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Autore: Nicola Rabbi

Accessibilità culturale

Di fronte alla mancanza di risorse, alla crisi che toglie ossigeno, alla speranza è possibile mettere in campo due atteggiamenti diversi, non alternativi ma spesso complementari.
Da una parte potremmo recriminare che, proprio perché mancano risorse e sostanze, possiamo semplicemente adattarci alla situazione, fare ciò che si riesce, agire dentro i confini dettati dalle mancanze e, quindi, ridurre al minimo le azioni.
Dall’altra parte, si potrebbe fare ricorso a risorse alle quali non avevamo pensato, provare creativamente a immaginare soluzioni sperimentali, mettersi insieme e trovare percorsi condivisi e, quindi, instaurare relazioni.
Con lo spirito evidenziato da questa seconda alternativa la Cooperativa Accaparlante e l’Associazione CDH lavorano da molti anni sul territorio bolognese e non solo, tentando di provocare un cambiamento culturale rispetto al tema della valorizzazione delle diversità. Anche nell’anno passato abbiamo cercato di costruire una rete di persone e realtà diverse tra loro, con l’obiettivo di lavorare insieme attorno al tema dell’accessibilità culturale.
Con questa definizione si intende la possibilità per tutti di godere appieno delle proposte culturali e di svago del territorio; la possibilità di farlo come spettatori attivi che non si preoccupano solo di riempire il tempo libero con attività più o meno piacevoli ma si occupano di costruirsi un ruolo culturale attivo. Accessibilità intesa non solo come mancanza di barriere architettoniche che consentano di entrare senza impedimenti o di usufruire di un bagno in maniera agevole, ma soprattutto come diritto di entrare in relazione con un ambiente accogliente che non percepisca la disabilità e, più in generale la diversità, come un ostacolo insormontabile ma che possegga gli strumenti per superare imbarazzo e disagio trasformando l’incontro con l’altro in una risorsa per tutti; accessibilità non come recriminazione di qualcosa che non c’è ma come assunzione di responsabilità per rispondere a un desiderio di partecipazione che ci accomuna e ci permette, non tanto di parlare di disabilità o di diversità, ma di provare a guardare ciò che ci circonda da un diverso punto di vista.
Accessibilità culturale come cultura dell’accessibilità che possa trovare terreno fertile nelle diverse realtà che compongono la società e mettere radici, non solo in eventi straordinari, ma tra le pieghe della quotidianità. 

Intorno a un tavolo rettangolare
Sabato 2 giugno, festa della Repubblica ma anche festa della Cooperativa Accaparlante, ci siamo ritrovati attorno a un tavolo rettangolare insieme agli amici con i quali, in modo più concreto, abbiamo condiviso proposte relative al tema dell’accessibilità culturale, per raccontarci le diverse esperienze, mettere insieme idee e emozioni e progettare lavori futuri.
Ho voluto sottolineare che il tavolo era rettangolare perché ciò racconta bene la nostra idea di relazione. Un tavolo come quello, infatti, al contrario di una tavola rotonda, non determina uguaglianza e parità a partire dalla forma, ma la parità e l’uguaglianza si definiscono a partire dalla diversità dei ruoli e dall’adattamento di ogni partecipante. I posti sono tutti diversi, offrono visuali differenti e, a volte, ti ritrovi sullo spigolo, scomodo forse, ma punto di incontro di due linee, di due pensieri, di due opinioni. Un tavolo rettangolare non nasconde le diversità bensì le integra e riporta la responsabilità di tale integrazione alle persone che siedono attorno a esso.
Come fossimo intorno al quel tavolo, proviamo a sintetizzare le esperienze realizzate e i progetti che ci piacerebbe costruire in futuro.
Con il Museo civico archeologico di Bologna abbiamo proposto alcuni incontri all’interno delle iniziative “Se lo conosci lo frequenti”, una serie di incontri realizzati dal museo in collaborazione con realtà del territorio volte a far diventare il museo patrimonio di tutti, cominciando a costruire percorsi di cittadinanza attiva attraverso l’uso consapevole del patrimonio culturale e della memoria civica. In particolare, insieme, abbiamo proposto due incontri che, partendo dalle figure rappresentate sui vasi della collezione attica, hanno condotto i partecipanti alla scoperta dell’altro. Chi è il diverso in fondo? È la donna, è il giovane, è il vecchio, è la persona con disabilità, è lo straniero o è semplicemente chi è diverso da noi? Un’interazione interessante che ha permesso ai visitatori di godere della proposta culturale tipica del museo, arricchita dalla presenza degli animatori, anche con disabilità, del gruppo Calamaio che hanno offerto il personale punto di vista sul tema dell’incontro.
Abbiamo conosciuto le operatrici del dipartimento educativo del MAMbo (www.mambo-bologna.org) l’estate scorsa, un po’ per caso. Il primo passo della collaborazione ci ha visto insieme nella realizzazione di alcuni incontri di formazione reciproca che ci hanno permesso di conoscerci e di definire un percorso laboratoriale comune che avesse al centro il tema dell’identità e della relazione con l’altro, sempre prendendo spunto dalle opere d’arte presenti nel museo. Nel corso dell’anno abbiamo, quindi, incontrato al museo quattro classi in percorsi di quattro incontri che hanno affrontato il tema della diversità partendo dall’autoritratto, attraverso il valore del contesto fino a un “passaggio obbligato” che ha portato tutti a confrontarsi, anche fisicamente, con l’altro.
La Quinta Parete, invece, è una redazione mista, composta dagli animatori disabili e dagli educatori del gruppo Calamaio, che si è confrontata criticamente sui temi e le suggestioni offerte dalla visione di alcuni spettacoli ospitati dal Teatro ITC di San Lazzaro e dal Teatro Testoni di Casalecchio di Reno. Un vero e proprio lavoro di redazione, coadiuvati dall’intervento di critici teatrali e dall’incontro con gli artisti stessi. Persone con disabilità, spettatori critici che hanno tentato di lasciare una traccia del proprio passaggio non sopra ma sotto il palco.

Azioni e relazioni
Le tre esperienze raccontate convergono, non solo intorno al tema dell’accessibilità culturale ma, soprattutto, danno risposta al desiderio di fare insieme, di costruire relazioni, di intrecciare reti che siano, oltremodo, un messaggio chiaro di cosa si intende quando si parla di integrazione. Un’integrazione che chiede di mettere in comune le esperienze per perseguire obiettivi comuni, per raggiungere i quali ognuno può fare la propria specifica parte non in modo esclusivo ma lasciandosi contaminare dalle esperienze altre. Azioni e relazioni che si intrecciano per tentare di diminuire la distanza tra le parole e i fatti o meglio per far sì che le parole che indirizzano il nostro agire si trasformino sempre più spesso in fatti concreti che modificano il nostro fare.
Ripartire, quindi, dalle relazioni che danno poi forma alle azioni.
Relazioni, non solo tra persone, ma anche tra contesti, tra storie, tra esperienze figlie dello stesso territorio.
Relazioni che pongono il loro orizzonte sempre un po’ più avanti, per fare in modo che il presente non diventi il luogo comodo in cui riposarsi ed elogiare il lavoro svolto ma il punto di partenza per nuove sfide, nuove domande da cui partire per trovare risposte efficaci.
I progetti per il prossimo anno sono tanti e riguardano sia il poter dare continuità a ciò che si è realizzato nell’anno appena passato sia nuove proposte che possano soddisfare le nuove esigenze emerse.
Nuovi incontri, quindi, per le scuole del territorio soprattutto in collaborazione con il dipartimento educativo del MAMbo con il quale continuerà il percorso “Insieme ad arte. Un percorso educativo per l’integrazione” ma anche con il Museo civico archeologico con il quale coinvolgere anche un pubblico più adulto, sempre alla scoperta dell’altro.
Continuerà anche l’attività di La Quinta Parete che allargherà i suoi orizzonti, coinvolgendo e formando altri spettatori che lasceranno le loro tracce nel blog.
E poi molto altro, idee concrete ma anche molti desideri che curiamo con attenzione.
Se ne avete qualcuno anche voi, venite a trovarci attorno al nostro tavolo rettangolare.

Lettere al direttore

Caro Claudio, mi chiamo Francesco Leone, ho 55 anni e sono un luogotenente in congedo dell’Arma del Carabinieri. A febbraio 2007 venni colpito da una tipologia di ictus che, sebbene in forma lieve, mi portò alla riforma per inidoneità al servizio.
Tenga presente che, dopo aver prestato servizio in varie località dell’Emilia Romagna e svolto missioni all’estero nell’ONU e nella NATO, ero stato destinato presso l’Ambasciata Italiana di  Buenos Aires. Il desiderio di impegnarmi nel sociale e lo spirito di avventura erano vivi in me fin da ragazzino e furono la molla che mi spinse all’arruolamento, proprio agli inizi degli “anni di piombo”, e mai si assopirono tanto che, superati ormai i 50 anni, aspettavo con trepidazione il trasferimento in Argentina per affrontare una nuova sfida.
Eppure fui ricoverato per alcuni giorni, in prognosi riservata, presso l’Ospedale di Forlì e, ben conscio di quanto mi stava accadendo e delle conseguenze che la patologia sofferta avrebbe comportato nella mia vita, rimasi comunque stupito quando il medico che mi ebbe in cura asserì testualmente: “i casi come il tuo sono rari, mi dispiace, sei stato sfortunato”.
Non riuscivo a capire con quale metro egli valutasse il termine “sfortuna” quando io ero in vita e non avevo subito gravi conseguenze. Col senno di poi, ho solo un rimpianto: immerso nella mia attività non aver provveduto a visite e cure mediche al primo insorgere di alcuni sintomi della patologia che ritenevo dovuti solo a “stress da lavoro”. Credo che, sebbene il Padreterno abbia per ognuno di noi un suo “progetto”, l’essere umano può, in determinati contesti e limiti, specialmente nelle piccole cose, prevenire e/o porre rimedio a eventi che gli possano creare danno. Mi lascio anche una valida giustificazione: ho pensato  agli altri e non a me!
Non mi sono infatti mai chiesto di chi fosse la colpa, né mi è mai passato per la testa di dare responsabilità a terzi, incluso Dio.
La colpa non è di nessuno. Questa è la vita! Mi ritengo fortunato, mi guardo sempre dietro vedendo situazioni umane e sociali molto peggiori delle mie e, sebbene sia un cattolico peccatore, ringrazio il Signore per avermi dato la possibilità di rimanere ancora al mondo, vicino ai miei cari.
Grazie per la sua disponibilità ad ascoltarmi!
Saluti,
Francesco Leone

Caro Francesco,
tanto per cominciare ti ringrazio di avermi scritto una lettera dove mi hai raccontato un pezzetto della tua storia.
Devo confessarti che quando ho letto la prima riga il pavimento sotto di me ha tremato e ho dovuto fare subito mente locale pensando se avessi mai commesso qualche furto o qualche frode o se, cosa più probabile, qualcuno mi avesse denunciato per offesa al pubblico decoro… Sai, in questi tempi nulla è scontato! Scherzi a parte, è quando ricevo lettere belle come la tua che ritrovo il senso del mio lavoro.
Ho un’altra confessione da farti. Nella mia vita, a dire il vero, ho avuto sul serio a che fare con l’arma, nel senso che anche mio padre era della polizia. Nelle tue parole così ho rivisto un po’ delle scene della mia infanzia, come per esempio il bel ricordo di mio padre che, pur essendo maresciallo di polizia, girava con la fondina vuota… A saperlo eravamo in pochi tant’è che dopo la sua morte non è stato facile trovarla per restituirla… L’aveva nascosta in un cassetto chiuso a chiave, di cui, ovviamente, nessuno era in possesso. Ma torniamo a noi. Sono d’accordo con te rispetto a quello che scrivi sul senso di colpa. Pur essendo un sentimento che può sorgere sul momento spontaneo non è imputabile né a te, né a nessun Altro. Quello che conta, caro Francesco, è proprio quello che hai fatto e stai facendo tu: reagire attraverso la vicinanza e la cura che per primo hai riservato ai tuoi cari. La qualità delle nostre relazioni è infatti il solo antidoto alle supposte “sfortune” che possono capitarci.
Che dire, grazie ancora per la tua testimonianza, la prossima volta però mi aspetto anche una bella barzelletta, ovviamente sui carabinieri!

