tempo dedicato alla relazione tra il padre e la figlia. È una storia autobiografica, un viaggio, un pezzo di vita di una vita tutta divisa in piccoli pezzi.
Miguel Gallardo è un famoso illustratore e fa parte della corrente comics, un genere di fumetti dal contenuto umoristico.
Anche il libro, in effetti, può essere considerato un grande fumetto con un po’ di parole e tanti disegni, schizzi quasi infantili, che parlano di cose semplici, di un quotidiano comune a tanti. Piccole abitudini, strategie, scelte, percorsi, desideri, scoperte, paure, soluzioni, stanchezza.
Una vita quasi banalmente normale.
Come sono normali tutte le vite che si srotolano tra un pezzo e l’altro, tra un prima e un dopo, tra un problema e una soluzione e un altro problema.
“Oltre ai capelli folti e robusti, bianchi io e neri quelli di Maria, dalla mia parte lei ha ereditato il naso e da quella di sua madre il viso rotondo con le fossette. Condividiamo anche manie e abitudini, le mie me le sono inventate io, le sue sono una fusione tra la sua disabilità e la testardaggine che ha preso da sua nonna. Tutti e due siamo restii ai cambiamenti e vogliamo che le cose siano sempre al loro posto”.
Questa normalissima vita, diventa diversa negli occhi degli altri che si girano per osservare Maria quando grida improvvisamente, quando fa un capriccio o quando comunica in quel modo così strano.
Il viaggio alle Canarie raccontato nel libro, infatti, contiene un altro viaggio, quello dentro l’autismo.
Il libro spiega l’autismo raccontandoci la vita di Maria, un pezzettino della sua vita.
Quello che fa il papà/scrittore, in fondo, è qualcosa di tipicamente paterno: aiuta la figlia a mettere insieme i pezzi. Nel caso specifico raccoglie, riordina e unisce per restituire alla figlia un ordine, il proprio, a partire dal quale lei possa dar senso alla vita, la propria.
Possiamo affermare che è del paterno la capacità di restituire al figlio un’immagine di se stesso, ricomponendo i pezzi di una storia – temporale, emotiva e cognitiva – con i quali il figlio potrà cominciare quel percorso di riconoscimento di chi è e di scoperta di chi vorrà essere.
Il padre può fare questo perché è capace di lasciare spazi vuoti, di accettare un incompiuto che solo il figlio può compiere. Non sempre i lati dei pezzi di questo puzzle che il padre dona al figlio combaciano, ci sono pezzi che si ripetono mentre altri ancora sono nascosti.
Si tratta di un intreccio che però rispetta i tempi e accetta le distanze, che non ha bisogno di controllare ma nel quale il padre gioca un ruolo di guida, pronto ad accogliere, non a imporre.
Questa distanza non definisce una lontananza ma rende le relazioni più forti perché lascia spazio allo sviluppo dell’identità, spazio di manovra perché succeda qualcosa che, nel caso di Maria e del suo papà Miguel, spesso, è divertente.

“E questo è tutto,
Maria è Maria
e io sono il suo
papà, a volte ci
arrabbiamo, il più
delle volte ridiamo,
non la smettiamo
mai di parlare,
soprattutto lei.
Mi piace disegnare
per lei e che questo
sia un modo
di comunicare tra
noi. Maria è la
figlia migliore che
si possa desiderare”.

6. Se uniamo i punti! Le interviste ai papà

In una riflessione sul ruolo del padre nel contesto sociale e, in particolare, nella relazione con figli con disabilità, mi è sempre stato chiaro che al centro dovesse esserci la voce dei protagonisti. Quei padri tanto presenti quanto scontati, attivi ma non sempre riconosciuti.
Una voce che, nella specificità del racconto di ogni esperienza, ci permette di individuare alcuni elementi comuni.
Come in quel gioco in cui bisogna unire i punti seguendo l’ordine numerico per formare un’immagine, se proviamo a unire le risposte alle domande di queste interviste, otterremo un possibile profilo del padre contemporaneo e, forse, anche del padre del futuro.
Perché non è forse il ruolo che sarà del padre di domani, quello che i tanti padri con figli con disabilità stanno interpretando oggi? Non il padre con un figlio disabile, ma il padre e basta.
Favoriti o costretti dalla situazione contingente, dovuta alla disabilità, si trovano a procedere su un terreno ancora sconosciuto, dove vive il padre del futuro, uscito dall’oblio in cui si trova a vagare oggi, più consapevole, presente e riconoscibile a livello sociale, culturale e educativo.
È da questa tesi che parte la riflessione che ho condiviso con i padri che ho intervistato.

Le domande
1. Mi presenti tuo figlio/a con cinque parole?
2. Nelle interviste che vengono fatte a madri con figli con disabilità, spesso esce il tema del senso di colpa, inteso come la responsabilità di non avere portato a termine un qualcosa di “buono” e “funzionante”: “Cosa ho sbagliato? È colpa mia?” Per te, come padre, è successo lo stesso? Ti sei posto le stesse domande? E quali risposte ti sei dato? 
3. “La caratteristica del padre sta nel promuovere la differenziazione: il dispiegamento del figlio, delle sue azioni e della sua mente verso il futuro”.  Nessun genitore può controllare il futuro del proprio figlio/a, però può condizionarlo e, in questo aspetto, i padri possono essere spesso protagonisti. Nel tuo caso è stato così? 
4. Massimiliano Verga, nel suo ultimo libro, dice parlando del figlio: “Moreno non sarà mai un uomo libero, anche se io fossi il padre migliore del mondo. Perché Moreno non può scegliere”. Il tema della libertà, intesa anche come autonomia, è legato alla capacità di scegliere ma non solo. C’entrano anche i servizi, i diritti, il contesto, il tipo di disabilità… In che modo pensi di contribuire/aver contribuito a educare un figlio/a libero?
5. La mia tesi di partenza è che l’uomo che si trova a fare il padre con un figlio disabile sia “obbligato” a interpretare un ruolo paterno nuovo, forse quello del padre del futuro. Sei d’accordo con questa mia affermazione? Se sì, in che modo avete definito un nuovo equilibrio con la mamma?
6. Nella vostra coppia, c’è una specificità del ruolo paterno rispetto a quello materno? In cosa si differenziano?
7. Una cosa che fai/facevi con tuo figlio/a per stare bene, per divertirvi, per trascorrere un po’ di tempo insieme?

6.1. Marco e Chiara
Marco, storico collaboratore della nostra rivista, già consigliere della Regione Sardegna e Vicepresidente della commissione permanente Sanità, è tra i fondatori dell’ABC Associazione Bambini Cerebrolesi.
Ora è membro del direttivo nazionale della FISH (Federazione Italiana Superamento Handicap)
Rimane anche ora il papà di Chiara.

