Skip to main content

autore: Autore: Roberto Parmeggiani

6. Se uniamo i punti! Le interviste ai papà

In una riflessione sul ruolo del padre nel contesto sociale e, in particolare, nella relazione con figli con disabilità, mi è sempre stato chiaro che al centro dovesse esserci la voce dei protagonisti. Quei padri tanto presenti quanto scontati, attivi ma non sempre riconosciuti.
Una voce che, nella specificità del racconto di ogni esperienza, ci permette di individuare alcuni elementi comuni.
Come in quel gioco in cui bisogna unire i punti seguendo l’ordine numerico per formare un’immagine, se proviamo a unire le risposte alle domande di queste interviste, otterremo un possibile profilo del padre contemporaneo e, forse, anche del padre del futuro.
Perché non è forse il ruolo che sarà del padre di domani, quello che i tanti padri con figli con disabilità stanno interpretando oggi? Non il padre con un figlio disabile, ma il padre e basta.
Favoriti o costretti dalla situazione contingente, dovuta alla disabilità, si trovano a procedere su un terreno ancora sconosciuto, dove vive il padre del futuro, uscito dall’oblio in cui si trova a vagare oggi, più consapevole, presente e riconoscibile a livello sociale, culturale e educativo.
È da questa tesi che parte la riflessione che ho condiviso con i padri che ho intervistato.

Le domande
1. Mi presenti tuo figlio/a con cinque parole?
2. Nelle interviste che vengono fatte a madri con figli con disabilità, spesso esce il tema del senso di colpa, inteso come la responsabilità di non avere portato a termine un qualcosa di “buono” e “funzionante”: “Cosa ho sbagliato? È colpa mia?” Per te, come padre, è successo lo stesso? Ti sei posto le stesse domande? E quali risposte ti sei dato? 
3. “La caratteristica del padre sta nel promuovere la differenziazione: il dispiegamento del figlio, delle sue azioni e della sua mente verso il futuro”.  Nessun genitore può controllare il futuro del proprio figlio/a, però può condizionarlo e, in questo aspetto, i padri possono essere spesso protagonisti. Nel tuo caso è stato così? 
4. Massimiliano Verga, nel suo ultimo libro, dice parlando del figlio: “Moreno non sarà mai un uomo libero, anche se io fossi il padre migliore del mondo. Perché Moreno non può scegliere”. Il tema della libertà, intesa anche come autonomia, è legato alla capacità di scegliere ma non solo. C’entrano anche i servizi, i diritti, il contesto, il tipo di disabilità… In che modo pensi di contribuire/aver contribuito a educare un figlio/a libero?
5. La mia tesi di partenza è che l’uomo che si trova a fare il padre con un figlio disabile sia “obbligato” a interpretare un ruolo paterno nuovo, forse quello del padre del futuro. Sei d’accordo con questa mia affermazione? Se sì, in che modo avete definito un nuovo equilibrio con la mamma?
6. Nella vostra coppia, c’è una specificità del ruolo paterno rispetto a quello materno? In cosa si differenziano?
7. Una cosa che fai/facevi con tuo figlio/a per stare bene, per divertirvi, per trascorrere un po’ di tempo insieme?

6.1. Marco e Chiara
Marco, storico collaboratore della nostra rivista, già consigliere della Regione Sardegna e Vicepresidente della commissione permanente Sanità, è tra i fondatori dell’ABC Associazione Bambini Cerebrolesi.
Ora è membro del direttivo nazionale della FISH (Federazione Italiana Superamento Handicap)
Rimane anche ora il papà di Chiara.

1. Chiara, si chiamava Chiara, è andata in cielo a 27 anni lo scorso 15 luglio 2014. La situazione estrema estrema della gravita di Chiara fin dalla nascita (sempre allettata, con assistenza respiratoria, mai parlato con la voce o con altri mezzi) le dava un’aspettativa di vita massimo di un anno.
Direi: Tenace, forte, attrattiva, inclusiva, coccola.
2. Mah, quando sento parlare del presunto senso di colpa delle madri, vado in giro a cercare madri che sentono questo senso di colpa. Ho trovato madri che sono state convinte da professionisti male indottrinati che avevano il senso di colpa. Le madri, così come i padri, provano dolore, tragedia, disperazione e qualche volta, in pochissimi casi non resistono e abbandonano il figlio, così come succede a volte per madri con figli senza problemi che comunque abbandonano i figli, è notorio. Ma se si percorrono strade di sostegno reale, con servizi personalizzati e intensivi domiciliari, di sostegno che non “ruba” il ruolo genitoriale, non lo sostituisce proponendo il ricovero in istituto, strappandolo dai propri genitori, abbiamo sempre madri e padri che affrontano un percorso difficile ma anche pieno di relazioni e di soddisfazioni, una vita impossibile che diventa possibile. Credo di essere diventato una persona migliore io, come padre, so che quello che sono lo devo a Chiara, ho un grande senso di soddisfazione, anzi, sento forte che devo continuare il percorso che Chiara ha tracciato.
3. Proprio per la gravità dello stato di Chiara credo di aver potuto fare un’esperienza di padre molto intensa e particolare, molto completa proprio in proiezione esterna del ruolo di Chiara nella comunità sociale: ogni attimo, ogni secondo in più era una meraviglia, il futuro non mi ha mai spaventato anzi, avevo l’occasione di vivere il futuro nella quotidianità. La differenziazione di Chiara è stata quella, col suo apparente “nulla”, di spingermi a promuovere, insieme ad altri genitori, una rivoluzione epocale nel campo del diritto di tutti a poter essere sostenuti all’interno della propria comunità e non emarginati in luoghi contenitivi specializzati. Questo grazie alla sua stessa esistenza all’interno della sua città, associazione, regione, nazione. Quindi posso dire che di fatto il mio essere padre voleva dire seguire Chiara, sentire Chiara, capire la strada e la misura giusta per tutti, inclusiva e non discriminatoria, a partire dall’estremo di Chiara. Certo bisognava che anche io non rinunciassi ai miei compiti di cura, notturni in particolare, per non perdere la comunicazione anche sensoriale con mia figlia, che lanciava messaggi in ogni maniera. Potrei raccontare tanti episodi concreti ma qui non c’è spazio.
4. Non sono d’accordo per nulla con questa affermazione di Verga. Che cosa è la libertà per me? Non è solo un concetto giuridico di matrice pseudo occidentale. La libertà passa per la ricchezza delle relazioni, qualunque persona privata di relazioni non è libera, anche in un contesto dove potenzialmente sembra essere il padrone delle scelte. E la condizione biologica delle persone non è indice di potenziale poca libertà, anzi… È più libera una persona con disabilità gravissima anche cosiddetta intellettiva, inserita in un contesto familiare o comunitario ricco di relazioni e inclusivo oppure una persona che per 40 anni è costretta a lavorare “liberamente” in un contesto non desiderato, umiliante, solitario, solo per poter sopravvivere? Per questo il mio ruolo di padre è stato quello, seguendo le “indicazioni” di Chiara, di fare in modo che non finisse mai, costi quel che costi, in un istituto. Per renderla davvero ricca di relazioni quotidiane, ovvero libera.
5. Sì, molto. È la mia esperienza. Da subito ho affrontato, come dicevo prima, i compiti di cura, dopo aver deciso paritariamente con mia moglie chi di noi avrebbe lavorato fuori di casa, non era possibile diversamente stante la situazione di nostra figlia. In Sardegna, con i progetti personalizzati di sostegno alle persone con disabilità (che oggi contano un finanziamento di ben 140 milioni di euro, record italiano) abbiamo avuto il rientro al lavoro di numerose mamme – alle quali tradizionalmente sono affidati i compiti di cura – perché sicure di poter scegliere insieme ai propri figli l’assistente giusto di cui fidarsi.
Non rinunciare ai compiti di cura è stato per me fondamentale per tutto il dispiegarsi delle conquiste fatte per Chiara e per decine di migliaia di disabili gravi in Sardegna.
Non “mammo”, appunto, anzi una grande differenziazione di ruoli, sensibilità diverse ma sempre con il legame continuo con Chiara. Ovviamente spero che nessun padre abbia un figlio con disabilità, ma quando senti che quello che provi viene detto pubblicamente anche da altri padri dalle estrazioni più diverse (operai, imprenditori, impiegati, professori, ecc. ) e cioè “Vi sembrerà strano quello che vi dico ma da quando mi è nato questo figlio sono una persona migliore”, capisci che nelle circostanze considerate più drammatiche c’è una opportunità per ridisegnare il ruolo di padre per chiunque. In meglio.

6.2.  Stefano e Greta
Stefano è un commerciante ed è appassionato di informatica.
È il papà di Greta e di Martina.

1. Greta ha 9 anni. Cinque parole potrebbero essere: sorridente, imbranata, entusiasta, maldestra e petulante.
2. Per i primi mesi di vita di Greta, forse il primo anno, mi alzavo ogni mattina chiedendomi cosa avessimo sbagliato e, soprattutto, se avevo spinto mia moglie a fare qualcosa che non doveva fare oppure mangiare qualcosa che non avrebbe dovuto mangiare. Sentivo di avere una qualche responsabilità, di aver fatto qualche errore. Sono piuttosto orgoglioso e un po’ perfezionista e non riuscivo ad accettare che qualcosa fosse andato storto. È stato un periodo difficile, avevo anche pensato di andarmene, credevo di non farcela. Per fortuna, col passare del tempo Greta è poi tornata a casa dall’ospedale, dove era rimasta a causa del parto prematuro. La quotidianità della vita insieme, dovermi occupare di lei, il contatto fisico e qualche incontro con la psicologa mi hanno fatto capire che non c’erano colpe o responsabilità. Ho capito che se avessi accettato l’idea che qualcuno aveva una colpa,  sarebbe stato come dire che Greta era nata sbagliata, mentre così non è. Lei è Greta e basta.
3. Greta è ancora una bambina e, per ora, cerco di non pensare a cosa sarà del suo futuro. Un po’ per paura un po’ perché siamo molto concentrati sul presente. Sia con lei che con la sorella, cerchiamo di aiutarle a crescere capaci di scegliere cosa è meglio per loro. Per quanto mi riguarda, diversamente da mia moglie che tende a proteggerla un po’ di più, io spingo Greta a mettersi in gioco, a provare più cose possibili, cercando di darle tutti gli strumenti di cui ha bisogno. A volte ci scontriamo perché mi faccio prendere la mano e rischio di non tenere conto di quello che le piace davvero o la forzo troppo.
4. A questa domanda non so bene cosa rispondere. Greta sarà mai libera di scegliere quello che vuole? Avrà le competenze per farlo? Boh! Spero di sì ma so anche che sono tante le variabili che intervengono: gli strumenti necessari, le risorse economiche e mentali, i servizi… Come dicevo prima io, per ora, non mi pongo limiti, tutto ciò che Greta e Martina possono sperimentare, lo sperimentano. Anche per capire fin dove si possono spingere, quali sono le cose che è possibile superare e, al contrario, cosa invece è necessario accettare. Passeggiate in sentieri in montagna ma anche campeggio al mare, facciamo gite, se vorranno studiare uno strumento lo faranno; Martina fa danza e Greta fa parte del coro della parrocchia.  Poi io sono convinto che la cosa più importante sia non essere soli. Ecco, forse la vera libertà è quella di poter contare sugli altri. Io e mia moglie cerchiamo di frequentare amici e di essere presenti in vari contesti, ci piace tessere relazioni.
5/6. Partiamo dal presupposto che io vivo da solo dai tempi dell’università, per cui sono abituato ad arrangiarmi in casa, a fare un po’ di tutto. Diciamo che ero ben predisposto a collaborare con mia moglie alla gestione familiare. Seppure sia la mamma a gestire la cura di Greta (dal comprare i vestiti alla cura dell’igiene personale), forse anche perché è una femmina, io ho voluto sempre essere presente per capire, per sapere e per poter intervenire. Come dicevo sono orgoglioso e perfezionista, per cui voglio dire la mia e trovare una soluzione, sempre. A volte, me ne rendo conto, sono insopportabile. Quando mi confronto con altri padri che conosco oppure i genitori dei compagni di classe di Greta, mi rendo conto che sono molto più consapevole rispetto a ciò che succede a mia figlia, sotto tutti i punti di vista.  Il confronto a volte è difficile, perché finisci sempre a pensare a quello che non puoi fare, ti concentri sui limiti. Eppure, come dicevo prima, Greta è così e io mi sento un padre come tutti gli altri. Anzi, un padre diverso come tutti gli altri.
7. Appena ne ho avuto la possibilità ho insegnato a Greta a giocare a carte. Me lo aveva consigliato il pedagogista per aiutarla con i numeri. Da esercizio è diventato un passatempo comune, in estate passiamo pomeriggi sotto l’ombrellone a giocare.

6.3. Roberto e Alberto
Roberto è Presidente dell’Associazione “FaDiVi e oltre” (www.fadivi.it) e rappresentante della Consulta Regionale per la tutela dei diritti della persona disabile della Liguria.
È il papà di Alberto.

