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Autore: Nicola Rabbi

Musica per tutti alla scuola di musica Consorzio Concorde di Crema

“Ho deciso. Verrò sempre, tutte le prossime volte. Ma devo perfezionare l’inchino”. È Natale, e quest’anno anche Emma è riuscita a vincere i suoi timori e ha partecipato con soddisfazione al concerto degli allievi. Il tradizionale concerto di Natale della scuola è ormai diventato una grande festa musicale, dove i ragazzi e le ragazze si esibiscono davanti a un pubblico numeroso e attento. Anche questo, come l’altro importante momento istituzionale, il saggio di fine anno, è riservato a musiche d’insieme: in queste due serate ciò che conta è fare buona musica in compagnia, divertendosi, senza gare di virtuosismo solistico e senza quell’ansia che non tutti sanno controllare quando si trovano da soli sopra un palcoscenico. Perché insieme ci si fa più coraggio e ci si diverte di più. E anche perché in un insieme è importante l’apporto di tutti, sia di chi è più avanti negli studi e più padrone del proprio strumento, sia di chi contribuisce con poche note a dare un colore, a completare una frase, a sottolineare un ritmo o un accento.
Il Consorzio Concorde è questo: un posto dove imparare a fare musica, ma anche semplicemente dove fare musica e trasformare l’esperienza musicale in una più ampia esperienza culturale, sociale e umana. E, soprattutto, è un posto dove questa esperienza viene resa possibile per tutti. Creare un ambiente che potesse accogliere e avvicinare all’esperienza musicale ogni bambino, tenendo conto tanto delle proprie specifiche abilità quanto delle proprie specifiche difficoltà, ha rappresentato fin dall’inizio una componente fondamentale del progetto di questa scuola. Al punto che, fin dal momento della sua fondazione nel 2005, fra le prime, poche e timide offerte didattiche del progetto già faceva la sua comparsa quella voce, Musicoterapia, che ha sempre rappresentato un fiore all’occhiello della scuola. E Paola Balestracci Beltrami, musicoterapeuta della scuola di Giulia Cremaschi Trovesi, ha trovato nel Consorzio Concorde un ambiente fertile e stimolante, dove svolgere l’attività di musicoterapia (rivolta perlopiù a bambini con sindromi dello spettro autistico), ma anche dove approfondire il proprio percorso di didattica propedeutica, rivolta tanto a bambini neurotipici quanto a bambini con autismo e altre forme di difficoltà. Questa esperienza è maturata dapprima in un laboratorio tuttora attivo, Incontrocanto, in cui le attività propedeutiche allo sviluppo delle competenze musicali vengono effettuate in modo da favorire nel bambino anche lo sviluppo di abilità di altro genere: sociali, motorie, spaziali, linguistiche, verbali, aritmetiche, mnemoniche, ecc. Successivamente, Incontrocanto ha offerto a Paola l’occasione per raccoglierne i risultati in un bellissimo libro (Paola Balestracci Beltrami, Il mio primo libro di musica, Roma, Armando, 2009) che raccoglie proposte operative per i bambini insieme a indicazioni per gli insegnanti e i professionisti.
Emma è una ragazza con autismo che oggi ha tredici anni. Il suo percorso è passato attraverso la musicoterapia (dove stava seduta sul coperchio del pianoforte a ricevere con l’intero corpo le vibrazioni della musica che Paola suonava, interpretandola come partitura vivente per riuscire a stabilire una relazione); poi attraverso Incontrocanto, dove nel suo caso sono state potenziate soprattutto le abilità sociali; per poi approdare allo studio del pianoforte, grazie al quale ha imparato fra le altre cose l’accompagnamento di We wish you a merry Christmas, che le ha permesso di partecipare al saggio natalizio della scuola insieme alla flautista Carlotta. L’inchino, più che da perfezionare è da imparare: Emma lo ha completamente omesso. Stefano invece, che ha la sindrome di Asperger e non è alla sua prima esperienza in pubblico, vi si è dedicato ossessivamente da mesi e ce ne ha elargito uno ampio, da attore romantico, dove ci siamo immaginati senza sforzo un invisibile cappello con una piuma staccarsi dalla sua testa e sfiorare il pavimento, in un gesto fluido ed elegante.
Nel tempo, come succede a tutte le realtà necessarie, il Consorzio Concorde è cresciuto. L’offerta dei corsi, dei laboratori e dei seminari si è moltiplicata, le possibilità di accesso alle attività della scuola sono diventate sempre più numerose. La scuola è un’associazione indipendente e senza fini di lucro, che si regge unicamente sulle proprie forze economiche. Attualmente circa il dieci per cento degli allievi della scuola, che complessivamente sfiorano quota 200, è rappresentato da bambini con bisogni educativi speciali, che frequentano gli stessi corsi degli altri. La maggior parte di essi frequenta al tempo stesso anche il polo di neuropsichiatria “Il tubero” dell’Anffas di Crema, la cui responsabile per l’autismo, la pedagogista clinica Enza Crivelli, è anche presidente del Consorzio Concorde ed è la figura chiave di questa forma di inclusione. È lei che provvede a guidare gli insegnanti della scuola lungo il percorso di formazione di ogni bambino, fornendo loro gli strumenti adeguati per conoscere i punti di forza e di difficoltà degli allievi e mettendoli in grado di sfruttarli al meglio. E gli insegnanti, dal canto loro, rispondono con entusiasmo, aggiungendo alle proprie competenze professionali e artistiche una nuova dimensione. Non è sufficiente essere buoni musicisti per diventare insegnanti del Consorzio Concorde. Come non basta essere infarciti di Orff Schulwerk, di metodo Kódaly o Willems. Le doti umane e una certa elasticità di pensiero sono requisiti non secondari, e purtroppo non sempre si accompagnano alle doti artistiche e alle conoscenze didattiche.
Come direttore della scuola, mi piace definire il tipo di inclusione che avviene al Consorzio come morbida e trasparente, che è a mio avviso come l’autentica inclusione deve essere. Nessuno dei materiali informativi della scuola contiene slogan o strilla fanfare che, come spesso accade, usano la disabilità come un elemento di marketing. Non credo molto all’utilità di insegne lampeggianti al neon che dicono “Attenzione, qui disabili!”. Neppure il sito internet della scuola fa riferimenti espliciti a questa sua natura: si limita a dire, come di fatto è, che il Consorzio è un luogo dove tutti possono accedere all’esperienza musicale imparando e divertendosi. Riempire di reale sostanza questa parola, la parola “tutti”, è il compito che ci siamo dati. E, se “tutti” è un augurio a lunga scadenza, “il maggior numero possibile” è l’obiettivo immediato. È la stessa filosofia di inclusione che sta alla base di un altro grande progetto nato nel 2010, la casa editrice uovonero, che persegue l’inclusione attraverso la lettura facendo libri che siano davvero per tutti i lettori, e giochi che permettano a tutti di giocare. Pur essendo un progetto indipendente, uovonero ha certamente beneficiato dell’esperienza e delle riflessioni del Consorzio, da cui ha ereditato questa visione per applicarla ad altri àmbiti e utilizzarla a sua volta come punto di partenza per un suo ulteriore approfondimento. Non è un caso che gli editori di uovonero siano Enza Crivelli e il sottoscritto, insieme alla nostra socia Lorenza Pozzi. E forse non è un caso che l’incontro con uno degli illustratori di uovonero, Matteo Gubellini, sia avvenuto proprio al Consorzio Concorde, dove suo figlio frequenta il laboratorio di Incontrocanto. Inoltre, da tempo la scuola sta sperimentando metodologie didattiche che potrebbero presto trovare una collocazione nel catalogo di uovonero e rappresentare un altro importante punto d’incontro fra queste due realtà: sia con riguardo a forme alternative di notazione musicale, non semplificate ma rinforzate, che permettano di accedere alla decodifica del simbolo attraverso molteplici canali semantici; sia relativamente ad approcci meno rigidamente legati allo spartito e ai metodi tradizionali.
Il concerto di Natale sta per finire. Siamo all’ultimo brano in programma. Il palco viene organizzato per fare posto alla Caoschestra, il laboratorio di improvvisazione collettiva a cui è riservato il gran finale del concerto. La preparazione del palco è piuttosto laboriosa, perché deve consentire la disposizione dei trentotto giovani musicisti che hanno partecipato al laboratorio. Alla fine, anche se un po’ stretti, trovano posto una decina tra pianoforti digitali e tastiere elettroniche, due batterie, percussioni varie, otto chitarre, svariati fra violini e flauti. Paolo Pini, ideatore e coordinatore del progetto, è riuscito nella doppia impresa di far suonare insieme una formazione così insolita e di disporla su di un palco di ampiezza piuttosto ridotta. Quando tutto è pronto e anche un pianoforte che faceva i capricci riprende a suonare, gli allievi salgono sul palco. Ciascuno raggiunge il proprio posto e si predispone allo strumento. La melodia di Stille Nacht prende forma a poco a poco e si ripete con colori timbrici sempre nuovi, inframmezzata da momenti di “caos sonoro organizzato”. Ragazzi e ragazze sono visibilmente impegnati, e ciascuno offre il proprio contributo al risultato complessivo, che a tratti raggiunge momenti di grande intensità emotiva. E questo risultato è merito di tutti. E al termine tutti sono soddisfatti: il pubblico, da una parte, che esprime il gradimento con applausi interminabili. I musicisti, dall’altra, che si complimentano fra loro e hanno in viso l’espressione felice di chi ha compiuto una grande impresa. E infatti è così. È come se l’autismo, la sindrome di Asperger, quella di Down, di Tourette e tutte le altre fossero rimaste giù dal palco, e vi siano saliti semplicemente trentotto ragazzi, con la loro voglia di fare musica. Insieme. Tutti.

“Il Filo dal Canestro”: esperienze di basket e autismo

Ogni relazione interpersonale richiede una serie di competenze di base: l’attenzione congiunta, intenzione ed emozione reciproca, abilità d’imitazione e alternanza dei turni, l’abilità di comunicazione verbale e non verbale e la condivisione d’interessi; se tutti questi aspetti non sono presenti o sono deficitari, ciò impedisce un’adeguata interazione e relazione con gli altri e, di conseguenza, la possibilità d’integrazione.
L’integrazione sociale per gli autistici può sembrare paradossale in quanto l’autismo è caratterizzato da deficit della comunicazione e dell’interazione sociale, che non permettono un adeguato sviluppo delle competenze sociali. Tuttavia, essa è un processo fondamentale per le persone con autismo, in quanto, offre la possibilità di uscire dal proprio isolamento e di migliorare la qualità della vita.
L’integrazione è un momento di crescita personale, è un’apertura verso l’altro che consente uno scambio tra persone, che si trovano in situazioni differenti e con conoscenze ed esperienze diverse.

Il progetto “Il Filo dal Canestro”
Il “Progetto Basket e Autismo, Il Filo dal Canestro” nasce nel 2003, presso l’Associazione “Il Filo dalla Torre” Onlus, con l’obiettivo di offrire ai bambini e ragazzi con autismo la possibilità di vivere, nel gruppo dei coetanei, un’esperienza di sport attraverso il basket, grazie alle strategie previste dall’approccio P.E.I.A.D. “Progetto Educativo Integrato Autismo e Disabilità”.
Il Progetto prevede un incontro settimanale di un’ora e mezza, suddiviso in due sessioni ciascuna della durata di 40 minuti. I ragazzi sono suddivisi in due gruppi per fasce di età: il gruppo dei bambini dai 7 ai 13 anni, e il gruppo degli adolescenti dai 14 anni ai 21. Il gruppo è attualmente composto da 8 bambini e 11 adolescenti, tutti con un disturbo dello spettro autistico. Il rapporto numerico tra gli atleti e gli operatori è di 1:1. Gli allenamenti si svolgono presso il campo della Stella Azzurra di Roma, che fornisce gli ambienti e i materiali necessari alla pratica del basket. Nell’arco dell’anno, sono previsti degli incontri di integrazione con ragazzi normodotati, under 17-19, atleti della società sportiva della Stella Azzurra.
L’assunto di base del Progetto “Il Filo dal Canestro” è quello di offrire, attraverso l’utilizzo della pratica sportiva, l’opportunità di intervenire attraverso la mediazione corporea sulle difficoltà di contenimento, comunicazione e relazione proprie delle persone con autismo.
I piccoli svolgono un lavoro più analitico, finalizzato a facilitare un avvicinamento alla palla: vengono loro proposti esercizi di “confidenza con il pallone”, esercizi di passaggio, e iniziano a comprendere come palleggiare e cosa vuol dire lanciare la palla al canestro.
Con il gruppo dei grandi, l’allenamento è più “agonistico” e prevede percorsi in palleggio, passaggi in corsa, gare di tiro e giochi di squadra.
La modalità dello stare insieme, quindi, passa per il piacere di farlo e per il divertimento che ne consegue; in queste condizioni, è più facile che un bambino autistico si apra e si stacchi dalla propria condizione di chiusura. È a partire da questa riflessione che vengono poi strutturati gli allenamenti, le lezioni, proponendo esercizi che non denaturano lo sport del basket ma che, oltre ad avere una valenza tecnica, hanno dei significati più profondi. Come afferma M. Calamai (allenatore nazionale di basket e insegnante di basket per persone disabili), uno degli elementi più importanti nel basket è il tiro della palla in quanto il basket è l’unico sport che tende al cielo e questa è una rivoluzione per chi è abituato a guardare sempre per terra. Infatti, il momento del tiro è un giusto connubio di esplosività e delicatezza: la prima, l’esplosività, è la componente iniziale del gesto; mentre la seconda, la delicatezza, si concretizza nel momento in cui si lascia la palla tra le mani; in questo modo si impara a dosare la forza e a impiegarla per un fine definito e positivo. Anche nel Progetto “Il Filo dal Canestro”, vengono proposti esercizi di tiro; a volte lasciando liberi i ragazzi di tirare e sperimentare, in modo che inizino a entrare nello spirito adatto per proseguire con altri esercizi più guidati, altre volte secondo precise tecniche. Un aspetto importante è la diversificazione delle proposte: infatti, gli esercizi di tiro avvengono in canestri grandi o piccoli, ma soprattutto ad altezze diverse (spesso in carrelli della spesa), in modo da poter insegnare a dosare la forza da imprimere alla palla o spingere i ragazzi a cercare soluzioni alternative al tiro stesso. Ai più piccoli, poi, sia il canestro grande che, a volte, quello più piccolo, risultano totalmente inaccessibili: ecco quindi che per rispettare il principio che il basket debba essere un momento di divertimento e di crescita, si cercano di trovare soluzioni alternative, in modo da continuare a motivare i bambini a non farli cadere nella frustrazione determinata dal non riuscire ad arrivare al risultato del “canestro”.
Infatti, un aspetto importante del progetto è la qualità del clima che si instaura all’interno del gruppo, del luogo di allenamento, tra atleti e allenatori, ecc.: un clima relazionale di rispetto, gioco e armonia.
Il clima di base, specie quando gli atleti sono disabili, è necessario che sia positivo, un luogo dove regni l’accettazione piena, e lo stimolo costante al miglioramento, e alla messa in discussione, sia dei ragazzi che degli operatori.
Nel corso degli anni di realizzazione del progetto, i principali risultati raggiunti possono essere riassunti come segue:

  • è stata offerta ai bambini e ai ragazzi con autismo la possibilità di utilizzare le potenzialità adeguate del corpo fisico, per la realizzazione di schemi motori adeguati e funzionali;
  • è stata utilizzata la mediazione corporea per incidere sulle difficoltà di contenimento, di relazione e di comunicazione;
  • è stata favorita la socializzazione tra coetanei e il confronto aperto tra le proprie attitudini personali nella pratica sportiva;
  • è stata sostenuta la crescita delle abilità di autonomia, nel vestirsi e svestirsi, nel custodire la propria palla e la propria divisa, nell’indossare e togliere le scarpe per il gioco, nell’aspettare il proprio turno, nel tollerare la presenza di numerose persone in uno spazio unico;
  • sono stati individuati i talenti specifici di ogni bambino e ragazzo, valorizzandoli al massimo, e incidendo per la trasformazione delle difficoltà ancora presenti, attraverso un allenamento globale e individualizzato, allo tempo stesso;
  • è stata sviluppata la capacità di gioco, di scambio;
  • per alcuni ragazzi più grandi e più abili nel Basket, è stata scoperta la dimensione ludica e in alcuni aspetti agonistica.