1. Chiara, si chiamava Chiara, è andata in cielo a 27 anni lo scorso 15 luglio 2014. La situazione estrema estrema della gravita di Chiara fin dalla nascita (sempre allettata, con assistenza respiratoria, mai parlato con la voce o con altri mezzi) le dava un’aspettativa di vita massimo di un anno.
Direi: Tenace, forte, attrattiva, inclusiva, coccola.
2. Mah, quando sento parlare del presunto senso di colpa delle madri, vado in giro a cercare madri che sentono questo senso di colpa. Ho trovato madri che sono state convinte da professionisti male indottrinati che avevano il senso di colpa. Le madri, così come i padri, provano dolore, tragedia, disperazione e qualche volta, in pochissimi casi non resistono e abbandonano il figlio, così come succede a volte per madri con figli senza problemi che comunque abbandonano i figli, è notorio. Ma se si percorrono strade di sostegno reale, con servizi personalizzati e intensivi domiciliari, di sostegno che non “ruba” il ruolo genitoriale, non lo sostituisce proponendo il ricovero in istituto, strappandolo dai propri genitori, abbiamo sempre madri e padri che affrontano un percorso difficile ma anche pieno di relazioni e di soddisfazioni, una vita impossibile che diventa possibile. Credo di essere diventato una persona migliore io, come padre, so che quello che sono lo devo a Chiara, ho un grande senso di soddisfazione, anzi, sento forte che devo continuare il percorso che Chiara ha tracciato.
3. Proprio per la gravità dello stato di Chiara credo di aver potuto fare un’esperienza di padre molto intensa e particolare, molto completa proprio in proiezione esterna del ruolo di Chiara nella comunità sociale: ogni attimo, ogni secondo in più era una meraviglia, il futuro non mi ha mai spaventato anzi, avevo l’occasione di vivere il futuro nella quotidianità. La differenziazione di Chiara è stata quella, col suo apparente “nulla”, di spingermi a promuovere, insieme ad altri genitori, una rivoluzione epocale nel campo del diritto di tutti a poter essere sostenuti all’interno della propria comunità e non emarginati in luoghi contenitivi specializzati. Questo grazie alla sua stessa esistenza all’interno della sua città, associazione, regione, nazione. Quindi posso dire che di fatto il mio essere padre voleva dire seguire Chiara, sentire Chiara, capire la strada e la misura giusta per tutti, inclusiva e non discriminatoria, a partire dall’estremo di Chiara. Certo bisognava che anche io non rinunciassi ai miei compiti di cura, notturni in particolare, per non perdere la comunicazione anche sensoriale con mia figlia, che lanciava messaggi in ogni maniera. Potrei raccontare tanti episodi concreti ma qui non c’è spazio.
4. Non sono d’accordo per nulla con questa affermazione di Verga. Che cosa è la libertà per me? Non è solo un concetto giuridico di matrice pseudo occidentale. La libertà passa per la ricchezza delle relazioni, qualunque persona privata di relazioni non è libera, anche in un contesto dove potenzialmente sembra essere il padrone delle scelte. E la condizione biologica delle persone non è indice di potenziale poca libertà, anzi… È più libera una persona con disabilità gravissima anche cosiddetta intellettiva, inserita in un contesto familiare o comunitario ricco di relazioni e inclusivo oppure una persona che per 40 anni è costretta a lavorare “liberamente” in un contesto non desiderato, umiliante, solitario, solo per poter sopravvivere? Per questo il mio ruolo di padre è stato quello, seguendo le “indicazioni” di Chiara, di fare in modo che non finisse mai, costi quel che costi, in un istituto. Per renderla davvero ricca di relazioni quotidiane, ovvero libera.
5. Sì, molto. È la mia esperienza. Da subito ho affrontato, come dicevo prima, i compiti di cura, dopo aver deciso paritariamente con mia moglie chi di noi avrebbe lavorato fuori di casa, non era possibile diversamente stante la situazione di nostra figlia. In Sardegna, con i progetti personalizzati di sostegno alle persone con disabilità (che oggi contano un finanziamento di ben 140 milioni di euro, record italiano) abbiamo avuto il rientro al lavoro di numerose mamme – alle quali tradizionalmente sono affidati i compiti di cura – perché sicure di poter scegliere insieme ai propri figli l’assistente giusto di cui fidarsi.
Non rinunciare ai compiti di cura è stato per me fondamentale per tutto il dispiegarsi delle conquiste fatte per Chiara e per decine di migliaia di disabili gravi in Sardegna.
Non “mammo”, appunto, anzi una grande differenziazione di ruoli, sensibilità diverse ma sempre con il legame continuo con Chiara. Ovviamente spero che nessun padre abbia un figlio con disabilità, ma quando senti che quello che provi viene detto pubblicamente anche da altri padri dalle estrazioni più diverse (operai, imprenditori, impiegati, professori, ecc. ) e cioè “Vi sembrerà strano quello che vi dico ma da quando mi è nato questo figlio sono una persona migliore”, capisci che nelle circostanze considerate più drammatiche c’è una opportunità per ridisegnare il ruolo di padre per chiunque. In meglio.