1. Mio figlio si chiamava Alberto. È mancato il 27/5/014. Cinque parole per descriverlo: bello, sorridente, sereno, curato, impegnativo, tutelato.
2. La nascita di Alberto ha portato solo gioia nella nostra famiglia. Per i primi 11 mesi Alberto non ha manifestato alcuna problematicità o comunque noi in famiglia non ne avevamo coscienza. Credo di poter dire che Alberto si presentava sicuramente come un bambino allegro, bello.                                                                                                                                                                  Le prime crisi convulsive si manifestarono nel giugno del 1974. Dopo diversi mesi fu il Neurologo prof. De Negri che si espresse in modo duro, scarsamente sensibile ma terribilmente veritiero dicendo: “Vostro figlio non parlerà e non camminerà mai!”. Senz’altro a me e Noemi (mia moglie) cascò il mondo addosso nel sentire questo terribile e inaspettato  giudizio.
Credo di poter ricordare che forse non volemmo accettare questa così infelice diagnosi e,  più che porci domande rispetto a sensi di colpa o altro, sono stato e siamo stati impegnati a ricercare gli ospedali e i medici più quotati per meglio capire quale possibile futuro aspettava Alberto. Certamente il nostro immenso amore e anche quello che regnava nelle nostre famiglie, comprese quelle dei nonni, ci aiutò a compiere tutti quei passaggi importanti che ci hanno portato alla consapevolezza di non avere lasciato nulla di intentato e di essere sereni nel ritenere che tutto quello che era nelle nostre possibilità lo avevamo provato. Mai ho ostacolato mia moglie, neanche quando aveva piacere di portarlo dallo “stregone” di turno per un ennesimo tentativo.
Tutto questo ci ha consentito di prendere coscienza della condizione di Alberto, di accettarla, di continuare ad amarci e ad amare Alberto, che sarebbe stato per noi la luce, la vita, certamente convinti che non sarebbe stato un futuro facile ma non ci saremmo certo tirati indietro!
Sinceramente nel mio ricordo trova uno spazio secondario quello che ha attraversato allora la nostra psiche, le legittime domande: “Perché proprio a noi?  Ma cosa abbiamo fatto di male per meritarci di dover affrontare tutto questo?”
Ovviamente non ci siamo dati risposte.
Guardando tutto questo con il senno di poi, credo di poter dire di non avere oggi grossi rimpianti e di aver avuto la possibilità di indirizzare e dedicare tutto il nostro impegno e amore verso Alberto.
3. Nella mia analisi di quanto un padre come me ma, più in generale un genitore, possa condizionare il futuro del proprio figlio, credo di poter dire che, nel mio caso, sono stato un protagonista attivo dei mutamenti per la riscontrabile mancanza di servizi programmati dalle istituzioni.
In questo sono stato agevolato dal mio impegno all’interno di un organismo unitario come la Consulta per l’handicap, dall’aver conosciuto e lavorato fianco a fianco a persone come Giacomo Piombo, imparando da lui e anche da altri che ora non citerò, a non abbassare lo sguardo, a non guardare solo se stessi, a occuparsi anche degli altri.
Sono partito in quegli anni, con Alberto ancora adolescente, a dedicare una parte del mio tempo a ricercare risposte per fornire adeguati servizi alle persone con disabilità. Non ho mai percepito dentro di me delle difficoltà rispetto al mio modo di essere stato padre, che tra l’altro mi ha permesso di conoscere e incontrare centinaia di genitori con figli disabili, con situazioni diverse tra loro.
Non appena abbiamo preso coscienza della condizione di gravità di Alberto mettendo da parte illusorie “guarigioni”, il nostro incessante impegno è stato rivolto alla ricerca delle maggiori opportunità per effettuare cicli di fisioterapia, non perdendo tempo tra una serie di trattamenti e quella successiva, con l’ansia divorante di riuscire a dare il massimo, a utilizzare gli strumenti migliori, le diagnosi più qualificate.
Mi è difficile parlare esclusivamente come padre, così come mi è richiesto, in quanto ogni atto, ogni emozione, ogni difficoltà e ogni scelta l’ho sempre condivisa con mia moglie. Certamente il nostro impegno quotidiano si è svolto in modo diversificato, ma sempre condiviso. Comunque, già da quei primi anni, un aspetto caratterizzante è stato quello di vivere e affrontare le difficoltà contingenti ma anche quello di provare a pensare il futuro.
Oggi mi è abbastanza chiaro che nella mia visione e nell’evolversi della vita di Alberto c’è sempre stato un durante e soprattutto un dopo.
Dopo la fisioterapia intensiva c’era la scuola dell’obbligo, le prove di inserimento nella classe normale con noi genitori obbligati alla presenza, poi il passaggio alla Scuola Speciale Statale.
Questi sono stati per me anni di incessante impegno volto a migliorare questi spazi fino a che Alberto non è arrivato ai 15 anni, l’età di lasciare la scuola dell’obbligo.
Ecco che il dopo riappare in tutta la sua drammaticità! Dopo la scuola esisteva un percorso, esistevano possibili risposte per una persona disabile grave e la sua famiglia?
No. Non ne esistevano.
È il periodo, quindi, delle battaglie in Regione, nelle diverse USL cittadine che erano i riferimenti per la sanità e i Servizi Sociali del Comune.
4. Io ho avuto il piacere di conoscere e confrontarmi con Massimiliano Verga quando a Genova abbiamo organizzato la presentazione del suo primo libro Zigulì.
La “libertà” di un figlio disabile grave, non in grado di rappresentarsi e che abbia la necessità di essere costantemente assistito da un adulto (genitore, operatore, caregiver…) sono convinto sia quella di poter vivere tutti i passaggi della sua vita, che ovviamente la condizione psico-fisica impone e di viverli al meglio, nel modo più dignitoso possibile, obbligando in molti casi le istituzioni ad aprirgli porte e fornirgli strumenti e opportunità non sempre così facili da ottenere.
La libertà è quella di riuscire a garantirgli di non rimanere chiuso in casa dopo i 16 anni e di essere inserito in un centro con operatori ed educatori in grado di ricercare la sua massima autonomia e di capire i bisogni e i desideri.
Un padre come me, insieme a mia moglie, credo possa essere certo di essersi impegnato affinché Alberto potesse avere la “libertà  di scelta” per vivere una parte della sua vita anche al di fuori della famiglia.
Io credo che ogni scelta è sempre caratterizzata da fattori personali ma anche esterni, da possibili opportunità, da elementi più o meno favorevoli che forniscono la possibilità di  essere liberi di scegliere. Credo che il contributo di un padre come me, per educare un figlio libero, sia proprio quello che ho descritto unito all’impegno di un costante confronto, a volte forse anche poco sereno ma sempre ispirato ad assicurare ad Alberto un contesto come credo avrebbe desiderato, voluto e scelto conscio della sua condizione. Non considerare tutto questo sarebbe un po’ come essere il padre di Icaro ed essere fieri della sua “libertà” di voler volare con la sola soddisfazione di vederlo schiantare a terra!
5. Non ho dubbi sul potermi definire “padre del futuro” rispetto allo svolgersi della vita di Alberto. Una mia ben chiara consapevolezza è che ho continuato a pensare al dopo anche in un momento in cui Alberto frequentava un Centro Diurno dove era ben conosciuto, ben trattato, dove io stesso facevo parte del Comitato di Partecipazione ed ero quindi in grado di vivere al meglio e di essere coinvolto nella vita del Centro.
Abbiamo pensato e realizzato un “progetto di vita” futuro, di residenzialità che si esplicasse nel durante, con noi genitori vivi, in grado quindi di indirizzare e assicurare nel dopo, la miglior qualità di vita possibile.
Pensare il futuro, ricercare scelte definitive per la vita di Alberto è stato una valutazione che io ho giudicato prioritaria, importante e doverosa. Mia moglie ha avuto in questo un ruolo determinante, sia nello spingermi nel scegliere la struttura sul territorio, sia nel rinunciare a vivere con più risorse economiche pur di consentirmi un impegno volontaristico e continuo per diversi anni, durante i quali il progetto prendeva corpo.
6. Ho già avuto modo di dire che una specificità del mio ruolo paterno è stata quella di un maggiore impegno rispetto alla ricerca di soluzioni, in un costante confronto con le istituzioni, per trovare adeguate risposte in termini di servizi. Questa specificità non mi ha impedito di mantenere un ruolo di padre in tanti momenti intercambiabile – anche se con minore capacità – con quello della mamma. Al di là dei periodi in cui l’impegno lavorativo mi consentiva minor tempo, ho sempre cercato di impegnarmi al meglio nei confronti di Alberto,  anche se pur a distanza di molti anni, riconosco che il sacrificio e il merito di mia moglie è stato, senza alcun dubbio, enorme e continuo, così come lo è stato, da sempre, il mio amore per lei.
7. Un ricordo dolce dei miei momenti con Alberto è quello di quando, seduto di fronte a lui, prendevo le sue mani e mi facevo accarezzare la faccia guardandolo negli occhi, corrisposto da sguardi pieni d’amore. Alcuni minuti di questo “gioco” li ricordo come uno scambio vero, forte, senza ombre, senza sovrastrutture, pieno di sincera e sentita emozione.
Possono essere tanti i dolci e gradevoli episodi di una vita che potrebbero essere ricordati.                                     Ma nel terminare questa intervista desidero riportare alla mente quegli attimi quando Alberto, dopo molti giorni di ricovero in ospedale, dopo la somministrazione di numerosi antibiotici, in seguito a crisi convulsive sopravvenute dopo trent’anni d’assenza,  in momenti in cui le sue forze erano davvero lievi, tanto da fargli aprire gli occhi con difficoltà, sentendo la mia voce, prendendogli le mani, riusciva con sforzo a sollevarsi a sedersi sul letto, con grande, grande fatica  mi accarezzava i capelli, abbracciandomi.
Questo è  un ricordo indelebile, dell’ultima ora, carico di dolore, di fitte al cuore, di lacrime, ma pieno di tenerezza, di amore sincero, per me,  difficilmente narrabile.
La nostra unione si esprime anche in una foto all’ospedale, pochi giorni prima di morire, quando seppure già provato e senza forze cercava di sollevarsi e di abbracciarci.
Il 27 maggio 2014 il “dopo di noi” è diventato drammaticamente, per noi, il “dopo di lui”. Proveremo a mettercela tutta, per viverlo al meglio! 

6.4. Pier Paolo e Alessandro
Pier Paolo si occupa di assicurazioni e, quando ha un po’ di tempo, gioca a tennis.
È il papà di Giacomo, di Luca e di Alessandro.

1. Alessandro è il mio terzo figlio e ha 14 anni. Molto simpatico ma a volte lagnoso, testardo e piuttosto furbo, pigro.
2. I problemi di Alessandro si sono presentati intorno ai due anni, dal nulla, come se niente fosse. Faticava a camminare, non riusciva bene a coordinare il movimento delle gambe. Non c’è stato tempo per prepararsi alla cosa, è arrivata e abbiamo dovuto affrontarla. La necessità di occuparci di lui e di capire cosa stesse succedendo non ci ha lasciato molto tempo per sentirci in colpa di qualcosa. O forse, per non lasciare spazio al senso di colpa, abbiamo fatto di tutto per cercare una soluzione. Sinceramente cerco di fare il meglio e, come con gli altri due miei figli, mi impegno per fare le scelte migliori, a volte ci riesco altre posso sbagliare. I vari medici che abbiamo incontrato ci hanno aiutato a capire che oggettivamente noi non c’entriamo nulla con la disabilità di Ale, non abbiamo una responsabilità oggettiva.
3/4. Già la scelta della scuola superiore è stato un grande passo verso il futuro. Lo iscriviamo in quella dove si dice che ci sono gli insegnanti più attenti o in quella che a lui interessa di più oppure in quella che secondo noi gli consente un futuro più sicuro? Pensare al futuro significa pensare alla felicità che, per me, vuol dire pensare al possibile e all’utile. Come Giacomo e Luca, anche Alessandro alla fine ha scelto la scuola che preferiva, quella cioè nella quale poteva dare il meglio di sé. Questo per me vuole anche dire essere libero. Fortunatamente Alessandro ha un deficit principalmente motorio, per cui la sua capacità di valutare e scegliere è solo leggermente compromessa. Un figlio libero, per me, è un figlio consapevole, che sa scegliere. A volte vorrei scegliere per lui, perché penso che stia sbagliando, vorrei evitargli di soffrire ma so che non è possibile. La sua libertà e la sua autonomia si scontrano con il mio bisogno di proteggerlo.
I servizi ci hanno aiutato e anche a scuola, per fortuna, ci è andata abbastanza bene. Credo, infatti, che se ti senti solo e devi lottare continuamente per ottenere ciò che ti spetta, presentare moduli, richieste, fare incontri con specialisti o burocrati, diventa più difficile perché a fine giornata le energie magari finiscono e non riesci a dedicare il tempo che vorresti a fare delle cose con tuo figlio.
5/6. Io lavoro parecchio, per cui il tempo che dedico alla famiglia non è tantissimo. Rispetto ai primi due figli, che hanno avuto un percorso piuttosto lineare, Alessandro mi ha obbligato a cambiare atteggiamento. Il tempo del lavoro non è diminuito, se non in alcuni momenti in cui c’era più bisogno, per esempio quando abbiamo dovuto affrontare le prime difficoltà e abbiamo incontrato un po’ di medici, oppure la mattina e la sera, quando aiuto mia moglie nella parte di assistenza fisica. Mi rendo conto, però, che mi interesso di più di quello che gli succede rispetto a quanto facevo con gli altri due. O meglio, da quando c’è lui, anche per provare a non creare disparità tra tutti e tre, ho modificato il mio atteggiamento in generale. Un esempio semplice è la scuola. È sempre mia moglie che parla con gli insegnanti ma, rispetto a prima, adesso chiedo e dico la mia. Abbiamo due ruoli diversi. Io per esempio, anche perché mi piace, ho spinto Alessandro a fare sport, questa è una cosa di cui mi occupo io, com’è stato anche per Giacomo e Luca. E ogni tanto ce ne andiamo, noi tre da soli, da qualche parte, anche per un week end, sia per lasciare la mamma libera sia perché mi piacciono questi momenti noi da soli. Prima di Alessandro non credo che avrei mai fatto una cosa così.
7. Io e Alessandro abbiamo una passione in comune, ci piace leggere. Quando era in ospedale, leggergli qualcosa ad alta voce era una delle attività che più lo rilassavano. Spesso potreste trovarci sul divano, insieme, mentre leggiamo i rispettivi libri.

6.5. Luca e Chiara
Luca è educatore professionale presso la Comunità dell’Arca “L’Arcobaleno”. Appassionato di musica e informatica, grazie a Chiara ha scoperto la Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA) e ne è rimasto affascinato.
È il papà di Chiara e Elisa

1. Quando Chiara pronuncia il suo nome dice Cà, per cui molte volte la chiamiamo anche noi così.
Cinque parole per descrivere Chiara: solare, entusiasta, testarda, premurosa, si fida di chi sta con lei ( ma non so dirlo con una parola).
2. A volte ci sono emozioni che non puoi controllare, che non hanno una base logica ma quasi esclusivamente emotiva, questo senso di colpa fa parte di questa categoria.
Come è inutile dire alla madre che non ha sbagliato niente, così è inutile dire a me che sto facendo il possibile (anche se fa piacere e aiuta sentirselo dire).
Nella vita quotidiana con Chiara, è evidente che alcuni piccoli aiuti ti possono cambiare la vita. Il percorso fatto sulla comunicazione ci ha spesso dimostrato come l’ausilio giusto e il tempo dedicato a stare con lei, permettono a Chiara di fare qualche passetto in avanti. A forza di passetti, siamo arrivati a superare montagne ma la strada non finisce mai. Ogni volta che Chiara fa un passo avanti riesce a esprimere un pezzetto di quel mondo immenso che ha dentro e che, se comunicato ed elaborato, la può riempire di gioia ma se non espresso rischia di imploderle dentro.
Poi però c’è anche tutto il resto.
Però e per fortuna. C’è quell’immenso tesoro di sua sorella Elisa, la nostra famiglia, gli amici, il lavoro. Tutte cose belle, indispensabili, che aiutano e arricchiscono anche la vita di Chiara.
Ma non posso fare a meno di avere sempre una vocina che dice “Ora però potevi preparare quel materiale, potevi fare con Chiara quella cosa…”.
Con questa vocina è inutile discutere, bisogna imparare a conviverci e farne risorsa per avere sempre stimoli ed energie.
3. Non mi piace tanto quando si vuole etichettare in modo forte un ruolo. Sono convinto che all’interno di una coppia esiste una divisione dei ruoli e che storicamente e culturalmente certi compiti siano più legati alla figura maschile e altri a quella femminile, però penso che ci sia un equilibrio diverso in ogni coppia. Conosco coppie in cui quello che faccio io lo fa la madre. Non so, quindi, se quello che faccio è legato al ruolo della paternità o a quello più generale della genitorialità.
Per quanto riguarda il tema del futuro, credo che ogni nostra azione sia andata in quella direzione, cercando di mettere delle basi ma nello stesso tempo avendone paura. Sì, perché per noi il futuro non è chiaro. Il futuro per Chiara non sarà costruito interamente da lei. Sarà sopratutto quello che noi riusciamo a trovare e creare e quello che la società è disposta a mettere in campo. Questo, forse, è uno dei punti più faticosi di una genitorialità “speciale”: non puoi da solo creare una possibilità di futuro a tua figlia, sei interconnesso a una società che spesso non mette certe priorità tra i primi posti. È vero che è un po’ così per tutti ma Elisa, diversamente da Chiara, potrà scegliere dove mettersi in gioco, potrà scegliere se accettare quello che le offriamo o fare una nuova strada. Ovviamente saremo sempre lì anche per lei, ma dovremo imparare ad affiancarla e a seguirla, anche nei suoi errori.
Con Chiara invece è diverso. Le opportunità le dobbiamo costruire noi, come se fosse un’eterna gestazione. Ma le risorse che si possono mettere in gioco non dipendono solo da noi e così, a volte, ti senti impotente e arrabbiato. Abbiamo sempre pensato che Chiara e noi abbiamo diritto, a un certo punto della nostra vita, all’autonomia, ad imparare ad amarsi rispettando la vita e l’identità dell’altro. Ma questo sarà possibile se Chiara continuerà a vivere sempre con noi?
Inoltre pare che i servizi pubblici riescano a dare risposte solo o, quasi solo, a situazioni d’emergenza. Dobbiamo aspettare di arrivare a quel punto? Ecco, forse proprio il fatto che il futuro non dipende poi molto da noi (e spesso anche il presente) è una delle fatiche diverse in una genitorialità un po’ diversa.
4. Libertà è una parola interessante quando riguarda la vita di persone con disabilità. Purtroppo penso che non c’è esistenza in cui la parola libertà sia più minacciata. Tutte le esistenze sono sempre a rischio di non essere libere. Molti, infatti, non sono liberi e neanche lo sanno e forse quella è la situazione di schiavitù peggiore. Credo che per quanto mi riguarda, è stata Chiara e lo è tuttora, a educarmi alla libertà. È lei che quotidianamente mi fa capire come la sua esistenza sia condizionata dagli altri. Ma lo è suo malgrado, è condizionata da persone che sono chiamate a dover decidere per lei. Siamo talmente abituati a dover decidere per Chiara che molte volte ci dimentichiamo di chiederle “Ma lo vuoi o no?”. Ci dimentichiamo di pensare se davvero è così indispensabile dirle di fare questo o quello. Crediamo talmente nelle regole sociali che spesso non ci domandiamo neppure quanto uno può decidere di non fare questo o quello.
E Chiara dice NO.
Si oppone con tutte le sue forze e ci obbliga a fermarci, a trovare approcci in cui viene lei prima del “si deve fare”. Ci obbliga a essere liberi dai tempi, liberi di sentire il peso delle catene. Ci sono cose banali che “bisogna fare” come lavarsi, vestirsi ma per Chiara non esiste nemmeno questo, tutto va scelto, capito e digerito. La libertà è pesante e faticosa ma dà un senso profondo a ogni cosa. Fare le cose e sceglierle capendone il motivo fa un’enorme differenza.
Chiara tutti i giorni ci insegna a essere liberi ma ci fa anche sentire il peso delle catene, scegliendo assieme a lei dove vogliamo stare.
5. Non credo che sia il fatto di essere il padre di una persona con disabilità (non mi piace sottolineare eccessivamente il termine persona con la parola disabile perché credo che così facendo si minacci in modo importante il suo essere prima di tutto persona) che ci porta a fare questa scelta ma è una bella e importante novità che ci ha dato questo tempo. Se penso a Elisa credo che sarei stato ugualmente il padre che sono stato, con o senza l’esperienza con Chiara.
Sicuramente la persona con disabilità ci obbliga a riflettere in modo più approfondito sul nostro ruolo, non ci permette di nasconderci ma la mia identità di padre credo non sarebbe stata molto diversa. Questa novità non credo che stia in un nuovo equilibrio ma in un equilibrio più equo dove ognuno fa un pezzo più consono alla sua persona, ma sempre in dialogo con l’altro e disponibile a condividere ogni pezzo del carico. Se penso alla relazione quotidiana con Claudia, mia moglie, non posso altro che dire che ci sono cose che fa quasi sempre lei e altre io. Ma quel quasi sta a significare che in ogni momento le cose possono cambiare a seconda dei bisogni della nostra famiglia.
6. Come dicevo prima, c’è sicuramente una specificità che dipende dalle doti di ognuno e forse anche da quei condizionamenti culturali che, volenti o nolenti, ci portiamo dietro. Così tutto il mondo che riguarda la tecnologia e il percorso per Chiara rispetto alla comunicazione lo faccio io mentre Claudia, appassionata di cucina, condivide questa passione con Chiara, facendola crescere attraverso il fare. Spesso sono io che porto avanti gli impegni verso l’esterno. Claudia però tiene vivo il cuore della nostra famiglia. È lei che gestisce la casa (e Chiara è il suo braccio destro) ed ė lei che ci aiuta a tenere un equilibrio tra dentro e fuori. È lei che mi ricorda che per fare cose belle bisogna avere delle buone basi e queste buone basi sono il nostro stare assieme, sono quel quotidiano apparentemente banale che è la c partenza di tutto. Sono i lavori di casa, i pranzi e le cene fatti senza fretta, il curare i piccoli particolari perché sono l’esternazione del grande amore che rappresentano. E se non ci fosse Claudia che ci richiama a questo, rischieremmo di essere un albero che crede di poter vivere senza affondare le proprie radici nel terreno. Abbiamo una divisione dei ruoli ma sappiamo che solo se ci teniamo saldamente legati anche nel fare le cose quotidiane possiamo aspirare verso l’alto.
E così i ruoli spesso si intrecciano e si scambiano per poter crescere assieme.
7. Sono tante le cose che facciamo insieme io e Chiara, che ci fanno stare bene.
Il bello con Chiara è che ogni attività ha un immenso valore in sé e quello che stiamo facendo in quel momento diventa la cosa più bella e importante che bisognava fare. Certamente ci sono attività che ci accomunano come fare un giro in tandem in campagna, salvare il mondo con una partita della Wii, andare al cinema o guardarci un bel film. Ma niente è assoluto. Per Chiara ogni attività ha il suo momento e ogni momento ha la sua cosa bella da fare assieme. 