Stefano
Tra i ragazzi, che partecipano al Progetto, Stefano è un ragazzo di 20 anni, con disturbo dello spettro autistico. È seguito dall’Associazione “Il Filo dalla Torre” da 12 anni. È un ragazzo autonomo e ha delle buone capacità motorie e cognitive. Non utilizza il linguaggio verbale per comunicare, ma ha una buona comprensione. Nel basket, Stefano ha trovato un buon canale di espressione, per cui partecipa attivamente agli allenamenti, e, nel corso degli anni, ha mostrato molti miglioramenti, sia dal punto di vista tecnico che nelle modalità comportamentali. Stefano arriva al campo di basket sempre un po’ prima dell’inizio dell’allenamento, si siede in panchina e attende che l’allenatore inizi a dare le indicazioni. Ha difficoltà nella fase finale degli allenamenti, poiché si avvicina il momento del distacco dal gruppo, per cui manifesta maggiore agitazione. In generale, Stefano sorride poco, non ricerca un’interazione né con adulti né con coetanei; tuttavia, nelle giornate d’integrazione, stabilisce più frequentemente un contatto visivo con adulti, l’operatore di riferimento o l’allenatore e con i coetanei. Stefano si mostra abbastanza collaborativo, tollera le regole e le correzioni, resta calmo, dopo aver commesso un errore, soprattutto nelle giornate di integrazione e post-integrazione. Mostra delle buone capacità attentive, che crescono durante l’integrazione e il post-integrazione. Nelle giornate di integrazione crescono anche le stereotipie, legate a una maggiore ansia, mentre diminuiscono i comportamenti di isolamento. Nel post integrazione, diminuiscono gli atteggiamenti provocatori e i comportamenti autolesionistici. Stefano manifesta gioia nella prima giornata di integrazione, mentre nelle ultime osservazioni manifesta maggiormente tristezza e rabbia, probabilmente legati all’avvicinarsi della conclusione dell’esperienza. In sintesi, l’esperienza di integrazione favorisce, in Stefano, un maggiore interazione attraverso lo sguardo con i propri coetanei, sia con i ragazzi autistici che normodotati, e una gioia nello svolgere l’allenamento insieme a loro.

Mettersi in gioco
Dalle osservazioni effettuate, nelle giornate di integrazione con i giovani atleti della “Stella Azzurra” e post integrazione, emerge che nei ragazzi aumentano, in termini di frequenza, le capacità attentive, sia nell’ascoltare le istruzioni che nella partecipazione al compito, aumentano gli scambi di interazione sia con adulti, che con i coetanei, aumentano il sorriso e la gioia. Tali risultati evidenziano che l’integrazione dei ragazzi autistici con i ragazzi normodotati abbia un’influenza positiva sia sul comportamento che sulle capacità relazionali dei ragazzi autistici sia nella fase dell’integrazione che nel post-integrazione.
Attraverso questo studio è stato possibile evidenziare la duplice “sfida” che i ragazzi con autismo hanno saputo affrontare. La prima è stata la possibilità di poter partecipare alla pratica sportiva, in particolare al gioco del basket, dimostrando quindi di essere in grado di svolgere uno sport se vengono create delle condizioni adeguate, come la strutturazione del lavoro e il sostegno e l’aiuto da parte di un operatore. Questo aspetto è tanto più importante se si pensa che solitamente nei ragazzi con disabilità vengono messi in primo piano i disturbi psicologici, tralasciando quindi la pratica sportiva, che invece offre molte occasioni di crescita e sviluppo, sia sul piano motorio, che cognitivo, offrendo inoltre occasioni di scambi e relazioni con gli altri.
La seconda sfida è quella dell’integrazione, in cui i ragazzi con autismo dimostrano di essere in grado di poter entrare in relazione con gli altri e “fare qualcosa”, come il gioco del basket, insieme ad altri. L’esperienza di integrazione nel gioco del basket con ragazzi normodotati rappresenta per i ragazzi con autismo un’occasione in cui sperimentarsi ed entrare in contatto con i propri coetanei attraverso il gioco e lo sport.
Autismo e integrazione non sono quindi due termini antitetici, ma essi possono essere pensati e messi insieme. È importante, quindi, favorire e promuovere l’integrazione con i ragazzi autistici per aiutarli a uscire dal proprio isolamento e offrire la possibilità di dimostrare il loro impegno e le loro capacità.

Per contatti
www.filodallatorre.it 

Il Laboratorio Teatrale Integrato. Bambini e disabili sulla scena della diversità


Utopici e rari, luoghi capaci di superare le distanze per mezzo dell’immaginazione. Sono questi i “Teatri Possibili” che desideriamo incontrare nella nuova rubrica dedicata alla diversità e alle arti performative. Esperienze e pratiche in trasformazione per superare i limiti del corpo e del presente.
Per questo numero di “HP-Accaparlante” proponiamo l’Istituto Piccolo Cottolengo Don Orione di Genova dove l’integrazione si fa anche sul palco. Da quattro anni, infatti, l’Istituto ospita al suo interno il Laboratorio Teatrale Integrato, coinvolgendo i bambini delle scuole elementari e le proprie ospiti con disabilità nella realizzazione di uno spettacolo annuale, rappresentato e condiviso pubblicamente con gli abitanti del quartiere cittadino. Un esperimento coraggioso e innovativo su cui abbiamo intervistato Giuseppe Pellegrini, curatore e conduttore del progetto.

Partiamo dagli esordi di quattro anni fa. Come nasce l’idea del Laboratorio Teatrale Integrato all’interno dell’Istituto Cottolengo Don Orione ?
Tutto è cominciato con la mia entrata in Istituto per l’appunto quasi quattro anni fa. Già allora si utilizzavano degli strumenti teatrali volti all’educare e le persone disabili avevano sperimentato su di loro che lo stare in teatro, così come il provare a farlo, fa bene, distende cioè le tensioni, è capace di tirare fuori  il meglio di noi. Essendo poi l’Istituto collocato in un quartiere molto popolato, fin dall’inizio, non appena sono entrato, ho pensato che sarebbe stato bello integrarci anche con il resto dei suoi abitanti. Così, sono partito con il proporre l’attività teatrale con le persone disabili ai bambini del catechismo mettendo in scena Il Flauto Magico di Mozart. Partendo dai propri limiti e possibilità, i bambini hanno cantato e recitato con disabili riuscendo a portare a termine lo spettacolo con ottimi risultati.
L’anno successivo invece, ho deciso di proporre un laboratorio più strutturato e continuativo in una scuola. L’idea infatti era proprio quella di attuare un percorso condiviso, in cui non fossero solo i bambini a venire a trovarci in Istituto ma in cui anche noi potessimo uscire per mettere a frutto nella scuola la nostra esperienza. Ed ecco che, da questo incontro, è nato il Laboratorio Teatrale Integrato. Al momento ormai, ogni lunedì, due classi della Scuola Solari, che dalla seconda abbiamo portato alla quarta elementare, vengono da noi in Istituto per partecipare insieme a un percorso che ci porta a realizzare uno spettacolo. Più che lo spettacolo, tuttavia, il vero focus è il laboratorio, dove si concentra gran parte del processo. Aggiungi un posto a tavola è stato il nostro secondo spettacolo, partito da un testo comico celebre e condito con musiche molto coinvolgenti.
Lo scorso anno abbiamo invece fatto un salto in più, creando noi un vero e proprio copione, e a provare siamo andati all’interno della palestra della Scuola Solari e questo, per le nostre ospiti, non è affatto un fatto scontato.

Da chi è composto oggi il gruppo del Laboratorio Teatrale Integrato?
Insieme ai 37 bambini delle elementari e alle loro insegnanti c’è il gruppo multiforme delle nostre ospiti, tutte donne, dai 31 fino ai 65 anni. C’è quindi un triplo livello su cui lavoriamo: su di noi, cioè sull’équipe di educatori che propone il Laboratorio Teatrale Integrato, sui docenti e ovviamente sulle ospiti e i bambini.
Tutto questo è impegnativo, affascinante ma è anche un percorso piuttosto lungo. Il gruppo è davvero molto grande quindi si va avanti a piccoli passi. Oggi siamo giunti a creare, come accennavo, un copione tutto nostro, Il Baule Magico dei desideri, un testo autobiografico, nato a partire dalle storie delle nostre ospiti, che accanto ai bambini lavoravano così sui propri testi e racconti, sulle musiche che prediligevano, le scenografie…

Come reagiscono i bambini a questo incontro e, viceversa, qual è  la risposta delle ospiti?
Noi cominciamo alle 9:30 e le ospiti entrano in sala prove molto prima dei bambini, un momento che genera subito un grande stato d’attesa e di emozione, che, ovviamente, è andato nel tempo crescendo. Si tratta di un gruppo in formazione, un gruppo che sta cominciando a condividere parte della sua quotidianità e della propria vita.
Spesso non si vede l’ora che arrivi la volta successiva per poterci rivedere e poter ricominciare.
Quando poi deve iniziare lo spettacolo, la voglia di farsi vedere e di mostrare al pubblico il lavoro fatto è a dir poco esplosivo!
Dai bambini poi escono molte cose, ho tanto materiale derivato da loro, disegni, frasi citate dallo spettacolo che spesso sono le loro stesse battute, quello che ne nasce è una rielaborazione sempre molto spontanea. I bambini scoprono che anche se ci sono degli attori e delle attrici con difficoltà poi si trovano delle soluzioni. Il passo successivo è giocarci sopra e divertirsi insieme.

Sembra che il perpetuarsi di quest’incontro abbia maturato nel tempo i suoi frutti. Con la crescita dei rapporti e delle amicizie sono cresciute di pari passo anche le vostre competenze…
Sì, con Il Flauto Magico siamo partiti da un testo tratto da un libro per bambini che ci ha proposto un’insegnante, che poi abbiamo riadattato e rielaborato a modo nostro.
Con Aggiungi un posto a tavola, abbiamo affrontato invece le esilaranti pieghe della commedia. Grazie a questo spettacolo, in seguito siamo addirittura entrati agli Arcimboldi di Milano, dove l’attore Gianluca Guidi ci ha permesso, con tutto il gruppo di bambini e ospiti, di fargli un’intervista.
Poi siamo passati a Il Baule Magico dei desideri, partendo direttamente da noi. Nel Baule, oltre alle storie autobiografiche c’è anche la presenza del mare, un luogo che racconta… Abitando noi a Genova, un giorno siamo andati proprio sul mare, bambini e ospiti, lì un cameraman ci ha ripreso e ne ha fatto un docufilm. Questo momento, e il fatto che sia stato documentato, per noi è molto importante, perché si è focalizzato sul processo. In questo docufilm c’è anche uno spezzone in cui i bambini fanno un racconto che poi è stato inserito nello spettacolo, oltre che dei momenti di gioco che noi viviamo all’interno del laboratorio che poi vanno a introdurre quello che si fa la volta successiva.

Alla fine si conclude sempre con un momento di festa, di solito una bella tavola imbandita al centro dell’Istituto. Tutti gli anni ci diamo così appuntamento per l’anno successivo, lasciamo un dvd del percorso ai genitori dei bambini e cerchiamo di venderlo per finanziare l’attività.

Più l’Istituto ci presta attenzione, più, ovviamente, è facile per noi fare ogni anno dei passi in avanti.

Come sono state preparate le insegnanti che hanno affiancato i bambini in questo percorso?
Ho cercato di parlare con loro del concetto di inclusione e integrazione ma soprattutto di quello di qualità. Ho spiegato loro quelle che erano per me le necessità e l’efficacia dell’appoggiarsi al percorso teatrale e ho chiesto loro di partecipare a patto di stipulare insieme un contratto iniziale:  sospendere per un attimo il giudizio e lasciare spazio ai bambini di esprimersi in libertà.
Questo contratto è stato il fondamento di tutto il nostro laboratorio, così come il focus sul processo, una cosa che era molto importante far capire loro. Insieme abbiamo monitorato il percorso, cercando di confrontarci su quello che stava succedendo. Se con tutto lo staff educativo, gli insegnanti e i genitori potessimo incontrarci più spesso credo che si potrebbe fare un ulteriore salto.

Esiste la possibilità di replicare il progetto o di estenderlo alla cittadinanza, al di là del lavoro sul quartiere?
Direi proprio di sì, noi quest’anno stiamo infatti già proseguendo il percorso. In laboratorio al momento stiamo lavorando molto sull’oggetto simbolico specchio, qualcosa che riflette ma chissà che cosa… E poi sul nome. I primi tre mesi li abbiamo spesi tutti intorno a questo tema. Sono assolutamente convinto che le nostre ospiti integrate con i bambini possano sempre regalarci moltissimo. Fare delle repliche da qualche altra parte sarebbe per noi fantastico, per noi e per chi ci ascolterebbe. Il tutto sempre condotto con molta umiltà, so che ci sarà ancora tanta strada da fare ma so anche che quello che abbiamo fatto è reale. E allora alla cittadinanza cosa possiamo dire? Beh, per esempio che si può pensare a un mondo diverso. 