6.2.  Stefano e Greta
Stefano è un commerciante ed è appassionato di informatica.
È il papà di Greta e di Martina.

1. Greta ha 9 anni. Cinque parole potrebbero essere: sorridente, imbranata, entusiasta, maldestra e petulante.
2. Per i primi mesi di vita di Greta, forse il primo anno, mi alzavo ogni mattina chiedendomi cosa avessimo sbagliato e, soprattutto, se avevo spinto mia moglie a fare qualcosa che non doveva fare oppure mangiare qualcosa che non avrebbe dovuto mangiare. Sentivo di avere una qualche responsabilità, di aver fatto qualche errore. Sono piuttosto orgoglioso e un po’ perfezionista e non riuscivo ad accettare che qualcosa fosse andato storto. È stato un periodo difficile, avevo anche pensato di andarmene, credevo di non farcela. Per fortuna, col passare del tempo Greta è poi tornata a casa dall’ospedale, dove era rimasta a causa del parto prematuro. La quotidianità della vita insieme, dovermi occupare di lei, il contatto fisico e qualche incontro con la psicologa mi hanno fatto capire che non c’erano colpe o responsabilità. Ho capito che se avessi accettato l’idea che qualcuno aveva una colpa,  sarebbe stato come dire che Greta era nata sbagliata, mentre così non è. Lei è Greta e basta.
3. Greta è ancora una bambina e, per ora, cerco di non pensare a cosa sarà del suo futuro. Un po’ per paura un po’ perché siamo molto concentrati sul presente. Sia con lei che con la sorella, cerchiamo di aiutarle a crescere capaci di scegliere cosa è meglio per loro. Per quanto mi riguarda, diversamente da mia moglie che tende a proteggerla un po’ di più, io spingo Greta a mettersi in gioco, a provare più cose possibili, cercando di darle tutti gli strumenti di cui ha bisogno. A volte ci scontriamo perché mi faccio prendere la mano e rischio di non tenere conto di quello che le piace davvero o la forzo troppo.
4. A questa domanda non so bene cosa rispondere. Greta sarà mai libera di scegliere quello che vuole? Avrà le competenze per farlo? Boh! Spero di sì ma so anche che sono tante le variabili che intervengono: gli strumenti necessari, le risorse economiche e mentali, i servizi… Come dicevo prima io, per ora, non mi pongo limiti, tutto ciò che Greta e Martina possono sperimentare, lo sperimentano. Anche per capire fin dove si possono spingere, quali sono le cose che è possibile superare e, al contrario, cosa invece è necessario accettare. Passeggiate in sentieri in montagna ma anche campeggio al mare, facciamo gite, se vorranno studiare uno strumento lo faranno; Martina fa danza e Greta fa parte del coro della parrocchia.  Poi io sono convinto che la cosa più importante sia non essere soli. Ecco, forse la vera libertà è quella di poter contare sugli altri. Io e mia moglie cerchiamo di frequentare amici e di essere presenti in vari contesti, ci piace tessere relazioni.
5/6. Partiamo dal presupposto che io vivo da solo dai tempi dell’università, per cui sono abituato ad arrangiarmi in casa, a fare un po’ di tutto. Diciamo che ero ben predisposto a collaborare con mia moglie alla gestione familiare. Seppure sia la mamma a gestire la cura di Greta (dal comprare i vestiti alla cura dell’igiene personale), forse anche perché è una femmina, io ho voluto sempre essere presente per capire, per sapere e per poter intervenire. Come dicevo sono orgoglioso e perfezionista, per cui voglio dire la mia e trovare una soluzione, sempre. A volte, me ne rendo conto, sono insopportabile. Quando mi confronto con altri padri che conosco oppure i genitori dei compagni di classe di Greta, mi rendo conto che sono molto più consapevole rispetto a ciò che succede a mia figlia, sotto tutti i punti di vista.  Il confronto a volte è difficile, perché finisci sempre a pensare a quello che non puoi fare, ti concentri sui limiti. Eppure, come dicevo prima, Greta è così e io mi sento un padre come tutti gli altri. Anzi, un padre diverso come tutti gli altri.
7. Appena ne ho avuto la possibilità ho insegnato a Greta a giocare a carte. Me lo aveva consigliato il pedagogista per aiutarla con i numeri. Da esercizio è diventato un passatempo comune, in estate passiamo pomeriggi sotto l’ombrellone a giocare.

6.3. Roberto e Alberto
Roberto è Presidente dell’Associazione “FaDiVi e oltre” (www.fadivi.it) e rappresentante della Consulta Regionale per la tutela dei diritti della persona disabile della Liguria.
È il papà di Alberto.