Caro Claudio,
ho letto nel “Messaggero di Sant’Antonio”, il suo scritto “Na’ tazzutella  e caffè”.
Io, prendo il caffè, quasi sempre in tazzulella di vetro, perché  mi piace così.
Alcuna volte, lo prendo con tazzine uguali  a quelle nella foto..
Claudio, mi dispiace, non so molto bene scrivere in italiano. Sono una donna spagnola del nord, la mia cittá si chiama Santander.
Sto imparando un po’ l’italiano, é una lingua che mi piace moltissimo, é bella bella.
Tutti i mesi, ricevo la rivista. Sono molto felice, quando arriva alla mia casa.
Molte parole non le capisco, però con il mio dizionario spagnol-italiano , vado imparandolo..
Aspetto con molta impaziensia la rivista di aprile.
Un saluto bello, ragazzo.
Marián

Olè! Dalla Spagna con furore! Che bello, cara Marián, ricevere una lettera d’oltralpe! Quando sento parlare spagnolo mi vengono in mente due immagini, o meglio, due tonalità di rosso, quelle del mantello del torero nella corrida (dove spero sempre che il vincitore sia il toro) con le sue grida, polvere e schiamazzi e la maglietta rosso-blu del grande attaccante del Barcellona Messi, che mi emoziona sempre con i suoi stupefacenti e sempre creativi goal!
Chissà se anche Messi, negli spogliatoi, si gusterà il caffè in tazzine come le nostre… Sì, proprio quelle dell’uomo con i baffi…
Io da quando le ho comprate non riesco più a farne a meno, benché alla vista apparentemente scomode e imperfette. Ma, come già raccontavo nell’articolo che hai letto, è bastato poco per rendermi conto che in realtà era proprio la loro forma sbilenca a renderle così comode e simpatiche. Una piccola metafora, questa, che ho scelto di usare per suggerirvi un modo semplice e immediato per guardare alla disabilità e scoprire che anche l’imperfezione, se creativamente usata, può trasformarsi non solo in qualcosa di utile ma anche in qualcosa di bello, non in senso estetico ma in termini di peculiarità e originalità
La disabilità dunque ci costringe a fare un passaggio culturale in questa direzione, dalla cultura della bellezza a quella dell’originalità, dall’inutilità alla specificità.
Infine ho gustato il mio caffè, con due cucchiaini di zucchero, in una di quelle tazzine, imperfetta, di colore rosso acceso… e devo dire che era davvero delizioso!
Un giorno, spero, mi offrirai un bel caffè in una tazzina rosso-blu!

8. Bibliografia

(1) AA.VV., La “normale” complessità del venire al mondo, Milano, Guerini Studio, 2006

(2) Ammaniti M., Manuale di Psicopatologia dell’infanzia, Milano, Cortina Raffaello Editore, 2001

(3) Arnheim R., Arte e percezione visiva, Milano, Feltrinelli, 2007

(4) Bertini G., Bonizzato L. (a cura di), La bellezza dei margini, Atti del convegno “Il laboratorio di arteterapia 10 anni dopo. Riflessioni e proposte”, Regione Veneto, 2006

(5) Bloom K., Il sé nel corpo, Roma, Astrolabio Editore, 2007

(6) Boniamino V., Iaccarino B. (a cura di), L’osservazione diretta del bambino, Torino, Boringhieri, 1984

(7) Bowlby J., Costruzione e rottura dei legami affettivi, Milano, Cortina Raffaello Editore, 1982

(8) Bowlby J., Una base sicura, Milano, Cortina Raffaello Editore, 1989

(9) Caboara Luzzatto P., Arte terapia, Perugia, Cittadella Editrice, Perugia, 2009

(10) Case C., Dalley T., Working with children in art therapy, London, Tavistock/Routledge, 1990

(11) Cesaro A.N., Boursier V., (a cura di), Psicoanalisi dello sviluppo: D. W. Winnicot, Roma, Armando Editore, 2004

(12) Cramer B., Che cosa diventeranno i nostri bambini, Milano, Cortina Raffaello Editore, 2000

(13) Della Cagnoletta M., Arte terapia – La prospettiva psicodinamica, Roma, Carocci, 2010

(14) Della Cagnoletta M., Atti della mostra-convegno “All’alba della creatività, percorsi di terapia espressiva con i bambini”, Bussolengo, 9 ottobre 2007

(15) Ferro A., La tecnica nella psicoanalisi infantile, Milano, Cortina Raffaello Editore, 1992

(16) Gagliardi M. (a cura di), Le stelle nascoste, Venezia, Marsilio, 1997

(17) Garcia M. E., Plevin M., Macagno P., Movimento creativo e danza, Roma, Gremese Editore, 2006

(18) Gerhardt S., Perché si devono amare i bambini, Milano, Cortina Raffaello Editore, 2006

(19) Laban R., L’arte del movimento, Macerata, Coop. Ephemeria Ed., 1999

(20) Malchiodi C., Capire i disegni infantili, Torino, Centro Scientifico Editore, 2000

(21) Mannoni M., Il bambino ritardato e la madre, Torino, Boringhieri, 1971

(22) Meyer-Thoss C., Bourgeois L., Designing for Free Fall, Zurigo, Amman Verlag AG, 1992

(23) Neri N., Latmiral S. (a cura di), “Uno spazio per i genitori”, in “Quaderni di psicoterapia infantile” n. 48, Roma, Borla Editore, 2004

(24) Papini A., “Leggere in luoghi sensibili”, in “HP-Accaparlante” n. 3, Trento, Erickson, settembre 2011

(25) Rubin J. A., Child Art Therapy, NY, Van Nostrand Rienhold, 1984

(26) Vallino D., Raccontami una storia, Roma, Borla Editore, 1998

(27) Vallino D., Macciò M., Essere Neonati, Roma, Borla Editore, 2004

(28) Weatherhogg A., “Al di là delle parole”, in AA.VV., “Dall’esprimere al comunicare –Immagine, gesto e linguaggio nell’Arte e nella Danza-Movimento Terapia”, n. 2 dei “Quaderni di Art Therapy Italiana”, Bologna, Pitagora, 1998

(29) Wuehl M. I., (a cura di), Nella stanza dell’analista junghiano, Milano, Vivarium, 2002

(30) Winnicot D. W., Colloqui terapeutici con i bambini, Roma, Armando editore, 1971

(31) Winnicot D. W., Dalla pediatria alla psicoanalisi, Firenze, Martinelli, 1975

(32) Winnicot D. W., Sviluppo affettivo e ambiente, Roma, Armando Editore, Roma, 1974

7. Conclusioni

Così, narrando, siamo giunti alla fine di questa trattazione. Per concludere, quale che sia la predisposizione genetica, essa deve tuttavia essere innescata da fattori ambientali per manifestarsi (18 pag. 119), e il setting arte terapeutico madre/bambino rappresenta l’opportunità di ritrovare il filo del discorso interrotto o del dialogo mai esistito, attraverso la rappresentazione artistico/creativa, contenuta in un luogo e in un tempo definiti e protetta dalla presenza del terapeuta. Rappresenta inoltre per la madre la possibilità di ritrovare fiducia nella propria capacità materna, e anche di poter riorganizzare oggetti interni feriti o assenti, e per il figlio di poter continuare a essere figlio prendendo distanza dalla madre.
Sentirsi visti all’interno del legame, come abbiamo osservato negli studi sullo still-face, significa sia per la madre che per il bambino la possibilità di ricominciare a sentire di esistere, e questo fin dalla gravidanza poiché “il processo artistico aiuta sia a esprimere le paure e le angosce, sia a recuperare le proprie parti buone e accoglienti” (13 pag. 166), essendo in grado di ripristinare quella sintonizzazione che sta alla base della frase “Io cambio quando tu ti palesi, tu cambi quando io mi manifesto” (18 pag. 39).

I desideri si realizzano nella notte più buia, che si vedono le stelle.
(Matteo, 6 anni) (16 pag. 43)

6.I casi

6.1 Perdita e malattia: La merla e l’uovo rotto
I figli sono per la madre ancore della sua vita.
(Sofocle)

Al Centro Nascite, Vittoria subisce un aborto terapeutico della sua bambina, dovuto a una grave malattia diagnosticata al sesto mese di gravidanza. Attende questa prima figlia con gioia, fino al giorno in cui le comunicano la patologia, incompatibile con la vita. Vittoria, per sua affermazione, non è in grado di affrontare questa cosa. È traumatizzata dalla diagnosi, così la sua famiglia decide per lei.
In seguito all’aborto cade in gravissima depressione, tenta il suicidio, la segue uno psichiatra ed è posta sotto psicofarmaci. È diabetica come sua madre e la diagnosi della bambina potrebbe derivare dalla sua patologia. Il diabete di Vittoria si è presentato quando aveva vent’anni.
La seguo per i quattro anni di tirocinio, prima nel periodo del lutto, poi quando resta nuovamente incinta, poi con la nuova figlia neonata e in seguito da sola o a volte con la figlia, la quale sviluppa a un anno di vita un gravissimo diabete infantile. Il lavoro con Vittoria appare particolarmente efficace nel periodo post traumatico, in cui al silenzio del lutto si affianca in modo discreto la terapia non verbale attraverso l’arte.
I materiali che preparo per lei sono sempre molto vari, Vittoria sceglie e lavora concentrata, con le spalle curve, parlando continuamente ma molto lentamente.
Con lei il setting madre/bambino accoglie inizialmente la presenza/assenza della figlia perduta, poi quella della figlia attesa in cui il lavoro è volto al riconoscimento delle due distinte persone, bambina perduta e bambina che nascerà. In seguito accoglie la madre con la seconda bimba neonata nei primi mesi di allattamento, poi di nuovo da sola ma con la presenza pregnante della piccola lasciata con grande senso di colpa, poi ancora insieme alla bimba a cui è stato diagnosticato il diabete e infine sola. Nella prima fase Vittoria lavora con i sassi che raccolgo per lei al mare, lisciati dal tempo. Il lavoro è sempre molto ordinato, ho spesse volte la sensazione che la paziente stia a ciò che gli altri si aspettano da lei, salvo piccole variazioni di percorso.
La svolta si ha durante una seduta in cui Vittoria lascia bianco il foglio e piange tutto il suo dolore per non aver visto il viso della bimba perduta. L’assenza del volto della figlia grida nel setting attraverso l’assenza dell’immagine sul foglio e il colore bianco.