Diversamente felici

“Ma ho visto anche degli zingari felici corrersi dietro, far l’amore e rotolarsi per terra. Ho visto anche degli zingari felici in piazza Maggiore a ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra”. Così cantava negli anni Settanta il mio concittadino Claudio Lolli, cantautore malinconico e controcorrente. Allora come oggi non era facile parlare di certi temi, di minoranze, del diverso, non era semplice contrastare i tanti luoghi comuni e i tanti pregiudizi di cui era (ed è) intrisa la nostra società. È stata una lettura recente a riportarmi alla mente questa canzone. Sono venuto a conoscenza di un sondaggio che spiegava come – e queste cose fanno sempre notizia! – alla domanda “Sei felice?” avesse risposto in modo affermativo una percentuale maggiore di persone disabili rispetto a chi non lo era. Sinceramente, la “notizia” non ha destato in me grande stupore. Io lo dico sempre, a tutti: agli amici, ai convegni, ai miei familiari. Io sono soddisfatto della mia vita, quante altre persone cosiddette normali possono dire lo stesso? La domanda del sondaggio era del tutto mal posta. Insomma, perché fare distinzione fra persone diversamente abili e non? La felicità è quanto di più soggettivo esista. Non ha relazione con l’essere disabile o non esserlo. Non spenderò parole di circostanza per dire che una persona con handicap impara ad apprezzare di più le piccole cose, che è felice perché si accontenta di quel poco che ha, che non ha magari le stesse ambizioni di un normodotato, non vive la stessa competitività, lo stesso stress, ma vive in un mondo quasi ovattato, in cui familiari e amici lo tengono protetto come in una bolla di vetro, ecc. Queste banalità non meritano di essere commentate. Non posso negare che avere qualche deficit sia una complicazione all’esistenza: la propria e, quasi sempre, quella della famiglia intera. Tuttavia, una complicazione non significa infelicità costante. Il parametro della felicità si calcola su una base di partenza. Se una persona affronta più difficoltà di un’altra nella vita di tutti i giorni, chiaramente avrà parametri differenti per valutare il proprio grado di felicità. Mi rendo conto che se qualunque altra persona un giorno fosse improvvisamente catapultata al mio posto, sulla mia carrozzina, dipendente da altri in tutto e per tutto, almeno inizialmente sarebbe disperata. La sua valutazione dello status di felicità sarebbe fortemente condizionata dalla considerazione di ciò che ha perso, e questo non permetterebbe di valutare altrettanto obiettivamente quello che, invece, può avere guadagnato. Però, se ripensasse alla sua vita di prima, quanti sarebbero i momenti di vera felicità che potrebbe ricordare? O meglio, in quanti e quali istanti della sua vita di prima si è percepito felice? Forse, a posteriori, dalla carrozzina, si sarebbe reso conto di una felicità precedente che prima, probabilmente, non percepiva nemmeno. Quello che bisogna tenere sempre presente, facendo queste considerazioni, è che la condizione di disabilità non esaurisce la definizione, l’essenza di un individuo. Io non sono il mio handicap. Quindi, io posso essere più o meno felice con la medesima probabilità statistica di una persona priva di deficit. Nessuno di noi riconosce la felicità nella stessa cosa. Non si tratta di negare una disabilità, un problema, una mancanza, una difficoltà. È il fatto di affrontare tutto questo nel modo giusto che discrimina la serenità o la mancanza di essa in un individuo. Se il contesto in cui vivo mi penalizza, io sarò infelice, sia che succeda perché ho un deficit, sia che succeda perché, semplicemente, non mi viene data la possibilità di esprimere appieno i miei talenti e le mie, appunto, diverse abilità. Se queste ultime vengono valorizzate, chiunque si sentirà un individuo realizzato. Sarebbe assurdo negare la sofferenza che accompagna la vita di una persona malata, o con deficit gravi, penalizzanti. Sarebbe totalmente insensato pensare che sia la felicità a caratterizzare un’esistenza. È quasi sempre il dolore che ci dà la misura di chi siamo, della nostra vita. Solo conoscendo il dolore, i nostri limiti, possiamo conoscere la felicità. Io credo che sia una sensazione che si percepisce per contrasto: solo provando il dolore si può percepire quando, invece, si è felici. Non bisogna però permettere nemmeno che sia la sofferenza ad avere la meglio su ciò che siamo. Non è facile essere handicappati, no. E non può nemmeno essere una simile limitazione il senso del trovare più facilmente la felicità delle piccole cose. Io, in questo, sono sempre stato un “rivoluzionario della disabilità”. Essere portatori di deficit significa essere più “trasparenti”, come dico sempre. Significa non poter nascondere agli occhi degli altri i propri limiti, limiti che hanno anche le persone “normali”, ma che in esse si nascondono più facilmente. Avere dei limiti più “evidenti” significa anche essere costretti ad ammetterli, a conviverci, dunque a tentare in ogni modo di superarli accettandoli e di essere risoluti e ottimisti nel farlo. Forse quel tipo di felicità “speciale” delle persone con deficit è tutta qui, nella “trasparenza”. Perché è inutile, ad esempio, dannarsi l’esistenza nel tentativo vano di nascondere dei limiti che sono sotto gli occhi di tutti, mentre la gran parte delle persone normodotate passano la loro vita a provare a dissimulare le proprie mancanze, fisiche, estetiche, morali, intellettuali. Quando sai di non poter “barare” sei portato ad accettare quello che sei e a valorizzare le diverse abilità che possiedi. È questo essere così risoluti e consapevoli come individui che dà la misura della felicità speciale che nasce dalla condizione di deficit. La felicità non sta nel non avere mai dolori, ma nel modo in cui li si affronta e, si spera, li si supera. Aristotele, alla fine del suo più famoso trattato di etica, si pone proprio la domanda cruciale di tutta la storia dell’umanità. Qual è lo scopo della vita di qualsiasi persona? La felicità. E cos’è, secondo lo Stagirita, la felicità? La vita vissuta secondo ragione. “Ciò che per natura è proprio di ciascun essere, è per lui la cosa più buona e più piacevole; e per l’uomo questa cosa sarà la vita secondo l’intelletto. Questa vita sarà la più felice”. Ipse dixit, ma… quanti dei miei lettori, invece, staranno pensando di essere stati più felici quando, nella loro vita, hanno compiuto scelte istintive, di cuore, invece che di ragione? La Dichiarazione d’Indipendenza degli USA del 1776 contiene il “diritto alla ricerca della felicità”. Non è il diritto alla felicità, perché, quella, non ce la può garantire nessuno. Il diritto è alla ricerca di essa. Anche questa affermazione può essere interpretata in vari modi. C’è chi esercita questo diritto in maniera spregiudicata, chi lo ritiene limitato solo dal principio del neminem laedere, chi la ricerca in hinteriore homine, chi nel perseguire in modo sfrenato i piaceri della carne. Già i filosofi antichi non riuscivano a trovare un accordo su cosa fosse la felicità. Per Socrate essa si trovava nell’esercizio della virtù e della filosofia, per Aristotele nel pieno esercizio della propria natura razionale, per Epicuro si identificava col piacere, per gli Stoici con l’assenza di qualsivoglia turbamento, fisico e morale. In generale, la filosofia greca delle origini identificava la felicità con i piaceri terreni: addirittura, ritenevano che gli dèi potessero essere invidiosi della felicità degli uomini, per questo inviavano loro dal cielo dolorose punizioni. I Greci esorcizzavano la paura del dolore mettendo in scena le famose tragedie, quasi avessero paura di sentirsi felici. Eraclito per primo osservò saggiamente che, se la felicità consisteva in un qualche bene materiale, anche i buoi avrebbero potuto dirsi felici. Io, come Aristotele, ritengo che ci sia molto di razionale, o almeno di ragionevole, nella felicità. Sto parlando di quella vera, di quella duratura, non del piacere effimero, che può essere anche semplicemente fisico ed istintivo. Anche la religione cattolica ha come suprema promessa quella della felicità eterna, quella che non ha fine e che compensa qualunque tipo di sofferenza terrena, quella che si risolve nella presenza piena di Dio e nella comunione finale e totale con Lui, quella che non ha nulla di umano ma che ci rende partecipe del divino, quella che ricompensa una vita buona e giusta e che, probabilmente, attraverso la Grazia raggiunge anche chi, ai nostri occhi umani, non se la sarebbe “meritata”, perché la felicità eterna è un dono, è, appunto, una “grazia”, cioè è “gratis”. Ma l’insegnamento più grande che pervade il cattolicesimo è che la felicità è data dall’amore, in qualunque forma esso si declini. Se non si ama il prossimo, non si può essere felici, ma nemmeno se non si ama se stessi. Questo insegnamento ha un grande valore per l’uomo, al di là della “religione dell’amore” che veicola il messaggio: l’uomo, infatti, è sì una creatura razionale, ma è anche un “animale sociale”: se non ama se stesso e gli altri uomini non sarà mai felice, perché nessuno basta a se stesso. Né io, seduto sulla mia carrozzina, che da solo non posso fare proprio nulla, né nessun altro, che forse non dipende da alcuno per le mansioni pratiche della vita quotidiana, ma che dipende dal resto dell’umanità in quanto uomo. “La vera felicità è condivisa”, scrisse alla fine del suo diario Christofer McCandless, protagonista del film (tratto da una storia vera) Into the Wild. Egli, dopo essere vissuto in totale isolamento nelle terre selvagge per mesi, alla fine della sua troppo breve esistenza, morendo solo in mezzo alla natura, tradito dalla stessa natura che aveva disperatamente inseguito, lontano da quella società da cui era fuggito con repulsione, arriva alla conclusione più tragica dei suoi 24 anni: la felicità vera è condivisa. A proposito, è un film che vi consiglio.    

Lettere al direttore

Buongiorno signor Claudio,
Le scrivo per chiederle un consiglio. Ho letto sul sito di Accaparlante la lettera di una mamma di un bambino con QI di 78. Anche mia figlia è una bambina borderline, con lo stesso QI, 78 per l’appunto. Le è stato diagnosticato due anni fa, ma mi era anche stato detto che con questo punteggio, visto che il disturbo era minimo, non le spettava l’insegnante di sostegno. Durante le scuole elementari ha fatto un po’ di fatica, soprattutto con gli scritti mentre nell’orale se la cavava egregiamente. Ora frequenta la prima media, le difficoltà ci sono così come alle elementari soprattutto con gli scritti mentre con gli orali continua a prendere i suoi bei 7/8. La sua insegnante di Italiano, tuttavia, mi ha recentemente detto che la soluzione migliore sarebbe comunque quella di richiedere per lei la presenza di un insegnante di sostegno.
Mi piacerebbe avere un suo parere a riguardo, in particolare anche rispetto a quel “bollino” del quale parlava nella risposta alla lettera che ho citato all’inizio. Il mio pensiero riflette il suo, considerando anche il fatto che la bambina è in prima media, con tutti i risvolti dell’età. Da un lato sarebbe un bene per lei usufruire di programmi differenziati, perché mi rendo chiaramente conto della sua fatica, dall’altro mi continua a frullare in testa quel famoso bollino e penso alla reazione della bambina che si sentirebbe inferiore agli altri, a come verrebbe affrontata questa cosa nel gruppo classe vista sempre la particolare età, e penso anche al suo futuro lavorativo. Al di là delle difficoltà scolastiche, mia figlia non presenta infatti difficoltà nella vita quotidiana. La prego, mi dia un consiglio perché la confusione è tanta. Sostegno sì o sostegno no?
L.M

Carissima L.M, innanzitutto la ringrazio molto per la fiducia che mi dà nel chiedermi un consiglio così importante.
È sempre molto difficile, per me, dare dei consigli “giusti” in situazioni del genere e ho sempre un po’ il timore di fare considerazioni inappropriate.
Capisco molto bene il discorso che fa riguardo al bollino, credo anche che il problema relativo a questo argomento sia riferibile a chi si preoccupa di imprimere il termine bollino piuttosto che la persona stessa vittima dell’etichettamento. Cercare il più possibile di far sì che lo scomodo bollino possa diventare la risorsa intrinseca di sua figlia è un lavoro complesso ma che dà frutti soddisfacenti.
Tutti noi abbiamo un bollino addosso, c’è chi è magro, c’è chi è grasso, c’è chi è pelato e c’è chi è basso ma credo che in questo caso sia un atto di coraggio domandare aiuto tramite un’ammissione di deficit, piuttosto che finire vittima dello sguardo altrui dal quale ci si può riscattare. Ovviamente queste considerazioni lasciano il tempo che trovano e ognuno di noi è libero di decidere come agire. Vero è, però, e questo mi sento di ripeterlo e sottolinearlo, che il chiedere aiuto è il primo passo verso il miglioramento e verso la soluzione; la “mano altrui”, in questa situazione, ha, secondo me, una posizione prioritaria.
Un altro consiglio che mi sento di darle è quello di mettersi in rete e chiedere, informarsi con tutte le persone che come lei hanno avuto questo dubbio facendosi dire, consigliare e confortare da chi in prima persona ha vissuto la stessa confusione.

 

Caro Claudio,
leggendo il tuo articolo nel Messaggero di S. Antonio di dicembre mi sono tornati alla mente due aneddoti. Il primo riguarda la trasmissione televisiva “Il testimone” in onda su MTV, in cui in una puntata il presentatore, Pif, intervista alcune persone affette da varie forme di nanismo. Un uomo affetto da acondroplasia racconta in modo molto ironico ma senza nascondere un pizzico di giustificabile irritazione, che quando parla con persone che non lo conoscono, queste si stupiscano che possa avere un’intelligenza normale, come se il suo mancato sviluppo osseo fosse in qualche modo riconducibile a un mancato sviluppo intellettivo e cognitivo. L’altro aneddoto riguarda una signora africana che ho conosciuto quest’estate, la quale mi raccontava che il figlio di una sua amica italiana una volta le ha chiesto “Perché sei marrone?”. Adoro la superficialità dei bambini! Un adulto avrebbe detto “nera” invece nell’aggettivo che ha usato quel bambino non c’è nessuna connotazione di carattere razziale, o peggio ancora razzista. Si limitano a vedere le caratteristiche oggettive, senza collegare a esse un giudizio critico. Molto spesso invece noi adulti tendiamo a fare finta di non vedere le differenze tra le persone in nome di una presunta apertura mentale, soprattutto quando queste differenze ci disturbano. Quando non è possibile far finta di non vedere le differenze facciamo finta di non vedere le persone, come è capitato che facessero con te. Un adulto vedendoti pensa che tu sia un vegetale, un bambino vedendoti viene a chiederti perché sei in carrozzina. Un adulto non ti chiederebbe mai perché sei in carrozzina con la giustificazione che teme di metterti in imbarazzo, come se tu in tutti questi anni non ti fossi mai accorto di essere disabile e il fatto che improvvisamente qualcuno te lo faccia notare possa sconvolgerti. È ovvio invece che l’imbarazzo c’è solo da parte di chi ti guarda senza conoscerti, e che quella di non metterti a disagio è solo una scusa. È comprensibile che a volte non sappiamo bene come comportarci di fronte a una persona che non conosciamo, ma se non iniziamo a chiedergli “perché” e a limitarci a notare solo le differenze reali, non arriveremo mai a capire una realtà diversa dalla nostra. Un esempio di come la percezione della diversità sia molto soggettiva lo porta spesso Alex Zanardi quando parla del suo bambino. Suo figlio è nato dopo l’incidente in cui lui ha perso le gambe e Zanardi racconta che al ritorno dal suo primo giorno all’asilo gli abbia chiesto “Ma perché gli altri papà hanno le gambe?” come se essere senza gambe fosse normale e tutti i papà degli altri bambini fossero strani.
Un forte abbraccio,
Elena

Carissima Elena,
grazie per la tua bella lettera e le tue parole. Ti volevo raccontare quello che mi è capitato. L’Università di Bologna mi ha conferito pochi mesi fa la Laurea honoris causa in formazione e cooperazione. Un riconoscimento che, come già scritto, per quanto indirizzato alla mia persona, ho subito interpretato come frutto di un lungo lavoro collettivo e, ed è questo che qui ci interessa, anche come parziale segno dei tempi (almeno dello sviluppo delle cose negli ultimi cinque decenni). Un disabile riconosciuto nelle sue capacità e nella sua professionalità. E il riconoscimento (dapprima come uomo, poi come singolo dotato di particolari abilità, ecc.) è il risultato di un processo, di una successione, un’evoluzione (certo, costruita dalle azioni e riflessioni umane) che mi sembrava innegabile, evidente. Ma, e questo passaggio dalla storia alla cronaca non deve sembrare inopportuno, dal giorno del conferimento della laurea mi è capitato, nella comunità di famiglie in cui vivo, Maranà-tha, di subire tre o quattro “non-riconoscimenti”, che mi hanno colpito e fatto dubitare: avventori occasionali che, pur vedendomi in giardino o nell’atrio d’ingresso, si sgolavano in cerca di qualcuno (che non c’era o non rispondeva) in grado di dare informazioni, senza nemmeno provare a interpellare me che ero lì a due passi e disponibile. Un salto indietro di trent’anni nel giro di una settimana… A ben vedere, la cosa si faceva involontariamente ironica perché chi chiama un qualcuno generico solitamente usa questa espressione interrogativa: “C’è nessuno?”. Mentre io ero fisicamente lì, un qualcuno c’era, anzi ero l’unico a esserci, presente, senziente, e non venivo affatto tenuto in considerazione come persona in grado di fornire delle informazioni. Di nuovo un’ironia dolorosa: proprio a pochi mesi di distanza da un riconoscimento accademico per le mie capacità formative e informative. Questo a segnare in maniera evidente quante contraddizioni possano coesistere non solo nel medesimo arco di tempo, ma anche nella stessa area geografica e probabilmente prodotte o rese manifeste da persone simili per cultura e grado di studio. Ma questo dato non ci spinga a riconoscere queste contraddizioni come una condizione immodificabile!