1. Mio figlio si chiamava Alberto. È mancato il 27/5/014. Cinque parole per descriverlo: bello, sorridente, sereno, curato, impegnativo, tutelato.
2. La nascita di Alberto ha portato solo gioia nella nostra famiglia. Per i primi 11 mesi Alberto non ha manifestato alcuna problematicità o comunque noi in famiglia non ne avevamo coscienza. Credo di poter dire che Alberto si presentava sicuramente come un bambino allegro, bello.                                                                                                                                                                  Le prime crisi convulsive si manifestarono nel giugno del 1974. Dopo diversi mesi fu il Neurologo prof. De Negri che si espresse in modo duro, scarsamente sensibile ma terribilmente veritiero dicendo: “Vostro figlio non parlerà e non camminerà mai!”. Senz’altro a me e Noemi (mia moglie) cascò il mondo addosso nel sentire questo terribile e inaspettato  giudizio.
Credo di poter ricordare che forse non volemmo accettare questa così infelice diagnosi e,  più che porci domande rispetto a sensi di colpa o altro, sono stato e siamo stati impegnati a ricercare gli ospedali e i medici più quotati per meglio capire quale possibile futuro aspettava Alberto. Certamente il nostro immenso amore e anche quello che regnava nelle nostre famiglie, comprese quelle dei nonni, ci aiutò a compiere tutti quei passaggi importanti che ci hanno portato alla consapevolezza di non avere lasciato nulla di intentato e di essere sereni nel ritenere che tutto quello che era nelle nostre possibilità lo avevamo provato. Mai ho ostacolato mia moglie, neanche quando aveva piacere di portarlo dallo “stregone” di turno per un ennesimo tentativo.
Tutto questo ci ha consentito di prendere coscienza della condizione di Alberto, di accettarla, di continuare ad amarci e ad amare Alberto, che sarebbe stato per noi la luce, la vita, certamente convinti che non sarebbe stato un futuro facile ma non ci saremmo certo tirati indietro!
Sinceramente nel mio ricordo trova uno spazio secondario quello che ha attraversato allora la nostra psiche, le legittime domande: “Perché proprio a noi?  Ma cosa abbiamo fatto di male per meritarci di dover affrontare tutto questo?”
Ovviamente non ci siamo dati risposte.
Guardando tutto questo con il senno di poi, credo di poter dire di non avere oggi grossi rimpianti e di aver avuto la possibilità di indirizzare e dedicare tutto il nostro impegno e amore verso Alberto.
3. Nella mia analisi di quanto un padre come me ma, più in generale un genitore, possa condizionare il futuro del proprio figlio, credo di poter dire che, nel mio caso, sono stato un protagonista attivo dei mutamenti per la riscontrabile mancanza di servizi programmati dalle istituzioni.
In questo sono stato agevolato dal mio impegno all’interno di un organismo unitario come la Consulta per l’handicap, dall’aver conosciuto e lavorato fianco a fianco a persone come Giacomo Piombo, imparando da lui e anche da altri che ora non citerò, a non abbassare lo sguardo, a non guardare solo se stessi, a occuparsi anche degli altri.
Sono partito in quegli anni, con Alberto ancora adolescente, a dedicare una parte del mio tempo a ricercare risposte per fornire adeguati servizi alle persone con disabilità. Non ho mai percepito dentro di me delle difficoltà rispetto al mio modo di essere stato padre, che tra l’altro mi ha permesso di conoscere e incontrare centinaia di genitori con figli disabili, con situazioni diverse tra loro.
Non appena abbiamo preso coscienza della condizione di gravità di Alberto mettendo da parte illusorie “guarigioni”, il nostro incessante impegno è stato rivolto alla ricerca delle maggiori opportunità per effettuare cicli di fisioterapia, non perdendo tempo tra una serie di trattamenti e quella successiva, con l’ansia divorante di riuscire a dare il massimo, a utilizzare gli strumenti migliori, le diagnosi più qualificate.
Mi è difficile parlare esclusivamente come padre, così come mi è richiesto, in quanto ogni atto, ogni emozione, ogni difficoltà e ogni scelta l’ho sempre condivisa con mia moglie. Certamente il nostro impegno quotidiano si è svolto in modo diversificato, ma sempre condiviso. Comunque, già da quei primi anni, un aspetto caratterizzante è stato quello di vivere e affrontare le difficoltà contingenti ma anche quello di provare a pensare il futuro.
Oggi mi è abbastanza chiaro che nella mia visione e nell’evolversi della vita di Alberto c’è sempre stato un durante e soprattutto un dopo.
Dopo la fisioterapia intensiva c’era la scuola dell’obbligo, le prove di inserimento nella classe normale con noi genitori obbligati alla presenza, poi il passaggio alla Scuola Speciale Statale.
Questi sono stati per me anni di incessante impegno volto a migliorare questi spazi fino a che Alberto non è arrivato ai 15 anni, l’età di lasciare la scuola dell’obbligo.
Ecco che il dopo riappare in tutta la sua drammaticità! Dopo la scuola esisteva un percorso, esistevano possibili risposte per una persona disabile grave e la sua famiglia?
No. Non ne esistevano.
È il periodo, quindi, delle battaglie in Regione, nelle diverse USL cittadine che erano i riferimenti per la sanità e i Servizi Sociali del Comune.
4. Io ho avuto il piacere di conoscere e confrontarmi con Massimiliano Verga quando a Genova abbiamo organizzato la presentazione del suo primo libro Zigulì.
La “libertà” di un figlio disabile grave, non in grado di rappresentarsi e che abbia la necessità di essere costantemente assistito da un adulto (genitore, operatore, caregiver…) sono convinto sia quella di poter vivere tutti i passaggi della sua vita, che ovviamente la condizione psico-fisica impone e di viverli al meglio, nel modo più dignitoso possibile, obbligando in molti casi le istituzioni ad aprirgli porte e fornirgli strumenti e opportunità non sempre così facili da ottenere.
La libertà è quella di riuscire a garantirgli di non rimanere chiuso in casa dopo i 16 anni e di essere inserito in un centro con operatori ed educatori in grado di ricercare la sua massima autonomia e di capire i bisogni e i desideri.
Un padre come me, insieme a mia moglie, credo possa essere certo di essersi impegnato affinché Alberto potesse avere la “libertà  di scelta” per vivere una parte della sua vita anche al di fuori della famiglia.
Io credo che ogni scelta è sempre caratterizzata da fattori personali ma anche esterni, da possibili opportunità, da elementi più o meno favorevoli che forniscono la possibilità di  essere liberi di scegliere. Credo che il contributo di un padre come me, per educare un figlio libero, sia proprio quello che ho descritto unito all’impegno di un costante confronto, a volte forse anche poco sereno ma sempre ispirato ad assicurare ad Alberto un contesto come credo avrebbe desiderato, voluto e scelto conscio della sua condizione. Non considerare tutto questo sarebbe un po’ come essere il padre di Icaro ed essere fieri della sua “libertà” di voler volare con la sola soddisfazione di vederlo schiantare a terra!
5. Non ho dubbi sul potermi definire “padre del futuro” rispetto allo svolgersi della vita di Alberto. Una mia ben chiara consapevolezza è che ho continuato a pensare al dopo anche in un momento in cui Alberto frequentava un Centro Diurno dove era ben conosciuto, ben trattato, dove io stesso facevo parte del Comitato di Partecipazione ed ero quindi in grado di vivere al meglio e di essere coinvolto nella vita del Centro.
Abbiamo pensato e realizzato un “progetto di vita” futuro, di residenzialità che si esplicasse nel durante, con noi genitori vivi, in grado quindi di indirizzare e assicurare nel dopo, la miglior qualità di vita possibile.
Pensare il futuro, ricercare scelte definitive per la vita di Alberto è stato una valutazione che io ho giudicato prioritaria, importante e doverosa. Mia moglie ha avuto in questo un ruolo determinante, sia nello spingermi nel scegliere la struttura sul territorio, sia nel rinunciare a vivere con più risorse economiche pur di consentirmi un impegno volontaristico e continuo per diversi anni, durante i quali il progetto prendeva corpo.
6. Ho già avuto modo di dire che una specificità del mio ruolo paterno è stata quella di un maggiore impegno rispetto alla ricerca di soluzioni, in un costante confronto con le istituzioni, per trovare adeguate risposte in termini di servizi. Questa specificità non mi ha impedito di mantenere un ruolo di padre in tanti momenti intercambiabile – anche se con minore capacità – con quello della mamma. Al di là dei periodi in cui l’impegno lavorativo mi consentiva minor tempo, ho sempre cercato di impegnarmi al meglio nei confronti di Alberto,  anche se pur a distanza di molti anni, riconosco che il sacrificio e il merito di mia moglie è stato, senza alcun dubbio, enorme e continuo, così come lo è stato, da sempre, il mio amore per lei.
7. Un ricordo dolce dei miei momenti con Alberto è quello di quando, seduto di fronte a lui, prendevo le sue mani e mi facevo accarezzare la faccia guardandolo negli occhi, corrisposto da sguardi pieni d’amore. Alcuni minuti di questo “gioco” li ricordo come uno scambio vero, forte, senza ombre, senza sovrastrutture, pieno di sincera e sentita emozione.
Possono essere tanti i dolci e gradevoli episodi di una vita che potrebbero essere ricordati.                                     Ma nel terminare questa intervista desidero riportare alla mente quegli attimi quando Alberto, dopo molti giorni di ricovero in ospedale, dopo la somministrazione di numerosi antibiotici, in seguito a crisi convulsive sopravvenute dopo trent’anni d’assenza,  in momenti in cui le sue forze erano davvero lievi, tanto da fargli aprire gli occhi con difficoltà, sentendo la mia voce, prendendogli le mani, riusciva con sforzo a sollevarsi a sedersi sul letto, con grande, grande fatica  mi accarezzava i capelli, abbracciandomi.
Questo è  un ricordo indelebile, dell’ultima ora, carico di dolore, di fitte al cuore, di lacrime, ma pieno di tenerezza, di amore sincero, per me,  difficilmente narrabile.
La nostra unione si esprime anche in una foto all’ospedale, pochi giorni prima di morire, quando seppure già provato e senza forze cercava di sollevarsi e di abbracciarci.
Il 27 maggio 2014 il “dopo di noi” è diventato drammaticamente, per noi, il “dopo di lui”. Proveremo a mettercela tutta, per viverlo al meglio! 

6.4. Pier Paolo e Alessandro
Pier Paolo si occupa di assicurazioni e, quando ha un po’ di tempo, gioca a tennis.
È il papà di Giacomo, di Luca e di Alessandro.