La merla e l’uovo rotto
Sull’albero c’è un nido. Nel nido una merla. È rotonda la culla, soffice di piume, rametti, foglie intrecciate e perfino qualche filo di lana verde e bianca.
Cullate da quel nido tre uova e un uovo rotto.
Lei sta lì e cova le quattro uova. A volte l’uovo rotto buca un po’, lei fa finta di niente e sta ferma. Gli altri merli la osservano in silenzio, nessuno osa parlarne. Lei li guarda con sufficienza, non possono capire.
Il suo mondo è distante, accade dal giorno del temporale. La bufera aveva sconquassato i rami dell’albero fino a farli toccare terra. Lei aveva retto, era restata aggrappata con tutte le forze al suo nido. Poi era arrivato il fulmine. Cielo spezzato dalla saetta che aveva colpito un ramo che era caduto sul nido e su di lei. Il mondo era finito.
Quando aveva riaperto gli occhi le gocce del temporale brillavano per i raggi del sole che, dal cielo terso, sfogava il suo calore impertinente. Così lo aveva visto. L’uovo era a terra. Il suo contenuto, giallo e trasparente di vita, sparso tra l’erba e le foglie fradicie. Così lei aveva raccolto il guscio e lo aveva posato accanto ai suoi fratellini ancora intatti. Non una lacrima, non un pigolìo. Come prima si era detta, tutto sarà come prima.
La merla cova il suo guscio rotto sognando che anche da lì esca la vita, tra poco.
È il giorno dell’incanto. Tic tic tac le piccole creature nascono, una a una. Due femmine e un maschio. La merla sente nel cuore la gioia della vita e il dolore della morte, insieme duri da digerire. I piccoli bagnati scuotono le testoline e pigolano, lei vola a prendere vermi di qua e di là incessante la fatica e la gioia e il dolore dell’assenza. I gusci bucano i pulcini e loro, con le zampette, se ne liberano. Uno a uno. Lei è al centesimo verme, prende gocce d’acqua dalla fonte e le versa nel piccolo becco dei figli. Vede con un balzo al cuore che i gusci sono caduti. Tutti, anche quelli di cui non si parla. Chiude gli occhi. I piccoli in silenzio guardano il dolore della mamma, rispettosi, lei li abbraccia con le ali. Loro sono la sua vita, ma ogni volta che un giovane merlo passerà in volo vorrà credere che sia proprio lui, quello dell’uovo rotto.

6.2 Spasmo affettivo: L’ultimo cavallino bianco
I vostri figli non sono figli vostri
Sono i figli e le figlie del desiderio che la vita ha di se stessa
Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi.
(Kahlil Gibran)

Giuliana è al terzo figlio e Nicola, otto mesi, sviene ogni volta che si allontana da lei. Va in apnea effettuando una sorta di piccolo suicidio nella difficoltà di prendere distanza dalla mamma, e finisce due volte in ospedale per soffocamento. Vista l’età rischia di non imparare a sedersi e a camminare. Scrive Cramer che “o studio dei disturbi di separazione dei bambini dimostra ogni volta che si tratta di un sintomo condiviso. (Madri ndr) e bambini sono legati insieme nell’angoscia che la separazione si paghi con la catastrofe o la morte” (12 pag. 175).
Li seguo insieme attraverso un lavoro con rotoli di carta che srotolo in forma di strade partendo dalla coppia simbiotica e su cui cammino a quattro zampe, e con palle di gommapiuma e carta da strappare sottolineando la possibilità di dividere e di allontanare. La madre crea immagini molto inquietanti con le matite, le tempere e i gessetti su piccoli cartoncini colorati. Il lavoro dura due mesi.
Inizialmente prendendo in carico la relazione simbiotica mi ero data lo scopo di riuscire a portare infine la madre fuori dal setting per seguire il suo bambino. In realtà il sintomo, dopo le primissime sedute, mi appare in tutta la sua complessità intergenerazionale legata alla storia di lei, orfana di padre e simbiotica con la madre rimasta sola molto giovane.
Nel corso di una delle ultime sedute io e la mamma con il suo bambino in braccio sediamo una di fronte all’altra per terra, a una distanza di circa due metri. Ci unisce la via di carta su cui rotoliamo le palle colorate di gommapiuma intinte nella tempera, che definiscono graficamente i percorsi in fantastici intrecci. Il piccolo osserva il movimento colorato e accenna al sorriso. La madre ha appena disegnato due occhi terribili, lo sguardo da cui non può prescindere. I segni sprecisi e violenti rispondono allo sguardo cupo di lei reale con uno sguardo grafico spaventato e rabbioso. Il bambino adesso sorride, si stacca da lei e corre abbracciandomi. Capiamo così che Nicola sa già camminare. Il dolore intenso della madre giunge fino a me rendendo soffocato il mio respiro e la mia voce. Ciò mi rende visibile improvvisamente in modo fin troppo concreto il sintomo di Nicola. Incoraggiato da me torna subito indietro e lei lo abbraccia, siamo molto commosse. La seduta si svolge così per mezz’ora con il gioco degli abbracci.
Nella seduta successiva in cui viene sola, la madre mi racconta di avere sempre avvertito un rimpianto fin da quando aspettava Nicola.
Il marito non desiderava altri figli, lei lo aveva convinto ma sapeva che sarebbe stato l’ultimo. Era emerso un disagio della prima bambina affetta da un mutismo elettivo alla scuola materna, scomparso con la nascita di Nicola. Il figlio avuto in mezzo tra i due non aveva presentato sintomi. Era avvenuto un passaggio del testimone del sintomo dalla bimba grande al piccolo, sicuramente ultimo, figlio.

L’ultimo cavallino bianco
Passando su quella strada in Maremma sul crinale della collina si possono notare due cavalli bianchi, somiglianti, uno molto più giovane dell’altro. La cavalla anziana trotta fiera accanto al cavallino giovane e imbizzarrito, danzano una stessa danza, apparentemente non felice ma intensa.
È una cavalla vecchia la Tina, che non ha mai tradito il suo contadino. Ogni volta che Natura lo ha concesso lei gliel’ha fatto capire e lui l’ha portata al cavallo per l’accoppiamento, il suo compagno di vita, bianco come lei.
Undici mesi e ogni volta partoriva il suo puledro che appena adulto le veniva tolto e venduto. Si era sempre stupita dei suoi figli variopinti, così diversi uno dall’altro, col manto nero o marrone o macchiato. Ma al momento giusto li aveva lasciati andare, così come si deve.
Una mattina in cui la campagna verde ramarro sposò l’azzurro terso del cielo estivo per dare alla luce il nuovo giorno, la Tina si sentì stanca.
Pensò forse oggi sono diventata vecchia. Natura come sempre le parlò, donandole l’ultima occasione di figliare. Andò al trotto dal contadino, lui la guardò carezzandole il grande naso i cui peli vani punzecchiavano appena e le disse Tina, adesso che sei vecchia non potrai più fare la madre. Ti porto per l’ultima volta al tuo cavallo e ci facciamo felici tutti con l’ultima gravidanza.
Una notte in cui le nebbie del mare abbracciarono la brezza dell’Amiata per dare alla luce il temporale, nacque Ariosto, bello come il sole e bianco come la sua mamma. Lei lo guardò ma non fu stupita come le altre volte, se l’aspettava che quel puledro fosse diverso da tutti gli altri e identico a lei.
Poi guardò sospettosa l’uomo che l’aveva aiutata a partorire.
La Tina questa volta non fa avvicinare nessuno, è gelosa del piccolo dicono a bassa voce in paese. Arrivato il momento della vendita si parò davanti al suo padrone e lo guardò per storto, lui la conosceva bene e capì che l’avrebbe ammazzato se avesse toccato l’Ariosto. La Tina dicono che lo sapeva che quello era il suo ultimo figlio, così se l’è tenuto per sé.
È strano l’Ariosto, non cerca le cavalle, è grande ma non è cresciuto nella testa, si comporta come un puledrino.
E balla sul crinale della collina con la sua mamma senza allontanarsene mai, pena la morte. 

6.3 Simbiosi post-traumatica: L’incendio e mamma tucano
Non esiste conforto per una madre che soffre.
(Victor Hugo)

Giuseppe ha dodici anni ed è ricoverato a oncologia pediatrica per un osteosarcoma molto grave a una gamba. Ha subìto un trapianto osseo ed è sottoposto a pesanti cicli di chemioterapia, da mesi è in ospedale e nessuno sa per quanto ne avrà poiché i medici non si pronunciano sulla prognosi.
Il ragazzino sta in reparto con sua madre sul lettino. Li osservo e noto che sono alti uguali. I due, simbiotici e morbosi, hanno sviluppato un rapporto in cui sembra che riescano ad affrontare il trauma della diagnosi. In realtà il rapporto simbiotico isola il bambino e lo rende aggressivo, attuando una forte regressione nell’età in cui probabilmente avrebbe dovuto affrontare il distacco dalla madre attraverso l’adolescenza. Lui gioca tutto il tempo con un videogame su un piccolo portatile e sembra non fare caso alla madre che, distesa accanto a lui, lo tocca continuamente quasi a cercare conferma della sua presenza fisica, del suo esserci ancora. Lei alterna momenti di affetto morboso ad altri di forte aggressività, così che spesse volte le carezze si trasformano in schiaffi.
Il lavoro si svolge in due sedute, attraverso la narrazione di storie e pochi segni lasciati su un foglio. Mentre racconto lei si isola, sta accanto al figlio ma il suo sguardo è perso verso qualcosa che non c’è più.
Giuseppe disegna con pennarelli la paura della morte, concreta e visibile, reale e che può firmare per definire la sua forte presenza. Usa i pennarelli grossi e disegna svogliato, come per farmi contenta, ma mentre disegna racconta il suo sradicamento di ragazzo del sud, la nostalgia del mare e del sole. La madre sembra soffrire molto ed è stupita della consapevolezza di suo figlio ma allo stesso tempo le sue parole la rendono più vera. Al terzo incontro mi affida Giuseppe e va a prendere il caffè.

L’incendio e mamma tucano
Tutto è cambiato da quel giorno in cui la foresta ha messo i capelli rossi fiammanti e il calore s’è divorato il mondo. Mamma tucano con l’ala sbruciacchiata osserva suo figlio. A lui è andata peggio, la zampa non gli funziona più come prima. Per un tucano le zampe sono tutto, chi non cammina bene ha sempre bisogno di aiuto e quando non ci sarò più io… un singhiozzo interrompe il pensiero di lei.
L’uomo s’era accampato vicino alla foresta e cucinava le sue prede. Un giorno caldo la scintilla aveva dato il via alle fiamme infinite che erano corse verso il nido. Lei, il suo compagno e il piccolo si erano salvati… ma tutto è cambiato. Adesso con la sua ala annerita lei ha perso il suo fascino, ovvero, ne è talmente convinta che tutti la vedono invecchiata. Il piccolo con la zampa strana addolora suo padre che per questo sta in distanza, pur amandolo infinitamente.
Il cucciolo e la sua mamma stanno sempre vicini ma sono infelici. Non è solo il dolore del cambiamento, c’è dell’altro. Hanno perso le speranze di farcela e nello stare insieme non sentono più la lieve nostalgia di quando non sarà così. Perennemente uniti vivranno, pieni di rabbia e di amore a litigare tutto il tempo per come è meglio sedersi o sbocconcellare la noce di cocco.
Un giorno passa di lì il gabbiano. S’è perduto ma vola sereno, le grandi ali lo riporteranno presto sulla giusta via. Il cucciolo è affascinato, lui con quel becco enorme non riuscirà mai a volare così alto. Il gabbiano vuole ospitalità per la notte, il piccolo gli chiede di narrare i suoi viaggi. Così lui racconta e inventa mille avventure vissute e non, poi insieme, abbracciati, si addormentano.
Mamma tucano veglia serena. È la prima volta dal giorno dell’incendio che si allontana dal figlio e si accorge che l’ala ferita ha iniziato a rimettere piccole piume variopinte e morbide. Si specchia nella goccia di rugiada e il suo muso risponde ai desideri con un sorriso. Guarda il piccolo con sollievo, improvvisamente tutto è chiaro come l’alba africana: lui un giorno dovrà fare la sua vita, al di là dell’incendio, oltre la morte, con gli amici e i compagni di viaggio che di giorno in giorno conoscerà in giro per il mondo, anche se un po’ zoppo.
Il tempo si ferma d’incanto, lei si gira e vede il suo compagno che la osserva stupito, con amore. Da sempre si capiscono al primo sguardo così vanno l’uno incontro all’altra, poi si allontanano felici e innamorati come se niente di terribile mai fosse accaduto.