Lo sguardo degli Aspie

Nel secondo numero di “HP-Accaparlante” del 2011, Adina Adami racconta i primi due anni di vita di un cineforum particolare, frutto della collaborazione tra l’associazione Gruppo Asperger Onlus, di cui Adina è referente regionale per il Lazio, e il Cineclub Detour di Roma. Il cineforum, avviato il 2 dicembre 2008 e pensato come momento di aggregazione, di socializzazione e di inclusione per ragazzi e ragazze Asperger, si è trasformato con gli anni, adattandosi alle richieste e alle esigenze dei giovani coinvolti. Nel 2011, quattro di loro, Elena, Giulio, Marco e Vittorio, tutti sui vent’anni, hanno manifestato il desiderio di partecipare attivamente all’organizzazione delle proiezioni. L’idea di un’autogestione delle attività ci è sembrata la naturale evoluzione del loro percorso. Il progetto, reso possibile grazie al sostegno del Programma Comunitario Gioventù in Azione, è stato denominato “Lo sguardo degli Aspie”, a voler sottolineare che, per la prima volta, tutte le decisioni, sia sul piano organizzativo che su quello artistico, sarebbero state prese dai ragazzi, senza mediazione da parte di genitori o di psicologi che, in passato, avevano avuto un ruolo decisivo. Unici adulti autorizzati a supervisionare il progetto eravamo Riccardo Ponis (filmaker e musicista prestato al sociale) e il sottoscritto ma, posso garantirlo, il grosso del lavoro lo hanno fatto i quattro ragazzi. Ed è giusto che siano loro a parlarne.  

Giuseppe: Secondo voi, com’è cambiato il nostro cineclub nel corso di questi tre anni?
Elena: Mmmm…direi che… è aumentato il numero di spettatori!
Vittorio: Sì, e poi potrei dire che il cineclub è migliorato, è più strutturato e soprattutto i film scelti non sono più solo per famiglie, ma anche per un pubblico più maturo.
Marco: Secondo me ci sono stati cambiamenti nella scelta dei film e nell’organizzazione ma, dal mio punto di vista, il cambiamento più grosso è stato nei rapporti umani. Nel senso che sono maturate amicizie tra noi. In un certo senso il cineclub, da quel 2 dicembre ad oggi, è diventato una parte fondamentale di me, della mia vita. Anzi, posso dire che la mia vita, la spinta verso la “vita esterna”, è cominciata proprio CON il cineclub. Detto questo è vero che in qualche modo sono aumentati gli spettatori. O meglio, sono aumentati gli interventi nel dibattito che facciamo dopo la proiezione dei film. Forse perché è cambiato il tipo di dibattito: si è passati dall’analisi critica del film al raccontare noi stessi, le nostre ansie, le nostre emozioni.
Elena: Solo alcuni sono riusciti a parlare di se stessi, altri no. Personalmente il dibattito mi ha aiutato a capire come discutere e confrontarmi con altre persone. Tu dici la tua opinione, ascolti quella degli altri e le metti nel tuo bagaglio. E poi nei film vedi modi di vivere diversi dal tuo, ne trai ispirazione e alla fine impari come comportarti.
Vittorio: Io non credo di aver parlato mai di me, perché… per esempio, guardando Provaci ancora Sam, il primo film che abbiamo proiettato… io non vedevo nulla in comune col personaggio del film. Altre volte magari mi rivedevo nei protagonisti dei film, ma sceglievo di non partecipare al dibattito. Ci tenevo a restare un po’ in disparte non vedendo molto in comune tra me e gli altri ragazzi presenti.
Marco: Io inizialmente mi limitavo a parlare del film che avevamo appena visto. Credo di averci messo un anno prima di cominciare a parlare di me prendendo spunto da quello che vedevamo. Diciamo che avevo un forte blocco emotivo. Volevo avere delle amicizie, ma non mi decidevo a coltivarle. E questo da sempre, succedeva regolarmente anche a scuola.
Giulio: Io sono arrivato quasi alla fine del primo anno di proiezioni. Ricordo il film, Galline in fuga. Venivo da un periodo in cui ero molto solo e non avevo amici e, quindi, all’inizio stavo male perché non conoscevo nessuno. Insomma, mi sentivo isolato mentre gli altri già si conoscevano. Ma questa sensazione è durata poco perché ricordo di aver fatto subito amicizia. Oggi, sono amico di Marco, Elena e altri e col tempo ho imparato a frequentare altre persone fuori dal cineclub.
Marco: Sinceramente partecipando al cineclub non speravo di conoscere gente. Ero entusiasmato dall’idea di partecipare a qualcosa che riguardasse il cinema, ma al massimo pensavo al cineclub come un modo per riempire il tempo libero. Invece, non so, è come se con il cineclub abbia voluto sforzarmi di superare questo blocco emotivo che mi frena nei rapporti con gli altri. Perché? Perché l’ho sentito come un ambiente più protetto di altri e quindi ho avuto meno paura di interagire. Anche se la mia paura di approfondire i rapporti, insomma, ce l’ho ancora e forte. All’università per esempio non è facile. Mettiamo che dei colleghi mi invitino a uscire o ad andare a casa loro… io non sono pronto a dire sì all’invito. Allo stesso tempo ho paura che il mio rifiuto possa essere frainteso. Allora mi tengo a distanza. Nel cineclub invece sono me stesso. O, meglio, lo sono più che in altri contesti.
Elena: Io avevo già altri amici a scuola, a teatro e fuori con cui uscivo e facevo cose, ma così ho conosciuto altre persone e fatto nuove amicizie.
Giulio: Forse per me è cambiato qualcosa in famiglia. Prima mi lamentavo di più per il fatto che non sapevo come passare il tempo e che non avevo nessuno con cui uscire. Cercavo una compagnia nei miei genitori, pur sapendo che avevo bisogno della compagnia di miei coetanei. Oggi che ho degli amici credo di essere più calmo a casa, credo di lamentarmi meno.
Vittorio: Diversamente da loro io non sono mai stato interessato a questi aspetti. Non cercavo amici, non in un contesto Asperger almeno. Quello che mi interessava del cineclub era il discorso pratico, l’aspetto lavorativo. Diciamo che questa è stata la principale novità di quest’ultimo anno.
Marco: Siamo passati dal ruolo passivo di spettatori a quello attivo di organizzatori. Ci siamo riuniti e…Vittorio: … e abbiamo deciso che avremmo fatto due proiezioni al mese: una il sabato adatta a un pubblico più giovane, e un’altra il martedì per un pubblico più adulto, una rassegna di classici del cinema Americano di cui si è occupato prevalentemente Marco.
Elena: Sì, e non dimentichiamo che la rassegna del martedì nasceva dal fatto che avevamo deciso di aprire il cineclub a chiunque e non solo ai nostri amici.
Marco: Aprire al pubblico significava non ghettizzarci.
Giulio: Significava conoscere più gente, socializzare con altre persone oltre alle solite del nostro gruppo…Vittorio: E finalmente con persone non Asperger. Io mi trovo più a mio agio con persone non Asperger. Per vari motivi. Non sono come me e non hanno la mia personalità. Uno si diverte di più. I non Asperger sono più aperti, non hanno atteggiamenti infantili. Non sono Asperger, ecco.
Marco: Tornando alla rassegna, abbiamo pensato di provare a organizzare un ciclo di proiezioni dedicate al classico americano dagli anni ’40 agli anni ’60. I film li ho scelti io anche se Giuseppe ha un po’ corretto il tiro perché in effetti avevo scelto titoli davvero molto difficili. In alcuni casi si trattava di film troppo ricercati anche per un pubblico di nicchia come quello del Detour!
Marco: Alla fine abbiamo scelto film come Viale del tramonto, Rapina a mano armata e anche cose meno viste, tipo Un bacio e una pistola che credo sia stato quello che ha avuto un maggiore pubblico.
Vittorio: Io invece mi sono occupato di scegliere il film per il sabato pomeriggio. Ho pensato a titoli adatti a tutti, e comunque a film che piacciono a me: da Ricomincio da capo a L’aereo più pazzo del mondo…
Giulio: Io avevo il compito di video-documentare le attività e di fare interviste. In pratica dovevo imparare a usare la telecamera, mantenere l’inquadratura stabile e ottenere delle riprese che fossero utilizzabili. Alla fine, penso di aver fatto un buon lavoro per essere stata la mia prima volta.
Elena: Il mio compito è stata l’accoglienza. Dovevo registrare le nuove iscrizioni, contare i soldi del tesseramento. All’inizio mi affiancavano Giuseppe o Riccardo. Poi ho imparato a gestire la situazione da sola. Trovavo il mio compito assolutamente rilassante. A parte quando mancavano le monetine per dare il resto, allora sì diventava un problema!
Vittorio: Nel mio compito non ho mai avuto grossi problemi, forse perché ero l’unico che non era nuovo a quel tipo di incarico. Infatti fin dalla terza proiezione del 2008 mi sono sempre occupato io della parte tecnica del cineforum.
Giuseppe: Chi vuole raccontare come si svolgeva il lavoro?
Marco: Arrivavamo un’ora e mezza prima della proiezione, e ciascuno prendeva posto nel cineclub: Elena sistemava la cassa e numerava le tessere. Vittorio verificava il corretto funzionamento del film, del proiettore e il volume di sala. Poi, a turno, controllavamo che tutto fosse in ordine, che la sala, il foyer e il bagno fossero puliti. Nel caso mancasse scottex o altro, provvedevo io stesso ad acquistarlo.
Elena: Prima dell’arrivo del pubblico, eravamo soliti andare a prendere qualcosa tutti insieme e a me questo piaceva molto, perché così potevamo chiacchierare fra di noi.
Giulio: Io riprendevo sempre! Anche quando andavamo fuori a fare acquisti o a prendere un pezzo di pizza, io documentavo tutto. A volte mi stancavo a tenere la telecamera in mano, ma cercavo di resistere perché sapevo che stavo svolgendo un lavoro. Diciamo che il cineclub mi ha aiutato, perché quando mi sono iscritto all’Accademia [di cinema, n.d.c.] sono arrivato preparato. E poi i miei docenti sono rimasti stupiti del fatto che partecipavo alla gestione di un cineclub.
Marco: Io ho capito come ci si comporta in una dinamica lavorativa. La responsabilità che uno ha sul lavoro. Ho imparato a compilare le schede dei film da dare agli spettatori che entrano in sala, a parlare in pubblico. Le prime volte che dovevo presentare un film avevo il cuore in gola. Non mi venivano le parole e avevo il terrore di guardare in faccia gli spettatori. A lungo andare mi ci sono abituato e alla fine è diventata una cosa molto piacevole.
Vittorio: Trovo piacevole l’aspetto tecnico della proiezione. Mi piace anche selezionare film per rassegne ma come ho detto preferisco farlo in un contesto non Asperger.  Ad esempio, dopo questa esperienza, ho curato tre rassegne in un altro locale romano. In queste serate mi sono sentito uno come tutti gli altri. Ho bevuto la mia birra, ho visto come reagisce il pubblico anche se, in realtà, non mi interessa molto come reagisce. Se il film piace bene, altrimenti…
Marco: Per quanto mi riguarda invece sentivo la responsabilità per la serata. Mi sentivo emozionato e preoccupato pensando alla reazione del pubblico rispetto a una serata organizzata da me. Non nego che a volte sono rimasto deluso perché non sono mancate le serate in cui è venuta poca gente.
Vittorio: Io non ero stupito. È pochissima la gente che sa apprezzare il cinema.
Giulio: Anche io ero molto deluso. Non so, forse i film erano noiosi o forse poca gente era interessata a vederli…
Marco: Noiosi non credo, direi difficili. Forse il pubblico si è disabituato a un cinema tradizionale, in bianco e nero… La cosa strana è che quando avevamo deciso di interrompere la rassegna…
Elena: … sì era la sera di Un bacio e una pistola
Marco: Infatti. E proprio quella sera abbiamo avuto la sala quasi piena. A quel punto abbiamo deciso di continuare e abbiamo capito una cosa che, il pubblico è …
Giulio: assolutamente imprevedibile!
Vittorio: Aggiungerei ottuso! Perché questi se non gli dai Natale a Cortina o Salemme…
Giulio: Scusa ma ti chiamo amore!
Vittorio: Per non parlare di Immaturi!
Marco: E noi che proiettiamo Il buio oltre la siepe!
Vittorio: [guardando l’orologio] Comunque s’è fatta una certa, che dite, abbiamo finito? Per me è un po’ tardi e domani devo lavorare.
Giuseppe: È vero, sapevo che avevi cominciato a lavorare. Ti secca se ti chiedo che tipo di lavoro stai facendo?
Vittorio: Se proprio devo… in qualche modo ha a che fare col cinema. Diciamo che mi occupo di visionare dei film e di individuare specifiche sequenze.
Giuseppe: Ma pensi di continuare il cineclub oppure…
Vittorio: No, appunto… a questo proposito volevo dirvi che non credo per il prossimo anno di avere il tempo per il cineclub. Mi spiace, ma sapete come è il lavoro.
Marco: Io ci sono sicuramente. In questi mesi sarò un po’ preso dagli esami, ma il tempo per il cineclub lo trovo senz’altro.
Elena: Anche io ci sarò. Come ho detto, fare accoglienza mi rilassa!
Giulio: Io ci sarò, ma quello che mi interessa di più è seguire il nostro documentario.
Elena: Se lo prendono in qualche festival io vengo!
Marco:  È vero, non abbiamo parlato del documentario!
Vittorio: Non vorrei insistere ma s’è fatto piuttosto tardi.
Giuseppe: Ma neppure due parole?
Marco: Diciamo per ora che si intitola Lo Sguardo degli Aspie, parla di noi, di questa esperienza…e se i lettori vogliono saperne di più… vorrà dire che “HP-Accaparlante” ci ospiterà di nuovo!
Tutti: Allora ciao HP, alla prossima!

Io sono uno scandalo!

Così Claudio Imprudente scriveva nella lezione dottorale,  in occasione del ricevimento della Laurea Honoris Causa:
La parola “scandalo” deriva dal greco skàndalon ed etimologicamente significa “trappola, inciampo”; in senso figurato, “molestia”. Vorrei che il conferimento di questa laurea funzionasse in questo senso, ovvero come elemento generatore di molestia, fastidio nei confronti, in primo luogo, di tutti gli educatori che non credono che “un vegetale” sia in grado di modificare, far progredire i contesti nei quali si trova a vivere e operare; in secondo luogo, nei confronti di coloro che ricoprono incarichi politici e non prestano la dovuta attenzione alla realtà, all’attualità (ché di questo si tratta) delle abilità diverse; e, infine, nei confronti di quei genitori che non riescono, per le ragioni più varie e comprensibili, a creare quella complicità, quella condivisione che può garantire con più certezza ed efficacia un’educazione non monca (e non troppo “speciale”) ai loro figli.

Questa affermazione è diventata lo spunto, per gli animatori del Progetto Calamaio, per riflettere sul come e il perché ognuno di noi può essere uno scandalo. Ci siamo chiesti cosa significa esserlo in generale ma anche su come, ognuno di noi, realizza ciò concretamente, nella propria quotidianità.
Abbiamo concluso che “io sono uno scandalo” quando sovverto l’immagine preconcetta della diversità come triste e perdente, quando metto al centro le abilità, la relazione e il superamento del pregiudizio, quando con creatività supero le difficoltà. Io sono uno scandalo, sia che abbia disabilità o meno, quando dimostro che le mie abilità valgono molto di più delle mie disabilità.
Proponiamo in questo spazio alcuni stralci delle riflessioni sul tema realizzate dagli animatori.