1. Alessandro è il mio terzo figlio e ha 14 anni. Molto simpatico ma a volte lagnoso, testardo e piuttosto furbo, pigro.
2. I problemi di Alessandro si sono presentati intorno ai due anni, dal nulla, come se niente fosse. Faticava a camminare, non riusciva bene a coordinare il movimento delle gambe. Non c’è stato tempo per prepararsi alla cosa, è arrivata e abbiamo dovuto affrontarla. La necessità di occuparci di lui e di capire cosa stesse succedendo non ci ha lasciato molto tempo per sentirci in colpa di qualcosa. O forse, per non lasciare spazio al senso di colpa, abbiamo fatto di tutto per cercare una soluzione. Sinceramente cerco di fare il meglio e, come con gli altri due miei figli, mi impegno per fare le scelte migliori, a volte ci riesco altre posso sbagliare. I vari medici che abbiamo incontrato ci hanno aiutato a capire che oggettivamente noi non c’entriamo nulla con la disabilità di Ale, non abbiamo una responsabilità oggettiva.
3/4. Già la scelta della scuola superiore è stato un grande passo verso il futuro. Lo iscriviamo in quella dove si dice che ci sono gli insegnanti più attenti o in quella che a lui interessa di più oppure in quella che secondo noi gli consente un futuro più sicuro? Pensare al futuro significa pensare alla felicità che, per me, vuol dire pensare al possibile e all’utile. Come Giacomo e Luca, anche Alessandro alla fine ha scelto la scuola che preferiva, quella cioè nella quale poteva dare il meglio di sé. Questo per me vuole anche dire essere libero. Fortunatamente Alessandro ha un deficit principalmente motorio, per cui la sua capacità di valutare e scegliere è solo leggermente compromessa. Un figlio libero, per me, è un figlio consapevole, che sa scegliere. A volte vorrei scegliere per lui, perché penso che stia sbagliando, vorrei evitargli di soffrire ma so che non è possibile. La sua libertà e la sua autonomia si scontrano con il mio bisogno di proteggerlo.
I servizi ci hanno aiutato e anche a scuola, per fortuna, ci è andata abbastanza bene. Credo, infatti, che se ti senti solo e devi lottare continuamente per ottenere ciò che ti spetta, presentare moduli, richieste, fare incontri con specialisti o burocrati, diventa più difficile perché a fine giornata le energie magari finiscono e non riesci a dedicare il tempo che vorresti a fare delle cose con tuo figlio.
5/6. Io lavoro parecchio, per cui il tempo che dedico alla famiglia non è tantissimo. Rispetto ai primi due figli, che hanno avuto un percorso piuttosto lineare, Alessandro mi ha obbligato a cambiare atteggiamento. Il tempo del lavoro non è diminuito, se non in alcuni momenti in cui c’era più bisogno, per esempio quando abbiamo dovuto affrontare le prime difficoltà e abbiamo incontrato un po’ di medici, oppure la mattina e la sera, quando aiuto mia moglie nella parte di assistenza fisica. Mi rendo conto, però, che mi interesso di più di quello che gli succede rispetto a quanto facevo con gli altri due. O meglio, da quando c’è lui, anche per provare a non creare disparità tra tutti e tre, ho modificato il mio atteggiamento in generale. Un esempio semplice è la scuola. È sempre mia moglie che parla con gli insegnanti ma, rispetto a prima, adesso chiedo e dico la mia. Abbiamo due ruoli diversi. Io per esempio, anche perché mi piace, ho spinto Alessandro a fare sport, questa è una cosa di cui mi occupo io, com’è stato anche per Giacomo e Luca. E ogni tanto ce ne andiamo, noi tre da soli, da qualche parte, anche per un week end, sia per lasciare la mamma libera sia perché mi piacciono questi momenti noi da soli. Prima di Alessandro non credo che avrei mai fatto una cosa così.
7. Io e Alessandro abbiamo una passione in comune, ci piace leggere. Quando era in ospedale, leggergli qualcosa ad alta voce era una delle attività che più lo rilassavano. Spesso potreste trovarci sul divano, insieme, mentre leggiamo i rispettivi libri.

6.5. Luca e Chiara
Luca è educatore professionale presso la Comunità dell’Arca “L’Arcobaleno”. Appassionato di musica e informatica, grazie a Chiara ha scoperto la Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA) e ne è rimasto affascinato.
È il papà di Chiara e Elisa