6.4 Aggressività nel rapporto e compulsività: L’iguana arrabbiata
Una madre non può che nuocere ai suoi figli
se fa di loro l’unico scopo della sua vita.
(William Somerset Maugham)

Roberta è psicotica, bulimica, affetta da shopping compulsivo ed è violenta con il suo bambino di tre anni. La seguono i servizi territoriali insieme al marito con una terapia di coppia ed è stata ricoverata più volte in psichiatria.
L’invio presso il Centro Nascite riguarda lei sola, il figlio non viene nel setting ma è fortemente lì, tanto che sento la sua presenza fisica in modo pregnante.
Roberta riempie la stanza con il fiume di parole e la potenza fisica che corrispondono esattamente, nella misura e nella forma, al suo forte dolore interno. Ciò che narra è spesse volte frutto del desiderio che la opprime sui fatti della vita che lei stessa non sa se essere reali o immaginati. Sento di doverle dare pochi materiali, così da contenere, almeno lì nel setting arte terapeutico, la quantità dirompente di tutte le cose troppo grandi dentro e fuori di lei. Durante il lavoro parla continuamente del suo bambino e afferma di desiderarne un altro e a volte di aspettarne un altro, si figura di avere effettuato una fecondazione assistita mai avvenuta e tutto questo la opprime come presenza nella mente e assenza nel concreto.
Ogni tanto si mette a piangere violentemente e racconta i momenti di scambio violento che ha con il suo bambino. La narrazione prosegue a volte con brevi ricordi della propria infanzia e della madre che la insegue tirandola per i capelli, definendo il terrore del ricordo di quei momenti. In alcune sedute racconta l’ossessione per il numero tre che le fa ripetere la stessa cosa, mangiare tre gelati, forare tre biglietti dell’autobus, comprare tre paia di pantaloni fino a finire tutti i soldi ed essere presa dal terrore di non poter più vivere.
Durante una delle ultime sedute Roberta può finalmente disegnare l’imbuto che rappresenta la sua persona, da riempire continuamente e sempre vuota. La bocca dell’imbuto sembra però un coperchio in grado di interrompere il circolo vizioso della sua compulsività.

L’iguana arrabbiata
L’iguana ce l’ha col mondo. Non sa perché, dev’esser nata così. Ma se sta ferma per un attimo allora ricorda quando la sua mamma la tirava rabbiosa per la coda e suo padre fingeva di non vedere, così capisce che forse avrebbe potuto essere meglio di così se fosse nata altrove. È tanto arrabbiata che si sfoga col mangiare, ingoia qualsiasi cosa le passi davanti, ogni frutto marcio che cade, ruba il cibo alle altre iguane e loro non la possono sopportare.
Ha sempre desiderato d’esser diversa dai suoi genitori, così quando ha avuto il suo piccolo lo ha guardato con amore. Ma subito dopo già non ce la faceva più ed era arrabbiata con lui perché prendeva spazio sulla sabbia, catturava raggi di sole che erano suoi e mangiava cose che quindi lei non poteva ingurgitare.
Ossessiva in tutto, doveva sempre fare dieci volte ogni cosa ed era scomodissimo. Se andava a bagnarsi al fiume poi doveva tuffarsi altre nove volte e alla fine prendeva il raffreddore. Se mangiava una blatta cornuta le toccava cercarne altre nove e si sa che nel deserto trovar blatte non è mica tanto facile. Le sembrava di essere sempre vuota e si riempiva di tutto quello che poteva.
Un giorno, intenta a divorar papaya una dopo l’altra, non s’accorse dell’arrivo del cobra. Suo figlio rimase talmente stupito di vedere quella bestia così lunga e tutta annodata che rimase immobile e lui gli si arrotolò intorno compiaciuto. Il piccolo sentendosi abbracciato come mai era accaduto gli sorrise, così il cobra decise di far merenda da un’altra parte e, lentamente, si srotolò.
In quel preciso momento la mamma vide improvvisamente i due e restò impietrita dalla paura. Aveva appena iniziato a rotolarsi nella melma del fiume e lo aveva fatto una volta sola, così lo avrebbe dovuto fare altre nove volte. Tutta la vita le passò davanti… Cos’era questa storia delle dieci volte? Doveva forse dimostrare qualcosa a qualcuno? O ritrovare il tempo perduto nella sua testa ansiosa? Poi pensò cosa sarebbe successo se suo figlio non ci fosse stato più. Corse verso di lui, il serpente se n’era andato ma lei, ancora terrorizzata, lo abbracciò per la prima volta. Lui sorrise e le donò una piccola foglia di cactus. Lei la prese e l’odorò. Si accorse che mai aveva odorato il cactus e sentì sapore di casa e profumo di vita. Vide una zanzara e se la mangiò, poi si grattò un orecchio con la zampa posteriore. Il piccolo la guardava stupito, poi anche lei se ne accorse: non doveva più fare le cose dieci volte. La paura l’aveva guarita come la paura, tanti anni prima, l’aveva fatta ammalare.

6.5 Fratelli: Una chioccia, tre pulcini
La madre è orgogliosa del figlio che è salito in alto,
ma darebbe la vita per l’altro: per il figlio senza fortuna.
(Libero Bovio)

Stefania ha una bellissima bambina, aspetta il secondo figlio, Tommaso, ma ha un distacco di placenta non diagnosticato nei primi mesi di gravidanza. Il bambino nasce prematuro e muore dopo due giorni. La sorellina cambia carattere, è arrabbiata e la madre è depressa, il loro rapporto diviene insostenibile e complesso. Seguo le due insieme, poi la madre da sola e in seguito la piccola da sola, durante la terza gravidanza e poi con la nuova sorellina.
Il lavoro risulta particolarmente efficace nei primi mesi, in cui il contenimento del dolore e della rabbia si esprime attraverso l’uso dei materiali e la cooperazione della mamma e della figlia insieme alla terapeuta che lavora con loro e che ha spesse volte la sensazione di ricreare un cerchio tra donne, come quando in passato si lavorava all’uncinetto o al ricamo.
Spesso la violenza emerge nel rapporto tra le due che fisicamente si scontrano nel setting, trasformando la terapeuta in una sorta di arbitro. A un aspetto esteriore delle due esteticamente molto accurato corrisponde un substrato di assenza di accudimento, una nota depressiva che emerge nella mancanza di accuratezza di certi particolari, calzini bucati, unghie molto lunghe.
La bimba all’inizio di ogni seduta corre sversata nel setting, poi attratta dai materiali ritrova la sua calma e racconta la sua vita.
I temi della casa, del percorso e del ritratto si ripresentano periodicamente in modi diversificati, come a cercare di trovare una nuova definizione di sé e del proprio percorso al di là dell’evento traumatico e che vada oltre ciò che convenzionalmente ci si aspetta, soprattutto dalla bambina ma anche dalla madre. Durante una delle ultime sedute della terapia, interrotta dalla madre improvvisamente e senza preavviso, la bimba uscendo dal setting dona alla terapeuta un piccolo anello di scotch giallo a fiorellini rossi così che lei lo possa sempre portare con sé.

Una chioccia, tre pulcini
La chioccia ha fatto tre uova ma questa volta vanno covate e gli uomini non le possono mangiare perché lei se lo sente che sono figlie del suo galletto nero. Uno bianco, uno rosa, uno giallo, la gallina è molto fiera della covata, ben tre uova tutte diverse. Nasce il primo pulcino. È una femmina, gialla come il sole e piena di vita. È tutta bagnata e sottile ma il sole l’asciuga presto e diventa tonda come una pallina morbida. Mi somiglia, dice la chioccia vantandosi con le altre. Dopo due giorni si schiude il secondo uovo. Il pulcino non pigola. Lei cerca di non vederlo ma l’istinto è più forte del pensiero e non può resistere. La madre lo guarda per un attimo e il piccolo entra prepotentemente nel suo cuore anche se lei non lo vorrebbe mai. Il pulcino è come se non potesse asciugarsi al sole, le piume restano tutte ammazzettate, prova a vivere ma respira a stento per due giorni, poi muore.
La chioccia adesso non vede più le cose come prima. La piccola pulcina gialla sembra un po’ più brutta e a volte si scorda perfino di pulirle la testolina e le zampette. Lei la segue ma la madre è infastidita. Non si riconoscono, eppure sono sempre le stesse. Ogni tanto si danno una beccata a vicenda, sanno che non potranno mai fare a meno l’una dell’altra e questo le riempie di rabbia. Il pulcino maschio non c’è più, e questo è accaduto ormai. Madre e figlia guardano il terzo uovo e sognano un giovane galletto che corre e zampetta e canta la sua sveglia alle quattro del mattino così come dev’essere.
Nasce il terzo pulcino. È una femmina. Mamma e figlia la guardano senza felicità. La amano di un amore immenso ma sanno di aver perduto per sempre quella pienezza della vita com’era quando per la prima volta si sono incontrate.
La piccola è gioiosa e vivace e si mette in pericolo continuamente così la chioccia ha tanto da fare. E le giornate scorrono stratificando le nebbie amorose e inconcludenti della nostalgia.

6.6 Maternità e rinuncia di una parte di sé: L’altra faccia della sogliola
Una madre è contenta di essere niente altro che una madre.
(Elias Canetti)

Simona, sette anni, è in day hospital a Neuropsichiatria Infantile per i molteplici disturbi che fin dalla nascita, parole della nonna, la perseguitano. La bambina è sottoposta, durante la mattinata, a test di ogni genere che la spossano.
La nonna prende in mano la situazione da subito, è la protagonista del laboratorio aperto, lavora con alcuni bambini e una ragazza anoressica raccontando la sua terribile storia di madre felice distrutta dalla nascita della nipote, figlia della sua unica, bellissima, intelligentissima figlia. Ho la sensazione che il laboratorio sia molto utile proprio a lei.
La figlia si affaccia al setting più volte, osservando in silenzio, eterea. La bambina invece si rapporta fortemente alla nonna, a me e ai materiali.
La nonna effettua un collage in cui si ritrae giovane e bella con un grande cappello a fiori rosa, poi piangendo ammette di non farcela più e di avere fatto un errore a portare via la bambina a sua figlia perché forse ce l’avrebbe fatta meglio di lei.
Durante l’unica seduta in cui incontro le tre donne, una specie di teatro mi mostra la realtà patologica intergenerazionale di questa piramide in cui la nonna decide di prendersi la nipote togliendola alla figlia per non farla soffrire. La bimba disegna continuamente animali, con segni forti e sversati e con macchie che sottolineano le sue difficoltà di movimento e di espressione.