Per me è uno scandalo fare qualcosa di diverso rispetto alle cose normali. Io acquisto il citypass e nonostante abbia la carrozzina riesco a raggiungere con l’autobus anche Borgo Panigale, un quartiere dalla parte opposta rispetto a casa mia.
Sono uno scandalo perché quando prendo l’autobus, il mio operatore avvisa l’autista dicendogli che deve salire una persona con disabilità. Io riesco a salire sul mezzo con una pedana.
Vado anche al multisala, sempre con il mio operatore, o in pizzeria o in Sala Borsa. Quando fa caldo facciamo un giretto per le strade di Bologna!
Ermanno

Io sono uno scandalo perché lavoro come animatrice disabile nelle scuole materne ed elementari.
Andando in giro per le scuole d’Italia voglio dimostrare che una persona con disabilità può avere un lavoro e una vita sociale. Voglio far capire ai ragazzi che nonostante io barcolli e parli lentamente possono stabilire una relazione con me al di là dell’apparenza…
Il prossimo anno vorrei riuscire ad andare in vacanza senza i miei parenti, diventando ancora più autonoma di come sono adesso.
Lorella

Sono uno scandalo perché amo la vita e mi piace gustarne ogni piccolo aspetto. Infatti penso che la vita mi appartenga, non è altro da me di ostile e distante, ma sento invece di esserne parte integrante in un gioco di scambio reciproco di stimoli e reazioni. Questo presupposto mi ha permesso di affrontare e vivere la malattia (sclerosi multipla) e la disabilità che ne è conseguita come eventi naturali… Il mio intento più grande e principale è quello di trasformare la vita e tutta la realtà che mi circonda in una sorta di “villaggio turistico” ricco di distrazioni e di relax. Cerco, in altre parole, di farmi piacere la mia vita, ricercando innanzitutto nel mio piccolo “io” motivi e spunti di felicità…. Il lavoro che svolgo al CDH mi permette di incontrare e aprirmi alla società, recandomi nelle scuole o in convegni con i miei colleghi per dialogare e scambiare pareri, emozioni e pensieri con la collettività. Una cultura sulla disabilità, che possa essere il più possibile comprensiva di tutti i molteplici aspetti di tale realtà, non può prescindere da uno scambio conoscitivo diretto e reciproco tra la società e i diretti interessati, i disabili. In questo trovo una piena coincidenza tra lo spirito che muove l’intero mio gruppo di lavoro e la mia filosofia di vita che mi sprona ad aprirmi verso la realtà che mi circonda a trecentosessanta gradi, comprendendo così ogni aspetto del vivere quotidiano.
Mario

Io dò scandalo:
–  portando nuove idee e promuovendo le mie. Questo a mio avviso è un gran bel risultato in quanto scavalca l’idea comune secondo cui la persona avente deficit è passiva, avente solo bisogno di mera assistenza e non in grado di portare né un contributo né alcuna ricchezza alla società;
– creando le occasioni per attuare le mie iniziative. Trovo importante evidenziare quanto io sia diverso dall’idea comune che s’è creata la gente nella testa delle persone aventi deficit, infatti sono in grado di prendermi i miei tempi e spazi.
Mattias

Io voto perché ritengo importante e fondamentale far valere le mie opinioni e per essere ascoltata con uno scopo ben preciso: mantenere e difendere dei diritti che, per i disabili ma non solo per loro, potrebbero andare perduti.
Voto anche nell’ottica di conquistare e ottenere nuovi diritti, per dare voce a quei diritti che non sono stati totalmente ancora messi in pratica. Di quali diritti sto parlando? Diritto per i disabili alla scuola e all’istruzione con la presenza di insegnanti di sostegno nelle classi, diritto al lavoro, diritto allo sport per tutti… tanto per citarne alcuni.
Strettamente collegato a questi diritti c’è poi la possibilità stessa di votare, di poter cioè entrare fisicamente nelle scuole e nei seggi elettorali.
A volte, per questioni di barriere architettoniche inadeguate, anche io mi sono ritrovata ad avere delle difficoltà di accesso e ogni volta che questo succede e mi trovo davanti al seggio, mi arrabbio molto.
Mi sento molto fortunata di avere la possibilità di votare in prima persona, nella consapevolezza che molti non lo possono fare. Per questo quando vado a votare lo faccio anche per mantenere i diritti di quelli che per le più diverse e svariate ragioni non votano all’esterno ma in casa.
Stefania B.

Io sono uno scandalo perché vivo in una comunità, senza i miei genitori, per una scelta personale.
Da tre anni vivo in una casa famiglia. Una casa famiglia, per chi non lo sapesse, è un vero e proprio condominio, dove più persone, disabili e operatori, condividono lo stesso spazio, gli stessi tempi e le stesse attività. Tutto questo ha i suoi pro e i suoi contro, tanto per incominciare il dover sottostare a delle regole precise. È una condizione, bisogna dirlo, di semi autonomia in cui spesso non mancano le discussioni. Ma anche questo, poter discutere cioè, in fondo, è uno scandalo! Un disabile infatti, al contrario di quello che pensa la maggior delle persone, ha il diritto di arrabbiarsi e difendere le proprie opinioni. C’è da dire però che questa è una libertà che si conquista e per fare il primo passo, per riuscire cioè ad esprimersi con convinzione, può essere quello di uscire dal nucleo familiare.
Stefania M.

Io sono uno scandalo perché sono laureata in Scienze della Formazione.
A me capita, quando vado in giro per strada, di incontrare persone che non mi conoscono e che mi trattano da “poverina” ma che, appena mi presento e dico quello che faccio, cambiano totalmente atteggiamento. Rimangono stupite e a bocca aperta. Di solito infatti, la gente pensa che una persona disabile come me non si possa laureare e, più in generale, che non abbia delle potenzialità, e invece!
È paradossale perché quando si rendono conto di tutto il mio percorso cominciano, oltre che a guardarmi, anche a parlarmi in modo diverso, come se fossi una persona “normale”.
Tatiana

Sono disabile e lavoro come animatrice nelle scuole. Sono uno scandalo perché sono un’animatrice del Progetto Calamaio. Lavoro nelle scuole, e con le favole e il gioco metto in relazione me stessa e la mia disabilità con i bambini. Giocando con la mia disabilità dimostro che sono uno scandalo non solo con le persone che mi conoscono ma anche con chi non mi conosce. Sono una ragazza disabile e ho un lavoro.
Tiziana

13. Il ruolo della comunicazione

Intervista a Massimo Ghirelli, esperto dell’Unità tecnica Cooperazione del Ministero degli affari Esteri per quanto riguarda gli aspetti della comunicazione e responsabile di redazione del Portale Cooperazione Italiana allo Sviluppo.

Che ruolo ha o dovrebbe avere la comunicazione per le ONG e per tutti coloro che fanno interventi nei paesi in via di sviluppo?
Più che una questione d’importanza è una questione di necessità. Sono migliaia purtroppo gli esempi di cooperazione, anche buona, che non raggiungono i loro scopi perché non viene tenuto conto in maniera giusta e completa l’aspetto comunicativo. Ti faccio l’esempio di un intervento che facemmo in Niger con i Tuareg che riguardava la costruzione di un ospedale. Non avevamo pensato che in Africa le donne non vanno in ospedale e che quindi, se non si faceva un lavoro d’informazione e di comunicazione, spiegando per quale motivo ne valeva la pena (per ragioni di infezione, igieniche…), tutto sarebbe rimasto lì come una cattedrale nel deserto.
Ma fuori dell’edificio c’era un grande parcheggio che era stato trasformato dai famigliari dei pazienti in un villaggio di capanne. Tutto questo era ovvio e naturale: non avevamo pensato al fatto che mai in Africa una donna sarebbe stata lasciata da sola in ospedale e che quindi, attorno a quella persona, ci sarebbero state intorno tante altre persone diverse che, venendo da lontano, avrebbero poi dovuto fermarsi a dormire lì. In quei casi perciò o fai una stanza comune o, come è stato fatto, adibisci a dormitorio il parcheggio. Questo è stato un caso lampante di mancanza di comunicazione adeguata.
Nell’ambito della cooperazione la comunicazione è sempre stata vista e molto spesso ancora oggi viene trattata come un argomento di secondo livello e quindi considerato un di più, una cosa marginale e perciò, ancora peggio,qualcosa che si fa nel momento in cui il progetto è fatto e finito, a volte confondendolo con una parolaccia come “visibilità”, che di per sé non sarebbe una parola sbagliata, nel senso che bisognerebbe far vedere quello che si fa ma che in realtà viene intesa solo come buona immagine di quello che si fa nella cooperazione italiana. La visibilità spesso non ha nulla a che fare con il buon progetto, la visibilità non è comunicazione.
Fino a non molto tempo fa questa parte era considerata molto marginale dalle ONG.
È anche vero che le ONG, stando più vicine al territorio ed essendo espressione di parti della società civile dovrebbero avere ancora più ragioni per capire e per utilizzare una buona comunicazione, per informare prima di tutto i donatori del territorio e le persone che vi partecipano. Le ONG, inoltre, avendo per controparte società civili o piccoli villaggi, comunque non solo istituzioni, dovrebbero fare in modo che questi interlocutori capiscano bene e che soprattutto siano loro a comunicare qualcosa su quello che si aspettano, su come vedono il progetto e su come lo vogliono gestire.
Nel mio lavoro spesso mi sono trovato a mettere delle pezze a progetti in cui c’era una piccola quota riservata alla comunicazione e a convincere gli altri che costituiva invece una parte integrante del progetto. Questo è un elemento raramente compreso, le ONG un pochino ci sono arrivate ma non tutte e soprattutto non ci è arrivata l’istituzione.
La nostra Direzione si è dotata di Linee Guida per la comunicazione; una volta consistevano in un manuale su come si fa la targa, su cosa deve esservi scritto, l’adesivo e tutto il resto; un po’ abbiamo superato questa ipotesi ma anche le Linee Guida attuali, sono solo un punto di partenza per cominciare a parlare di altri aspetti. La comunicazione, per cominciare, deve essere fatta in entrambi i luoghi da parte di vari partner, in patria, e da parte del cosiddetto beneficiario, beneficiario che deve essere partner anche della comunicazione e quindi avere gli strumenti per comunicare. I progetti devono avere non soltanto la partecipazione ma anche il consenso sociale senza il quale il progetto non ha senso.
I progetti stessi in molti casi dovrebbero essere intesi come progetti di comunicazione e non come la comunicazione rispetto ai progetti, sono due cose diverse: i progetti di questo tipo ancora abbastanza rari. Si potrebbe cambiare in questo modo l’intero sistema delle comunicazioni dei paesi in cui si attua il progetto, dalla formazione dei giornalisti alla legge sulla stampa e così via.

Al momento sono in atto progetti di questo tipo? Voi ne curate qualcuno?
Ce ne sono ma si contano sulle dita di una mano. Ho seguito un centro di documentazione per un sindacato di comunicazione in Sud Africa ai tempi della fine dell’apartheid e più recentemente la ristrutturazione di un’agenzia palestinese, la Wafa, un’agenzia stampa che all’epoca era una specie di servizio stampa di Arafat che aveva sede a Gaza e ora ha sede a Ramla. Abbiamo fatto anche un media center, in collaborazione con le ONG e con l’Arci a Belgrado, in una situazione complicata come i Balcani. Negli ultimi anni questi progetti vengono appoggiati anche dai direttori delle UTL (Unità Tecniche locali). In alcune UTL, ho scritto dei progetti come “Comunicare la comunicazione”, quindi intesi proprio per far questo, come riuscire a comunicare bene e chiedersi: “Che strumenti ha l’UTL per farlo?”. Di qui la necessità di dotarsi di un sito, mettere insieme i donatori, le ONG e gli altri partecipanti in rete, in discussione, per comunicare quello che si fa e per farli partecipare e anche organizzare mostre, eventi sulla cooperazione.
Adesso in Palestina si sta lavorando, dopo tre anni di attività, alla terza fase del progetto “Comunicare la comunicazione” e a Gerusalemme, finalmente, si faranno dei corsi di aggiornamento per giornalisti. In un paese particolare come quello di Israele, si tratta di operare per dare degli strumenti soprattutto per lottare, per avere una legge sulla stampa più aperta, considerando il fatto che i giornali possono essere chiusi in qualsiasi momento.
In generale c’è ancora pochissimo attenzione sulle possibilità di stampa e televisione indipendenti. Lo stesso vale per l’Iraq, dove non c’è un UTL ma c’è la Task Force Iraq, organizzazione, il nome lo fa capire, che prima era militare-civile mentre adesso, da qualche anno, è completamente nelle mani della nostra Direzione Generale alla Cooperazione allo Sviluppo. La Task Force, soprattutto in questa fase, in cui si sta piano piano pensando di lasciare il paese, deve raccontare quello che sta facendo e ha fatto. Si tratta comunque di progetti di grande interesse in una situazione difficile come quella della guerra. Progetti di capacity building, di comunicazione interna, progetti che vanno a formare le istituzioni locali, progetti di patrimonio culturale, ambientali, tutta una serie di progetti in cui la comunicazione ha un ruolo centrale. Anche lì, se non c’è consenso, partecipazione e conoscenza dei fatti nulla può funzionare.

Per quanto riguarda il privato sociale, le ONG, ci sono casi di progetti di comunicazione analoghi a quelli che hai elencato?
Ci sono ma sono abbastanza rari. Alcune ONG hanno un buon impianto comunicativo, come il Cesvi di Bergamo, che nasce proprio con una grande vocazione alla comunicazione. Fanno un lavoro sulla comunicazione notevole sia di comunicazione rispetto ai progetti, sia nel modo di presentarli. Un altro che si occupa molto di comunicazione sia in Italia che all’estero è invece il Cospe di Firenze che è diventato un punto di riferimento nazionale per ciò che riguarda media e intercultura, media e immigrazione.