3. Analisi grammaticale paterna

Ormai è difficile non farsi i fatti degli altri. Basta entrare nel proprio profilo Facebook e vieni investito da decine di foto della vita più o meno privata dei tuoi amici.
Al di là di una qualsiasi valutazione etica, questo modo di comunicare e condividere il proprio vissuto quotidiano, a volte offre spaccati di vita reale molto interessanti. Qualche giorno fa, per esempio, la mia attenzione è stata attirata da un’immagine di una coppia di amici che mi è sembrata l’esatta descrizione della differenza che intercorre tra l’approccio materno e quello paterno.
Nella foto che hanno pubblicato c’è un bambino seduto su una grande roccia. Sotto c’è il papà che l’ha appena fatto sedere lì e la mamma che, pur essendo di schiena, trasuda preoccupazione. È suo infatti il commento alla foto: “Ma perché i papà devono per forza insegnare ai figli a fare cose pericolose?”.
Ho pensato, allora, a un esercizio creativo. Ho provato a realizzare una breve analisi “grammaticale” attraverso la quale comprendere meglio il significato di questa frase.

Ma: dubbio, accusa, rimprovero;
perché: può esprimere il desiderio di capire il senso del gesto oppure sottolineare l’incomprensibilità dell’atteggiamento;
i: articolo che determina il maschile, pluralmente, tutti;
papà: questo sconosciuto;
devono: voce del verbo dovere, scelto più o meno consapevolmente, al posto di amano, desiderano, scelgono. Esprime perfettamente il punto di vista che ritiene, spesso, le azioni paterne come dettate da un istinto impulsivo, un agire irresistibile, irrefrenabile, un po’ selvaggio;
per forza: le mamme agiscono per scelta, cognizione di causa, consapevoli del proprio ruolo mentre i padri si comportano in un certo modo “per forza”, come se non potessero evitare di fare altrimenti;
insegnare: far apprendere cose delle quali si potrebbe fare assolutamente a meno;
ai: preposizione articolata, come di solito è il rapporto tra padri e figli;
figli: chi è stato generato, rispetto ai genitori. Sarebbe molto interessante definire il ruolo generativo del padre, il quale deve scoprire come “partorire” il proprio figlio;
a: preposizione semplice, banale, di poco conto;
fare cose: ecco cosa possono insegnare i padri ai figli, fare delle cose. Non l’alfabeto delle emozioni o la cura delle relazioni bensì a fare delle cose, praticità, manualità. Per fortuna imparare a fare delle cose è fondamentale, è una qualità significativa, un’abilità utile. Dobbiamo imparare, però, a lasciare a ciò il giusto valore e il giusto spazio nel processo educativo;
pericolose: se parliamo di padre, parliamo di pericolo e di coraggio e di avventura e di dolore e di distacco. Parliamo cioè di crescita, del diventare grandi, adulti, ricchi di autostima e fiducia in se stessi.
?: la domanda è ovviamente retorica. Si definisce in questo modo la svalutazione del ruolo paterno, ritenuto, prima che dannoso, secondario, del quale recriminare senza aver la capacità di valorizzarlo.

2. L’uomo come padre e il padre in quanto uomo. Archetipi del maschile in letteratura

Quando pensiamo al maschile, ognuno di noi fa riferimento a un’immagine specifica, legata alle relazioni e alle esperienze personali ma anche a ciò che la società e i processi culturali offrono alla nostra attenzione. Una varietà di immagini che, da una parte, presentano la difficoltà a identificarne una socialmente condivisibile ma, dall’altra, raccontano la ricchezza di una figura che è difficile schematizzare in quanto piena di sfumature.
Sfumature che, a loro volta, si riversano all’interno del ruolo paterno che dal maschile prende forma e sostanza.

2.1. Ulisse, l’uomo errante
“Il mito è quel nulla che è tutto.
Lo stesso sole che apre i cieli
è un mito brillante e muto –
il corpo morto di Dio,
vivente e nudo.
Questi, che qui approdò,
poiché non c’era cominciò ad esistere.
Senza esistere ci bastò.
Per non essere venuto venne
e ci creò.
La leggenda così si dipana,
penetra la realtà
e a fecondarla decorre.
La vita, metà di nulla,
in basso muore”.
(Fernando Pessoa, Ulisse)

Il grande poeta portoghese Pessoa definisce Ulisse come un arkhè, come l’inizio del Mito, principio di creazione, il non essere mai esistito che però diventa verità. Ulisse è un’immagine reale ma non oggettiva, personalmente interpretabile ma non soggettiva. Quando Ulisse incontro il ciclope Polifemo sceglie di farsi chiamare Nessuno per sconfiggerlo e ci riesce, appunto perché non gli lascia la possibilità di identificarlo precisamente. Ulisse è solo un nome: potenzialmente uno, nessuno e centomila, diventa un modello, una forma multiforme, una vita sola piena di varie potenzialità.
Il personaggio che Omero ci presenta e a cui Pessoa dedica la poesia è un uomo in viaggio, in bilico tra l’avventura e il ritorno. Ulisse è il rappresentante di un modo di essere uomo e di vivere la mascolinità, che unisce avventura, mistero e voglia di casa. Uomo errante, in viaggio verso una meta che è sempre un altro mondo, una speranza che ci porta lontani da casa. Un viaggio che è ricerca della comprensione del senso dell’esistere in generale e, secondo il nostro specifico punto di vista, dell’essere uomo.
Un altro aspetto centrale nel viaggio di Ulisse e, più in generale, nel percorso di vita di ogni uomo, è il rapporto padre e figlio e, in particolare, la ricerca di una relazione col padre. Telemaco aspetta e insegue suo padre in una ricerca che è un viaggio relazionale, un cercare di conoscere il padre da dentro, non accontentandosi più di una sterile apparenza. Telemaco insegue il padre, non solo perché ne ha bisogno per difendere la casa ma perché ha bisogno di sapere da dove viene, quali sono le sue radici.
Il lungo viaggio dell’eroe è, quindi, l’immagine della scoperta di un mondo interiore complesso, dove convivono responsabilità familiari e desiderio di avventura. Come Ulisse è combattuto tra questi due poli, così l’uomo contemporaneo si muove tra il bisogno di realizzazione sociale e il benessere dell’intimità familiare. Due poli non contrapposti ma che si intrecciano continuamente.
Il padre carica sulle spalle tutto il suo desiderio di essere, allo stesso tempo, un porto e una casa. Diviso tra l’andare e il tornare, errante in ricerca e sguardo che si fa trovare. Il padre che ama di un amore comune, maschile e singolare.

2.2. Adriano, l’uomo di potere
“Sarebbe facile mostrare quel che t’ho raccontato finora come la storia d’un soldato troppo letterato che vuol farsi perdonare le sue letture: ma semplificare così la prospettiva è falso. Regnavano in me di volta in volta personaggi diversi, nessuno dei quali molto a lungo; ma presto quello esautorato riconquistava il potere: l’ufficiale meticoloso, fanatico della disciplina, pronto a dividere con gioia le privazioni della guerra con i suoi uomini; il malinconico sognatore di dèi, l’amante pronto a tutto per un istante di ebbrezza; il giovane luogotenente altero che si ritira sotto la tenda, studia le sue carte alla luce d’un lume, e non fa mistero agli amici del suo disprezzo per come va il mondo; finanche il futuro statista. Ma non dimentichiamo neppure il cortigiano ignobile, che, per non dispiacere, accetta di ubriacarsi alla tavola imperiale; il giovincello che sentenzia dall’alto su ogni questione con sicumera ridicola; il parlatore frivolo, capace di perdere un amico per una battuta; il soldato, che compie con precisione meccanica i suoi bassi compiti da gladiatore. E ricordiamo pure quel personaggio vacuo, senza nome, senza posto nella storia, ma che è me stesso tanto quanto tutti gli altri, semplice zimbello delle cose, null’altro che un corpo, disteso sul letto da campo, distratto da un profumo, preoccupato d’un soffio, vagamente attento al ronzio incessante di un’ape”.
(Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano)

Marguerite Yourcenar immagina l’imperatore Adriano ormai stanco e malato, scrivere una  lettera al diciassettenne Marco, nella quale racconta lo svilupparsi della sua esistenza, dalla vita in famiglia ai primi servigi offerti all’Impero, fino al suo ruolo di Imperatore e alle vicende a esso legate. Indubbiamente Adriano è rappresentante dell’uomo di potere, naturalmente portato a assumere ruoli di guida e di responsabilità, capace di prendere decisioni importanti per la collettività. Rappresenta un potere libero, che si nutre della libera scelta, del dare valore alle esperienze in modo che diventino veramente pienezza del senso della vita, un potere che non schiaccia ma riempie.
La caratteristica particolare di Adriano sta nel riconoscersi sempre uguale, qualsiasi sia il ruolo ricoperto, sempre se stesso, capace cioè di vivere con specificità ogni situazione pur mantenendo la propria identità.
Uomo di potere che, però, riconosce la propria piccolezza e la propria limitatezza di fronte all’immensità del cielo. Adriano, infatti, amava sacrificare il sonno per poter guardare le stelle. Un semplice atto che sottolinea una caratteristica tipica del vero uomo di potere: l’essere consapevole che c’è un passato che viene prima di te, che ti permette di esserci in quel momento e al quale dobbiamo portare rispetto; riconoscere la responsabilità del proprio ruolo nei confronti di tutto ciò che ci circonda.
L’uomo di potere è una guida, capace di condurre, di indicare l’orizzonte, di infondere fiducia e coraggio, responsabile di un esercito pronto a rispondere ai suoi ordini. Aspetti, questi, che fanno parte anche del DNA del ruolo paterno che si ritrova a essere guida per i figli, che deve condurli, indicare loro un orizzonte verso il quale dirigersi e che, come qualsiasi uomo di potere, non può prescindere dal giudizio popolare, da una relazione basata sulla fiducia e sul riconoscimento del ruolo stesso.

2.3. Kafka, l’uomo sottomesso
“Tu non riesci a fingere, è vero, ma voler asserire solo in base a questo che solo gli altri padri fingono è una pura prepotenza che non ammette discussioni, oppure – e penso sia questo il vero motivo – l’impressione mascherata di un qualcosa che tra noi non funziona, per causa tua ma senza tua colpa. Se è questo che intendi, allora siamo d’accordo. Naturalmente non dico di essere diventato quello che sono solo per causa tua. Sarebbe un’esagerazione eccessiva (anche se intendo esasperare questo aspetto). È molto probabile che se fossi cresciuto del tutto libero dalla tua influenza non sarei divenuto mai un uomo rispondente alle tue attese. Quasi di certo sarei comunque diventato un essere malaticcio, ansioso, titubante, inquieto, né un Robert Kafka né un Karl Hermann, eppure molto diverso da quello che sono in realtà e avremmo potuto trovare un ottimo accordo. Sarei stato felice di averti come amico, come superiore, come zio, come nonno, (sì, sebbene con qualche dubbio) anche come suocero. Invece, proprio come padre sei stato troppo forte per me anche perché i mie fratelli morirono bambini, le sorelle nacquero molto più tardi, e io dovetti reggere da solo il primo urto, per il quale ero troppo debole”.
(Franz Kafka, Lettera al padre)

La lettera che Franz Kafka scrive al padre può essere considerata una vera e propria autoanalisi, una profonda riflessione rispetto al complesso rapporto con Hermann, suo padre.
Le figure maschili che incontriamo leggendo la lettera sono due: il padre, grande e forte, e il figlio, un bambino, piccolo, che fatica a rapportarsi a una figura di quel tipo. Le emozioni che suscita la lettera sono varie e spaziano dalla rabbia alla tenerezza, le stesse che vive il piccolo Franz in continua ricerca della comprensione del padre, della sua accettazione in riferimento al suo essere e alle sue attività.
Ricerca e rifiuto sono anche i due poli tra i quali si svolge la relazione genitori-figli. In particolare il padre, per il ruolo di sostegno allo sviluppo verso l’adultità e di cui parleremo successivamente, si trova a giocare un ruolo importante tra questi due poli.
Ricerca di approvazione e rifiuto di un’identità imposta.
Ricerca di intimità e rifiuto di un legame che non fa crescere.
Ricerca di sostegno e rifiuto di invadenza.
La fatica di Hermann Kafka è la stessa di molti padri, conseguenza, anche, dell’equilibrio che (non) si stabilisce con il ruolo materno che si trova troppo spesso a compensare l’assenza paterna, riempiendo spazi vuoti che non riesce ad accettare come tali.
“Ero un bambino pauroso; ma ero anche testardo, come lo sono i bambini; certo, la mamma mi viziava, ma non posso credere di essere stato particolarmente indocile, non posso credere che con una parola gentile, uno sguardo affettuoso, prendendomi per mano in silenzio, non si sarebbe ottenuto da me tutto ciò che si voleva. E tu sei, in fondo, una persona bonaria e dolce (quanto sto per dire non è in contraddizione parlo solo dell’impressione che da bambino avevo di te), ma non tutti i bambini hanno la resistenza e il coraggio di cercare a lungo l’affetto sino a trovarlo”.
(Franz Kafka, Lettera al padre)

La fatica della ricerca dell’affetto del proprio padre aveva realmente schiacciato il povero Franz il quale, oramai, era in balia di un fortissimo senso di colpa, dovuto all’incapacità di soddisfare le aspettative del genitore, di essere una sua copia fedele e di non possedere capacità considerate da lui come importanti.
Il maschio, forte, si trova ad affrontare  forse la sfida per lui più grande: prendersi cura senza schiacciare, offrire un’identità senza pretendere di ottenere una copia, educare all’autonomia accettandone il suo primo effetto, la libertà.
“Tutto ciò che scrivevo trattava di te; che facevo io con questo atto se non versare le lacrime che non avevo potuto versare sul tuo petto?”.
(Franz Kafka, Lettera al padre)

2.4. Eriko, l’uomo in ricerca
“Quando la mamma morì, Eriko lasciò il lavoro. Solo e con un bambino piccolo, non sapeva proprio che fare. Allora decise di diventare donna… Siccome non è tipo da lasciar le cose a metà si fece fare l’operazione anche al viso e il resto. Coi soldi che le restavano ha aperto il locale e mi ha tirato su. Insomma mi ha fatto anche da padre”.
(Banana Yoshimoto, Kitchen)

Il breve racconto della scrittrice giapponese Banana Yoshimoto descrive la vita della famiglia Tanabe composta dal figlio, dalla madre-padre e da una terza persona, una ragazza che adora cucinare e che accompagna il lettore alla scoperta del passato di Eriko e del suo strano modo di essere genitore.
La figura descritta dalla scrittrice giapponese, ci aiuta a visualizzare il ruolo paterno nella sua dimensione più contemporanea, in quanto presenta un esempio del modo di essere padri oggi e ci permette una riflessione circa il bisogno che l’uomo sente di dover assumere “vesti femminili” nella gestione dei rapporti con i figli.
Il padre dei nostri giorni è una figura eclissata e allo stesso tempo pesantemente sospesa nell’immaginario sociale e nel vissuto del figlio.
“Il padre è assente come immagine ancor più che come individuo: il padre assente è l’immagine del padre oggi. Assente perché si rifiuta di combattere nei rapporti. Il padre, quindi, non c’è più anche quando non ha divorziato e abita ancora nella stessa casa. Il padre, quindi non fa anche quando agisce. Al padre, più ancora di quello che ha fatto, viene oggi addebitato quello che non ha fatto. Quello che non ha detto più di quello che ha detto”. (Cfr. L. Zoja, Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Bollate Boringhieri, Torino, 2013)
Un’assenza dovuta alla mancanza di un’immagine sociale a cui riferirsi, frutto di una scarsa educazione dell’uomo al proprio ruolo sociale. Il rischio di questa crisi, che vede il padre  così disorientato, è quello di sostituire la ricerca di caratteristiche specifiche con l’assunzione di modalità genitoriali e comportamentali tipicamente materne.
Eriko svela questo rischio e ci aiuta a comprendere la differenza tra imitare ed essere.
Perché copiando il ruolo materno non si creano le condizioni per quell’alterità fondamentale nella relazione genitoriale. La possibilità, cioè, di una pluralità di identificazioni che spesso travalica la relazione con i genitori biologici ma che trova in loro i primi “altri” con cui instaurare un rapporto. Per questo è importante che i padri scoprano le loro caratteristiche specifiche, per offrirsi come alterego per la costruzione delle singole identità.
Il padre deve recuperare quel ruolo di iniziatore che, attraverso i riti e rituali permettono ai figli di diventare adulti.
Nel libro di Banana Yoshimoto troviamo un’estremizzazione di questo aspetto, la trasformazione del padre in madre, una vera e propria sostituzione che, presa come spunto di riflessione e non come pura analisi del testo, descrive in modo concreto la sensazione che vivono molti uomini: se fossi un po’ più mamma, se fossi un po’ più come…, se fossi diverso forse…
Tanti “se”, che non possono trovare risposta in un copiare che chiude e blocca ma solo in un essere che apre e costruisce.
“Piangevo senza ritegno, ma non potevo prendere un taxi, benché facesse un freddo cane. Un uomo che piange non può prendere un taxi. Credo che sia stato allora che per la prima volta ho pensato: – Che fregatura essere uomo! –”.
(Banana Yoshimoto, Kitchen)