L’altra faccia della sogliola
La sogliola non aveva mai reagito alla sua situazione. Le era parsa l’unica fattibile ed era stata a quello che la vita le aveva dato. Si accontentava di farsi dondolare dalle onde la cui eco lontana giungeva fin giù nel fondo del mare, e di farsi solleticare dalla sabbia su quel volto buio che nessuno mai aveva visto. Sì perché lei, come tutte le sogliole, aveva una faccia di quelle che non si possono mostrare. Aveva adeguato il suo corpo alla situazione in cui era vissuta e le era parso di non desiderare niente di più.
Tutto era stato così fino a quando era nata quella strana figlia. Non era come le altre sogliole e lei se n’era accorta subito. Con il suo compagno erano restati fermi immobili nel vedere la soglioletta neonata che si muoveva in tutte le direzioni andando in qua e in là disordinatamente, senza una mèta. Subito dopo, la sua grande mamma sogliola, nonna della strana piccola, aveva preso in mano la situazione. Tu non ce la puoi fare con questa figlia le aveva detto e lei era filata via liscia liscia come aveva sempre fatto, lasciando campo libero a chi era più forte di lei.
Poi la piccola era cresciuta. La nonna, stanca e invecchiata, si era accorta di aver fatto il passo più lungo della pinna. Così la madre era tornata a guardare la figlia che si divincolava nell’acqua creando una gran confusione tra le sogliole che monotonamente, da milioni di anni, avevano vissuto sempre nello stesso modo. La mamma l’aveva carezzata piano sulla minuscola pancia e la giovane sogliola si era un attimo calmata per poi riprendere a divincolarsi e a comportarsi in modo strano.
Il grande sogliolo, mago antico della comunità, aveva decretato che quella soglioletta sarebbe stata sempre così, senza speranze – aveva ripetuto più volte facendo molte bolle imbarazzato.
La mamma sfiorò per istinto la sua piccola, si rese conto di desiderare molto abbracciarla, e così fece. Lei si calmò ancora una volta, poi ricominciò irrefrenabile la sua corsa matta a rendere limacciosa l’acqua limpida dell’atollo. La mamma si sentì strana. Un fremere dall’interno si impossessò di lei e si rese conto che forse, un poco, quella figlia le somigliava. Era solo che la parte somigliante lei non l’aveva mai voluta vedere. Istintivamente diede un forte colpo di pinna, fece tre salti mortali e si appoggiò al fondo sulla sua parte visibile. Sentì la sabbia entrare negli occhi e nella bocca ma accadde anche qualcosa di incredibile: la sua parte nascosta si rivelò estremamente creativa, colorata, luccicante e fantasiosa tanto che tutte le sogliole dei dintorni accorsero per vederla.
La figlia, stupita, la osservava. Era calma per la prima volta nella sua vita ma anche lei sentì un fremito irresistibile, diede un colpo di pinna e si rovesciò, mostrando la sua parte nascosta, identica a quella della madre anche se molto più piccola.
Nessuno sa cosa accadde subito dopo né come fu che madre e figlia siano sopravvissute a un’azione così contro natura, fatto sta che le due spesso si vedono insieme passare sul fondo del mare, vicine ma non troppo, andare dello stesso passo inusuale e variopinto.

6.7 Maternità come rinascita: La gatta piccola dalla grande pancia
Nessuno stato è così simile alla pazzia da un lato, e al divino dall’altro quanto l’essere incinta.
La madre è raddoppiata, poi divisa a metà e mai più sarà intera.
(Erica Jong)

Centro Nascite. A Lucia, poco più di una bimba, viene chiesto di dare in adozione la figlia che aspetta. È troppo piccola, troppo sola e immatura e la sua storia molto pesante. Non ha mai conosciuto sua madre ed è cresciuta con i nonni, persone molto problematiche. È scappata con un ragazzo di un’etnia diversa dalla sua, ha rubato ed è rimasta incinta.
All’arte terapeuta in tirocinio viene chiesto, in tre sedute, di accertare la sua volontà che non è chiara né agli psicologi né ai servizi sociali.
La ragazzina e la sua pancia popolano il setting in modo intenso, con vera sete di narrazione. Materiali da bambina, soprattutto pennarelli con cui lei, disegnando ritratti di famiglia, elabora il lutto di essere stata lasciata dalla madre ancora piccolissima.
Nei ritratti che sembrano fatti a scuola, presenta come in una parata i parenti veri e immaginati, gli animali e ritrae se stessa con la pancia e a volte con la sua bambina in braccio.
La svolta avviene nel corso della seduta in cui Lucia, alla richiesta di rappresentare con pochi segni la sua maternità, crea un abbraccio con un cuore in mezzo. Il disegno, semplice e intenso, mostra tutta la forza della gravidanza come possibilità di riemergere dal tunnel dell’assenza. La bimba che aspetta ha lo stesso nome della madre che l’ha lasciata e che lei non ha mai conosciuto.

La gatta piccola dalla grande pancia
La gatta piccola dalla grande pancia cammina fiera nel cortile. È l’ultima arrivata e i gatti della colonia la guatano severi come a dire Questa cosa vuole? Non è per cattiveria ma la gattara del Comune porta cibo giusto giusto per i 23 gatti della colonia e quando uno nuovo si avvicina tutti temono di mangiare un po’ meno. Ma la gatta piccola dalla grande pancia non ha paura di niente. Eppure pare così fragile, esile sulle sue zampette di cristallo. È molto bella, beige con occhi verdelago di montagna e il naso rosa cipria, una d’altri tempi insomma.
È molto giovane eppure la sua storia è già così pesante… Non ricorda come ma si è trovata sola piccolissima in un cespuglio del parco della città. C’era la potatura degli alberi e i tronchi cadevano con sordo frastuono, uno alla volta. Lei, rifugiata sotto un sasso, si era salvata. La sua mamma non l’aveva mai conosciuta, si era sempre occupato di lei un vecchio gatto mezzo cieco che chiamava nonno. Era tutto spelacchiato e non si avvicinava più di mezzo metro ma l’aveva nutrita e difesa dagli assalti di altri gatti. Lei però aveva sempre sofferto tanto il freddo.
Un giorno le si era avvicinato un gatto siamese. Tutti i gatti tenevano una distanza di sicurezza dai siamesi che si dice che rubano e che sono strambi e che non si sa da quale strano paese possano venire. E poi a volte sono senza coda e hanno gli occhi azzurri tutti storti. Ma lui era bellissimo. Sottile, alto con un gran testone così come i gatti maschi fascinosi devono avere, si era avvicinato a lei con destrezza e l’aveva guardata col suo sguardo da mezzosangue che le aveva fatto battere forte il cuore. Così, a dispetto del nonno e degli altri gatti del parco, se n’era scappata col siamese chissà dove ed era tornata con una grande pancia.
Le vecchie gatte l’avevano avvisata che si trattava di roba da grandi e che di lì a poco non sarebbe più stata una figlia per diventare una mamma. Ma lei, che figlia non si era mai sentita, era rimasta così scombussolata da questi discorsi che se n’era andata.
Aveva camminato a lungo nel bosco del parco, attraversato pericolosamente ben tre viali rumorosissimi con degli strani bestioni con le ruote che muggivano forte al suo passaggio, poi aveva visto il cortile. Lì aveva pensato di poter mettere su casa. Non sapeva come ma le pareva di essere già stata in quel posto, tanto tempo prima. Pensò che la sua pancia contenesse una gatta femmina e le diede nome Nina. Sentì la forza selvaggia del cambiamento nascere dolorosamente dentro di lei, così cercò un posto nascosto e partorì. Nina era bella come il sole, occhi azzurri come il padre, naso rosa cipria e un fascino particolare. Ma soprattutto era precisa a sua nonna, la madre che la gatta piccola dalla grande pancia non aveva mai conosciuto e che portava, come per magia, lo stesso nome. E che abitava all’ultimo piano del palazzo che affacciava proprio su quel cortile. Ma lei non l’ha mai saputo.

6.8 Disturbo alimentare e del sonno: Il barbagianni che non sapeva dormire
Un figlio deve abitare la nostra casa come un estraneo avventuroso e felice.
(Pietro Citati)

Lucilla è una delle ragazze anoressiche che frequentano assiduamente il laboratorio aperto tematico di arte terapia presso Neuropsichiatria Infantile. Realizza collages componendo immagini artistiche con piccoli interventi di tempera o grafite. Il modo accurato corrisponde a certe caratteristiche del suo corpo, le unghie dipinte, i capelli lisci raccolti perfettamente da un semplice elastico, le spalle diritte. Durante una seduta fondamentale lavoriamo a fianco senza guardarci per circa un’ora e lei mi racconta intensamente ciò che prova nel guardarsi allo specchio. In quella seduta restiamo spesso sole nel setting, come se le persone capissero di essere capitate in un momento particolare.
La volta successiva è presente in reparto sua madre. Il tema, scaturito dalla seduta precedente, è l’autoritratto.
La mamma, bella quanto lei, partecipa silenziosamente con lo sguardo, senza toccare niente, mentre la figlia effettua il suo lavoro usando i gessetti, senza sporcarsi. È un fondale marino. L’autoritratto mostra la potenza del silenzio nella patologia, della fissità del tema e del movimento ritmico e obbligato delle terapie. Durante la seduta, mentre la ragazza termina il suo lavoro, la madre sfiora il suo corpo inesistente con una sorta di compiacimento che mostra in tutta la sua terrifica realtà la sofferenza intergenerazionale presente nel loro legame.

Il barbagianni che non sapeva dormire
Tutti i barbagianni dormono. Così quando il suo babbo si era accorto che lui non era come gli altri si era preoccupato ma non aveva detto niente poiché in segreto, nella luce piena del giorno, i suoi occhi erano sempre stati stranamente spalancati come non si addice a un buon barbagianni.
Ma che il suo piccolo non dormisse no, non andava bene. Lui senza vergogna mostrava a tutti la sua stranezza e suo padre questo non lo sopportava. Si chiedeva spesso se fosse più l’imbarazzo a farlo soffrire o la preoccupazione per la salute di suo figlio. Poi, confuso e vergognoso dei propri pensieri, tornava sul ramo a gestirsi l’insonnia in silenzio.
Il piccolo barbagianni aveva un carattere particolare. Da sempre affascinato dai colori, con il becco faceva strane composizioni di foglie che raffiguravano topolini e coniglietti, così si saziava della propria creatività e non doveva procurarsi il cibo. Era magro e stanchissimo. Il padre, deluso, sognava un figlio che lo rendesse fiero, gran cacciatore notturno, mangiatore forte e alto. Ma c’era una parte di lui che era felice, in fondo la somiglianza di suo figlio dava spazio a quel suo lato un po’ strano che mai aveva accettato.
Un giorno arrivò in zona un maschio di sula dai piedi blu. Era molto bello e il piccolo barbagianni, estasiato dal colore dei suoi piedi, si avvicinò e gli mostrò come sapeva fare le sue composizioni di foglie. Il maschio di sula rimase stupito e affermò che mai nella sua vita aveva incontrato un barbagianni così bravo nel comporre immagini di foglie. Aveva girato tutto il mondo, sapeva i segreti degli uccelli notturni e diurni ma una cosa così non l’aveva mai vista.
La sula lasciò che il piccolo terminasse la sua opera, poi chiamò gli animali del bosco affinché ammirassero quelle composizioni così particolari. Il topolino giunse trafelato e si riconobbe nei ritratti che il piccolo gli aveva fatto, poi scappò perché chissà se il barbagianni aveva fame. Gli uccelli variopinti accorsero e festeggiarono il giovane compositore che per l’occasione mostrò anche quanto fosse abile nell’arte del fischio. Scrosciarono gli applausi e un rumore assordante spaventò perfino i cacciatori che fuggirono dal bosco chissà dove.
Il padre osservava in silenzio, da lontano. Forse poteva essere fiero di suo figlio, ma in un modo che mai aveva previsto. Era turbato che uno straniero, per giunta con i piedi blu, gli avesse mostrato con grande chiarezza le sue qualità, ma prevalse la gioia. Scese dal ramo e spalancando gli occhi insonni disse a voce altissima Io non dormo tutto il giorno da anni, poi sereno salì sul suo ramo e si addormentò. Il piccolo lo seguì e si accoccolò accanto a suo padre che mai era stato così morbido. Si abbracciarono e fecero una bella dormita illuminati dal sole cocente del ferragosto.