Se tu dovessi  realizzare un piano di comunicazione in occasione di un progetto in un paese in via di sviluppo che riguarda, mettiamo, l’inclusione di bambini disabili all’interno di una scuola, come ti muoveresti?
Intanto la prima cosa che farei è inserire la comunicazione nel progetto, cercando di farla entrare a ogni livello, come parte consistente e sostanziale e che sia economicamente supportata. È necessario poi che ci siano le competenze necessarie per portarla avanti, quindi le risorse umane e che non si riduca l’attività alla semplice dicitura “attività promozionali”.
Occorrono poi delle azioni preventive, come quelle di allertare la società di cui si fa parte e i partner più importanti che sono nel nostro paese e nel nostro ambito, non soltanto per avere più fondi ma soprattutto per avere quel consenso di cui si parlava. E poi ci sono una serie di input importanti non soltanto economici che poi ricadranno sul progetto e che ci serviranno per preparare le basi di quello che sarà il ritorno di visibilità.
Un esempio di questo tipo è rappresentato dal  Magis, un’ONG dei gesuiti italiani, che ha lavorato in Albania con i non udenti anche attraverso il teatro. Gran parte del successo di questo progetto è stato quello di portare in Italia lo spettacolo di questi ragazzi. Ecco questo è un esempio di comunicazione nel senso più normale del termine. Solo che a queste cose ci si pensa dopo, a progetto finito, raccontando solo i risultati e questo non basta. Sia perché sono finiti i fondi, sia perché ti accorgi che non avevi fatto la giusta documentazione, che non avevi fatto le riprese video, scattato le foto. Bisogna quindi inserire la comunicazione in tutte le fasi del progetto e fare il modo di garantire la sua sostenibilità.
La sostenibilità di un progetto, poi, in quanta parte è sostenuta dalla comunicazione? In larghissima parte! I materiali di quel progetto se non vengono curati sono semplicemente i distillati di una relazione che nessuno si legge, che non leggono nemmeno le ONG.
La comunicazione invece va inserita all’interno del progetto, è uno degli elementi fondanti, a tutti i livelli, pensando prima di tutto all’ownership, alla partecipazione democratica di tutti, dei donatori che capiscono effettivamente che cosa stanno donando, senza tuttavia proporre argomentazioni patetiche.
Questo lavoro di comunicazione va fatto prima, durante e dopo il progetto, per costruire un ambiente prima di tutto non ostile, poi consenziente; per poter ricevere un aiuto da parte di tutte le agenzie possibili, di tutte le istituzioni e anche della società civile che è possibile coinvolgere.
Faccio un altro esempio. Ho un amico che ha delle belle idee e mi ha chiesto una mano per scrivere un progetto sulla conservazione della musica africana finanziato dall’Istituto sonoro nazionale. Quando ho letto il suo progetto, mi sono accorto che non aveva messo niente su che cosa si sarebbe fatto con tutto il materiale raccolto. Invece quello che poteva venirne fuori era una cosa bellissima; una mediateca di musica tradizionale africana, fatta attraverso una ricerca nei paesi, a contatto con la gente, frutto di registrazioni, quindi anche un lavoro antropologico importante. Il prodotto finale poteva diventare così una mediateca in Italia e nel paese d’origine.
Dobbiamo far vivere quello che abbiamo e pensare anche a come può vivere dal punto di vista della comunicazione questo progetto, che materiali ne emergono, chi ne è coinvolto.
Da qui si parte. Dopo bisogna fare una scelta e capire come in quel paese si comunica. Tutto questo deve essere studiato prima per capire quali possono essere gli strumenti giusti da utilizzare e naturalmente capire il linguaggio con cui devi parlare alla gente. Comunicazione vuol dire anche questo: farsi capire. Per questo è importante conoscere non solo gli strumenti altrui ma anche i loro codici e lavorare molto su quello.
C’è un bellissimo progetto che ha molto a che fare con quello di cui stiamo parlando; è un progetto che è stato sostanzialmente seguito da un ragazzo, Guido Geminiani, che è stato per un certo periodo un cooperante in Uganda dove c’è uno dei più grandi ospedali dell’Africa, fatto da una coppia di medici occidentali, al confine con tre – quattro paesi. Questo ospedale è diventato importantissimo e ha una storia molto bella e drammatica perché lì ci furono le febbri emorragiche; prima la moglie e poi il marito morirono proprio perché si erano infettati curando i malati.
Qui quello che sono riusciti a fare, è stato di “africanizzare” completamente l’ospedale; dai medici all’ultimo degli infermieri sono tutti africani e oggi questo ospedale ospita qualcosa come cinquecentomila persone all’anno. Accoglie anche, in un apposito settore, bambini non accompagnati, anche lì centinaia, migliaia e qui si parlano moltissime lingue. Il ragazzo di cui ti parlavo è stato uno dei primi a lavorarci e ha inventato, in collaborazione con i dirigenti dell’ospedale, un modo per comunicare nonostante la diversità delle lingue. Devi pensare che lì spesso la gente rimane e ci vive, e così l’ospedale è diventato una città. Con quale lingua allora comunicare? E soprattutto come fai l’informazione? Hanno fatto così uno studio sulla segnaletica e sul codice per cercare di trovarne uno comune, basandosi sulle storie, i costumi, le mentalità diverse, la concezione diversa di comunicazione e di spazio, il tutto per arrivare a fare una segnaletica “esperantica”, capace di arrivare a tutti quanti.

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12. Un’attività di inclusive education nei paesi in via di sviluppo

L’intervento di EducAid in Salvador. Conversazione con Alfredo Camerini.

Che cos’è EducAid?
È un’organizzazione, creata da professionisti del settore educativo e sociale, di cooperazione allo sviluppo che opera nel contesto degli aiuti internazionali con una propria mission a cui è legato un certo tipo di approccio.
La mission è quella di promuovere competenze sia nelle figure professionali sia in diverse figure che hanno responsabilità di cura e di educazione e promuovere competenze anche nelle forme associative e nelle istituzioni che operano in questi settori.
In questi dodici anni in cui abbiamo operato, l’obiettivo è sempre stato quello di interloquire con dei contesti facendo delle proposte in risposta a esigenze che venivano via via rappresentate dai soggetti più vari, vale a dire, come in Palestina, da associazioni locali votate al lavoro educativo o richieste provenienti da governi, come avvenuto in Salvador.
In Salvador la richiesta in un primo momento era più centrata sullo sviluppo dell’educazione speciale, poi si è evoluta. Ciò è avvenuto anche in seguito a un cambio di governo, per cui si è verificato un cambio di politiche e di attenzione verso un approccio all’educazione inclusiva, che potesse dare risposte ai minori con seri problemi di diserzione e di dispersione scolastica. Alla fine si è evoluto in un progetto di promozione per la scuola a tempo pieno, al fine di mettere in campo una proposta educativa che mantenesse i minori a scuola.
Altre volte abbiamo agito su richiesta di soggetti esterni come le Agenzie delle Nazioni Unite, soprattutto l’Unicef. L’Unicef infatti è l’organizzazione che maggiormente si occupa di minori “svantaggiati”, anche se hanno un settore che in realtà è più che altro costruito con l’obiettivo della protezione dell’infanzia. Questo fa sì che nella stragrande maggioranza i loro funzionari siano di formazione giuridica e che abbiano difficoltà nel promuovere processi d’innovazione in campo sociale ed educativo.
Il nostro apporto, che viene richiesto in termini di consulenze, è molto utile perché offriamo la possibilità di sperimentare progetti che consentono di organizzare una situazione laboratoriale in cui si praticano proposte educative con la possibilità di conoscerle e anche di discuterle e questo aiuta a interloquire.  Il nostro è un approccio centrato fortemente su una metodologia della “ricercAzione”(ricerca-azione).
EducAid, però, non lavora solo sulla disabilità, sullo svantaggio, lavora per esempio anche nel settore della global education cioè nel proporre attività e sollecitazioni culturali rivolte ai giovani per conoscersi e relazionarsi in modo più consapevole in rapporto alle nuove relazioni che restituisce la globalizzazione. C’è ormai una maggiore facilità di relazione che rischia però, se non sostenuta da un’intenzionalità di tipo educativo, di disperdersi.

Ritorniamo all’inclusive education e fammi un esempio di un luogo dove avete lavorato.
Nel Salvador la nostra proposta ha cercato nel corso del tempo, e direi ottenuto, il miglior livello di contestualizzazione nella realtà locale. Anche questa fa parte della complessità del lavoro di cooperazione che in realtà, almeno nella nostra interpretazione, non mira tanto a trasferire competenze proponendo modelli, quanto a promuovere principi che possano aiutare a interloquire con i professionisti o comunque con le figure che hanno responsabilità e ruolo nell’ambito educativo e nel campo del lavoro sociale per cercare di proporre sperimentazioni locali.
In Salvador il tutto è iniziato un po’ sotto traccia, a partire da un mio coinvolgimento personale richiesto da alcuni esperti del Ministero degli Affari Esteri che si occupano di educazione. Questi funzionari mi hanno proposto una missione per valutare la possibilità di integrare un intervento educativo a un intervento, di fatto, di edilizia scolastica, perché la cooperazione aveva deciso su richiesta del governo locale di costruire un Centro Risorse sulle disabilità presso una scuola, secondo un modello di tipo anglosassone. Un centro risorse cioè che mettesse a disposizione delle competenze per un lavoro di tipo individuale, quindi con specialisti ma anche figure dell’area sanitaria e riabilitatori. Si trattava di un lavoro non tanto volto all’inclusione ma alla riabilitazione in collegamento con la scuola.
Ciò costituisce comunque un contesto separato, in cui il minore con problemi viene prelevato dalla classe e portato a seguire percorsi di riabilitazione per poi essere restituito alla classe, il tutto in un contesto in cui esistono le scuole speciali e in cui non esiste quindi un processo di inclusione affermato. Stiamo parlando di lievi difficoltà di apprendimento, un bambino con paralisi cerebrale o altri deficit più rilevanti ha percorsi non inclusivi.
In collaborazione con la Facoltà di Scienze della Formazione di Bologna abbiamo progettato la componente pedagogica del Centro Risorse, il che comportava progettare un Centro Risorse di tipo diverso, cioè un centro per il territorio volto all’inclusione scolastica e sociale.
Il nuovo governo salvadoregno ha creato la “Segreteria per l’inclusione sociale”, una sorta di ministero che si occupa di inclusione sociale e ne ha fatto una delle bandiere della propria attività; in questo ha incontrato perfettamente quella che è la visione di EducAid in merito all’educazione inclusiva: riteniamo che per educazione inclusiva deve essere inteso tutto il lavoro educativo che viene esercitato a livello sia scolastico ma anche extra scolastico. Nella dizione anglosassone invece, inclusive education è l’inclusione scolastica dei minori con difficoltà e in linea di massima con disabilità.

 Questo Centro Risorse è ora passato in gestione a qualcuno? È funzionante oppure è ancora in via di allestimento?
Il Centro Risorse è stato poi realizzato su principi diversi, attribuendogli quelle che sono le funzioni di un nostro centro di documentazione educativa e cioè la funzione informativa, formativa e di documentazione. Svolge un’attività di supporto all’inclusione sia nella scuola ma anche nella comunità locale.
Poi il progetto è passato a uno stadio successivo in cui abbiamo operato perché la Facoltà di Scienze della Formazione di Bologna potesse farsi promotrice di una fase due, vale a dire sperimentare l’attivazione altrove di queste funzioni del Centro Risorse. Questo è stato fatto nei centri di formazione docente che sono istituzioni regionali che il Ministero dell’Educazione salvadoregno utilizza per la formazione in servizio dei loro insegnanti. In questo modo si è cercato anche di sperimentare, in un certo numero di scuole, il sostegno educativo in classe dei minori con disabilità.
L’esperienza di integrazione precedente (integradora) aveva costituito delle aule d’appoggio dove per alcune ore si portavano fuori dalle classi i bambini con difficoltà; qui gli insegnanti di appoggio facevano una sorta di lezione d’insegnamento intensivo in rapporto alle materie su cui i ragazzi avevano maggiore difficoltà. La proposta è stata quella di promuovere attività laboratoriali da fare congiuntamente e soprattutto di promuovere la consulenza degli insegnanti di appoggio che diventavano anche un raccordo fra la scuola e la comunità locale, soprattutto la famiglia, puntando molto sulla funzione sociale della scuola.
A questo punto si è passati a un’altra fase dovuta al cambio storico di un governo di destra dopo diciotto anni di potere ininterrotto. Su richiesta del nuovo governo abbiamo elaborato un programma di riforma della scuola di base che comportasse l’introduzione della scuola a tempo pieno. È stato così messo a punto un progetto dalla facoltà di Scienze della Formazione con il contributo di EducAid che prevede un vasto programma di apertura del tempo pieno di diverse scuole. La Cooperazione Italiana si è impegnata a finanziare questo tipo di intervento. EducAid concorrerà per avere in appalto l’organizzazione della componente pedagogica.
Ho ora presentato questo caso perché è un buon esempio del rapporto che sempre si cerca di intrattenere sia verso il livello alto, quello ministeriale e decisionale, sia verso il livello più basso, quello più vicino alla realtà quotidiana comunitaria, che è il lavoro educativo nelle scuole.
Questa è un po’ la caratteristica di molti dei nostri progetti, come quelli che non intervengono tanto nel campo dell’educazione inclusiva ma nel campo dell’inclusione sociale, vale a dire i progetti per esempio di deistituzionalizzazione.

EducAid
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11. A Mandya si mette alla prova la riabilitazione su base comunitaria

Sunil Deepak, medico di origine indiana, è il responsabile dell’ufficio scientifico dell’Aifo dove lavora come cooperante da 22 anni.
Il progetto Mandya in India è iniziato nel 2008 con una ricerca sull’esperienza della riabilitazione su base comunitaria. Dato che le persone che lavorano in questo campo sono spesso sociologi, sulla RBC esistono soprattutto dei racconti, dei rapporti descrittivi e poco o quasi niente materiale scientifico per dire se questo approccio cambia e migliora la vita delle persone disabili.
Le istituzioni e gli esperti di riabilitazione considerano la RBC come qualcosa da paesi in via di sviluppo, per paesi poveri, non come valida alternativa.
Madya si trova a 150 km a sud ovest di Bangalore: è un distretto con due milioni di abitanti per 5 mila km quadrati.
In accordo con l’OMS che promuove la RBC abbiamo voluto fare una ricerca sulla validità del metodo e anche sui suoi limiti proprio in questa località. Da dieci anni due ONG sul territorio sostenute da Aifo, lavorano secondo principi della RBC e hanno coinvolto, nel corso del tempo, 22 mila persone disabili.
In generale la cultura locale non è accogliente; in una società povera se uno non contribuisce a far entrare qualcosa viene messo in secondo piano, ma questo per necessità, non c’è spazio per pensieri romantici; le aree rurali possono essere feroci verso i disabili, le donne, i ragazzi, tutti quelli che sono concepiti come diversi. I disabili sono pochi in queste regioni, sopravvivono meno degli altri.
Di solito il mondo è fatto per le persone che stanno bene, non per chi ha problemi.
Le Università di Firenze, Londra e Bangalore, che collaborano alla ricerca, hanno somministrato delle interviste e poi realizzato un’indagine statistica-sociologica.
Abbiamo però pensato che poteva essere valutata la RBC non solo da un punto di vista scientifico ma utilizzando gli stessi disabili come ricercatori; all’inizio dicevano che non era possibile fare diventare dei ricercatori delle persone che erano analfabete; e invece, grazie a dei ricercatori dell’Università anch’essi disabili che sono serviti da gruppo di sostegno, questo è stato possibile. Aifo ha partecipato come coordinamento e stimolo del fatto che questa iniziativa poteva essere fatta da persone disabili.
Per il pedagogista Paulo Freire anche le persone analfabete capiscono la loro situazione, sono in grado di capire, anche se non riescono a rielaborarla in un linguaggio colto; ma se una persona povera riesce a elaborarla in un linguaggio che si capisce questo porta all’emancipazione.
Non potevamo coinvolgere 22 mila individui ma abbiamo coinvolto le persone a diversi livelli; abbiamo individuato 26 persone che rappresentano tutte le disabilità, gente del posto, con titoli di studio diversi; questo gruppo ha fatto incontri con altre persone disabili per cercare di capire come fare la ricerca; hanno individuato 8 aree legate al tema della disabilità e hanno identificato 5 temi legati all’ambito di intervento (lavoro, salute, educazione, empowerment, legislazione) e gruppi di auto aiuto e associazioni dei disabili. Hanno infine individuato altri temi più trasversali (violenza, tempo libero, povertà…).
Su ogni tema (22 in tutto) hanno fatto delle riunioni, che duravano anche dei giorni, coinvolgendo persone disabili. Come metodologia hanno utilizzato le storie di vita cercando di capire quali erano i loro problemi e in che misura la RBC li aveva aiutati a risolverli. Alla fine di ogni riunione hanno documentato il tutto attraverso il filmato di circa un’ora.
I risultati di questo lavoro di analisi non sono univoci ma sono complessi; la RBC ha aiutato le persone ad accedere ai servizi, ha aiutato certi gruppi di persone disabili ma altre sono rimaste escluse e stiamo parlando delle persone ammalate di lebbra, le persone epilettiche, i malati mentali.
Il progetto è finito in aprile, in tutto sono state coinvolte 400 persone disabili, senza contare tutte quelle che hanno visto il video.
Ogni volta che vedo queste persone, mi rendo conto di come sono cambiate durante tutto questo lavoro: sono diventate persone più consapevoli. Ben 13 persone del gruppo si sono candidate alle elezioni comunitarie.