1. A cosa “serve” il padre? Il ruolo paterno tra pregiudizi e specificità

A cura di Roberto Parmeggiani – educatore e scrittore
Illustrazioni di Attilio Palumbo – illustratore e atelierista

Ogni viaggio, ogni ricerca, ogni progresso, ogni invenzione inizia con una domanda e dal bisogno, impellente, di trovare una risposta.
Può trattarsi di una esigenza tecnica o gestionale, di un bisogno legato alla sopravvivenza o alla protezione dei cari.
Oppure potrebbe essere una curiosità naturale che ci spinge a conoscere più in profondo la realtà che ci circonda: naturale, scientifica, fisica.
Anche la nostra ricerca parte da una domanda che ci permetterà di avventurarci dentro il tema dell’essere padre di figli con disabilità, partendo da un ragionamento generale sul ruolo del padre. Cominciamo con una provocazione che, come tutte le forzature, ci aiuta a svelare un aspetto della realtà un po’ nascosto. Chiederci “A cosa ‘serve’ il padre?”, infatti, ci permette di entrare direttamente nel cuore del discorso e ci consente di evitare discorsi retorici, scontati e poco utili alla nostra indagine.
Per esempio è scontato che la madre “serva” a qualcosa. Si potrebbero elencare facilmente quali sono i suoi compiti, definire qual è il suo ruolo sociale ed educativo e in che modo interviene nell’evoluzione della specie.
Se dovessimo dire a che cosa serve la madre, tutti individueremmo con facilità alcune risposte, probabilmente condivise.
Lo stesso non si può dire per il padre che si trova, da sempre, a lottare per la definizione specifica del proprio ruolo a livello sociale, culturale ed educativo.
Per cercare di fare un po’ di chiarezza, proverò a dare una risposta, seguendo un percorso temporale.
Se rispondessimo a questa domanda come se fossimo uomini primitivi, diremmo che il padre non serve a niente.
L’ignoranza della paternità, il fatto cioè che gli esseri umani non avessero consapevolezza del ruolo del maschio nei fatti della vita e, in particolare, nel processo della nascita, relegava il padre fuori dalle relazioni sociali.
Provate a immaginare cosa possa significare essere esclusi dalle relazioni biologiche, quando queste erano le uniche relazioni?
Da qui, allora, nasce la necessità di trovare una soluzione al problema della condizione maschile, una collocazione al maschio percepito come non necessario. La soluzione, tutta culturale, viene dalla regola della proibizione dell’incesto, individuata dall’antropologo Lévi-Strauss, dal matrimonio e dai sistemi di parentela in generale che costruiscono relazioni allargate nelle quali, quindi, l’uomo entra per regola e all’interno delle quali assumerà un ruolo sempre più preciso.
Al maschio che, apparentemente, non serve a niente viene riservato un ruolo attraverso una regola.
Facendo un lungo salto temporale, arriviamo al secolo scorso durante il quale, se qualcuno avesse dovuto rispondere alla nostra domanda, avrebbe detto che il padre serve principalmente a procacciare denaro, a imporre una serie di regole e a difendere l’onorabilità del cognome: il padre padrone, detentore del potere, capofamiglia.
Un ruolo ben definito, ancora una volta figlio delle regole ma con dei limiti.
Poco tempo da dedicare alle “cose di casa”, interventi a livello familiare incentrati sull’ordine e le punizioni, nessuno spazio per la dimensione emotiva e le relazioni affettive.
E arrivando a oggi, in che modo risponderemmo a questa domanda?
Prendetevi un minuto per pensarci.
Qual è il ruolo del padre, quali sono le sue caratteristiche principali, a cosa serve il padre a livello sociale, culturale ed educativo?
Personalmente la risposta che mi sento di dare è: “Boh!?”
A cosa serve il padre, oggi, non è possibile dirlo.
E le tante e diverse risposte che tanti padri diversi potrebbero dare sarebbero la conferma di questa difficoltà a definire con chiarezza, e in modo condiviso, il ruolo del padre nella società contemporanea.
Dopo il maschio escluso per l’ignoranza biologica, dopo il padre padrone e dopo il tentativo di definire un ruolo avvicinandosi a quello materno (mammo, padre peluche…) ora ci troviamo in una situazione di vuoto.
Se a un primo momento questo vuoto potrebbe sembrare una tragedia, e i tanti padri in difficoltà di fronte al proprio ruolo potrebbero confermarlo, credo che invece siamo di fronte a una vera e propria occasione. Quella di superare pregiudizi e luoghi comuni del passato e tentare di scoprire un ruolo specifico e ben definito che non si contrapponga a quello materno ma lo completi.

Codice materno e codice paterno
La sfida che ci troviamo ad affrontare, padri, madri e tutti coloro che si occupano di educazione, è quella di aumentare la consapevolezza rispetto al ruolo che i padri possono e devono giocare e come questo possa avvenire in relazione al ruolo materno.
Ecco che torna utile, a questo punto, affrontare il tema dei codici, quello materno e quello paterno.
Scrive Claudio Riva: “Quando parliamo di femminile intendiamo ciò che fa riferimento al mondo uterino, vaginale. Quindi l’accoglienza, la morbidezza, la protezione. Un simbolo antico del femminile è la coppa. Quando parliamo di codice maschile intendiamo invece ciò che fa riferimento alla fallicità e quindi la fermezza, la forza, la direzione. Un simbolo antico del maschile è la freccia”. (Cfr. “Conflitti”, Anno 10 n. 4, 2011).
Madre e padre sono diversi e in modo differente si relazionano con il mondo e con i figli.
Morbida, sicura e accogliente la madre; deciso, forte e propositivo il padre.
Due modi diversi ma egualmente importanti per la crescita e lo sviluppo del bambino.
Madre e padre, quindi, entrambi necessari.
A titolo di esempio prendiamo in considerazione il tema della protezione. Lo stereotipo ci invita a pensare che la madre sia più protettiva del padre: la coppa infatti protegge più della freccia. Ciò non è corretto perché la madre che accoglie e protegge dalle proprie paure il figlio, rassicura allo stesso modo del padre che esorcizza e sprona il figlio ad affrontarle, le proprie paure.
La madre rassicura con il contenimento nella coppa mentre il padre lo fa con la forza della freccia.
I due codici, inoltre, sono differenti rispetto al modo in cui si attivano.
Il codice materno, infatti, viene attivato a livello biologico, in modo assolutamente naturale. Quando ciò non succede, infatti, possono verificarsi varie problematiche, quale, per esempio, una depressione post partum o un rifiuto più o meno del neonato.
Il codice paterno, invece, richiede un’evoluzione, un tempo e uno spazio di definizione perché a livello biologico, durante il concepimento, nell’uomo non succede nulla. Il maschio diventa padre biologico ma non conseguentemente anche padre psicologico.
Insomma, differenze che sono alla base della possibile definizione di un ruolo specifico.
Differenze che ci permettono di rispondere con maggiore chiarezza alla domanda che abbiamo posto all’inizio.
A cosa serve il padre?
Il padre serve in quanto altro rispetto al rapporto simbiotico che il figlio instaura con la madre, serve in quanto sguardo che si rivolge verso il futuro con progettualità e coraggio, serve come contro canto al figlio nella definizione della propria identità.

Non lo sapevo. Giorgio Morandi quello delle bottiglie?


Non lo sapevo.
Questa è l’espressione che più mi ha fatto compagnia nell’incontro con Morandi, Giorgio, quello delle bottiglie.
In ordine sparso, non sapevo: che Giorgio Morandi avesse insegnato incisione presso l’Accademia di Belle arti e amasse Giacomo Leopardi quanto lo amo io; che la sua casa e il suo studio in via Fondazza siano ora visitabili; che una sua natura morta fosse il risultato di un processo creativo tanto vivo; che avesse tre sorelle; che la luce, per lui, avesse un tale valore; che dipinse più di mille quadri; che apprezzasse la lentezza di un carretto trainato dai muli; che i colori di Bologna lo avessero pervaso, condizionando perfino la sua anima.
Non lo sapevo, anzi, possiamo dire, che non sapevo praticamente nulla di Giorgio Morandi. La cosa folle, però, è che quel poco che sapevo – che era bolognese e che dipingeva nature morte, soprattutto bottiglie – aveva condizionato terribilmente il mio giudizio e affossato ogni mio desiderio di conoscenza del pittore. Come se questi pochissimi elementi potessero finire ciò che per sua natura è infinito, cioè la conoscenza dell’altro.
Non lo sapevo, finché una serie di incontri mi hanno portato, un pomeriggio di settembre, a varcare la soglia di Casa Morandi, la casa nella quale l’artista è vissuto fino alla sua morte nel 1964 e che, dal 2009, è un museo visitabile gratuitamente.
Quel sabato pomeriggio veniva presentato il libro Giorgio Morandi quello delle bottiglie? Una guida per ragazzi alla scoperta di un grande artista del ’900 (Ed. MAMbo). Tra le autrici del testo, oltre a Cristina Francucci e Silvia Spadoni, c’è anche Veronica Ceruti che conosco bene in quanto compagna e collega nella realizzazione di molti percorsi di animazione che intrecciano il tema dell’arte con quello della disabilità e, più in generale, della diversità.
Come le vere sorprese, inaspettate, quel pomeriggio fu l’occasione per un nuovo incontro, con un grande artista, con un lettore della luce, un narratore di storie.
Oltre alla visita alla casa-museo, che permette un’immersione nel quotidiano di Morandi, nelle sfumature della sua arte ma anche delle sue relazioni, scoperta è stato anche il libro che, come un microscopio, permette un viaggio nelle cellule dell’artista, un’indagine sul suo DNA, un incontro ravvicinato, quindi, con ciò che rende un bolognese di inizio novecento, un artista unico e affascinante.

Infiniti modi di comporre
“Giorgio Morandi dipinge moltissimi quadri, più di mille, ma gli oggetti che ritrae sono sempre gli stessi, quelli di cui si è innamorato e dai quali mai si separava. Eppure, ogni opera è diversa dall’altra. Il segreto è la composizione: i tanti, infiniti modi di mettere insieme i vari elementi”.
Quando ho letto questa frase che racconta il modo, allo stesso tempo semplice e complesso, in cui Morandi realizzava le sue opere, mi è sorta spontanea una domanda: cos’è la diversità, allora? Sono ormai parecchi anni che mi occupo di questo tema, da un punto di vista sociale e culturale, tentando di offrire una visione non scontata, improntata sulla conoscenza e, di conseguenza, sul superamento di infondati pregiudizi. Eppure, questa osservazione e, di conseguenza, la riflessione sul lavoro dell’artista, mi ha un po’ spiazzato.
Il rischio è di credere che la diversità si ha solo quando un elemento altro entra in un contesto regolato mentre, ce lo dice anche l’artista, diversità è anche quando un elemento del contesto stesso cambia ruolo.
Quanto è ancora rivoluzionario questo concetto, quanto ancora siamo ingabbiati nell’idea che la diversità sia costituita dall’altro, esterno, intruso, non convenzionale che entra e mette in crisi, che disturba, che obbliga a una riorganizzazione. Seppur questo sia vero, troppo spesso finiamo per trasformare l’occasione che ci viene offerta dall’inclusione nella creazione di una “natura morta”, eterna e immodificabile.
Proprio in questo spiazzamento, però, in questo momento di sospensione, come un bambino che dondola sull’altalena, trovo la risposta. Nell’ampliare il mio orizzonte, nel percepire il contesto in maniera dinamica, nella genialità di Morandi, nella sua capacità di ricreare contesti continuamente diversi, attraverso una diversa disposizione degli oggetti, dei partecipanti. Poco importa se, nel suo caso, si tratti di bottiglie, scatole, vasi, brocche.
“Morandi creava composizioni di oggetti da dipingere, disponendoli su un ripiano, un po’ come quando si apparecchia la tavola. L’artista però giocava con le cose, si divertiva a scambiare i posti e le posizioni…”.
Se provassimo anche noi a immaginare l’inclusione come un gioco? Un continuo esercizio di spostamento, di cambio di prospettive. Ci aiuterebbe a non etichettare le persone e le situazioni, ci spronerebbe a cambiare continuamente il nostro punto di vista, su noi stessi, sul contesto e sull’altro, ci garantirebbe la possibilità di sperimentarci in ruoli differenti, a non incarnarci in uno stereotipo eterno. Lui è quello aggressivo, lui quello antipatico, lei quella buona, l’altra è lenta, quella ha sempre freddo.
Se proviamo a immaginare i contesti in cui viviamo come il ripiano in cui Morandi disponeva la sue bottiglie, pur riconoscendo le specificità/i colori, le esigenze/le dimensioni e le attitudini personali/le forme, sarebbe interessante che, perché un processo di inclusione possa essere tale, di tanto in tanto, chi sta davanti vada dietro, chi è di lato si sposti al centro, chi vicino alla finestra vada verso la porta o chi in cattedra si sieda dietro un banco.
In questo modo potremmo ricreare infiniti contesti diversi, solo scambiando la posizione dei partecipanti, non etichettando il soggetto diverso che fa parte del gruppo ma considerando il gruppo, come insieme di soggetti diversi.

Allenati a creare relazioni
Un augurio, un invito, un esercizio.
All’interno del testo Giorgio Morandi quello delle bottiglie? c’è una parte dedicata a esercizi di visione e rielaborazione personale, dieci regole  per avvicinare l’artista. Si tratta di semplici esercizi creativi che permettono al lettore di indossare gli occhiali dell’artista e sperimentare direttamente il suo modo di guardare il mondo.
Sono dieci punti molto interessanti e anche alquanto piacevoli. Di questi, l’ultimo sintetizza perfettamente il pensiero che ho esposto sopra.
“L’artista ‘mette in posa’ i suoi modelli, poi li osserva per studiare come spazio e forme cambiano al variare della luce… Non si stanca mai di ritrarre le stesse cose, perché crea rappresentazioni sempre diverse: ogni natura morta è unica”.
L’invito dell’esercizio n.10 è quello di allenarsi a creare relazioni.
Spostare, spostarsi, vedere le cose sotto una nuova luce, sperimentare la stessa relazione da una posizione diversa, vedere l’altro da dietro, di fronte, da sotto, da dentro.
Creare relazioni, cioè destrutturare il contesto, sia esso la classe, la casa, la palestra, l’oratorio o il campo da calcio, per fare in modo che lo spazio stesso ci stimoli a uscire da schemi prefissati e da sguardi prestabiliti.
Creare relazioni, cioè conoscere chi abbiamo di fronte.
Conoscere e quindi scoprire ciò che abbiamo in comune, che ci avvicina, che funge da “ripiano” condiviso sul quale posizionare ciò che, invece, ci rende diversi, per fare di questa diversità una ricchezza comune.
Creare relazioni, cioè creare tanti dipinti, con gli stessi soggetti, ma tutti diversi, unici, dove ognuno ha il proprio posto pur non avendo un posto prefissato.
L’incontro con un artista è sempre un’esperienza che ti conduce in un viaggio che travalica ogni tua aspettativa, che sostituisce quel “non lo sapevo” con tanti “davvero?”.
Se posso permettermi un consiglio, accettate l’invito a salire a bordo del libro Giorgio Morandi quello delle bottiglie? e lasciatevi trasportare in un viaggio, allo stesso tempo semplice e straordinario, incontro all’arte di uno dei più importanti artisti del ’900.

Tony Cragg e Matthew Barney: vocaboli nuovi per nuove relazioni

Di Roberto Parmeggiani

Tony nasce nel 1949, a Liverpool. A vent’anni lavora come tecnico in un laboratorio di biochimica finché decide di seguire un percorso di formazione artistica durante il quale approfondirà il rapporto tra arte e scienza con un particolare interesse per la materia.
Matthew nasce nel 1967, a San Francisco. Si trasferisce con la famiglia in Idaho dove otterrà ottimi risultati sportivi. Dopo una laurea artistica a Yale, pagata facendo il modello, si trasferisce a New York dove da subito conquista il mondo artistico della città.
Tony accumula oggetti di vario tipo trovati un po’ ovunque con i quali realizza poi le sue installazioni oppure crea composizioni più scultoree utilizzando legno, gesso, vetro e altri materiali.
Matthew è principalmente un video-artista o meglio questa è l’etichetta che meglio lo definisce. Ironico, presenta opere ricche di intrecci e significati.
Tony e Matthew due artisti contemporanei che, come i veri artisti, raccontano il contemporaneo guardando al futuro o guardandolo dal futuro, offrendo quindi spunti di riflessione, punti di vista, vocaboli nuovi per raccontare l’attuale, quello che viviamo quotidianamente, che ci capita, nel quale siamo immersi più o meno consapevolmente.
Matthew e Tony, così diversi per origine, per produzione, per linguaggio.
Così diversi eppure, ai miei occhi di perfetto non critico d’arte e non conoscitore dei linguaggi artistici, con alcuni punti in comune che riesco a identificare in alcuni vocaboli: desiderio, limite, fragilità, interazione.
Parole che non risolvono il bisogno di comprendere e che non definiscono i confini dell’operato dei due artisti. Sono le parole della mia esperienza, del territorio della mia relazione con loro. Un territorio ancora in espansione che percorro con curiosità e interesse. In queste parole trovo la definizione per alcuni aspetti dell’esistenza umana che condivido con voi.