5. Le fasi della crescita nel Setting

Adesso cresco, cresco, cresco
(Chloé, 4 anni) (1 pag. 353)

Esistono alcuni temi legati all’età del figlio, che l’arte terapeuta può tenere in mente e che rendono più semplice l’individuazione della strada da percorrere nelle specifiche tipologie patologiche e che sono esemplificate nei seguenti paragrafi, prima di trattare della specificità dei casi.

5.1 Dialogo pre natale madre bambino
Quando ero dentro la mamma, la mamma mi conosceva.
Stefano, 3 anni (1 pag. 145)

Citando Fonagy, Mimma Della Cagnoletta scrive che “il lavoro preventivo con la donna in gravidanza permette di far affiorare quegli aspetti conflittuali della madre che potrebbero riversarsi sul bambino e nuocere sia alla loro futura relazione che alla capacità di attaccamento del bambino stesso” (13 pag. 165).
Chi lavora con i bambini sa che un neonato ha dietro di sé molta storia. Il piccolo immaginato dai genitori ha già una struttura che continua a evolversi nei mesi della gravidanza e, in condizioni di normalità, viene abbandonata al momento dell’incontro con il bambino reale che piange e respira e assorbe tutto il tempo che i genitori hanno a disposizione. In presenza di lutto, depressione, trauma e altri eventi o patologie, la storia del neonato diviene ancora più intensa, lunga, ingombrante, fino a impedire talvolta ai genitori di accogliere il bambino reale per ciò che lui è.
Ma anche lo sviluppo della madre in rapporto al suo dialogo con il figlio risulta denso e pregnante di attese, sogni, desideri che improvvisamente e a volte in modo traumatico sono interrotti al momento della nascita che rappresenta uno scontro con la realtà. E vedremo nell’esemplificazione dei casi come talvolta questo crei problemi di simbiosi, di aggressività e di sviluppo di falso Sé. D’altra parte “Nell’interazione madre-bambino vengono […] trasmesse ripetizioni di modelli interrelazionali, per cui dalla qualità dell’organizzazione dell’attaccamento materno si può predire quella del suo bambino” (13 pag. 165).
Tale problematica ha risvolti importanti nei cambiamenti avvenuti a livello sociologico poiché la “separazione tra casa e lavoro, pubblico e privato, che ha come conseguenza l’isolamento delle madri nelle loro case” (18 pag. 31) crea spesse volte un silenzio colmo di vergogna sulla propria condizione di madre depressa da cui tutti si aspettano felicità assoluta per la fortuna di aspettare un bambino. Madre in inglese è stato definitivamente sostituito con Chi dà le cure di base: “La società attraverso gli asili nido si è ripresa molte delle funzioni di custodia tradizionalmente riservate alle donne. I padri […] partecipano all’accudimento dei bambini piccoli. Vi sono dunque cambiamenti importanti nella definizione del ruolo di madre” (12 pag. 239).
Nel setting che accoglie la madre con il proprio figlio visibile al mondo solo attraverso il cambiamento del suo corpo, il lavoro deve svolgersi in vista dell’accoglienza del bambino reale quando nascerà. In presenza di lutto, soprattutto nella perdita di un figlio precedentemente alla gravidanza presa in carico, la ricerca di una via volta alla conoscenza dell’individualità del nuovo bambino è fondamentale affinché la nascita non prenda una valenza di lutto, delusione e depressione nel non riconoscere nel neonato le fattezze del figlio perduto, o induzione alla ricerca di un falso Sé qualora si riconoscano o si proiettino, in quel neonato, molte delle caratteristiche del figlio perduto (vedi caso Perdita e malattia: La merla e l’uovo rotto).
Il setting deve essere strutturato in modo accogliente, con elementi morbidi così che la futura madre possa mettersi in ascolto del proprio corpo e dei suoi cambiamenti, presa in braccio dal luogo terapeutico così come dovrà fare lei con il suo bambino. Questo è particolarmente importante visto che ciò che appare un temperamento innato può essere già stato influenzato dall’ambiente prenatale (18 pag. 171).
I materiali da utilizzare sono tutti quelli possibili salvo i tossici o troppo odorosi, ma risulta efficace l’uso di elementi naturali quali foglie e fiori secchi, sassi e rametti, fili e batuffoli di lana e cotone, in grado di evocare il fare nido.
In presenza di madre in gravidanza e fratellino già nato è bene effettuare un lavoro volto all’instaurarsi del legame a tre che dopo pochi mesi si realizzerà. In questo tipo di setting può essere particolarmente efficace l’uso di libri con rime molto musicali che alla nascita il nuovo bambino potrà nuovamente condividere con la madre e il fratellino (esempi e bibliografia su questo tema si trovano nell’articolo Papini A. “Leggere in luoghi sensibili” (24 pag. 18).

5.2 Il lutto del perdere la pancia
La vita parte da dove sei nato.
(Andrea, 4 anni) (1 pag. 11)

In presenza di patologie il portare la pancia può indurre la futura madre a pensare che tutti la amino poiché tutti la guardano, osservano curiosi la sua condizione e mettono in conto una sua fragilità, un suo affaticamento facendola sedere al proprio posto o passare a una fila alla posta. È qui che emerge la problematica nel momento della nascita, quando alla pancia, appartenente alla mamma fisicamente, si sostituisce il bambino che attira l’attenzione di tutti distogliendola da lei.
Il bambino alla nascita è equipaggiato da due modalità di movimento, la tensione muscolare chiamata flusso di tensione muscolare, e il flusso di forma o forma fluente.
A volte il bambino nasce molto teso fisicamente e questo può creare problemi alla mamma nel tenerlo in braccio, come all’opposto può crearne se è ipotonico.
La tensione corporea si organizza attraverso dei ritmi che hanno a che vedere con il tenere e il rilassare, tutto il corpo lo fa, anche il cuore. Il primo ritmo è quello del succhiare, libero/tenuto che accompagna tutto il bambino, i piedini, le sue mani. Esso funziona da calmante, favorisce la fusionalità, l’unione nel periodo che va da zero a sette mesi circa.
La Tustin nei primi anni ’90 scrive che non esiste uno stadio infantile di autismo primario normale (27 pag. 77). Osservando i neonati e le loro madri nei primi giorni e mesi di vita dopo la nascita, l’Infant Research respinge come irrealistica la fusione descritta da Margaret Mahler come indifferenziazione tra l’io del neonato e la madre. Cade l’ipotesi della simbiosi come stato primario del bambino che in realtà, si scopre, è in relazione fin da quando nasce: “il neonato è sveglio, attento, già complesso mentalmente, sin dall’inizio destinato a sofferenze non soltanto fisiche” (27 pag. 25).
Il setting madre/neonato si struttura attorno ai ritmi della madre con il suo bambino. La stanza dell’arte terapia diviene teatro delle molteplici intense interazioni tra i due in cui il movimento dona al terapeuta infiniti spunti di riflessione. Nel setting madre/neonato avvengono molte cose pratiche, il piccolo deve mangiare o deve essere cambiato, così il lavoro con i materiali diviene prezioso tempo rubato all’accudimento. Affinché le interruzioni siano sporadiche così da ottenere una continuità nel lavoro, è bene che il setting sia strutturato con elementi morbidi per terra che permettano di appoggiare il bambino in assenza di pericoli, così che le due persone della relazione siano il più possibile autonome e rilassate. I materiali vanno scelti in funzione del fatto che la madre tocca continuamente il suo bambino, vanno evitati materiali dall’odore troppo forte o che sporcano eccessivamente. Anche in questo caso sono da preferirsi elementi legati alla natura e all’istinto, morbidi e dai colori tenui come quelli che popolano il mondo dell’allattamento al seno. Nei casi in cui questo sia il problema, va dotato il setting di cuscini da allattamento a forma di mezzaluna.

5.3 L’altro da Sé
Il mare nasce da mamma onda
Il tempo nasce dal temporale
Il vento nasce dall’aria e ha la forma di sbattere.
(Valeria, 3 anni) (1 pag. 19)

Dopo i sette mesi inizia il ritmo del mordere ed è qui che emergono in tutta la loro forza i casi di simbiosi. È un momento fondante, Winnicot parla dei disturbi dell’appetito che hanno radici nella primissima infanzia e di un tipo di crisi dovuta alla reazione ansiosa all’impulso di mordere il seno (31 pag. 44). Il bambino utilizza lo spazio, lo esplora, l’orizzontalità è il primo luogo in cui esso stabilisce un rapporto tra sé e l’esterno. È molto importante osservare la qualità del modo in cui entra a contatto con il mondo, il bambino per crescere sano deve avere un buon rapporto con lo spazio.
Dopo i sette mesi di vita il piccolo comincia ad attivare la forza, sta seduto, gattona, crea un diverso rapporto con la gravità, attua dei cambiamenti che lo soddisfano molto. A circa un anno, con la posizione eretta, modula la forza con la tensione, conquista la verticalità e si trova per la prima volta nel mondo degli adulti.
Siamo nel piano cosiddetto della porta, della presentazione di sé. C’è l’orgoglio di affermare io esisto e mi presento, cado e mi rialzo senza piangere perché fa parte di questa esperienza, il bambino ha più forza, trattiene, sale su e scende giù, ha ritmi tenuti o lunghi.
Si giunge a definire l’esistenza di due linee, una dell’attaccamento e l’altra della separazione, che devono progredire parallelamente. Con l’attaccamento si sviluppa la capacità di far crescere le relazioni mentre la separazione serve a rinsaldare il senso di sé come individuo. Le due cose sono entrambe necessarie. Nel bambino che entra in terapia una o l’altra o tutte e due le linee hanno subìto un’interruzione, è importante quindi osservare la sua capacità di stare da solo o in relazione.
Esistono due forme di simbiosi che Mimma Della Cagnoletta (13 pag. 50) chiama fusione e confusione. Nella fusione gli elementi che emergono sono nella linea che porta alla separazione, nella confusione ci sono gli elementi fondamentali che si trovano nella linea dell’attaccamento. Fusione e confusione sono due forme di base di autoespansione. Nella fusione si ha l’espansione del sé per includere l’oggetto, è una forma di potere per avere, di controllo. Nella confusione i due, sé e oggetto, sono fusi insieme, uno è inglobato nell’altro soprattutto per quanto riguarda le sue capacità, c’è un controllo, e questo ha a che vedere con l’incorporare per essere.
L’esperienza della simbiosi sulla linea di sviluppo della separazione è molto importante, se viene bloccata il bambino non si può assolutamente separare. L’obiettivo è controllare l’oggetto, tenerlo dentro di sé. Questo riporta alla frase di Freud secondo cui il bambino ha la mamma. L’esperienza di confusione invece riguarda il concetto che Noi due siamo una cosa sola, così che a livello affettivo le due persone non vanno verso un’autonomia dell’individuo. In questo caso il bambino sembra affermare io sono la mamma.
Per accogliere adeguatamente, in questa fase così delicata, il bambino e sua madre nella stanza di arte terapia, è importante capire quale dei due vissuti prevale. Ma ciò che appare nascosto può in seguito essere compreso molto bene nell’osservare la relazione tra i due e i legami che esistono tra ciò che viene creato attraverso i materiali.
Se il bambino non riesce a entrare senza la mamma, dunque quando il setting madre/bambino diventa un percorso obbligato, è importante prendere atto del fatto che anche la mamma ha bisogno di entrare nella stanza con lui. Il bambino non sa se riuscirà a sopravvivere nel setting senza di lei ma non sa neanche se la mamma potrà sopravvivere senza di lui.
Anche nel setting madre/bambino, nonostante l’apparente affollamento, molto passa attraverso l’espressione non verbale. Accade al terapeuta di vedere improvvisamente qualcosa, nel disegno o nel movimento, di cui nessuno gli ha parlato: intanto come primo passo è importante chiedersi il perché di tale silenzio, anche se è dimostrata “la potenza dell’attività artistica nel riflettere e nel condurre emozioni quando le parole non sono possibili” (20 pag XIII) (vedi l’abbraccio con il cuore in mezzo disegnato dalla madre/bambina nel caso Maternità come rinascita: La gatta piccola dalla grande pancia). D’altra parte “Freud ha osservato che le immagini rappresenterebbero ricordi dimenticati o repressi, i cui simboli avrebbero la possibilità di riemergere attraverso i sogni o le espressioni artistiche” (20 pag. 3).
Il bambino si rapporta naturalmente ai materiali, cerca di assaggiarli, sua madre generalmente fa in modo che questo non accada, anche nel setting come nella vita. È un lavoro complesso quello con madre e bambino perché condividere nella stanza dell’arte terapia l’infanzia e il rapporto primario ha a che vedere anche con il contattare le perdite subìte. Ogni bambino chiede Conoscimi, il terapeuta deve dargli solo visibilità e lo può fare usando il bambino che è in lui, ma a volte la presenza della madre complica tutto questo.
In questo tipo di setting in cui le due persone, quando non vi siano patologie gravi, possono muoversi abbastanza autonomamente, vanno osservate alcune regole.
È necessario che sia difeso il lavoro della madre, ponendo i supporti a diversi livelli, appesi alla parete o su tavoli. Per terra vanno posizionati giochi morbidi, in particolare palle e cubi di stoffa, elementi smontabili e matitoni atossici con grandi fogli di carta. In presenza di problematiche legate alla simbiosi, che spesse volte si presentano a questa età in cui il bambino dovrebbe fare il primo passo verso l’autonomia, il setting va strutturato con elementi volti a sottolineare che esiste una possibilità di percorrere, dividere, strappare (vedi caso Spasmo affettivo: L’ultimo cavallino bianco).