1. Quando Chiara pronuncia il suo nome dice Cà, per cui molte volte la chiamiamo anche noi così.
Cinque parole per descrivere Chiara: solare, entusiasta, testarda, premurosa, si fida di chi sta con lei ( ma non so dirlo con una parola).
2. A volte ci sono emozioni che non puoi controllare, che non hanno una base logica ma quasi esclusivamente emotiva, questo senso di colpa fa parte di questa categoria.
Come è inutile dire alla madre che non ha sbagliato niente, così è inutile dire a me che sto facendo il possibile (anche se fa piacere e aiuta sentirselo dire).
Nella vita quotidiana con Chiara, è evidente che alcuni piccoli aiuti ti possono cambiare la vita. Il percorso fatto sulla comunicazione ci ha spesso dimostrato come l’ausilio giusto e il tempo dedicato a stare con lei, permettono a Chiara di fare qualche passetto in avanti. A forza di passetti, siamo arrivati a superare montagne ma la strada non finisce mai. Ogni volta che Chiara fa un passo avanti riesce a esprimere un pezzetto di quel mondo immenso che ha dentro e che, se comunicato ed elaborato, la può riempire di gioia ma se non espresso rischia di imploderle dentro.
Poi però c’è anche tutto il resto.
Però e per fortuna. C’è quell’immenso tesoro di sua sorella Elisa, la nostra famiglia, gli amici, il lavoro. Tutte cose belle, indispensabili, che aiutano e arricchiscono anche la vita di Chiara.
Ma non posso fare a meno di avere sempre una vocina che dice “Ora però potevi preparare quel materiale, potevi fare con Chiara quella cosa…”.
Con questa vocina è inutile discutere, bisogna imparare a conviverci e farne risorsa per avere sempre stimoli ed energie.
3. Non mi piace tanto quando si vuole etichettare in modo forte un ruolo. Sono convinto che all’interno di una coppia esiste una divisione dei ruoli e che storicamente e culturalmente certi compiti siano più legati alla figura maschile e altri a quella femminile, però penso che ci sia un equilibrio diverso in ogni coppia. Conosco coppie in cui quello che faccio io lo fa la madre. Non so, quindi, se quello che faccio è legato al ruolo della paternità o a quello più generale della genitorialità.
Per quanto riguarda il tema del futuro, credo che ogni nostra azione sia andata in quella direzione, cercando di mettere delle basi ma nello stesso tempo avendone paura. Sì, perché per noi il futuro non è chiaro. Il futuro per Chiara non sarà costruito interamente da lei. Sarà sopratutto quello che noi riusciamo a trovare e creare e quello che la società è disposta a mettere in campo. Questo, forse, è uno dei punti più faticosi di una genitorialità “speciale”: non puoi da solo creare una possibilità di futuro a tua figlia, sei interconnesso a una società che spesso non mette certe priorità tra i primi posti. È vero che è un po’ così per tutti ma Elisa, diversamente da Chiara, potrà scegliere dove mettersi in gioco, potrà scegliere se accettare quello che le offriamo o fare una nuova strada. Ovviamente saremo sempre lì anche per lei, ma dovremo imparare ad affiancarla e a seguirla, anche nei suoi errori.
Con Chiara invece è diverso. Le opportunità le dobbiamo costruire noi, come se fosse un’eterna gestazione. Ma le risorse che si possono mettere in gioco non dipendono solo da noi e così, a volte, ti senti impotente e arrabbiato. Abbiamo sempre pensato che Chiara e noi abbiamo diritto, a un certo punto della nostra vita, all’autonomia, ad imparare ad amarsi rispettando la vita e l’identità dell’altro. Ma questo sarà possibile se Chiara continuerà a vivere sempre con noi?
Inoltre pare che i servizi pubblici riescano a dare risposte solo o, quasi solo, a situazioni d’emergenza. Dobbiamo aspettare di arrivare a quel punto? Ecco, forse proprio il fatto che il futuro non dipende poi molto da noi (e spesso anche il presente) è una delle fatiche diverse in una genitorialità un po’ diversa.
4. Libertà è una parola interessante quando riguarda la vita di persone con disabilità. Purtroppo penso che non c’è esistenza in cui la parola libertà sia più minacciata. Tutte le esistenze sono sempre a rischio di non essere libere. Molti, infatti, non sono liberi e neanche lo sanno e forse quella è la situazione di schiavitù peggiore. Credo che per quanto mi riguarda, è stata Chiara e lo è tuttora, a educarmi alla libertà. È lei che quotidianamente mi fa capire come la sua esistenza sia condizionata dagli altri. Ma lo è suo malgrado, è condizionata da persone che sono chiamate a dover decidere per lei. Siamo talmente abituati a dover decidere per Chiara che molte volte ci dimentichiamo di chiederle “Ma lo vuoi o no?”. Ci dimentichiamo di pensare se davvero è così indispensabile dirle di fare questo o quello. Crediamo talmente nelle regole sociali che spesso non ci domandiamo neppure quanto uno può decidere di non fare questo o quello.
E Chiara dice NO.
Si oppone con tutte le sue forze e ci obbliga a fermarci, a trovare approcci in cui viene lei prima del “si deve fare”. Ci obbliga a essere liberi dai tempi, liberi di sentire il peso delle catene. Ci sono cose banali che “bisogna fare” come lavarsi, vestirsi ma per Chiara non esiste nemmeno questo, tutto va scelto, capito e digerito. La libertà è pesante e faticosa ma dà un senso profondo a ogni cosa. Fare le cose e sceglierle capendone il motivo fa un’enorme differenza.
Chiara tutti i giorni ci insegna a essere liberi ma ci fa anche sentire il peso delle catene, scegliendo assieme a lei dove vogliamo stare.
5. Non credo che sia il fatto di essere il padre di una persona con disabilità (non mi piace sottolineare eccessivamente il termine persona con la parola disabile perché credo che così facendo si minacci in modo importante il suo essere prima di tutto persona) che ci porta a fare questa scelta ma è una bella e importante novità che ci ha dato questo tempo. Se penso a Elisa credo che sarei stato ugualmente il padre che sono stato, con o senza l’esperienza con Chiara.
Sicuramente la persona con disabilità ci obbliga a riflettere in modo più approfondito sul nostro ruolo, non ci permette di nasconderci ma la mia identità di padre credo non sarebbe stata molto diversa. Questa novità non credo che stia in un nuovo equilibrio ma in un equilibrio più equo dove ognuno fa un pezzo più consono alla sua persona, ma sempre in dialogo con l’altro e disponibile a condividere ogni pezzo del carico. Se penso alla relazione quotidiana con Claudia, mia moglie, non posso altro che dire che ci sono cose che fa quasi sempre lei e altre io. Ma quel quasi sta a significare che in ogni momento le cose possono cambiare a seconda dei bisogni della nostra famiglia.
6. Come dicevo prima, c’è sicuramente una specificità che dipende dalle doti di ognuno e forse anche da quei condizionamenti culturali che, volenti o nolenti, ci portiamo dietro. Così tutto il mondo che riguarda la tecnologia e il percorso per Chiara rispetto alla comunicazione lo faccio io mentre Claudia, appassionata di cucina, condivide questa passione con Chiara, facendola crescere attraverso il fare. Spesso sono io che porto avanti gli impegni verso l’esterno. Claudia però tiene vivo il cuore della nostra famiglia. È lei che gestisce la casa (e Chiara è il suo braccio destro) ed ė lei che ci aiuta a tenere un equilibrio tra dentro e fuori. È lei che mi ricorda che per fare cose belle bisogna avere delle buone basi e queste buone basi sono il nostro stare assieme, sono quel quotidiano apparentemente banale che è la c partenza di tutto. Sono i lavori di casa, i pranzi e le cene fatti senza fretta, il curare i piccoli particolari perché sono l’esternazione del grande amore che rappresentano. E se non ci fosse Claudia che ci richiama a questo, rischieremmo di essere un albero che crede di poter vivere senza affondare le proprie radici nel terreno. Abbiamo una divisione dei ruoli ma sappiamo che solo se ci teniamo saldamente legati anche nel fare le cose quotidiane possiamo aspirare verso l’alto.
E così i ruoli spesso si intrecciano e si scambiano per poter crescere assieme.
7. Sono tante le cose che facciamo insieme io e Chiara, che ci fanno stare bene.
Il bello con Chiara è che ogni attività ha un immenso valore in sé e quello che stiamo facendo in quel momento diventa la cosa più bella e importante che bisognava fare. Certamente ci sono attività che ci accomunano come fare un giro in tandem in campagna, salvare il mondo con una partita della Wii, andare al cinema o guardarci un bel film. Ma niente è assoluto. Per Chiara ogni attività ha il suo momento e ogni momento ha la sua cosa bella da fare assieme. 

5. Padri di figli/e “disabili”. Considerazioni a margine di una ricerca esplorativa

di Fabio Bocci, professore di Pedagogia Speciale – Università Roma Tre, e Francesca Maria Corsi, dottoranda – Università Roma Tre