Desiderio e fragilità
Ho sempre pensato che ci sia un rapporto strettissimo tra questi due termini.
Il desiderio espone alla fragilità e la fragilità fa parte dell’anima del desiderio.
Matthew mette al centro della sua arte il desiderio indefinibile, sempre mutevole, in evoluzione, irruento nella sua manifestazione ma, allo stesso tempo, leggero e soave.
Tony ci parla della fragilità attraverso l’esposizione di oggetti comuni, assemblati secondo una logica descrittiva. Fragili ma non per questo deboli o destinati alla rottura, alla frammentazione. Fragili perché esposti nella loro nudità.
Desiderio e fragilità anche come componenti della natura, in modo specifico di quella umana che continuamente si ritrova a fare i conti con la spinta verso il cambiamento, l’evoluzione, la condivisione e, di conseguenza, l’esposizione e il rischio che tale cambiamento porta con sé.
Guardando i video Cremaster di Matthew o le sculture di bicchieri e bottiglie di Tony vedo fondersi questi due concetti come si fondono nell’esistenza di un essere umano in modo misterioso e allusivo, di immediata comprensione ma difficilmente afferrabili.
Dal punto di vista specifico di questa rivista si può osservare come le parole desiderio e fragilità vengano spesso usate per raccontare l’esistenza delle persone con disabilità o, più in generale, di quelle svantaggiate come se ciò fosse qualcosa che riguarda quella categoria in modo particolare, rappresentativo.
I due artisti, invece, ci mostrano come ciò non sia vero. È come se ci dicessero che il rapporto tra il desiderare e l’esperienza della fragilità fa parte del DNA dell’essere umano, indipendentemente dalle altre caratteristiche che ci differenziano. E che ciò è allo stesso tempo bellissimo e terribile a seconda del modo in cui si affronta la questione, in cui accettiamo ciò che siamo e da lì iniziamo a costruire la nostra identità.

Limite e interazione
Matthew lavora ai progetti Drawing Restraint (disegnare con restrizioni) nei quali si pone l’obiettivo di disegnare superando limiti che lui stesso si impone. Per esempio, in uno di questi l’obiettivo è disegnare su un muro e il limite è quello di essere frenati da un elastico che rende difficoltoso raggiungere il muro stesso.
Tony raccoglie detriti e rifiuti urbani di ogni genere per poi assemblarli in sculture o installazioni che definiscono il senso del materiale grazie all’interazione con l’umanità.
Anche in questo caso le due parole hanno un significato che travalica il lavoro artistico e che parla anche alla nostra esperienza umana.
Anche in questo caso, le opere dei due artisti ci permettono di superare il pregiudizio secondo il quale i limiti come il valore dell’interazione siano concetti riconducibili a qualche categoria di persone e basta.
Ciò che però più mi interessa di queste due parole è la loro influenza reciproca.
I limiti che Matthew si pone esaltano ciò che succede solitamente, cioè che per superare un ostacolo o una difficoltà dobbiamo entrare in relazione, interagire con il limite stesso e con l’ambiente, fisico e relazionale, nel quale siamo inseriti.
Allo stesso modo quando Tony affronta il tema dell’interazione con i materiali, si scontra con il limite che tale relazione sottopone alla sua attenzione e, forse, dalla quale prende forma proprio la sua opera.
L’interazione con i limiti e i limiti in relazione con il contesto sono concetti essenziali per il benessere di ognuno. A tutti, infatti, quotidianamente, viene chiesto di fare i conti con i propri limiti e di affrontare la sfida dell’accettazione e del superamento (due facce della stessa medaglia) che è vincente solo se inserita in un contesto dalla cui interazione dipende, quasi sempre, la vittoria o la sconfitta.

Arsenale dell’Incontro: la disabilità come risorsa

È facile riempirsi la bocca di parole significative che raccontano di progetti, di ideali, di integrazione, che spiegano come si dovrebbero fare le cose, che indicano i passi per valorizzare le differenze e produrre un incontro tra le diversità.
È facile soprattutto perché ti permette di stare lontano dal campo di azione, non sporcarti le mani, non preoccuparti del quotidiano. È facile e spesso assolutamente inutile.
Perché le idee, raccontate con le parole, hanno davvero forza solo quando mettono radici e, quindi, permeano il contesto, quando si radicano in quel preciso terreno e attingono alle stesse risorse, respirano la medesima aria che respirano gli altri attori che lì agiscono e vivono.
Credo che sia per questo che l’Arsenale dell’Incontro di Madaba in Giordania, progetto nato all’interno della storia del Sermig di Torino (www.sermig.org), funziona.
Non sono solo parole ma fatti concreti.
“L’alto tasso di persone con disabilità fisiche o mentali (1 ogni 10 abitanti) è infatti una grave piaga che affligge tutta la società giordana, rendendo difficile l’inserimento sociale di una larga fascia di giovani, sia cristiani che musulmani. In un Paese dove è in corso il processo di modernizzazione sono ancora poco diffuse le tecniche di assistenza e riabilitazione delle persone disabili, che a volte sono ancora emarginate. Da qui la decisione di continuare a operare a fianco di questo tessuto più debole della società giordana”.
La struttura è operativa dal 2007 e si pone l’obiettivo di essere luogo di incontro tra persone di diversa provenienza religiosa e sociale. Per fare questo non si presenta come centro culturale ma come luogo di assistenza e apprendimento. L’Arsenale, infatti, offre a bambini e ragazzi con disabilità percorsi scolastici, di recupero psico-motorio e riabilitazione fisica e laboratori informatici e audiovisivi. Le diverse attività sono organizzate e gestite da un gruppo di responsabili del Sermig e da circa un centinaio di volontari giordani che mettono a disposizione tempo e competenze per la realizzazione del progetto.
Questa dimensione assistenziale ed educativa è alla base di un obiettivo più grande: creare occasioni di incontro e relazione tra persone di differente provenienza culturale, sociale e religiosa. In particolare le famiglie con figli disabili che sperimentano un isolamento sociale, favorito dalla vergogna che accompagna la presenza della disabilità.
Ciò che succede all’interno dell’Arsenale dell’Incontro è, allo stesso tempo, semplice e complesso.
Semplice perché si tratta di relazioni e complesso, per lo stesso motivo.
In effetti, mettere al centro di un lavoro per l’integrazione le relazioni, è abbastanza scontato; forse lo è meno dove le relazioni tra culture religiose diverse sono piuttosto complicate.
In questo caso c’è un fattore in più, la disabilità e c’è un modo specifico di affrontare l’argomento.
Il problema disabilità diventa una risorsa, le persone con disabilità non sono più il problema bensì la soluzione ad esso.
“L’Arsenale dell’Incontro è una casa che accoglie, dotata delle strutture idonee a offrire tutti i servizi necessari all’educazione e alle cure dei bambini disabili… Organizza attività scolastiche e terapeutiche per i bambini, con l’ausilio di personale specializzato e di tecniche e attrezzature moderne.
Propone momenti di aggregazione dove i giovani si avvicinano ai diversamente abili e alle loro famiglie per contribuire a ricreare un tessuto solidale attorno ai più deboli e realizzare una comunità dove non ci sia “distanza” tra chi accoglie e chi viene accolto, dove l’incontro sia autentico e contribuisca a superare differenze e pregiudizi, dove “il bene sia fatto bene”, con pieno rispetto dell’altro promuovendo, giorno per giorno, una mentalità nuova di accoglienza”.
La stessa disabilità diventa, allora, luogo di incontro, non per un confronto pietistico, ma come occasione per condividere esperienze, paure, difficoltà che annullano le distanze e permettono il superamento di pregiudizi. Di tutti i pregiudizi, quelli legati ai deficit ma anche quelli religiosi o culturali. Prendersi cura del proprio figlio e, allo stesso tempo, della propria famiglia, delle altre che si incontrano, in fine di una nazione e di una cultura intera.
Mentre scrivo questo penso a quanto il nostro paese avrebbe da imparare da esperienze come queste. Non voglio essere retorico ma il pensiero che porta a considerare una persona disabile non come il problema da risolvere – a scuola, nel lavoro, in famiglia, nei servizi – ma come la soluzione e la risorsa sulla quale investire – a scuola, nel lavoro, in famiglia, nei servizi – è l’unico pensiero vincente, sia se ragioniamo rispetto allo sviluppo di una cultura dell’integrazione sia se ci riferiamo a una dimensione economica.
Investire nelle persone, nelle relazioni, nei contesti, favorendo l’autonomia e l’autodeterminazione, di tutti.

Untitled

Una fotografia è un segreto che parla di un segreto, più essa racconta, meno è possibile conoscere.
Diane Arbus

Ci sono persone, che con il loro agire, fanno la differenza. Permettono alla storia di fare un passo, un salto in avanti. E spesso lo fanno senza saperlo, senza quella consapevolezza che porterebbe a dire più che a fare, facendo perdere forza proprio all’azione.
Diane Arbus è una di queste persone.
Cresciuta in una ricca famiglia ebrea, ha una sorella e un fratello. Si sposa giovane contro il parere dei genitori e dal marito apprende la tecnica fotografica.
Base di partenza per il suo percorso artistico, che trasforma ogni scatto in uno specifico punto di vista, nel racconto della realtà. Almeno di quella che lei riconosce come realtà, spesso nascosta agli occhi dei più.
Soggetto delle sue foto diventa l’umanità, non quella normale, accettabile, conosciuta per cui controllabile. Bensì l’umanità che vive in un quartiere parallelo, nascosto: i freaks, i nani o i giganti, omosessuali e travestiti, ritardati mentali, gemelli. Considerati, quando va bene come fossero un gioco, uno scherzo della vita. Non ai suoi occhi però. Proprio quelle persone diventano per lei e, quindi, per noi, il dizionario attraverso cui leggere la realtà. Quelle fotografie diventano, a loro volta, un obiettivo dal quale osservare la realtà. Certo, questo provoca sconcerto e un momento di perdita di equilibrio, ci troviamo senza punti fermi, come se, a un certo punto, 2 + 2 non facesse più 4.
Perché? Non è possibile! Cos’è successo? Cos’è cambiato negli ultimi trenta secondi?
Proprio questo smarrimento è alla base delle opere della Arbus.
Non conoscevo il lavoro di Diane fino a che, quest’estate, sono entrato al Martin Gropius Bau, bellissimo museo di Berlino. Duecento scatti in bianco e nero, un’emozionante retrospettiva intitolata solo “Diane Arbus”, senza nessun altro nome a definire il contenuto delle foto.
La pioggia fuori scendeva copiosa e il cielo grigio non faceva filtrare molta luce. Si era creata così una strana intimità tra il fuori e il dentro del museo, tra il bianco e nero delle foto e il grigio del cielo. Un’intimità che mi ha pervaso e mi ha fatto entrare nelle fotografie, come se le persone ritratte non mi fossero davvero estranee, come fossero il racconto di una realtà parallela ma che mi apparteneva.
Il bianco e nero, il formato quadrato e sintetico liberano le immagini di inutili suppellettili e mettono al centro i protagonisti, favorendo in questo modo un incontro personale ed eterno, diverso per ogni paio di occhi che lì si posano. Ecco come il punto di vista dell’artista costruisce un nuovo modo di approcciare la realtà, soprattutto quella nascosta, che viene così sdoganata, raccontata come qualcosa di contemporaneo, cioè presente nello stesso momento e nello stesso spazio di tutto il resto.
Diverso ma non per questo escludibile dal contesto.

Untitled
L’ultima serie di scatti di Diane, pubblicata postuma con il titolo Untitled, ritrae un gruppo di persone con disabilità che vivono in istituto.
“I giochi, i travestimenti di Halloween delle donne giovani e vecchie, i loro lineamenti toccati dalla malattia, gli abiti, le maschere, prendono in questo contesto particolare il valore di un’ebbra danza funebre, impregnata di una comicità folle, di fronte alla quale ci ritraiamo come di fronte a uno spettacolo troppo autentico, indiscreto. Ci vergogniamo, ma non possiamo vincere l’impulso che ci obbliga a guardare. Lì, Arbus ritrovava una sorta di impossibile innocenza, di oblio del tempo e della morte”.
Mi ritrovo perfettamente nel commento di Stefano Chiodi. Quando ho visto gli scatti alla mostra di Berlino, ho provato anche io un senso di vergogna e, allo stesso tempo, il desiderio di guardare, indagare, conoscere. Per certi versi era come se le persone ritratte fossero spogliate, come se fosse messa a nudo la loro più intima identità. Ciò non risultava volgare, nemmeno offensivo. La fatica richiesta allo spettatore era quella di uscire da uno schema perbenista, superare il pregiudizio e approcciarsi a quelle immagini, belle, come fossero la foto di una classe di bambini felici alla fine della scuola oppure un gruppo di amici al tramonto sulla spiaggia o degli avventurieri nella savana.
Guardare e vedere quelle foto per ciò che erano, il racconto di una realtà contemporanea e viva.
Ovviamente, tale racconto non nega i limiti e le sofferenze, anzi li svela, li mostra semplicemente perché ne fanno parte, e non raccontarli significherebbe celarli quindi mentire. Ciò che succede ormai troppo spesso grazie all’uso di programmi che permettono di ritoccare, cambiare, eliminare, ricreare.

Un’empatia non sentimentale
“Nonostante si voglia continuare a credere, nella migliore tradizione romantica, che Arbus non potrà salvarsi da una partecipazione emotiva, che la consumerà nell’anima, sta di fatto che nel suo lavoro colpisce proprio l’evidente esistenza di ‘un’empatia non sentimentale’: una forma di reciproca accettazione, in virtù della quale la fotografa non mostra compassione per i fotografati, che non la chiedono, perché non esprimono disagio o sofferenza per il proprio esser ‘strani’, quasi lo apparissero solo ai nostri occhi”.
Porre lo sguardo su certe realtà senza compassione è fondamentale.
La compassione, intesa come desiderio di bene per gli esseri viventi, è assolutamente augurabile, ma quando diventa atteggiamento pietistico, non accetta e definisce una distanza di sicurezza oltre la quale diventa difficile andare. Le fotografie dell’artista annullano proprio questa distanza e ci permettono una relazione empatica ma non devota, esageratamente emotiva. Guardando quegli scatti ti sembra veramente di entrare nei loro panni, di sentire il loro stato d’animo, percepisci persino l’allegria o lo smarrimento. Non ti senti uno spettatore distaccato ma non provi nemmeno il desiderio di piagnucolare, come fosse il modo migliore per dimostrare che certe situazioni di vita ti interessano.
Nelle foto, come nella quotidianità di ognuno di noi, l’altro, chiunque esso sia, non è strano perché diverso. Questo senso di estraneità è dato dal nostro sguardo. La diversità, intesa come definizione di vincitori e vinti, di migliori e peggiori, di assistenti e assistiti, è data proprio dal modo in cui noi “guardiamo” l’altro, in cui ci poniamo nella relazione con l’altro.
L’accettazione reciproca, forse anche mediata dalla presenza di una macchina fotografica, che la Arbus definiva con i soggetti che voleva fotografare, ribalta ancora una volta il senso comune.
Non c’è chi deve accettare e chi deve essere accettato. In una relazione che funziona entrambi i protagonisti sono chiamati e autorizzati a fare un piccolo sforzo. Mi vengono allora in mente tante storie di educazione nelle quali insegnanti o educatori o assistenti si arrogano il diritto della fatica dell’accettazione dell’altro/assistito, bambino o anziano o disabile, come fosse un privilegio donato, un’approvazione che viene concessa dall’alto. Mentre l’assistito deve stare zitto, non ha diritto di domandarsi, di capire, di affrontare la fatica dell’accettazione. Uno vale l’altro, comunque, a qualunque condizione.
“Voglio fotografare i rituali degni di nota del nostro presente, dato che tendiamo, vivendo qui e ora, a percepirne solo la parte casuale, arida, informe. E mentre lamentiamo che il presente non somigli al passato e disperiamo che possa mai diventare il futuro, i suoi innumerevoli e imperscrutabili aspetti giacciono in attesa del loro significato”.
Il 26 luglio 1971 Diane Arbus muore.
Si toglie la vita. Troppa depressione, insopportabile compagna di vita.
Ci lascia con una ferita, non poteva farci regalo migliore.
Una ferita come una feritoia, una fessura dalla quale guardare l’interno oltre l’involucro, un invito ad andare oltre, a non accontentarsi dell’apparenza e preferire la sostanza.
Quella che lei ha tentato, ogni volta, di fissare sulla pellicola.