5.4 Due strade, due vite
Qui c’è il tuo nido, via c’è il tuo mondo
qui c’è l’oceano, via c’è la nave
qui c’è la tana dove ti nascondo
qui c’è lo scrigno, via c’è la chiave…
(Bruno Tognolini)

Calibrando la madre il dare e il frustrare, le presenze e le assenze, suo figlio può crescere. Dopo il primo anno di vita il bambino comprende l’alto e il basso e diviene consapevole di essere piccolo. Verso i due anni torna più morbido nei movimenti, il suo senso del confine è più labile, il movimento è sagittale ed è una fase molto importante in quanto conferisce al piccolo la possibilità di fare le cose, andare verso e allontanarsi da, per ricaricarsi.
In questo periodo, in cui prende la sua strada, il bambino riconosce la sequenzialità, sa che dopo il giorno viene la notte poiché la sagittalità coincide con il senso del tempo, il piccolo accelera e decelera, prende decisioni e ha un obiettivo ma non porta a termine le cose e gioca molto con l’acqua.
Questo movimento è facilmente osservabile nei setting misti poiché la mamma è lì, a volte collabora, a volte inibisce il bambino nel movimento. Accade anche che la presenza del terapeuta permetta la messa in atto di una vera e propria sfida durante la quale l’uno o l’altro si sentono spalleggiati.
Nel setting madre/bambino si può osservare una inibizione del piccolo che ha paura di sporcarsi perché la madre lo guarda; non è detto che lei non voglia che si sporchi, a volte lui immagina le reazioni della madre ed è importante che il terapeuta tenga conto di questo poiché spiega molto sul rapporto.
Il mondo rappresentativo del piccolo in arte terapia dona immagini completamente diverse da ciò che il terapeuta poteva pensare prima di vederlo disegnare perché lui rappresenta lì il suo mondo interno. “L’arte, infatti, permette di aprire una finestra sui problemi, sui ricordi traumatici e su altre esperienze problematiche del bambino, anche se il suo scopo principale rimane quello di fornirgli un altro linguaggio con il quale condividere sentimenti, idee, percezioni, fantasie” (20 pag. XVI).
Il setting madre/bambino dai due anni in poi deve essere strutturato in funzione della relazione e delle problematiche riscontrate. In presenza di violenza, trauma o depressione è utile preparare la stanza con alcune possibilità abbastanza flessibili di lavoro singolo o comune, anche se relativamente all’osservazione ogni movimento, ogni segno, ciascuna azione non prescinde dalla presenta dell’altro componente della coppia presa in carico, anche quando il lavoro è silenzioso ed è realizzato ai lati opposti della stanza. Tutto ha un senso, ogni elemento è oggetto di osservazione così da rappresentare un tassello del complesso puzzle.
Quando il figlio è adolescente o preadolescente il setting misto va considerato solo in presenza di situazioni molto particolari. In casi in cui il figlio sia affetto da gravi malattie oncologiche o anoressia e vi sia una compresenza obbligata con la madre, il setting arte terapeutico può rappresentare un’opportunità atta a spezzare la simbiosi obbligata in cui i due vivono, spesso loro malgrado. La presenza dei materiali e del contenimento del terapeuta rendono possibile una strada di comunicazione silenziosa in cui il non detto e il non nominabile prende una forma e una definizione che attenua la realtà terrifica e il continuo contatto con il tema della morte (vedi casi Simbiosi post-traumatica: L’incendio e mamma tucano e Disturbo alimentare e del sonno: Il barbagianni che non sapeva dormire).

4. Lavorare nel setting: alcuni elementi pratici

Io ho volato, gattonato e sono entrata dall’ombelico…
(Erika, 3 anni) (1 pag 155)

L’arte terapeuta che si trova a operare in setting madre/bambino può partire da elementi molto pratici quali l’esclusione di un certo tipo di materiale, il posizionamento di aree-rifugio nel setting, la realizzazione di campi di intervento posti ai vari livelli considerando le diverse altezze fisiche dei partecipanti, ma questo non può prescindere dal motivo dell’invio che a sua volta struttura il setting in modo pregnante e a volte definitivo. Inoltre tali elementi devono tener conto dell’età del bambino, poiché da zero a dieci anni vi sono distanze tali nell’uso del setting da non permettere di generalizzare, e nel breve periodo per la stessa coppia madre/bambino le differenze sono molto grandi.
La complessità del setting madre/bambino riguarda anche la protezione degli elaborati e sappiamo che “In alcune circostanze i bambini devono essere protetti dalle immagini degli altri […] per la loro sicurezza e il loro benessere” (20 pag. 266). Ma questo vale anche per la madre che, in presenza di problematiche gravi del figlio, va protetta dalle proprie immagini e da quelle del bambino, che a volte in modo molto diretto giungono a urlare nel setting il proprio bisogno di essere viste e definite anche verbalmente. Così il terapeuta in questo tipo di setting si trova spesse volte a impersonare un ruolo di mediatore tra esigenze opposte. Per lavorare con i bambini l’arte terapeuta ha bisogno di tenere con sé la sua parte adulta, per lavorare nel setting madre/bambino è necessario un forte equilibrio tra le due parti che compongono la sua storia, e alle quali dovrà attingere continuamente. Ed è fondamentale avere un tempo piuttosto lungo, dopo la seduta, per dipingere e fare emergere con forza ciò che prepotentemente ha evocato la sua storia, a volte anche intergenerazionale.
Il processo creativo in genere passa essenzialmente due fasi, in sequenza quella più prettamente sensoriale e quella narrativa e simbolica. Durante la scelta dei materiali prevale il livello sensorio, attirano gli odori, i colori, come sono al tatto. Il livello sensoriale è immagazzinato nella memoria implicita, non è pensato né pensabile. I materiali scelti attivano le memorie, essi evocano qualcosa del vissuto del paziente dando luogo alla fase della narrazione. Così attraverso i sensi sono raggiunte le memorie che poi possono divenire un livello condiviso. Tale sequenza in arte terapia è ottimale, ma molte persone che per difesa hanno il livello sensorio inibito partono dalla narrazione. Nell’esperienza sensoria le due categorie, sempre soggettive, sono piacevole e non piacevole. Nel bambino mi piace vuol dire buono e non mi piace vuol dire cattivo. Dopo la fase sensoria vi è un passaggio che rappresenta l’oggetto transizionale, il protosimbolo. Quando all’immagine si attribuisce un significato nasce la narrazione. Scrive Alberto Comazzi che “il percorso terapeutico di uscita dal trauma corrisponde […] alla possibilità di raccontare la propria storia e al trovare un ascolto empatico” (23 pag. 257). Nello sviluppo del bambino le tre fasi sono attraversate in sequenza, così se il paziente preferisce una dimensione piuttosto che un’altra, dà all’arte terapeuta indicazioni sulla sua collocazione.
In genere nel setting madre/bambino l’elemento narrativo è preponderante poiché è utile a riorganizzare i momenti complessi, quelli in cui si confondono le varie esigenze, della madre e del bambino ma anche del terapeuta di contenere e riorganizzare per dare un ordine in sequenza alle varie azioni. Ma sono molto importanti i momenti in cui la relazione si abbandona al sensoriale, ai materiali in quanto tali e nella cui condivisione madre e figlio rievocano la possibilità di un dialogo istintivo che a volte non hanno avuto la possibilità di vivere.
Il bambino che giunge nel setting con sua madre è emozionato, a volte preoccupato e ha due atteggiamenti corporei opposti; se sta fermo e si nasconde dietro la madre è utile aver preparato materiali affascinanti così da muovere la sua curiosità e facilitare l’inizio del lavoro. Se è irrefrenabile sarà importante avere previsto un setting con uno spazio ampio e morbido in cui il piccolo può correre senza farsi male. Assecondare lo sfogo corporeo fa sì che lui si senta accolto per come è, e si fidi di narrare il suo dolore, allo stesso tempo dona al terapeuta l’osservazione del movimento e i conseguenti spunti di riflessione. Una prima fase di espressione corporea forte è stata alla base di tutte le sedute madre/bambina nel caso Fratelli: Una chioccia tre pulcini. Sofia all’inizio di ogni seduta rotolava e correva irrefrenabile per poi passare, nella fase artistica, alla narrazione dell’assenza facendosi aiutare, da me e da sua madre, a ricalcare le impronte dei piedini su grandi fogli di carta appoggiati sul pavimento e infine uniti tra loro in percorsi nuovi.
Esiste sempre il pericolo che il lavoro con i bambini venga interrotto. Se si ha difficoltà a prendere in carico la famiglia possono nascere invidie, gelosie, spaccamenti; è necessario fare attenzione a non rompere equilibri familiari prima di riuscire a contenere. Vanno tenuti dentro sia madre che bambino così che lei non si senta fallita ma neanche abbia la sensazione di delegare troppo il terapeuta. Quando Nicola si è staccato da sua madre per corrermi incontro ho temuto che non l’avrei più rivisto, il setting si è impregnato del dolore di lei. Dopo aver fatto volare il piccolo in alto gli ho detto di correre dalla sua mamma. Così lui ha potuto ripetere molte volte il gioco degli abbracci (vedi caso Spasmo affettivo: L’ultimo cavallino bianco). 

Le fasi della crescita nel setting
Adesso cresco, cresco, cresco
(Chloé, 4 anni) (1 pag. 353)

Esistono alcuni temi legati all’età del figlio, che l’arte terapeuta può tenere in mente e che rendono più semplice l’individuazione della strada da percorrere nelle specifiche tipologie patologiche e che sono esemplificate nei seguenti paragrafi, prima di trattare della specificità dei casi.