Non vi è dubbio che ogni epoca sia contrassegnata da (e si contraddistingua per) una precisa figura-immagine di padre, la quale ineluttabilmente è portatrice dei segni (e dei sintomi) delle trasformazioni derivanti dalla sistematica evoluzione (o, come taluni sostengono, dall’involuzione) culturale che attraversa-muove la società. Un discorso sul padre sembra non essere mai desueto, così come sembrano non essere mai fuori moda alcuni interrogativi di fondo che accompagnano tale discorso: “Chi sono oggi i padri?”; “Quale funzione assolvono?”; “In cosa si differenziano, sul piano quantitativo (ad esempio la loro presenza-partecipazione ai compiti accuditivi, educativi ecc…) e qualitativo (il loro effettivo contribuito a tali compiti) da quelli delle generazioni passate?”.
La letteratura scientifica e culturale più recente sembra decifrare il padre come una immagine assente. Si parla dell’impallidire dell’immagine paterna, esito che sembrerebbe trovare la sua origine nella crisi stessa della società attuale e che ha come primaria conseguenza la scomparsa della funzione educativa del padre (Andolfi, 2001). Si domanda in proposito Luigi Zoja: “la società ha deciso di spogliare Ettore perché non spaventi il bambino: quest’ultimo non avrà più paura, ma avrà ancora un padre?” (Zoja, 2003). Nella società senza padre, già preconizzata da Mitscherlich nel 1963 a essere posta sotto la lente d’ingrandimento nell’alveo della funzione/azione genitoriale è la questione concernente il nodo della normatività paterna (Donati, Scabini,1985). Ci si chiede in proposito se – e in che misura − il padre rappresenti ancora quella roccaforte di normatività a cui, fino a pochi decenni fa, sembrava essere indissolubilmente legato (almeno come attributo dichiarativo). Tuttavia, è bene evidenziare, come fa acutamente Massimo Recalcati, che a essere evocata e invocata non è la nostalgia del pater familias: “rilanciare il tema del tramonto dell’imago paterna non significa rimpiangere il mito del padre padrone […] La domanda di padre che oggi attraversa il disagio della giovinezza non è una domanda di potere e di disciplina, ma di testimonianza. Sulla scena non ci sono più padri-padroni, ma solo la necessità di padri-testimoni” (Recalcati, 2013, pp. 11-13).
La necessità di padri capaci di farsi testimoni, quindi agenti emblematici di riferimento, è molto suggestiva, soprattutto, dal nostro punto di vista, in riferimento ai padri di figli/e “disabili”. In una pubblicazione del 2005 dal titolo Vivre la paternité; construire la confiance, Gilles Le Cardinal svolge alcune considerazioni poi riprodotte in una intervista dalla quale estrapoliamo un passo significativo: “il padre non diventa d’un tratto soltanto padre di un figlio disabile, ma si trova scosso nel suo essere, nella sua profonda identità. L’attesa di un figlio nutre naturalmente speranze immense che la scoperta, brutale o progressiva dell’handicap, viene a sconvolgere. Il bambino tanto sperato delude tutte le attese. Il mondo interiore e l’immagine di sé crollano insieme a tutti i punti di riferimento di sposo e di padre. Una distanza vertiginosa si apre con sua moglie perché il loro modo di sentire è così diverso, tale da impedire perfino la comunicazione proprio nel momento in cui questa è indispensabile per capirsi e sostenersi. Molteplici tentazioni invadono il padre: tentazione di rifiuto del figlio disabile così diverso dal bambino atteso; tentazione di onnipotenza che produce il desiderio di “normalizzare” il bambino costi quel che costi… tentazioni di fuggire questa situazione non voluta, insopportabile. Queste stesse tentazioni sono vissute con dolore e provocano un senso di vergogna e di colpevolezza. Il padre deve far fronte alla difficoltà di iscrivere il figlio nella propria storia, di farlo accettare dalla sua famiglia allargata. Vive una frustrazione nei confronti della trasmissione del suo nome, di una eredità familiare, perfino a volte di uno stato professionale”. (Douillet, 2009).
Si tratta di considerazioni che trovano un certo riscontro in una ricerca condotta nel 2006 presso il Polo di Bosisio Parini dell’Istituto Scientifico Eugenio Medea, dell’Associazione La Nostra Famiglia. L’indagine − che ha riguardato un campione di 244 famiglie aventi stesso background socio-culturale (gruppo sperimentale: 122 famiglie con un figlio/a disabile; gruppo di controllo 122 famiglie senza figli con disabilità) − ha messo in evidenza alcune significative divergenze tra i padri di figli disabili e quelli di figli non disabili, in modo particolare per quel che concerne la percezione della loro collocazione nel nucleo familiare. Dal confronto, infatti, emerge come i padri dei figli disabili manifestino una maggiore difficoltà nella gestione dello spazio e del tempo da dedicare ad aspetti legati alla propria individualità, sentendosi più vincolati alle esigenze familiari. Questi padri, sembrano percepire le loro famiglie come luoghi in cui è impossibile autorealizzarsi, esprimere la propria soggettività ed emotività. Non a caso, se rispetto ai padri del gruppo di controllo sono meno ottimisti per quel che concerne il futuro dei figli, riguardo alle mogli sono anche maggiormente pessimisti per quel che concerne la condizione dei figli disabili, un sentire che, naturalmente, incide fortemente sul clima familiare, sull’agentività e sulle prospettive di empowerment del nucleo e dei singoli.
Alle riflessioni e ai dati ora descritti, vanno poi associate una serie di pubblicazioni recenti a carattere narrativo/autobiografico nelle quali alcuni autori hanno raccontato la propria esperienza di padri di figli/e. Tra queste, oltre al best sellers di Giuseppe Pontiggia Nati due volte (2002), attenendoci alla sola produzione italiana citiamo i libri di Gianfranco Vitale Io e Gabriele (2002), di Adriano Greppi Crescere con Andrea (2008), di Fulvio Ervas Se ti abbraccio non aver paura (2012), di Massimiliano Verga Zigulì. La mia vita dolceamara con un figlio disabile (2012) e  di Gianluca Nicoletti Una notte ho sognato che parlavi (2014). 
Siamo dunque in presenza di padri testimoni (come invocato da Recalcati) che attraverso le loro storie si riappropriano della loro voce narrante, aprendo così sguardi altri su un fenomeno troppo spesso
delegato alla valutazione/interpretazione degli esperti.
Certamente, come evidenziano i Disability Studies (Medeghini, D’Alessio, Marra, Vadalà, Valtellina, 2013), è gioco-forza che le rappresentazioni/concezioni della disabilità siano soggette ad analisi, soprattutto per quel che concerne le epistemologie (quali concezioni le muovono?), le posizioni (da quale punto di vista si parla?), i discorsi (chi parla, per conto di chi si parla?), le retoriche (a quali dispositivi si riconducono/sono riconducibili) che veicolano. Si tratta di dimensioni che incidono in modo decisivo sulle modalità stesse con le quali i singoli e la collettività rappresentano − e si rappresentano nel rapportarsi con – la disabilità.
E tuttavia, non può escludersi in/da tale analisi la parola dei protagonisti, in questo caso i padri, così come non deve essere esclusa quella dei figli e delle mogli.
Per questa ragione abbiamo ritenuto ineludibile dare la parola ai padri di figli/e “disabili” non solo per indagare la percezione che questi hanno in merito alla loro funzione paterna, con particolare riferimento a quella educativa, ma per co-costruire con loro le chiavi interpretative dei dati emergenti, in modo che essi stessi possano dotarsi degli strumenti di intervento che più ritengono funzionali alla loro situazione.
La ricerca alla quale facciamo riferimento, tutt’ora in corso e della quale forniamo nel prossimo paragrafo una breve descrizione, ha coinvolto l’Università degli Studi Roma Tre (Fabio Bocci e Francesca Maria Corsi), l’Università degli Studi di Bologna (Roberta Caldin e Alessia Cinotti), l’Università di Padova (Simone Visentin) e l’Università di Lione (Margherita Merucci). 