Ognuno è qualcuno

Qualche giorno fa ho chiamato il mio amico Said, per sapere come stava. A causa del terremoto dorme in tenda con la sua famiglia. Chiacchierando mi dice che la sua vita è cambiata dal giorno alla notte, per certi versi anche nel bene. Gli chiedo in che senso. Mi dice che in quel campo, è qualcuno anche lui, come gli altri.
Circa un anno fa, in questa stessa rubrica, scrivevo che “si è sempre meridionali di qualcuno” (cfr. “HP-Accaparlante”, 2 -2011), intendendo con ciò la necessità di ridefinire i confini nazionali, non per disegnare nuove cartine ma per riconoscere che, ormai, le cose sono cambiate e che non ci si può tirar fuori dal gioco della globalizzazione.
Forse pensano lo stesso le tante persone che aderiscono ai gruppi neonazisti nati in Europa e che, ora come ora, godono di un certo successo.
Anche loro pensano che non ci si possa più rifiutare di partecipare a questo processo e scelgono di farlo definendo nuove regole, imponendo un pensiero che non si basa sull’indifferenza ma sul riconoscimento delle diversità. Tale riconoscimento si trasforma nel punto di partenza per stilare classifiche e trasformare le differenze in fattori determinanti per l’acquisizione o meno di diritti. Se sei A vai bene mentre se sei B non vai bene, quindi non ti meriti nemmeno i diritti fondamentali.
Ciò che mi interessa di questo ritorno di fiamma del pensiero che definiamo nazista, non è tanto l’estremismo che, ovviamente, mi preoccupa e sento che dovrebbe farci alzare le antenne, soprattutto nei luoghi educativi dove si vive concretamente la relazione con la diversità e dove si formano le future generazioni. Ciò che mi preoccupa sul serio è la quotidianità, i discorsi e gli atteggiamenti che, persone medie, mettono in atto ogni giorno per strada, nei negozi, mentre guidano, bevono un caffè, prendono un aperitivo. Parole di disprezzo, di paura, di sospetto, di rifiuto, di giudizio, di condanna, di volgarità, di offesa.
Parole, mi direte, solo parole.
Solo parole, giusto, che però, come fossero piccoli colpi di scalpello, costruiscono un pensiero, la concezione dell’altro, il modo di accogliere chi arriva. Piccoli colpi che trovano terreno fertile nella paura, nell’ignoranza, intesa in senso letterale, nella non conoscenza dell’altro e della sua cultura. Paura e ignoranza dalla quale nascono pregiudizi e convinzioni sbagliate.
E piano piano, giorno dopo giorno, sguardo dopo sguardo si costruisce la cultura, con le sue altezze e le sue immaturità, che, allo stesso tempo, influenza e viene influenzata dalle persone che la vivono, che cammina tra i vicoli di città e paesi.
Poi, però, a un certo punto, tutt’un tratto succedono cose che non avresti mai voluto ti succedessero, che ti stravolgono la vita, che cambiano totalmente i parametri di riferimento, i tempi, i ritmi, i luoghi, le relazioni. Con conseguenze terribili e dolorose, tragiche e violente.
A un certo punto, in questa quotidianità, succede un terremoto, non simbolico ma reale, quello che fa tremare la terra, il corpo, l’anima.
Non hai più la casa e, se ce l’hai, non sai più se è sicura, non hai più il tuo bar, il tuo negozio, l’edicola, la chiesa, il vicolo… Insomma non hai più i tuoi confini, quelli che in un qualche modo definivano il territorio emotivo, lo spazio della tua identità.
E ti ritrovi in una tenda, a condividere un tavolo, un bagno, un prato, una paura con altre decine di persone che forse avevi incontrato per strada qualche volta ma che non avevi mai considerato, non per cattiveria ma perché, pensavi, non aveste tanto in comune.
E l’esperienza, assolutamente tragica, diventa l’occasione obbligata per fare i conti con gli altri, quelli che volevate vicini e quelli che tenevate lontani, quelli che parlano il tuo stesso dialetto e quelli che, a stento, parlano l’italiano, quelli che “lui è come un fratello” e quelli che “con lui ho chiuso”. Un’occasione, un’opportunità, non priva di ostacoli, soprattutto legati alla gestione dello spazio, delle consuetudini, del cibo.
Tra quelle tende, però, succede ciò che sarebbe auspicabile succedesse tra le vie di una qualsiasi città. Gli abitanti delle tendopoli, abbassate le difese, riescono a vedere l’altro non per ciò che rappresenta ma per ciò che è, uscendo dallo schema del pregiudizio, conoscendo la persona e non l’immagine che hanno di essa. Si definisce, in questo modo, una nuova geografia, con nuovi confini, nuovi punti cardinali, un nuovo territorio relazionale nel quale si è tutti sulla stessa barca. Nel quale, come dice il mio amico Said, ognuno è qualcuno, con la propria identità, la propria storia, le proprie consuetudini. Ciò che cambia, infatti, non sono tanto le persone, quanto il contesto fisico e relazionale, quello spazio dentro il quale ogni singolo si muove e definisce la relazione con l’altro.
Questa relazione è ciò che chiamiamo inclusione.
Concludendo, il mio non vuole essere l’elogio del terremoto, nemmeno il tentativo di trovare un aspetto positivo in una situazione tragica. Ho solamente trovato interessante l’espressione del mio amico Said il quale, con quelle parole, ha raccontato più di tanti discorsi cattedratici sul tema dell’integrazione.
Salutandomi, Said mi dice che deve andare perché è il suo turno di pulire i bagni. Hanno organizzato i turni a seconda della nazionalità… C’è ancora molto da fare.

Il movimento più grande e naturale

Come nelle rubriche precedenti anche in questa racconterò l’arte attraverso l’esperienza di un artista e racconterò l’artista attraverso il mio personale punto di vista, per come lo conosco attraverso la mia esperienza diretta. Che è allo stesso tempo limitata, personale e, per questo, solo un punto di vista.
Pur essendo nato nel 1606, trecentosettanta anni prima di me, Rembrandt Harmenszoon van Rijn è passato spesso nella mia vita e, quasi come un fratello maggiore, mi ha offerto la sua esperienza, raccontata attraverso le sue opere e il suo viaggio interiore.
Qui parlerò in particolare di due opere, non le più famose, che sono state uno stimolo e uno spunto di riflessione.
Rembrandt nasce a Leida in Olanda, quarto dei sei figli sopravvissuti, con il padre mugnaio e la madre figlia di un fornaio. Non per voler vedere in ogni elemento un punto di contatto ma io sono il quarto figlio di una famiglia di fornai. Comunque, proseguiamo.
La sua città natale diventa un importante centro umanistico, grazie anche alla presenza di un’importante università (ricordo che sono nato e vivo tutt’ora a Bologna!), ciò permetterà al pittore di crescere circondato da un’attività culturale vivace e ricca di stimoli.
Rembrandt andò a bottega da alcuni pittori dell’epoca che lo aiutarono ad apprendere prima il mestiere poi l’arte, caratteristica che gli permetterà, nel 1627, di aprire la sua prima bottega. Da quel momento, con alti e bassi, la sua vita sarà quella di un artigiano/artista, generoso anche nell’accogliere molti giovani allievi, sposo con alterne felicità (perderà la prima moglie molto giovane) e padre poco presente, che vedrà morire il figlio prima di lui.
Una vita in attacco, comunque, la sua, alla ricerca di ciò che lui definisce il movimento più grande e naturale. Non sono in  grado di dire se sia riuscito nel suo intento, fatto sta che spesso, quando guardo le sue opere, ritrovo qualcosa di me, un’emozione, un’espressione, una storia. Ed è questo che mi attrae in generale della pittura e, in particolare, di Rembrandt: la capacità di raccontare storie rendendo partecipe lo spettatore, anche a distanza di centinaia di anni, di aver creato davvero un movimento temporale che, al di là degli anni, coinvolge in modo naturale gli spettatori.

Il ritorno del figliol prodigo
Nel 1966, ormai anziano, Rembrandt dipinge uno dei quadri che più amo per la forza con la quale racconta un evento che è allo stesso biblico e personale. Non solo per ciò che riguarda la vita del pittore ma per l’essere umano in generale.
Ho incontrato questo dipinto mentre scrivevo la mia tesi di laura. Il tema su cui stavo lavorando era il ruolo del maschile in educazione e, in particolare, quello del padre. In quei tempi leggevo moltissimi testi che riguardavano il ruolo paterno sia a livello familiare che, più in generale, a livello sociale. Le regole che storicamente e culturalmente hanno definito i confini e la presenza del padre all’interno dei percorsi di crescita dei figli, come procacciatore di cibo prima e di denaro poi, le sue assenze e, ultimamente, la crisi di tale ruolo e la ridefinizione di una presenza alternativa e non emulativa di quella materna.
Il quadro di Rembrandt mi si presentò come la sintesi perfetta tra le tante parole che stavo leggendo in quei tempi e l’esperienza concreta di tanti padri alle prese con un ruolo difficile da decifrare; come se raccogliesse in quelle pennellate un aspetto che spesso rimane nascosto, quando si pensa al compito paterno. Quando dipinge quel quadro, Rembrandt aveva probabilmente forti problemi di vista e, come il figliol prodigo, necessitava di un abbraccio paterno che lo perdonasse, non tanto perché avesse dei peccati da espiare, bensì perché quell’abbraccio rappresenta l’ultimo atto di un percorso di accettazione personale che vede rappresentato il pittore sia nel padre che abbraccia che nel figlio che viene abbracciato ma anche, in parte, nel figlio maggiore che osserva addolorato tale scena.
Ecco allora che il racconto biblico diventa metafora di quello personale di Rembrandt e, di conseguenza, del percorso che riguarda ogni essere umano e, in particolare, quello di ogni padre: la definizione del proprio ruolo si realizza nell’incontro tra il figlio, che rappresenta il nostro passato e il padre, che invece rappresenta il nuovo percorso che siamo chiamati a intraprendere. Ruolo paterno che, come se si trattasse di un cerchio, nasce e si completa in quell’abbraccio che pacifica e ridefinisce, che finalmente rende liberi di agire senza il condizionamento del proprio passato.
Interessanti sono anche i molti particolari del dipinto che hanno attirato l’attenzione dei critici ma anche di psicologi che hanno dato una lettura più esistenzialista.
Le due mani del padre, una femminile e una maschile, a rappresentare quanto il ruolo paterno non si definisca in opposizione ad atteggiamenti femminili; la cecità del padre consumata per aver guardato incessantemente l’orizzonte, fiducia, quindi, nel ritorno del figlio; il colore che ammanta il dipinto che racconta la gioia e il dolore, una varietà di emozioni che coinvolgono tutti i personaggi presenti. Tanti particolari che esplicitano la complessità ma anche la ricchezza del rapporto con la paternità. Quello di Rembrandt ma anche il mio e, forse, anche il vostro.

Autoritratto – 1630
Sorpreso, della sorpresa che ti prende quando vedi qualcosa di strano, che forse fa anche un po’ paura.
Capelli scompigliati, bocca arricciata, occhi tondi e piccoli.
La prima volta che ho visto l’autoritratto che Rembrandt ha realizzato nel 1630, ho pensato: “Ma quello sono io?”. Ho percepito una certa somiglianza con l’artista non solo e non tanto per ciò che ci accomuna a livello estetico (anche io ho spesso i capelli scompigliati, ho gli occhi piccoli, arriccio la bocca…), bensì perché, ancora una volta, il pittore entrava nella mia vita, seppur casualmente, con un profondo significato.
Per Rembrandt l’autoritratto non è solo un esercizio di stile, ne realizzerà, infatti, più di settanta nella sua vita. Sono il segno di come amasse giocare con diversi ruoli, proponendosi di volta in volta come soldato, mendicante, borghese; tanti ruoli, però, che raccontano anche la complessità di una vita interiore che, seppur soddisfatta per ciò che lo circonda, pone il proprio sguardo verso diversi orizzonti, desiderati o sognati. Anche in questo caso, la grandezza dell’artista sta nello svelare qualcosa di comune a tutti, semplice per certi versi, ma che acquista sostanza e significato proprio nel momento in cui ne diventiamo coscienti. Il tema dell’autoritratto, inteso come ricerca e costruzione della propria identità, mi appartiene e mi interessa sia livello personale che in quanto educatore che lavora con persone, bambini o disabili adulti.
Autoritrarsi, in fondo, significa mettersi in contatto con se stessi, guardarsi da un punto di vista differente, dall’esterno, tentando di vedere ciò che vedono gli altri, ri-conoscersi, quindi, scoprendo qualcosa di sconosciuto; è un incontro, in fondo, l’occasione per definire i confini del proprio viso, della propria pelle, i  nostri limiti epidermici e sentirli non come un ostacolo ma come un contenitore, il continuo punto di partenza tra il dentro e il fuori e tra noi e il mondo esterno; è rendere concreto ciò che facciamo in modo troppo scontato, cioè dirci chi siamo per poter continuare a diventare noi stessi.

Chi è Rembrandt, quindi?
Quale autoritratto lo rappresenta di più?
Quale ruolo esprimeva al meglio la sua vera identità?
Difficile dirlo e, personalmente, poco interessante.
Perché ciò che mi colpisce e, quindi, ciò che diventa utile alla mia esperienza, non è tanto il bisogno di una verità storica ma ciò che l’artista definisce come “il movimento più grande e naturale”, l’essenza tradotta in arte che anche oggi ammiriamo, sentiamo e che, in un qualche modo, si mescola alle nostre cellule e ci forma. Per cui mi chiedo: chi sono io? Qual è la mia immagine? Il ruolo che più mi rappresenta?

Accessibilità culturale

Di fronte alla mancanza di risorse, alla crisi che toglie ossigeno, alla speranza è possibile mettere in campo due atteggiamenti diversi, non alternativi ma spesso complementari.
Da una parte potremmo recriminare che, proprio perché mancano risorse e sostanze, possiamo semplicemente adattarci alla situazione, fare ciò che si riesce, agire dentro i confini dettati dalle mancanze e, quindi, ridurre al minimo le azioni.
Dall’altra parte, si potrebbe fare ricorso a risorse alle quali non avevamo pensato, provare creativamente a immaginare soluzioni sperimentali, mettersi insieme e trovare percorsi condivisi e, quindi, instaurare relazioni.
Con lo spirito evidenziato da questa seconda alternativa la Cooperativa Accaparlante e l’Associazione CDH lavorano da molti anni sul territorio bolognese e non solo, tentando di provocare un cambiamento culturale rispetto al tema della valorizzazione delle diversità. Anche nell’anno passato abbiamo cercato di costruire una rete di persone e realtà diverse tra loro, con l’obiettivo di lavorare insieme attorno al tema dell’accessibilità culturale.
Con questa definizione si intende la possibilità per tutti di godere appieno delle proposte culturali e di svago del territorio; la possibilità di farlo come spettatori attivi che non si preoccupano solo di riempire il tempo libero con attività più o meno piacevoli ma si occupano di costruirsi un ruolo culturale attivo. Accessibilità intesa non solo come mancanza di barriere architettoniche che consentano di entrare senza impedimenti o di usufruire di un bagno in maniera agevole, ma soprattutto come diritto di entrare in relazione con un ambiente accogliente che non percepisca la disabilità e, più in generale la diversità, come un ostacolo insormontabile ma che possegga gli strumenti per superare imbarazzo e disagio trasformando l’incontro con l’altro in una risorsa per tutti; accessibilità non come recriminazione di qualcosa che non c’è ma come assunzione di responsabilità per rispondere a un desiderio di partecipazione che ci accomuna e ci permette, non tanto di parlare di disabilità o di diversità, ma di provare a guardare ciò che ci circonda da un diverso punto di vista.
Accessibilità culturale come cultura dell’accessibilità che possa trovare terreno fertile nelle diverse realtà che compongono la società e mettere radici, non solo in eventi straordinari, ma tra le pieghe della quotidianità. 

Intorno a un tavolo rettangolare
Sabato 2 giugno, festa della Repubblica ma anche festa della Cooperativa Accaparlante, ci siamo ritrovati attorno a un tavolo rettangolare insieme agli amici con i quali, in modo più concreto, abbiamo condiviso proposte relative al tema dell’accessibilità culturale, per raccontarci le diverse esperienze, mettere insieme idee e emozioni e progettare lavori futuri.
Ho voluto sottolineare che il tavolo era rettangolare perché ciò racconta bene la nostra idea di relazione. Un tavolo come quello, infatti, al contrario di una tavola rotonda, non determina uguaglianza e parità a partire dalla forma, ma la parità e l’uguaglianza si definiscono a partire dalla diversità dei ruoli e dall’adattamento di ogni partecipante. I posti sono tutti diversi, offrono visuali differenti e, a volte, ti ritrovi sullo spigolo, scomodo forse, ma punto di incontro di due linee, di due pensieri, di due opinioni. Un tavolo rettangolare non nasconde le diversità bensì le integra e riporta la responsabilità di tale integrazione alle persone che siedono attorno a esso.
Come fossimo intorno al quel tavolo, proviamo a sintetizzare le esperienze realizzate e i progetti che ci piacerebbe costruire in futuro.
Con il Museo civico archeologico di Bologna abbiamo proposto alcuni incontri all’interno delle iniziative “Se lo conosci lo frequenti”, una serie di incontri realizzati dal museo in collaborazione con realtà del territorio volte a far diventare il museo patrimonio di tutti, cominciando a costruire percorsi di cittadinanza attiva attraverso l’uso consapevole del patrimonio culturale e della memoria civica. In particolare, insieme, abbiamo proposto due incontri che, partendo dalle figure rappresentate sui vasi della collezione attica, hanno condotto i partecipanti alla scoperta dell’altro. Chi è il diverso in fondo? È la donna, è il giovane, è il vecchio, è la persona con disabilità, è lo straniero o è semplicemente chi è diverso da noi? Un’interazione interessante che ha permesso ai visitatori di godere della proposta culturale tipica del museo, arricchita dalla presenza degli animatori, anche con disabilità, del gruppo Calamaio che hanno offerto il personale punto di vista sul tema dell’incontro.
Abbiamo conosciuto le operatrici del dipartimento educativo del MAMbo (www.mambo-bologna.org) l’estate scorsa, un po’ per caso. Il primo passo della collaborazione ci ha visto insieme nella realizzazione di alcuni incontri di formazione reciproca che ci hanno permesso di conoscerci e di definire un percorso laboratoriale comune che avesse al centro il tema dell’identità e della relazione con l’altro, sempre prendendo spunto dalle opere d’arte presenti nel museo. Nel corso dell’anno abbiamo, quindi, incontrato al museo quattro classi in percorsi di quattro incontri che hanno affrontato il tema della diversità partendo dall’autoritratto, attraverso il valore del contesto fino a un “passaggio obbligato” che ha portato tutti a confrontarsi, anche fisicamente, con l’altro.
La Quinta Parete, invece, è una redazione mista, composta dagli animatori disabili e dagli educatori del gruppo Calamaio, che si è confrontata criticamente sui temi e le suggestioni offerte dalla visione di alcuni spettacoli ospitati dal Teatro ITC di San Lazzaro e dal Teatro Testoni di Casalecchio di Reno. Un vero e proprio lavoro di redazione, coadiuvati dall’intervento di critici teatrali e dall’incontro con gli artisti stessi. Persone con disabilità, spettatori critici che hanno tentato di lasciare una traccia del proprio passaggio non sopra ma sotto il palco.