10. Asmaa e le altre

Storia di una famiglia coinvolta nel progetto RBC di Mandara
Mi chiamo Asmaa e ho 25 anni. La mia famiglia è composta da mio padre, mia madre, mio fratello Islam, che è più grande di me e soffre fin dalla nascita di paralisi cerebrale; mia sorellina Yassemin, è invece affetta da disabilità mentale.
Potete immaginare lo shock dei miei genitori quando hanno scoperto che il loro figlio aveva un simile problema; si sono chiusi in se stessi, rifiutando di parlarne con chiunque e hanno iniziato a passare la maggior parte del tempo chiusi in casa.
La notizia del problema di mia sorella ovviamente non ha fatto che peggiorare le cose.
Come riflesso di questa situazione, tutti noi abbiamo vissuto quasi isolati; io soffrivo la solitudine e mi sentivo triste.
Dieci anni fa mia madre conobbe al mercato, mentre faceva la spesa, un volontario che cercava donazioni per le persone con disabilità, spiegando che cosa fosse la “Riabilitazione su Base Comunitaria”.
Tutti noi iniziammo ad andare all’incontro settimanale e a prendere parte al progetto.
All’inizio mio padre non approvava il nostro impegno quotidiano in tali attività e soprattutto era preoccupato per me, finché arrivò il momento del campo estivo. Gli chiesi il permesso di parteciparvi ma lui rifiutava completamente l’idea e ci vietò di continuare a frequentare il progetto.
Allora un membro dello staff Seti andò a parlargli personalmente e riuscì a convincerlo dell’utilità del progetto e dei benefici che la nostra stessa famiglia poteva trarne.
Pian piano anche mio padre iniziò a collaborare con noi; il nostro senso di responsabilità verso il progetto stava via via crescendo e io iniziavo a ricevere una formazione specifica presso il centro Seti, atta a sviluppare le mie capacità.
Nel 2004 ho vinto il riconoscimento come miglior volontaria nella celebrazione dell’“Award of Excellence”. Ora la mia famiglia ha un atteggiamento positivo e aiuta molte famiglie che sono ancora in uno stato di shock.
In questo momento sono la coordinatrice del progetto, mia madre è responsabile per il “comitato genitori” di Mandare e mio padre è membro del “comitato padri”. Abbiamo ottenuto un riconoscimento come miglior famiglia nella celebrazione dell’“Award of Excellence 2007”.

Storia di una madre nel progetto RBC di Radwan
Sona la mamma di una bimba di 10 anni che si chiama Nemaa che ha una disabilità multipla. Poco dopo la sua nascita scoprii la sua disabilità. Mio marito si vergognò in tal modo che si rifiutò di vederla; parecchie volte uscì di casa e smise anche di parlarmi.
Un giorno mentre stavo facendo spesa al mercato incontrai una giovane che era una volontaria nel progetto RBC di Radwan. Cominciò a parlarmi del progetto e della possibilità di inserire mia figlia nel programma di riabilitazione. All’inizio rimasi perplessa perché i medici mi avevano detto che mia figlia era irrecuperabile.
Lei aveva sei anni quando andai per la prima volta all’appuntamento e mi meravigliai quando vidi parecchie madri che avevano il mio stesso problema: e io che pensavo di essere l’unica al mondo a essere in questa situazione.
In poco tempo cominciai a diventare più ottimista quando vidi i primi progressi.
Un giorno durante una formazione per le madri, capii che avrei potuto aiutarle costruendo io stessa degli strumenti educativi.
Un’altra sorpresa fu quando i volontari e le altri madri si accorsero che avevo una certa abilità nel cucire, nel disegnare e progettare questi strumenti. Col tempo divenni la loro insegnante, partecipando a delle mostre e guadagnando anche dei soldi.
Il risultato più importante è che ho raggiunto la fiducia in me stessa e che posso superare i problemi che mi si presentano.

Storia di una persona religiosa islamica nel progetto RBC di Kabbary
Mi chiamo Sheik Ahmed Saleh e sono il responsabile della moschea di Kabbary.
Io non sapevo nulla di disabilità e pensavo che i disabili non potessero fare nulla, che fossero per le famiglie solo un peso e una vergogna. E pensavo che sarebbe stato meglio metterli in luoghi separati fino alla loro morte.
Ma nel marzo del 2006 alcune madri con figli disabili mi chiesero di inserirli nelle attività della moschea. Io non volevo ma essendo una persona religiosa non potevo dirlo: così accettai controvoglia pensando che dopo una o due volte non sarebbero più tornati.
Incontrandoli cominciai a conoscere il progetto di riabilitazione su base comunitaria e mi rammaricai per le idee che avevo prima.
Da quel momento iniziai a partecipare a tutte le iniziative del progetto e tentai di aiutarli nelle attività per l’integrazione; ma non mi limitai a questo, cominciai a raccontare questa esperienza anche alle altre persone che frequentano la moschea.
Adesso, come responsabile per le moschee di Alessandria ovest sensibilizzo le comunità sui problemi delle persone disabili e sui loro diritti.
(S.V. e N. R.)

9. Fare RBC ad Alessandria d’Egitto

Conversazione con Simona Venturoli, project manager di Aifo.

Mi puoi parlare del progetto che state svolgendo in Egitto?
Nel 1997 Aifo insieme all’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva lanciato un progetto riguardante diversi paesi tra i quali l’Egitto per sperimentare la riabilitazione su base comunitaria nelle aree urbane. L’Egitto con il partner che attualmente abbiamo, il Centro Seti, era stato scelto tra vari paesi coinvolti. Nel 1997 Aifo è arrivata in Egitto con questo progetto realizzato insieme all’OMS e abbiamo cominciato a lavorare per attuare un programma nell’area urbana di Alessandria insieme al partner. Il progetto ha avuto molto successo e Aifo ha deciso di continuare a lavorare con fondi privati. Questo era un progetto pilota intitolato: “Promozione della riabilitazione su base comunitaria all’interno degli Slums”. Il progetto è terminato nel 2001 ma Aifo ha proseguito il suo impegno. All’inizio siamo partiti solo dall’area urbana di Alessandria mentre oggi si coprono almeno tredici aree. Negli anni il progetto è andato avanti ed è migliorato. Il nostro partner locale ha sede al Cairo ed è una ONG gestita dalla Caritas Egitto ma è registrata come ONG e ha sede anche ad Alessandria.

Il partner locale è un po’ particolare visto che si tratta della Caritas in Egitto…
Sì, è stata una grandissima sfida. Nel 1997 la situazione era molto diversa. La situazione del paese non poneva diciamo nessuna sfida. Nel 1997 la Caritas cristiana lavorava tranquillamente con la popolazione musulmana e con quella copta. Poi la situazione è cambiata. Con la guerra è peggiorato tutto e in questo momento è una grande sfida. Recentemente sono stata in Egitto, c’ero stata già nel ’93, ed essere tornata dopo tanti anni mi ha fatto scoprire un ambiente completamente diverso. L’Islam si era radicato in modo molto forte. Te ne accorgi anche da turista. Nel ’93 non c’era nessuno, per esempio, con abiti musulmani mentre oggi quasi tutti sono così. Si respira nell’aria che c’è scontro tra musulmani e cristiani. Questo partner, quindi, che è cristiano, lavora oggi in comunità che sono al novanta per cento musulmane. Oltre a lavorare sulla disabilità stanno dunque facendo anche un altro lavoro che sembra secondario ma non lo è, che è quello di lavorare sulla pace, sulla convivenza. Il loro staff, inoltre, è misto, sono sia musulmani che copti. In alcune aree tuttavia non riescono proprio a lavorare; in genere lavorano molto nelle comunità, nelle moschee, nelle chiese; spesso fanno un po’ i camaleonti alle rispettive riunioni, dato che la maggior parte sono cristiani ma si devono “abbigliare” in un certo modo per poter entrare, parlare.

Che tipo di intervento state attuando assieme? Oltre a essersi allargato dal ’97 in poi, il progetto si è anche strutturato in maniera diversa?
Il lavoro è sempre uguale, nel senso che ancora oggi è strutturato in fasi. La prima fase consiste nell’individuare una zona e vedere con le comunità chi è interessato a partecipare, poi c’è una fase di formazione. Prima di iniziare a lavorare il passaggio più importante è quello dell’identificazione delle famiglie, dei volontari, segue la formazione dei volontari e la costituzione di gruppi comunitari che possano poi gestire il progetto, perché alla fine è un progetto della comunità. Una fase, questa, che può durare anche un anno all’interno di una zona. Poi si passa all’erogazione delle attività che riguardano l’educazione (la novità è che in Egitto da quest’anno è uscita una legge per cui i bambini con disabilità “lieve” possono essere inseriti all’interno delle scuole che però non sono in grado di accoglierli). Questo progetto garantisce attività di educazione speciale; vengono fatte delle classi di soli bambini con disabilità che però alla fine fanno anche un esame pubblico. Ai bambini che finisco le scuole elementari viene concesso l’attestato di superamento dell’esame di stato.
Inoltre c’è la prevenzione della disabilità che viene fatta con le mamme in gravidanza, l’identificazione precoce della disabilità con i bambini e poi c’è la parte di riabilitazione fisica in collaborazione con i centri di salute pubblici. A questo proposito è stato fatto un accordo scritto con il Ministero della Salute; è importante fare rete e potenziare le risorse locali che sono già presenti sul territorio – le comunità, le parrocchie, le scuole, le moschee, i centri di salute – in modo che il lavoro non finisca con il termine delle attività svolte da noi.
Poi c’è tutta la parte sociale alla quale loro credono moltissimo. Vuol dire anche inserimento nel mondo del lavoro. Vengono fatti corsi di formazione e individuate aziende o artigiani che possano accogliere i ragazzi.

Stiamo sempre quindi parlando di minori? Di bambini in età scolare, di adolescenti che stanno per entrare nel mondo del lavoro…
Sì, stiamo parlando di questa fascia, da zero ai venti anni di età, talvolta arriviamo fino a trenta…

Sono presenti diversi tipi di disabilità?
Sì, anche se per la maggior parte sono disabilità mentali, paralisi cerebrali, purtroppo ci sono in Egitto molti bambini che, per una serie di motivi, nascono con paralisi cerebrali. Non c’è la cura prenatale, i più nascono in casa.

Esistono anche attività ricreative?
Hanno costituito dei weekly club, club settimanali in cui tutte le persone che si ritrovano in quella zona, si ritrovano per fare festa, per stare insieme. Vanno al Mc Donald’s, fanno gite turistiche per Alessandria.
Fanno addirittura un festival della paralisi cerebrale, una manifestazione molto grande, che è anche l’occasione per fare sensibilizzazione, in cui coinvolgono la municipalità e il governatorato.

Quante persone sono state coinvolte in questo servizio?
I beneficiari del progetto attualmente in corso sono circa 1.100 bambini da zero a sedici anni, ma anche persone più grandi, per la maggior parte con disabilità mentali e intellettive. Se aggiungiamo i genitori e i familiari raggiungiamo complessivamente circa 4.000 persone.

Qual è l’atteggiamento culturale delle famiglie nei confronti delle persone disabili? Immagino sia diverso dal contesto dell’Africa Subsahariana.
Sì in questo caso, più che come punizione, la disabilità viene percepita come una vita che non vale la pena di essere vissuta. Quando sono tornata giù, per farti un esempio, ho incontrato moltissime mamme che raccontavano che quando hanno partorito e si sono rese conto che il proprio bambino aveva problemi di disabilità, una volta che lo portavano in visita, il 90% per cento dei dottori consigliava loro di mettere per terra il figlio in un angolo e aspettare che morisse.

La religione permette tutto questo?
Sì perché, di fatto, non li uccidono… In generale ci sono forti discriminazioni e stigmatizzazioni, avere un bambino disabile è una disgrazia, perché è un peso. La maggior parte delle famiglie è senza speranza.

Hai qualche storia da raccontarci?
Ce ne sarebbero molte. La gente ama molto raccontarsi, più che in Italia. Ho sentito tanti padri che mi hanno detto: “Per dieci anni mi sono vergognato di mio figlio e ora ne sono orgoglioso. Ha vinto un sacco di medaglie di karate!”. Per i papà poi è ancora più complesso agire, perché è considerato compito esclusivo della donna occuparsi dei figli e della famiglia.
Per quanto riguarda i fratelli hanno organizzato un gruppo che si chiama “Amici della RBC” (Riabilitazione su Base Comunitaria), composto dai fratelli e dai cugini dei bambini con disabilità, in modo da condividere le loro esperienze ed essere coinvolti nel progetto; producono degli oggetti da mettere in vendita e fare così raccolta fondi ma soprattutto vengono sensibilizzati in modo che siano orgogliosi dei propri fratelli.

Quali sono i problemi che di solito si incontrano in questi tipi di intervento?
Le difficoltà che si incontrano sono a tutti i livelli, anzitutto a partire dalle persone con disabilità stessa, che, soprattutto nei paesi del Sud, hanno una bassissima considerazione personale e sono i primi a non credere in se stessi e quindi i primi a non credere che possono anche essere protagonisti di questi progetti di sviluppo. Se pensiamo alle famiglie, per esempio a quelle del contesto africano, queste tendono soprattutto a nascondere le persone con disabilità all’interno delle proprie case perché, per credenze di vario genere, vengono considerate o frutti del demonio oppure colpe: io ho un bambino disabile, quindi, evidentemente, ho delle colpe da espiare. La pressione sociale su queste famiglie diventa così molto forte. C’è da lavorare sulle difficoltà della persona con disabilità con la famiglia stessa, e con la comunità da un lato e a livello nazionale dall’altro, dove con tutte le difficoltà che già ci sono, i problemi delle persone con disabilità sono sicuramente gli ultimi pensieri.
In questi contesti mancano quindi i servizi di base, mancano le risorse, manca veramente tutto. Per questo consideriamo più efficace la strategia di attenzione su base comunitaria rispetto a interventi che vanno a fornire servizi specifici, perché cadono nel vuoto. Bisogna creare qualcosa di completamente diverso, una cultura diversa, una sensibilità diversa e fornire servizi innovativi all’interno delle stesse comunità. Se si arriva in Liberia in cui non c’è uno psichiatra in tutta la nazione, non ci sono centri di riabilitazione specializzati, scuole in grado di accogliere bambini con disabilità, dove non c’è nulla, non ha senso riabilitare fisicamente cento persone e basta. Finisce lì.