Considerazioni a margine di una ricerca esplorativa sui/con i padri di figli/e “disabili”Nell’indagare il connubio padri/figli “disabili” ci si è avvalsi sia dell’approccio quantitativo sia di quello qualitativo. Nel nostro caso (Roma Tre) abbiamo scelto di avvalerci dell’intervista coinvolgendo padri con figli tra i 6 ai 10 anni. L’intervista, infatti, è stata da noi ritenuta una modalità efficace per attivare un dialogo autentico e dinamico in grado di consentire un approccio flessibile a un tema così delicato e intimo. Il ricorso a tale strumento, poi, ha permesso di raccogliere una notevole quantità di informazioni e di impressioni che i padri hanno rispetto al loro ruolo all’interno della famiglia, le proprie esperienze personali e i loro compiti educativi.
La sfida, che appare una delle più importanti e, allo stesso tempo, più complesse in ambito socio-educativo, è quella di trasformare la risposta “specialistica” in “ordinaria”, laddove la focalizzazione sul “bambino disabile” di stampo bio-medico individuale sembra ancora prevalere a discapito di un approccio globale alla famiglia e al suo benessere.
Anche per questa ragione non si è scelto di “posare lo sguardo” su un tipo specifico di impairment, a motivo del fatto che lo scopo della nostra azione di ricerca non è quello di elargire/distribuire supporti compensativi meramente strumentali (che rinforzano l’azione di delega all’esperto e allo specialista) ma di co-costruire con i padri l’azione da intraprendere, a partire dai repertori di competenza di cui sono possessori e portatori, i quali sono troppo spesso sottaciuti o non valorizzati poiché schiacciati dal peso delle interpretazioni derivate dai modelli socio-culturali imperanti.
La prima fase di questo lavoro ha visto il coinvolgimento attivo di 18 padri provenienti da diverse zone di Roma (Spinaceto, Appio-Tuscolano, Boccea). Nel reperimento delle persone disposte a essere intervistate e a partecipare all’attività di ricerca-azione è stata fondamentale la  collaborazione di alcune associazioni e Scuole.
Attualmente si sta procedendo all’analisi delle interviste per mezzo di N- Vivo.
Tuttavia, possiamo già mettere in evidenza alcuni nodi tematici ricorrenti che sottoporremo all’attenzione dei padri intervistati. Infatti, nella seconda fase questi saranno coinvolti in diversi focus group all’interno dei quali saranno analizzati i dati emersi da questa elaborazione.
Tra i nodi maggiormente interessanti che stanno emergendo vi sono quelli inerenti:
– l’elaborazione del “lutto impossibile” (Gardou, 2006) e della ferita narcisistica (Korff Sausse, 2006);
– il difficile equilibrio tra normatività e affettività;
– la propensione alla funzione di accudimento rispetto a quella propriamente educativa;
– la differente percezione tra il ruolo (essere padre) e la funzione (esercitare la paternità) in merito alla qualità e alla quantità di collaborazione con la madre nell’esercizio della genitorialità;
– i vissuti esperiti in tutte le dimensioni ora indicati.

La domanda di ricerca che intendiamo porre all’attenzione dei padri come stimolo di partenza è quanto i loro vissuti, le loro percezioni e convinzioni siano il frutto/l’esito dell’epistemologia dominante che vede la disabilità come un problema tutto interno alla persona che ne sarebbe portatrice e dei dispositivi di etichettamento/marginalizzazione/esclusione insiti nelle retoriche discorsive che valorizzano l’abilismo, la produttività e la normalità.
Epistemologia di tipo bio-medico individuale che non concerne solo la disabilità ma anche la concezione stessa di genitorialità, tutta giocata nel biologico, come stigmatizza la sociologa Évelyne Sullerot (2000). In effetti, evidenzia la studiosa, non è possibile continuare a ridurre l’attaccamento a parametri meramente biologici: la madre, portatrice nel grembo del/la bambino/a, è definita per questo naturalmente predisposta a prendersi cura in modo simbiotico del/la figlio/a mentre il padre ne resta tagliato fuori almeno per un bel pezzo (per non dire sempre). Si tende così a escludere, nel discorso normativo, l’attaccamento affettivo che è la risultante di una triangolazione che, se c’è, esiste fin dall’inizio. Ed è in questa triangolazione che va a collocarsi non tanto il ruolo del padre quanto la sua funzione, capace di non restare invischiata – soprattutto nel caso della presenza di un figlio con un impairment – dentro la sterile dicotomia dell’assenza o della troppa presenza.
Nelle nostre intenzioni, la terza fase coincide con un ampliamento delle persone da coinvolgere mediante la creazione di gruppi di lavoro coordinati dagli stessi padri che hanno animato i focus group.
Gruppi che elaboreranno (coadiuvati dalla figura dell’amico critico, già prevista ad esempio per l’Index for inclusion) strategie di azione finalizzate alla riappropriazione di una decisionalità consapevole, smarcata, per quanto è possibile, dai condizionamenti normativi. Ci piace infatti pensare con Paulo Freire (2004) che, per quanto condizionati, noi non siamo essere predeterminati e che ciò che è spacciato per naturalmente dato è sempre il derivato di costrutti socio-culturali modificabili.     

Bibliografia
M. Andolfi (a cura di), Il padre ritrovato. Alla ricerca di nuove dimensioni paterne in una prospettiva sistemico relazionale, FrancoAngeli, Milano, 2001.
P.P. Donati, E. Scabini, L’immagine paterna nelle nuove dinamiche familiari, Vita e Pensiero, Milano, 1985.
C. Douillet, Un padre rivela il dono unico di suo figlio. Intervista a Gilles Le Cardinal, “Ombre e luci”, 149, 2009 http://www.ombreeluci.it/articles/45/un-padre-rivela-il-dono-unico-di-suo-figlio  (ultimo accesso 21/12/2104)
P. Freire, Pedagogia dell’autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2004.
C. Gardou, Diversità, vulnerabilità, handicap. Per una nuova cultura della disabilità, Erickson, Trento, 2006
S. Korff Sausse, Specchi infranti, Ananke, Torino, 2006.
G. Le Cardinal, Vivre la paternité; construire la confiance, Desclee de Brouwer, Bruges, 2005.
R. Medeghini, S. D’Alessio, A.D. Marra, G. Vadalà, E. Valtellina, Disability Studies. Emancipazione, inclusione scolastica e sociale, cittadinanza, Erickson, Trento, 2013.
A. Mitscherlich, Verso una società senza padri, Feltrinelli, Milano, 1970.
M. Oliver, The politics of disablement, The MacMillan Press, London, 1990.
M. Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano, 2013.
É. Sullerot, Aspects sociologiques de la fonction paternelle, Group haut normand de pédopsychiatrie, Rivages, Paris, 2000.
L. Zoja, Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.