Azioni e relazioni
Le tre esperienze raccontate convergono, non solo intorno al tema dell’accessibilità culturale ma, soprattutto, danno risposta al desiderio di fare insieme, di costruire relazioni, di intrecciare reti che siano, oltremodo, un messaggio chiaro di cosa si intende quando si parla di integrazione. Un’integrazione che chiede di mettere in comune le esperienze per perseguire obiettivi comuni, per raggiungere i quali ognuno può fare la propria specifica parte non in modo esclusivo ma lasciandosi contaminare dalle esperienze altre. Azioni e relazioni che si intrecciano per tentare di diminuire la distanza tra le parole e i fatti o meglio per far sì che le parole che indirizzano il nostro agire si trasformino sempre più spesso in fatti concreti che modificano il nostro fare.
Ripartire, quindi, dalle relazioni che danno poi forma alle azioni.
Relazioni, non solo tra persone, ma anche tra contesti, tra storie, tra esperienze figlie dello stesso territorio.
Relazioni che pongono il loro orizzonte sempre un po’ più avanti, per fare in modo che il presente non diventi il luogo comodo in cui riposarsi ed elogiare il lavoro svolto ma il punto di partenza per nuove sfide, nuove domande da cui partire per trovare risposte efficaci.
I progetti per il prossimo anno sono tanti e riguardano sia il poter dare continuità a ciò che si è realizzato nell’anno appena passato sia nuove proposte che possano soddisfare le nuove esigenze emerse.
Nuovi incontri, quindi, per le scuole del territorio soprattutto in collaborazione con il dipartimento educativo del MAMbo con il quale continuerà il percorso “Insieme ad arte. Un percorso educativo per l’integrazione” ma anche con il Museo civico archeologico con il quale coinvolgere anche un pubblico più adulto, sempre alla scoperta dell’altro.
Continuerà anche l’attività di La Quinta Parete che allargherà i suoi orizzonti, coinvolgendo e formando altri spettatori che lasceranno le loro tracce nel blog.
E poi molto altro, idee concrete ma anche molti desideri che curiamo con attenzione.
Se ne avete qualcuno anche voi, venite a trovarci attorno al nostro tavolo rettangolare.

Keith Haring (non) ha il senso del limite

“Il mio disinteresse verso i prodotti finiti e  le ‘affermazioni definitive’ illustra quest’idea”.
(K. Haring, Diari, Milano, Piccola Biblioteca Oscar Mondadori 2010, p. 39)

Il perimetro
“Sto sperimentando fisicamente il perimetro di un certo spazio. Dopo che ho segnato un certo spazio e creato un bordo, o dei confini, sono fisicamente consapevole dei miei limiti. Ho creato i miei confini e il mio spazio. Poi inizio a lavorare da una certa area e ci costruisco sopra finché ho riempito o preso in considerazione tutto lo spazio precedentemente delineato”.
(K. Haring, Diari, Milano, Piccola Biblioteca Oscar Mondadori 2010, p. 37)

Niente, come il concetto di limite, può descrivere meglio l’arte di Keith Haring.
Limite come spazio circoscritto, come contenitore, come opportunità.
A partire dalle esperienze artistiche che vedono Haring riempire di disegni le metropolitane newyorchesi.
“Non ricordo come ho iniziato a fare disegni nella metropolitana. Ricordo quando ho iniziato, ma non il perché. Ricordo solo un pannello perfettamente vuoto che sembrava il posto ideale per realizzare un disegno così ho comprato un gessetto e mi sono messo a disegnare”.
(Christina Clausen, L’universo di Keith Haring, documentario, Italia, Francia 2007)

Quasi come se l’atto fosse più importante del contenuto, un’energia incontenibile lo spingeva a riempire quegli spazi vuoti con segni semplici ma che catturavano l’attenzione dei passanti.
Nel pubblico e nella verifica immediata del valore del suo lavoro si trova una delle motivazioni che lo muovono a continuare nonostante il rischio di venire arrestato o multato.
Le persone che incontrava per strada o in metropolitana, in fondo, difficilmente entravano in un museo, in questo modo Haring riusciva a portare il museo da loro, allargando il limite della fruizione artistica.
Alle persone che gli chiedevano perché lo facesse rispondeva che non era per soldi bensì perché tutti potessero goderne.
Quel disegno, in fondo, riempiva un vuoto, fisico e culturale.

Il rapporto con il pubblico rimase sempre l’orizzonte della sua arte.
“Definire la mia arte equivale a distruggerne lo scopo. L’unica definizione legittima è la ‘definizione individuale’, l’interpretazione individuale, un’unica risposta personale che può solo essere considerata in quanto opinione. Nessuno sa qual è il significato definitivo della mia arte perché non c’è”.
(K. Haring, Diari, Milano, Piccola Biblioteca Oscar Mondadori 2010, p. 36)

Le opere di Haring si possono coniugare solo alla prima persona singolare.
Parlano un linguaggio universale, comprensibile a tutti però in modo assolutamente personale, soprattutto perché, come dice lui, la sua arte non ha significato se non quello che ognuno di noi gli attribuisce.
Attraverso le sensazioni provate, l’identificazione o il rifiuto dei modelli proposti e per ciò che producono negli spettatori che le guardano.

“I miei dipinti, di per sé, non sono importanti come l’interazione tra le persone che li vedono e le idee che portano con sé quando non sono più in presenza del mio lavoro – i pensieri e le emozioni che ho provocato in loro come risultato del loro contatto coi miei pensieri ed emozioni visti attraverso la realtà fisica di immagini/oggetti”.
(K. Haring, Diari, Milano, Piccola Biblioteca Oscar Mondadori 2010, p. 39)

Rischiando a modo suo
L’evoluzione artistica di Keith Haring è descritta, involontariamente, nei diari nei quali raccoglie pensieri e riflessioni. È tra quelle parole che l’ho incontrato e conosciuto, che ho cominciato ad amare il suo modo di essere artista, i suoi dubbi e le sue affermazioni, è lì che ho seguito, con interesse da esploratore, il tema del limite come filo conduttore della sua vita.
Prova ne è anche ciò che scrive nel 1977 e che apre la collezione dei suoi diari.
Dopo aver scorrazzato in autostop per tutta l’America, torna a Pittsburgh e si iscrive all’università per poi, poco dopo, trasferirsi a New York.
Scrive, il 29 aprile 1977:
“Questo è un momento triste… è triste perché sono di nuovo confuso, o forse dovrei dire ‘ancora’? Non so quello che voglio né come ottenerlo. Mi comporto come se sapessi quello che voglio e sembra che mi stia muovendo rapidamente in direzione della meta, ma quando arrivo al punto non so neppure cosa sia. Credo che dipenda dalla paura. Ho paura di sbagliare. E credo di aver paura di sbagliare perché mi confronto continuamente con gli altri, con le altre esperienze, con altre idee. Invece dovrei guardare a tutte queste cose in prospettiva, senza far paragoni. Continuo a mettere la mia vita a confronto con un’idea o un modello di vita completamente diverso. Invece dovrei fare affidamento alla mia vita soltanto, perché ogni esistenza ha aspetti positivi e negativi. Ognuna è autonoma, l’unico merito di chi si è guadagnato la mia ammirazione o ha suscitato in me il desiderio di imitarlo è stato quello di avere corso un rischio, rischiando a modo suo. È cresciuto attraverso diverse situazioni e ha toccato picchi di felicità e infelicità. Se cerco continuamente di modellare la mia vita su quello di qualcun altro, finisco per sprecarla riproducendo le cose per puro e vacuo spirito di accettazione. Ma se vivo la vita a modo mio e faccio in modo che gli altri [artisti] mi influenzino solo come riferimenti esterni o come punti di partenza, posso costruire una consapevolezza ancora maggiore invece di restarmene qui inattivo”.
(K. Haring, Diari, Milano, Piccola Biblioteca Oscar Mondadori 2010, p. 3)

Il rischio, come limite da affrontare, sul quale correre per superarlo e dimostrare la propria unicità, facendosi influenzare senza copiare. Le forti amicizie che Haring ha instaurato con Andy Warhol, Basquiat e molti altri artisti della scena underground newyorchese, pittori o graffitari, musicisti o breaker, insomma chiunque potesse fornirgli uno stimolo creativo sono il segno di una continua ricerca di relazione e difesa dell’autonomia, di dipendenza ma anche di un forte bisogno di libertà. Sensazioni contradittorie dell’uomo Haring, che rappresentano la colonna vertebrale, l’ossatura sulla quale si costruisce l’Haring artista.

Lo “Sperma demonio”

L’AIDS colpì anche lui.
Negli anni ’80 tutti avevano a che fare con la “malattia del sesso”, direttamente o indirettamente.
Keith Haring era figlio legittimo di quegli anni e non si era mai risparmiato, tantomeno nel rapporto con le droghe e una certa libertà sessuale.
Finì per avere un confronto diretto con il vero limite che ognuno di noi deve affrontare, la morte.
Fin dalla nascita tutti noi sappiamo che prima o poi moriremo, però è come se ne diventassimo realmente consapevoli solo nel momento in cui leggiamo la data di scadenza.
È per questo che gli ultimi lavori dell’artista si pongono l’obiettivo di informare rispetto al tema della malattia. Terrore, paura, rischio, “non può più esistere il sesso anonimo” dice.
Sintesi di una vita, questo periodo esplicita la caratteristica che più mi affascina di Haring, la sua generosità, il suo essere tutto, per tutti. Generoso nel regalare disegni, nel donare il suo tempo, nel pensare all’altro, pubblico o individuo. Generoso nel non chiudersi nel suo limite ma nel renderlo sempre più ampio e accogliente.

“Dopo averci scioccato per salvarci, Haring combatte la depressione con un lavoro forte e commovente… sfida il terrore. Ci mostra che la continuità va cercata nello spirito della sua arte e non nel suo corpo destinato a morire”.
(Keith Haring, Diari, Milano, Piccola Biblioteca Oscar Mondadori 2010, p. XXV)

Generoso anche nei doni che ci fa.
Non lui al centro bensì la sua arte, le sue opere, le sue idee, le sue intuizioni.
E un pensiero lungo e largo, che parte da ieri e arriva a domani, che si occupa dell’altro e che rende eterna, illimitata, la sua vita.

“Giunto a questo punto, c’è qualcosa che avresti voluto fare e non hai fatto?
Sì: dei disegni sulla sabbia. Disegni nel deserto. Disegni come quelli nelle Ande. Li saprei fare bene. E un parco per bambini… Ho dato vita a una fondazione che avrà abbastanza denaro per costruirlo. È un dono che voglio fare a tutti i bambini di New York”.
(Keith Haring, L’ultima intervista, Milano, Abscondita, 2010, p. 84)

Un conto è amare un artista e scrivere di lui.
Un altro è scrivere di lui e, per questo innamorartene.

Bambini di farina

Provate a pensare cosa succederebbe se il sud del mondo, invece di essere raggiunto dopo ore di volo e migliaia di chilometri alle spalle, ti piombasse in casa con le proprie valigie piene di sapori, odori e colori così diversi dai nostri?
Come vi sentireste, che reazioni avreste?
Mentre ci pensate mi prendo l’onere di dirvi che ciò è già successo.
E probabilmente molti di voi lo sanno già.
Basta guardarsi un po’ in giro, mentre si cammina per strada o si fa la spesa al supermercato, mentre si accompagna il proprio figlio a scuola o se viaggiamo in treno, al pronto soccorso come durante una scampagnata d’estate al parco vicino a casa.
Il sud non è più a sud.
Parte da questa considerazione l’idea di metterci alla prova e scoprire quali tipi di reazioni provoca tale esperienza, quali sentimenti e sensazioni suscita l’incontro diretto con persone e sapori del sud del mondo.
Ecco allora il progetto “Bambini di Farina” che si pone l’obiettivo di creare opportunità di comunicazione e reciproca conoscenza tra cittadini stranieri e italiani, in particolare i bambini, valorizzando le differenze culturali.
Nel concreto ciò che abbiamo realizzato è stato un laboratorio del pane condotto da animatrici straniere e animatori disabili della Cooperativa sociale Accaparlante, in tre scuole del territorio provinciale di Bologna.
Forte dell’esperienza ventennale, questo modello laboratoriale del “comprendo meglio facendo” ha favorito la realizzazione degli obiettivi del progetto attraverso il coinvolgimento della comunità locale e la valorizzazione delle rispettive risorse e diversità. L’esperienza concreta e sensoriale del “fare insieme tanti tipi di pane differenti” ha creato le condizioni per un incontro personale e diretto con la diversità, in modo piacevole e divertente, garantendo una conoscenza “dell’altro” libera da pregiudizi e paure e la costruzione di una nuova relazione integrata e inclusiva.
Valorizzare le differenze culturali come opportunità di momenti di contatto sensoriale con l’altro, inteso “l’altro” sia come persona che come cultura, ha prodotto effetti anche inattesi.
Proprio come in un viaggio, ognuno è partito con la propria valigia piena di se stesso: la propria cultura, i propri gusti e desideri, le proprie paure e difficoltà. Nei due incontri che abbiamo realizzato, le valigie sono state aperte e abbiamo messo in comune i diversi bagagli che hanno suscitato, indubbiamente, molta curiosità.
Molte, infatti, sono state le domande dei bambini coinvolti, interessati a capire e ad approfondire meglio una nuova cultura.
Abbiamo scritto le ricette del pane alla lavagna traducendo gli ingredienti in arabo ma anche in altre lingue rappresentate in classe, abbiamo visto come la farina insieme all’acqua, impastata in un modo particolare, si trasformi in pasta che poi, una volta cotta in padella diventa Msemmen, il pane che nella cultura araba viene offerto agli ospiti e che noi abbiamo mangiato con nutella o miele.
Lascio proprio ai bambini della classe 4° di Monteveglio (BO) il compito di raccontare quando avvenuto.

Sofia: A me è piaciuto molto perché impariamo delle culture nuove e il Marocco non l’ho mai visto.
Massi: È stato bello perché ho imparato un po’ l’arabo.
David: È stato bellissimo perché ho conosciuto persone nuove e mi sembra che le lingue un po’ si assomigliano e mi è piaciuto molto.
Mihaela. Mi è piaciuto imparare a pronunciare un po’ le parole arabe.
Gaia: Mi sono divertita per le parole nuove di un altro paese e perché c’erano i nostri compagni che parlavano nelle loro lingue.
Alice: Mi piace perché ci insegneranno a fare un pane che non conosciamo.
Giorgia: Mi è piaciuto perché le due signore hanno scritto nella loro lingua e perché Stefania e Lorella parlavano nel loro modo e noi abbiamo imparato a capirle.
Angelica: Mi è piaciuto perché ho imparato la parola Msemmen.
Manuel: Questo laboratorio mi è piaciuto perché ho visto le parole nuove e anche come si scrivevano.
Martina: Mi è piaciuto perché ho anche imparato delle cose nuove sui miei compagni.
Francesca: Mi è piaciuto perché ho sia imparato qualcosa sui miei compagni che delle cose nuove.
Diana: Mi è piaciuto conoscere delle persone nuove e mi è piaciuto quando Stefania faceva la radio e noi dovevamo capirla.

L’esperienza ha toccato molto i partecipanti, bambini e adulti, soprattutto perché non ci si è limitati a parlare ma si è anche fatto.
La presenza di animatori con disabilità del Progetto Calamaio ha, poi, permesso di allargare la riflessione sulla diversità, non solo a quella culturale, e di capire che in fondo siamo tutti uguali e diversi e che, come il pane, pur essendo fatto con gli stessi ingredienti ha forme diverse, così anche noi, creati con gli stessi ingredienti portiamo identità differenti.
Ancora dalla voce dei bambini, sentiamo di cosa si è “parlato” al laboratorio.