8. Il piano nazionale sulla disabilità in Kosovo

Il Kosovo è un progetto particolare, perché nasce da un gruppo di persone che ci hanno creduto sul serio e che hanno lavorato dando la loro disponibilità a livello volontario. Normalmente abbiamo degli esperti che selezioniamo per le missioni in loco, per dirigere il progetto e per tutta una serie di aspetti. In questo caso abbiamo avuto invece una componente volontaria che è stata in parte l’elemento di successo del progetto. Sono state coinvolte persone con disabilità e persone che ogni giorno lavorano con i disabili o su queste tematiche a livello nazionale e internazionale. Ci siamo avvalsi di Giampiero Griffo del DPI, di Marco Nigoli del Disability Development Team della Banca Mondiale, di Antonio Organtini, avvocato che difende i diritti delle persone con disabilità, di Fabrizio Fea che è dell’ EASPD (European Association of Service providers for Persons with Disabilities).
L’obiettivo era di redigere il piano nazionale sulla disabilità in Kosovo. Le autorità del Kosovo si sono avvalse di Halit Ferizi, un rappresentante della società civile che purtroppo nel 2008 ci ha lasciato, una di quelle persone che una volta conosciute non si dimenticano, che è riuscito a portare la questione del Kosovo sul piano internazionale, a riunire la società civile nelle sue diverse istanze e le varie ONG. È diventato interlocutore dell’Ufficio Diritti Umani e del Primo Ministro del Kosovo. Questa è stata per noi una situazione favorevole da cui partire. Quello che però abbiamo fatto, ed è risultato vincente, è stato che, quando siamo giunti in Kosovo, abbiamo deciso di condividere questo progetto fin dallo stadio di formulazione. Abbiamo incontrato tutte le organizzazioni internazionali e le associazioni di persone con disabilità internazionali, le istituzioni kosovare, i Ministeri e le Municipalità. Dopo la stesura di una prima bozza iniziale sono stati organizzati ben trentasei gruppi di lavoro partecipati da tutti i gruppi coinvolti. In questi gruppi abbiamo redatto il piano. Tutto questo non è molto usuale.
La redazione di un progetto per la cooperazione ha diverse fasi: l’identificazione, la formulazione, la gestione, il monitoraggio e la valutazione. Di solito si collabora con i partner che però non sono mai completamente partecipi fin dall’inizio del progetto. Questo ha permesso a tutti gli interlocutori presenti di parlare, di mettersi in relazione, di confrontarsi e scontrarsi fino a tirar fuori un ottimo piano nazionale e imparare una metodologia di lavoro, su cui noi abbiamo svolto il ruolo di facilitatori. Abbiamo fatto formazione anche su quello che significa la Convenzione ONU, che il Kosovo non ha potuto firmare. Politicamente ciò è stato molto importante e ai Ministri non è sfuggito. Il paese mira a un proprio riconoscimento e il fatto di non poter firmare ma poter essere il primo paese a tutti gli effetti ad aver redatto un piano nazionale sulla disabilità rispetto agli standard della Convenzione ONU ha rappresentato un vero e proprio gioiello e lo è stato anche per noi. La Commissione Europea ha lavorato con noi, così la World Bank, siamo stati più volte citati e abbiamo ricevuto numerosi complimenti.
I gruppi di lavoro poi avevano al loro interno persone con disabilità di vario tipo, c’era inoltre un interprete del linguaggio dei segni. Il piano è stato redatto in Braille, in lingua kosovara, serba e italiana per poi girare nelle biblioteche delle varie municipalità. Abbiamo anche creato un CD audio sempre per gli ipovedenti e un DVD per i sordi. Per la prima volta abbiamo così creato un progetto fruibile anche per le persone con disabilità. La cosa più bella è che dopo un anno, tornati in Kosovo, ci siamo accorti che molte persone della società civile avevano il documento, anche in Braille e riuscivano a leggerlo tra loro. Il piano è così diventato uno strumento per far valere i propri diritti e che la società utilizza per fare delle richieste alle istituzioni. Ciò non significa che tutto venga messo in atto ma che c’è stata di certo una grande opera di sensibilizzazione e comunicazione, un aumento delle conoscenze anche da parte dei ministeri. Questo progetto rispecchia appieno un progetto di tipo inclusivo e partecipativo per tutti i soggetti coinvolti. Il documento prevede ovviamente che ci sia anche un piano di monitoraggio che rientri in quello della cooperazione internazionale. Adesso siamo entrati in un’altra fase che è quella di supporto per il monitoraggio del piano.
Molte cose si sono già mosse, le istituzioni hanno già promosso molte leggi, direttive sull’accessibilità degli edifici sulla base di un codice standard che ancora non c’era. Da questo punto di vista questo piccolo paese è molto avanzato, pur con tutti i suoi problemi politici.
L’averli coinvolti dall’inizio li ha resi responsabili e partecipi e capaci di difendere i propri diritti. Per le istituzioni è stata fatta formazione sulle indicazioni che vengono date dagli standard europei. Pur essendoci pochissimi soldi alcune cose vengono già messe in atto.
Resta a nostro parere la necessità di mettersi in rete. Quando abbiamo redatto insieme il piano di monitoraggio ci siamo chiesti chi lo stesse già facendo e ci siamo coordinati puntando sulle differenze dei vari aspetti. Il principio che ci ha mosso non è stata la solita visibilità. Per esempio a Gijlian, municipalità dove oggi interveniamo, c’era già un progetto di Caritas e World Bank che abbiamo subito voluto incontrare. Alla fine c’è un tornaconto per tutti, l’utilità è condivisa. Ci siamo così divisi i compiti. Il risultato non è un prodotto schizofrenico in cui tre ONG fanno contemporaneamente la stessa cosa. Le ONG sono qui ovviamente molto presenti e da loro il paese ha acquisito molto in termini finanziari ma non dal punto di vista delle conoscenze e delle competenze. Spesso girano addirittura documenti firmati dai ministeri senza che questi ne abbiano conoscenza diretta.
Nei gruppi di lavoro abbiamo lavorato anche sull’identificazione, partendo da domande come: “Dove li prendo i soldi?” . E soprattutto: “Ho bisogno di soldi?”. Alcune attività sono a costo zero, emanare una direttiva significa semplicemente scrivere una legge. L’ausilio degli altri paesi in questo senso deve essere a costo zero.
Adesso stiamo seguendo un altro progetto che cerca di dare alle persone con disabilità una formazione imprenditoriale, legata all’inserimento nel mondo del lavoro, per stimolarli a far nascere da loro stessi la voglia di essere leve di un cambiamento che in questo paese è ancora lento e difficile, perché da troppo tempo pilotato da un lato e agevolato dall’altro dalla presenza internazionale.
Alla fine del nostro progetto abbiamo regalato loro dodici carrozzine da basket, abbiamo riadattato e reso accessibile una palestra ma è stato un gesto simbolico, un messaggio, non un ausilio; sta a loro adesso lavorare affinché i disabili escano da casa e facciano attività ricreative. A quel punto abbiamo acquistato un pulmino, sempre un gesto simbolico però!
È stato necessario più volte sottolineare queste risorse a partire da piccole cose. Nei municipi così come al Teatro di Pristina o mancavano le rampe o, se c’erano, erano bloccate. Questo immobilizza le persone, già prive di lavoro, che si ritrovano segregate in casa. Quello che abbiamo fatto sono state piccole cose, come l’aggiunta di rampe nei luoghi della socialità, interventi nelle scuole di musica, asili, scuole professionali. La vita creativa, su questo abbiamo battuto molto, è fondamentale per l’accrescimento della propria consapevolezza e di quella forza che porta la persona ad agire e interagire concretamente con e nella società.

7. La Rete Italiana Disabilità e Sviluppo

Il RIDS è la Rete Italiana Disabilità e Sviluppo, ideata e formata nell’autunno 2010.
Ci siamo trovati con Alfredo Camerini, direttore di EducAid e con Giampiero Griffo che fa parte del consiglio di amministrazione di DPI Italia. A queste persone poi si è aggiunto Pietro Barbieri della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).
Questa idea è nata a seguito della ratifica della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità da parte dell’Italia e a un progetto che avevamo sviluppato con la Disability Development Consortium (IDDC) nel 2007, nato su volontà dell’Aifo, per raggruppare o comunque trovare un punto di scambio tra le ONG e le DPO (organizzazioni di persone disabili) che si occupavano di disabilità nel mondo della cooperazione.
In qualche modo l’IDDC potrebbe essere considerato il cugino, la tavola più allargata della RIDS, anche se hanno una funzione leggermente diversa. Il Consorzio è nato come terreno di scambio di informazioni e con l’idea di influenzare per esempio i donors (i donatori), le agenzie internazionali sul tema della disabilità. Può fare, se lo vuole, progetti assieme alle associazioni che ne fanno parte ma non è nei suoi obblighi di statuto.
Per come è stato ideato il RIDS è piuttosto un riconoscerci tra le ONG e i DPO, un riconoscere il proprio ruolo reciproco e fondamentale.
Le ONG da una parte con la loro esperienza specifica e ugualmente le DPO, perché quando si parla di convenzione non si può fare a meno di avere organizzazioni di persone con disabilità nei progetti che la portano avanti.
Il RIDS vorrebbe realizzare congiuntamente dei progetti sull’implementazione della Convenzione e sui processi di monitoraggio; in questo modo si vuole aiutare i paesi che non l’hanno ancora ratificata a ratificarla e a chi l’ha fatto a implementarla. Ciò ovviamente non vale in tutti i paesi ma solo in quelli dove noi siamo.
In Italia l’accordo stabilisce che siano organizzati “eventi vari sia di comunicazione o workshop, seminari per sensibilizzare l’opinione pubblica su questa tematica”, che poi è quello che dice l’articolo 32 della Convenzione. Il primo evento concreto che abbiamo realizzato è quello del 21 ottobre a Bellaria dove si è svolto un workshop sull’art. 32 alla presenza del rappresentante della IDDC, dei rappresentanti della DIGI Development (Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo dell’Unione Europea), degli Enti Locali e del Ministero.
(Francesca Ortali)

6. “Tegsh duren”, le pari opportunità nelle vaste steppe mongole

Conversazione con Francesca Ortali, responsabile dell’ufficio progetti esteri dell’Aifo.

Come siete arrivati a lavorare in Mongolia su un progetto di RBC?
Nel periodo in cui siamo arrivati in Mongolia c’erano pochissime ONG e ancora oggi, a dire il vero, se ne contano poche. Quest’anno il progetto ha compiuto vent’anni. A compierli, in realtà, non è stata la nostra collaborazione ma “Tegsh duren”, il programma che in lingua mongola significa “pari opportunità”.
Ci siamo capitati perché la Mongolia era uno di quei paesi che l’OMS aveva identificato nel suo progetto pilota per implementare la riabilitazione su base comunitaria. Stiamo parlando dei primi anni ’90. Il rappresentante dell’OMS della Mongolia chiese all’OMS centrale di iniziare il progetto, dopo di che l’OMS ci propose di andare a vedere se c’erano le possibilità di fare uno studio di fattibilità e così iniziammo. Si trattava di un periodo molto difficile per la Mongolia, a causa del crollo dell’Unione Sovietica. Nel giro di sei mesi la popolazione si è trovata improvvisamente senza riscaldamento, senza acqua, senza petrolio.
La Mongolia era uno stato separato, nel senso che non era annesso all’URSS ma era conglobato e dipendente in toto da tutto il blocco sovietico. Ci sono due o tre generazioni di mongoli che hanno vissuto sotto l’egemonia russa. Tutta l’economia, quindi, era strettamente connessa alla Russia, dipendeva da lei e quando questa è caduta la Mongolia di riflesso ne ha sofferto moltissimo.

Anche se ricca di risorse naturali?
Di risorse naturali era ed è ricchissima ma la struttura economica e politico-amministrativa dell’URSS non li lasciava affatto indipendenti.
Nel ’92 si viveva dunque piuttosto male e il problema era iniziare a cambiare la mentalità della popolazione. Dopo due generazioni sotto l’URSS e in cui ti dicono che non devi pensare in prima persona ma lo fanno gli altri per te e tu fai solo quello che ti è assegnato, è difficile cambiare, ci vuole tempo.

Spiegami meglio che cos’è “Tegsh duren”
“Tegsh duren” è più che altro una sorta di programma, che al momento si estende in tutta la Mongolia; ora sta iniziando un loro programma portato avanti dal Ministero della Salute, che sarà inserito nei programmi di salute di base, perché, così come ci sono i programmi di vaccinazione, si vorrebbero inserire anche programmi di riabilitazione su base comunitaria.
All’interno del programma ci sono diverse attività. A partire dalla formazione, che è una formazione a cascata che comprende tutti i livelli amministrativi, da quello centrale a quello sotto distretto, alle piccole unità abitative.

Di che tipo di formazione si tratta?
Formazione rivolta ai medici e ai paramedici. Si va dalla formazione specialistica a ortopedici, a medici di famiglia, ai feltcher che sono figure intermedie, né medici di famiglia né infermieri, che seguono un certo numero di famiglie nomadi utilizzando il motociclo o il cavallo. L’hanno scorso abbiamo fatto una ricerca proprio sui feltcher, sul loro ruolo e la loro formazione e dei bisogni formativi ai quali possiamo venire incontro con progetti di RBC.
L’altra parte importante è la riabilitazione socio-economica che passa anche attraverso il credito rotativo; dei fondi cioè che passano da un gruppo all’altro. Ad esempio per un anno vengono date cento capre femmine a una famiglia, vengono ingravidate, e mentre i nuovi nati rimangono alla prima famiglia, tutte le capre passano a una seconda.
Si chiama fondo rotativo di animali, invece di dare gli interessi in denaro li dai con gli animali da allevare; in Mongolia funziona bene perché gli animali, di fatto, sono la vita per i nomadi, non possono vivere senza, soprattutto per quelli più vulnerabili della società che sono le persone disabili. Avere un gruppetto di animali li stimola sicuramente, tornano cioè a vivere economicamente ma anche socialmente, perché questo gli permette di essere riconosciuti dato che possedere un branco di animali procura una certa considerazione.

A proposito di persone disabili come vengono coinvolti nel progetto?
Questo progetto ci ha portato sempre più vicino alla Federazione delle Persone con Disabilità e alle organizzazioni di persone con disabilità stesse. Sin dall’inizio le abbiamo coinvolte ma nelle associazioni di persone con disabilità la leadership e la gestione non sono molto spiccate.
L’obiettivo di un programma di riabilitazione su base comunitaria è sì formare i professionisti ma occorre lavorare molto sulle persone disabili, occorre operare per un loro empowerment [rafforzamento/presa di coscienza – ndr]. Abbiamo avuto un finanziamento dall’ONU e nel 2006 abbiamo iniziato questa formazione specifica a due livelli per le organizzazioni di persone con disabilità che dovevano far parte della federazione. Naturalmente per le persone che non abitavano a Ulan Bator ma in campagna questo discorso è stato ancora più difficile da fare.
Da quest’esperienza è scaturito un manuale di formazione in moduli che la Provincia di Milano ha tradotto in italiano e altre lingue; l’ha pubblicato e l’ha utilizzato per la formazione del proprio staff e delle associazioni di persone con disabilità della provincia di Milano.
Ritornando alla Mongolia tutte queste formazioni hanno fatto sì che la rete delle persone con disabilità si è rafforzata talmente che ha fatto un rapporto “ombra” per la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità. Hanno addirittura ratificato la Convenzione prima dell’Italia.

Parlami del rapporto con i giornalisti locali, frutto anche questo di un processo…
Abbiamo sempre insistito sull’importanza della visibilità e di come fare comunicazione, attraverso video, foto… In questo caso abbiamo coinvolto la Commissione Nazionale per i Diritti Umani, che è un ente governativo che dovrebbe essere formalmente l’istituzione che si occupa di tutte le questioni riguardanti i diritti umani e quindi anche i diritti delle persone disabili.
La collaborazione in Mongolia con questa Commissione è stata molto interessante e sono state prodotte ottime pubblicazioni e video in lingua mongola. L’anno scorso addirittura ne hanno realizzato uno molto particolare che riguardava la formazione dei funzionari di polizia riguardo al loro relazionarsi alle persone disabili.
Per quanto riguarda il mondo dell’informazione ci si era resi conto che in occasione di un evento che riguardava i disabili, i giornalisti non venivano mai e, se venivano, non raccontavano i fatti focalizzandosi sui diritti umani ma molto spesso usavano un tono pietistico. Poi pian piano i giornalisti si sono avvicinati ai nostri responsabili e proprio loro stessi hanno chiesto di ricevere un corso di formazione. Da questo rapporto sono venuti fuori video, documentari, articoli, spot televisivi sul tema della disabilità finanziati dal progetto o su loro iniziativa.