Angelica: Del pane Msemmen e per conoscerci.
Martha: Serviva a far capire che non tutte le persone sono uguali.
Sofia: Abbiamo imparato a conoscerci di più e abbiamo capito che per fare questo pane abbiamo mille difficoltà e che Stefania ne ha una in più.
Mihaela: Ci hanno insegnato che tutti abbiamo bisogno di qualcuno, ad esempio che chi è in carrozzina ha bisogno di qualcuno che lo spinga.
Irene: Abbiamo imparato gli ingredienti in arabo del Msemmem.
Jacopo: Ognuno sa fare cose diverse, non tutti siamo uguali e che ci vuole sempre l’aiuto degli altri per fare le cose.
Giorgia: Io non sarei riuscita a fare il Msemmen da sola, anche a casa ci ho dovuto pensare per rifarlo.
Michele: Nessuno nel mondo è normale, per chi viene dal Marocco noi forse non siamo normali perché non abbiamo il velo in testa. Quindi la normalità non esiste.
Martina: Se uno non sa fare una cosa e l’altro sì, questo lo può aiutare e viceversa.
Diana: Per saper fare le cose non serve solo sapere gli ingredienti, ma serve anche ascoltare e le cose fatte bene sono quelle fatte con il cuore.
Giulia: Ho imparato che noi non siamo tutti uguali e che noi siamo dei tipi di pane, ad esempio c’è il Msemmen e il pane che c’è in Italia. Io sarei un pane salato.
Francesca: Questo laboratorio parlava della diversità di tutti ed è meglio non essere tutti uguali perché ognuno sa fare una cosa meglio e può aiutare un altro che non lo sa.
Manuel: La mia “macchia” di inchiostro è stata quella di aver conosciuto queste persone.
David: Se fossimo tutti uguali nessuno imparerebbe niente. La cosa più bella di questo laboratorio è stato che ci sono state Lorella, Stefania e le signore del Marocco.

Un progetto semplice e nutriente, proprio come il pane di cui si è parlato e che i partecipanti hanno mangiato. Un’esperienza di per sé semplice e immediata ma che, forse proprio per questo, ha coinvolto attivamente i partecipanti che sono riusciti, in breve tempo, a conoscere qualcosa di diverso ma anche molto vicino, ormai.
Per molti bambini il sud del mondo è seduto in un banco della loro classe, gioca a calcio nello stesso giardino, si diverte alle stesse feste di compleanno e desidera ricevere lo stesso regalo.
Probabilmente seduto alla propria tavola mangia cibi diversi e questa è la ricchezza che i bambini che hanno partecipato al progetto hanno conosciuto e apprezzato.
Perché, nonostante le distanze siano diminuite, è ancora necessario fare un po’ di strada per riuscire a conoscere i sapori, gli odori e i colori del sud del mondo.
Quindi, buon viaggio!

Il modello calamaio

Negli ultimi anni il Progetto Calamaio ha tentato di declinare la propria azione educativa mettendosi in gioco in contesti differenti da quello più classico della scuola.
Il desiderio è, da una parte, quello di ampliare il campo di azione, dall’altra quello di tentare di condividere con altri gruppi la metodologia propria del nostro gruppo di lavoro, composto da persone disabili e non, che sceglie un’organizzare secondo una logica orizzontale che pone tutti sullo stesso piano, con ruoli diverse ma identiche responsabilità. Al contrario, spesso si finisce per scegliere un’organizzazione verticale nella quale si definiscono ruoli di gestione e altri subordinati, impegnati solo nel mero agire.
Forse perché il Progetto Calamaio nasce ed è cresciuto grazie all’idea di un gruppo di persone con disabilità di proporsi come cittadini attivi, pronti a rispondere alle istanze della società e, quindi, non restare solo oggetti assistenziali, pronti a ricevere e porre quesiti.
Forse perché il contesto creatosi nel tempo ha sempre privilegiato la relazione rispetto all’azione, consentendo quindi un confronto continuo e garantendo la messa in discussione di certezze e ruoli preconfezionati.
Forse perché gli educatori che, nel tempo, si sono alternati all’interno del gruppo hanno accettato la sfida di superare una certa idea di ruolo educativo che li poneva al di sopra della relazione e hanno scelto un modello che permettesse una co-conduzione della dinamica lavorativa.
Forse per queste e molte altre ragioni, il Progetto Calamaio si è costruito, nel tempo, un modello di azione e organizzazione differente, che si pone l’obiettivo di portare ogni membro a costruirsi una propria professionalità animativa ed educativa, capace di rendere attivo il proprio ruolo all’interno della società, intendendo con questa la famiglia, la scuola, il tempo libero e il mondo lavorativo in genere.

Il ruolo sociale attivo
Per una persona normodotata è chiaro cosa significhi avere un ruolo sociale attivo, come esercitare i propri diritti e come rispondere ai propri doveri, sia sulla carta che nella realtà quotidiana.
Per una persona con disabilità il rischio che i diritti e i doveri rimangano solo belle parole, è molto alto, non solo per impedimenti dovuti a carenze legislative o handicap diffusi, ma anche per un atteggiamento proprio della disabilità: la pretesa di risoluzioni al posto di un impegno in prima persona.
Lo so, sto generalizzando e il discorso è ben più complesso, ciò non toglie però che per poter esercitare un ruolo sociale attivo è necessario che, per prima, la persona con disabilità entri in campo e si impegni, secondo la pedagogia, delineata dallo studioso brasiliano Paolo Freire, dell’oppresso che educa l’oppressore, dell’assunzione, cioè, di chi vive una situazione di svantaggio della responsabilità di proporre modelli e soluzioni alternative a quelle comuni.
Come dice Tatiana Vitali, un’animatrice del Progetto Calamaio: “È indispensabile, però, che siano le stesse persone disabili, uomini e donne, a darsi da fare allo scopo di contribuire alla modificazione di certi modi di pensare, perché dobbiamo essere noi stessi gli artefici di questo mutamento. La maggior parte delle volte, infatti, ci aspettiamo che siano gli altri gli autori dei miglioramenti della nostra vita mentre siamo proprio noi che dobbiamo assumerci in prima persona le nostre responsabilità”.

Metodo calamaio
Quello che a noi piace definire modello è innanzitutto un’esperienza maturata grazie a continue prove e confronti con persone, esperienze e esperti; un’esperienza che ci porta oggi a tentare di strutturare una modalità operativa che, oltre a essere replicabile, possa favorire quel cambiamento culturale che a noi sta tanto a cuore.
Ci sono alcuni elementi che costituiscono le fondamenta del modello.

L’accoglienza, come conoscenza del gruppo e di se stessi.
Il primo passo, fondamentale per la costruzione del gruppo, è la conoscenza che crea un clima di benessere relazionale, che consente a ognuno di sentirsi accolto e a proprio agio e di mostrarsi per quello che è e che sente, senza giudizi o imposizioni.
Un’accoglienza fatta in cerchio che permetta a tutti di guardarsi negli occhi, di esprimere il proprio pensiero, di mettersi in gioco e, allo stesso tempo, di ricevere, come si fosse davanti a uno specchio, la propria immagine attraverso il punto di vista dell’altro.

L’accoglienza porta necessariamente a un confronto diretto con il gruppo di lavoro, composto da persone con disabilità e non.
Un confronto che ti offre l’opportunità di conoscere la storia che ha permesso la formazione del gruppo stesso, gli strumenti e le metodologie che vengono messe in atto per realizzare le animazioni educative, le dinamiche quotidiane che creano momenti di confronto e di crescita comune.
Un incontro che a volte è scontro con un modo di pensare la disabilità piuttosto alternativo e che mette in crisi, che destabilizza quel tanto per poter ritrovare un nuovo equilibrio.
Da questo confronto con il gruppo nasce, ovviamente, l’incontro diretto con la disabilità, sia la propria, se parliamo della persona con disabilità, sia quella dei colleghi, se parliamo dell’educatore normodotato.
Il fatto che tutti i protagonisti del gruppo siano chiamati a confrontarsi con la disabilità, anche se in modo diverso, è un passaggio fondamentale del modello calamaio, che comporta un cambiamento culturale innanzitutto nei componenti del gruppo, secondo una logica di consapevolezza e, successivamente, di accettazione.
La consapevolezza è un obiettivo personale, che il gruppo può appoggiare e favorire, ma necessita di un percorso tutto proprio.
Per la persona con disabilità consapevolezza significa incontro/scontro con ciò che è; vuol dire “fare i conti con” e “prendere le misure”, entrare in relazione con una parte di sé che, da una parte è estremamente speciale ma dall’altra è banale come lo sono i capelli o le unghie.
Per l’educatore normodotato consapevolezza significa liberazione dal sentirsi arrivato, dal pensare di avere tutte le risposte e da un ragionare fatto di stereotipi e preconcetti. Anche per lui è necessario un cambiamento di prospettiva e un nuovo modo di relazionarsi con la disabilità, non più intesa come “problema” dell’altro ma come strumento per il sovvertimento dei preconcetti e fondamento per una nuova cultura dell’integrazione.
Per agevolare questo processo di consapevolezza il primo strumento è il confronto con persone che il percorso lo hanno già completato, attraverso il dialogo e la condivisione di attività, di spazi non strutturati e di domande senza pregiudizi: ovviamente nel rispetto dei tempi di elaborazione necessari a ognuno per affrontare la disabilità.
Successiva alla consapevolezza è l’accettazione, passaggio fondamentale che permette alla persona con disabilità di rendere la disabilità una risorsa e non più un handicap.
Solo a questo punto si può lavorare sulla valorizzazione delle abilità esistenti e sull’acquisizione di nuove. Le abilità, in una persona con disabilità, rimangono spesso nascoste o poco valorizzate e, troppo spesso la persona con disabilità, si presenta, come ama dire Claudio Imprudente, con un biglietto da visita perdente.
Valorizzare le abilità non serve per negare la disabilità, anzi è proprio nel momento in cui ci scopriamo anche abili che accettiamo definitivamente la disabilità.
Questo processo di valorizzazione, infine, permette di raggiungere un alto livello di professionalità, cioè la possibilità di esplicitare il proprio ruolo sociale e, attivamente, godere dei diritti e rispondere ai propri doveri.
Attenzione, però, a non confondere professionalità con produttività, possono coincidere ma sono anche piuttosto diverse: la professionalità ha a che fare con la relazione che, agite in ogni ambito di vita rendono sociale il ruolo, mentre la produttività ha a che fare con le azioni, necessarie, invece, per rendere attivo il ruolo.
In conclusione è opportuno dire che il modello calamaio riuscirà nella misura in cui si realizzerà in gruppo, secondo una logica di corresponsabilità. Non è pensabile, infatti, un gruppo nel quale c’è chi ha responsabilità e chi subisce le scelte oppure dove c’è chi deve cambiare punti di vista e chi, invece, funge da modello. L’organizzazione è orizzontale, secondo una logica di stessa responsabilità con ruoli diversi.

Profili di donna

Donna, una parola che indica qualcosa di molto preciso, identificabile, chiaro ma, allo stesso tempo raccoglie in sé migliaia di volti, espressioni, esperienze.
Una parola che raccoglie un mondo di idee, pensieri, sogni, opinioni, modi anche molto diversi di vivere il proprio essere donna.
Ciò che mi piacerebbe proporre, quest’anno, in questa rubrica sono le diverse facce della parola donna, le sfumature necessarie per raccontare una realtà tanto varia e interessante.
Profili diversi e, allo stesso tempo accomunati da tante sfumature, profili di donne che tentano di volgere al femminile la realtà che vivono, comuni, quotidiani, vicini.
In questo primo numero vorrei dare voce a quattro donne, diverse per età e condizione, alle quali ho chiesto come si vedono nel tempo che passa, come si immaginano guardando avanti di dieci anni, come vedono e come desiderano il ruolo della donna nella società e, soprattutto, nel mondo del lavoro.
Buoni incontri!

“Tra dieci anni avrò 29 anni. Mi immagino con un lavoro, che mi figuro sarà l’aspetto della mia vita a cui terrò di più. Il mio lavoro sarà collegato con ciò che oggi sto studiando, quindi nell’ambito dell’informatica. Immagino anche di avere una persona accanto, un compagno (non un marito!) che mi comprenda per ciò che sono e con cui vivere. Tra dieci anni la mia famiglia sarà sempre importante per me, parte integrante della mia vita.
Nel futuro uomini e donne non avranno gli stessi ruoli nella società. Le donne dovranno sempre togliere tempo al lavoro per occuparsi della famiglia e questo, secondo me, non è negativo, ma naturale. Quindi non desidero che questo aspetto della società cambi.
In quanto donna, per il mio futuro desidero semplicemente avere normalità, tutto ciò che banalmente e felicemente si sogna fin da piccoli.
Penso che essere donna non sia un limite e che la parità non possa esistere, per il semplice fatto che uomini e donne sono diversi. Le donne hanno già un ruolo molto attivo e vincente, soltanto l’hanno in campi diversi da quelli degli uomini”.

“Come mi vedo nel futuro? Ti posso dire come spero di essere, poiché ‘del doman non c’è certezza’, soprattutto con i tempi che corrono. Oppure ti posso dire come ho paura di essere. La discriminante fra le due ‘forme di essere’ è, dal mio punto di vista, il lavoro. Se, come spero, avrò un lavoro non dico remunerativo, ma per lo meno stabile (leggi: un contratto a tempo indeterminato), mi vedo sposata e con due figli. Mi vedo mamma lavoratrice, insomma. Immagino il mio lavoro gratificante e utile, decoroso e creativo. Immagino di lavorare alla pari con colleghi maschi, senza timore di essere prevaricata, sostituita o licenziata nel caso di maternità o malattia. Vorrei che il duplice ruolo di mamma e donna lavoratrice, e per questo doppiamente produttiva, fosse riconosciuto: non intendo ricevere medaglie al valore, ma solo essere sostenuta e rassicurata dal mondo del lavoro in tale duplice impegno.
Se il lavoro ci fosse ma fosse precario, così come è adesso, allora come mi vedo? Come mi vedono gli altri? Saremo tutti sulla stessa barca o mi dovrò sentire ripetere all’infinito che ho fatto delle scelte di studio, di vita, di impegno sbagliate, e che era meglio se avessi fatto, se avessi scelto, se non avessi fatto, se non avessi scelto… Dovrò sentirmi dire ancora una e poi mille volte ‘te l’avevo detto?’.
Ecco cosa significa, secondo me, la dignità del lavoro: potersi sempre dire fieri delle scelte di vita, e quindi lavorative, che si sono fatte, perché tali scelte hanno portato ai risultati sperati: stabilità, indipendenza, gratificazione, libertà di scelta”.

“Dal mio punto di vista la donna deve essere attiva e integrata nella società e non solo considerata una parte: i due sessi devono essere interscambiabili. La donna ha la propria identità, è diversa da quella maschile. Nella nostra società non c’è niente di femminile, né una filosofia, né una religione, né una politica, né una linguistica e la donna viene utilizzata dalla società come un bene domestico vedi veline, letterine in tv… Non condivido assolutamente l’utilizzo del corpo femminile come oggetto e propaganda.
Io sono una donna lavoratrice e soddisfatta del lavoro che ho scelto e cerco di assumermi le mie responsabilità per cercare di modificare e cambiare così l’atteggiamento culturale che riguarda le donne disabili. Spero, in futuro, avendo investito nello studio tanto tempo, di poter continuare lo stesso lavoro però magari con una remunerazione più sicura e più gratificante. Io mi sento una persona attiva all’interno della società e in futuro auspico che ci sia un cambiamento che ci possa portare ad avere più pari opportunità, dimostrando così le nostre capacità quali ad esempio, il saper mediare, essere contro la violenza, essere più sensibili…
In futuro penso che il valore dell’uomo e della donna non debbano essere pesati su una bilancia come parità, ma che la donna possa esprimersi nella sua pienezza, possa dar voce ai suoi diritti che ancora oggi non sempre vengono riconosciuti, possa riconoscere i suoi doveri e possa far conoscere la loro grande energia.
Con tutta la voglia di vita che possiedo voglio invitare tutte le donne, soprattutto le giovani, ad avere fiducia nel futuro, però devono impegnarsi a considerare molto di più alcuni valori fondamentali per il rispetto della persona.
Finché alcune donne useranno il loro corpo come mezzo per avere successo o carriera o altro, non si riuscirà a fare emergere il nostro pensiero che è certamente paritario a quello maschile ma che, a volte, viene considerato inferiore a causa di questi comportamenti.
Il mio punto di vista è che occorre avere tanta fiducia ma ci vuole anche l’impegno di dimostrare, creare, fare, e se ognuno in questo puzzle ci mette la sua parte il mondo andrà avanti meglio”.

“Beh, dal momento che ora ho 63 anni, direi che andando avanti tenderò a invecchiare! Tuttavia non è questo che mi spaventa, ma il timore di non riuscire a realizzare tutto quello che vorrei. Mi piacerebbe infatti continuare nel mio progetto di scrittura-ricerca per la conservazione della memoria femminile, dedicare ancora più tempo alla lettura, agli/alle amici/che, ai miei cari, ai luoghi del mio cuore, alla bellezza della natura e dell’Italia in generale… E ancora? Un altro sogno? Cantare in un coro! Ma temo che ormai la voce non sarebbe più limpida.
Per il mio futuro desidero conservare la mia salute e le molte energie che mi permettono di vivere a modo mio, senza poi dimenticare la serenità con cui vivo la mia vita familiare.
Per tutte le donne, invece, mi auguro un futuro di maggiore consapevolezza della dignità di ciascuna. Ritengo infatti che molta sia la strada che abbiamo percorso nella conquista dei diritti e della coscienza di genere, ma ora si stanno affacciando nuove realtà che ci vengono da altri paesi con le quali tutte ci dobbiamo confrontare. Non possiamo dimenticare il passato nostro e delle nostre madri, per cui è necessario che ci attrezziamo per rendere visibili disagio e condizioni altre: trovare canali, inventare strategie, aprire dialoghi con quelle culture e religioni che costringono le donne in situazioni di sudditanza. Dunque, ancora un cammino lungo e faticoso per le donne.
Sono tuttavia convinta che le donne del futuro vivranno il loro essere-donne come un valore aggiunto, che andrà ben oltre la parità tanto decantata dai governi e mai considerata. Sarà questa certezza a dare ancora più forza al loro agire”.