3. Il luogo intermedio e la visibilità della relazione

Questo mare ci agita nelle sue onde e chi sono ora io, si confonde.
Ma se solo il tuo sguardo s’incrocia col mio, dico sì, sono qui. Sono io.
(Bruno Tognolini)

Quanto detto finora entra con forza come un fiume nella cascata quando viene presa in carico la coppia madre/bambino. Tutto si fa evidente, la madre sa che starà nel setting e questo provoca in lei la possibilità di lasciare andare la sua idea di figlio per fare i conti con ciò che lui realmente è. Quando madre e bambino entrano nella stanza dell’arte terapia, la complessità della doppia presenza si fa subito pregnante. In genere conviene partire da un tema che, nella mente del terapeuta e nell’attesa dell’ora a disposizione, si fa largo scaturendo dal motivo dell’invio o da quanto trattato nel corso della seduta precedente. Ma questo non può apparire didascalico altrimenti le difese emergono velocemente, strutturate dal rapporto complesso preso in carico. È la narrazione che ci viene in aiuto, “C’era una volta…” è la frase che in molti casi risolve la prima seduta, il momento in cui è necessario sciogliersi e collaborare, trovare una strada comune madre-bambino-terapeuta in cui gli uni si possano affidare agli altri tramite l’arte. Nel caso Fratelli: Una chioccia, tre pulcini questo inizio narrativo ha risolto momenti di stasi dovuti all’assenza di parole e di immagini di fronte al trauma del figlio/fratellino perduto.
“In molti casi i bambini sono capaci di comunicare i loro […] sintomi più efficacemente attraverso i loro disegni piuttosto che con le parole” (20, pag. 237). A volte è stupefacente come essi siano in grado di usare lo spazio dell’arte terapia: accade che il bambino con quel tipo di contenimento possa mostrare certi suoi aspetti sani altrimenti non utilizzati, tanto che molti arte terapeuti utilizzano il disegno con i bambini come strumento terapeutico e non diagnostico (20, pag. 12). Ma anche per le madri, fin dall’inizio della gestazione e durante tutta l’attesa del figlio, l’arte terapia risulta particolarmente efficace poiché in questo modo esse sono stimolate a conoscere la propria parte bambina (13, pag. 166).
Nel setting madre/bambino va tenuto conto del fatto che i piccoli più degli adulti strutturano la seduta in modo personale, per cui ogni indicazione a priori può distogliere l’osservazione. Inoltre in alcuni casi la madre può essere sopraffatta dalla capacità che ha il figlio di sfruttare i materiali a disposizione per esprimersi, essendo lei più inibita in quanto adulta.
Partendo da queste premesse si comprende quanto sia complesso standardizzare un setting in cui vivono più personaggi, più elaborati, dinamiche e rapporti intrecciati che, ampliando lo schema paziente-opera-terapeuta (10, pag. 40) creano infiniti intrecci che dobbiamo essere in grado di osservare e di accogliere.
Inizialmente nel prendere in carico la madre e il suo bambino il terapeuta può credere di seguire due singole persone. Immediatamente la complessità del setting rende evidente quanto questo non sia possibile, poiché utilizzando i metodi del setting singolo l’arte terapeuta è sopraffatto dagli eventi che deve osservare e annotare, e tanto di quelle due persone, in quel luogo e in quel tempo, è apparentemente perduto.
Aiuta lo schema di Paola Luzzatto in cui è trattata la capacità che ha l’arte terapia di creare una comunicazione indiretta tra terapeuta e paziente tramite l’opera realizzata.
Il setting madre/bambino non è un setting di gruppo, né un luogo-tempo in cui sono prese in carico due singole persone. Nel setting madre/bambino l’arte terapeuta ha in carico la relazione. Essa occupa uno spazio centrale che rende denso tutto ciò che accade. È come se vi fosse uno schema triangolare ai cui vertici esistono le tre persone, le quali però sono collegate attraverso uno spazio centrale di forte densità, una sorta di nucleo, rappresentato dalla relazione. Nel mezzo tra madre e bambino vive il lavoro, o i lavori, che non possono essere mai considerati singoli perché tutto è influenzato dalla presenza dell’altro.
Il terapeuta osserva il lavoro ma tale osservazione è mediata dalla relazione. Essa, come una lente di ingrandimento, rende visibili elementi invisibili, donando al terapeuta il bandolo della matassa quando essa appare confusa e inestricabile. Così, nel setting madre/bambino, lo schema bidimensionale diviene tridimensionale: il nucleo centrale è una sfera e il triangolo diviene una piramide, al cui apice vive l’osservatore e alla cui base stanno i personaggi, elaborati e pazienti. La base della piramide è triangolare quando vi è una simbiosi e due lavori, oppure i due pazienti sono autonomi e realizzano un unico elaborato; è quadrata quando i quattro elementi vivono con relativa autonomia nella stanza dell’arte terapia.
Tutto ciò appare particolarmente evidente quando in periodi diversi accade di seguire la stessa mamma in gravidanza, poi con il bambino e poi senza di lui (vedi caso Perdita e malattia: La merla e l’uovo rotto). E questo rende anche molto chiaro che una coppia madre/bambino non può essere presa in carico tout court, ma solo in quei casi in cui il nodo sia la relazione e vi sia un’esigenza particolare che porta il terapeuta a dover comprendere dinamiche specifiche, o infine nei casi di simbiosi (vedi caso Spasmo affettivo: L’ultimo cavallino bianco). Così è semplice comprendere anche cosa osservare nel setting, come guardare gli elaborati, le interazioni, i movimenti dei due personaggi intorno alle loro opere e in compresenza con il terapeuta, anche perché poi, quando i due pazienti escono dal setting, gli elaborati artistici vanno osservati insieme, gli uni nascono dagli altri, il bambino e la mamma sono condizionati dalla presenza dell’altro, da cosa dice o da come guarda quello che sta facendo. Inoltre spesso vi sono momenti di collaborazione all’interno dello stesso lavoro, interazioni che stratificano l’opera e complicano la sua lettura.
Prendendo in carico la relazione diviene chiara l’osservazione delle ansie, dei contenuti emotivi che rischiano di sopraffare il bambino o la madre o entrambi, la percezione degli strumenti che il piccolo ha per gestirle e come i due cercano un equilibrio tra spazio personale e luogo condiviso. Infine è più immediata l’individuazione dell’aiuto, che non riguarda mai l’eliminazione di ansie o il superamento di traumi, ma la ricerca delle risorse già presenti in quelle due persone affinché possano emergere e rendere loro possibile fronteggiare l’ansia o convivere con e a volte perfino utilizzare l’evento traumatico potendolo finalmente condividere all’interno di un luogo protetto.
Anche nelle terapie con il singolo bambino spesso è lui a dare al terapeuta gli strumenti per essere compreso. Ed è necessario capire se il sostegno deve essere dato al genitore. Tra i casi portati in questa trattazione vi sono una mamma e un bambino simbiotici a tal punto che il piccolo di soli otto mesi ha sviluppato un tipo di spasmo affettivo che lo faceva cessare di respirare appena la madre non lo toccava più (vedi caso Spasmo affettivo: L’ultimo cavallino bianco). All’inizio mi ero posta l’obiettivo, andando avanti con gli incontri, di giungere infine a far uscire la mamma dal setting per approfondire il lavoro con lui appena fosse stato in grado di prendere distanza fisica da lei. Dopo l’incontro in cui la simbiosi è stata risolta dal gioco degli abbracci è sorta in me la consapevolezza che fosse il bambino a dover uscire dal setting in quanto proprio la madre portava con sé la storia pesante che aveva provocato il sintomo condiviso con suo figlio. La seduta successiva la madre si è presentata sola.
Quando un genitore porta un figlio in terapia c’è sempre una richiesta di aiuto, noi dobbiamo solo capire quali sono i bisogni e chi riguardano. È lì che, in alcuni casi, è forte la sensazione di dover prendere in carico la coppia madre/bambino poiché essa non ha trovato spazio e tempo per esprimere la sua parte sana, così da dilagare nell’esigenza del sintomo come richiesta di aiuto.
Spesso i bambini arrivano in terapia con una diagnosi in cui tutta la famiglia si rifugia, e magari è sbagliata. Ed è fin troppo facile definire un genitore poco buono anziché accogliere ciò che di destabilizzante può essere osservato del suo rapporto con il figlio.
Ma c’è anche una questione molto delicata che riguarda l’immaginario dei genitori. Spesso durante l’incontro con il piccolo per una prima valutazione, lui immediatamente appare molto diverso da come è stato descritto dai genitori. Vi è sempre una proiezione, un’idealizzazione o un investimento su quel figlio che offusca la persona reale ma che va considerata in quanto comunque l’immagine che il genitore ha di suo figlio incide sempre su come lui realmente si rappresenta. Così spesse volte nel setting madre/bambino possiamo osservare un vero e proprio gioco in cui lo spostamento dal ruolo dato dalla madre, o a volte da tutta la famiglia a quel bambino, comunica attraverso la provocazione indicazioni molto utili. Nel caso Fratelli: Una chioccia tre pulcini Sofia usciva dalle aspettative di sua madre che dichiarava di non riconoscerla più, tenendo un comportamento particolarmente maleducato e impattante socialmente. In questo modo sapeva che sarebbe giunto presto l’aiuto e anche nel setting ripeteva, come in una drammatizzazione, tale comportamento dirompente quale affermazione del suo carattere ribelle, emerso solo al momento della perdita del fratellino. Poi, nel ritrarsi con la madre accanto alla casa, si disegnava bella pettinata e la madre appariva arruffata e in disordine, mentre nella realtà era sempre esteticamente perfetta. Così a me era presentato graficamente il ritratto della bambina quale la madre desiderava che fosse, e il ritratto della madre quale era realmente nel suo disordine affettivo/depressivo. Nello stesso momento la madre e la figlia reali nel setting si rappresentavano all’opposto, come in una scena teatrale, rendendomi chiara la situazione e agevole l’aiuto.
La diagnosi dovrebbe basarsi su una valutazione psicodinamica ampia, che apra alla comprensione del luogo in cui è adesso il paziente e di quello in cui deve andare. Si tratta di uno strumento vivo e le strade da intraprendere possono cambiare in itinere. “La diagnosi di un paziente non solo diventa più chiara col procedere dell’analisi, ma anche si modifica” (32, pag. 167) e ciò è particolarmente vero con i bambini, che crescono e cambiano continuamente e con le loro madri, che evolvono di conseguenza.
L’arte terapeuta osserva in particolare l’aggressività e le resistenze. L’aggressività all’interno del setting viene esternata a tre livelli, quello del comportamento, quello dell’atteggiamento distruttivo verso il prodotto, quello verso i contenuti del prodotto.
Le resistenze riguardano alcune affermazioni che il bambino può fare, come non voglio o non so disegnare, non voglio più venire. Oppure possono riguardare la madre che afferma “Se continui così andiamo via” oppure “È l’ultima volta che veniamo”. La presenza nel setting della madre e del bambino amplia questo tipo di osservazione poiché l’atteggiamento distruttivo verso il prodotto e i suoi contenuti, come vedremo nei casi portati, può riguardare una aggressione da parte del bambino del prodotto della madre oppure della madre stessa, aggressione fisica, oppure aggressione verbale della madre verso il bambino. Qui l’arte terapeuta è messo a dura prova nella propria capacità di contenimento e di protezione delle aree in cui avviene lo scambio infinitamente complesso tra madre e bambino, soprattutto in presenza di dolore, trauma, patologia, perdita. Ma allo stesso tempo si tratta di una sorta di rappresentazione spazio temporale in cui la danza, lo scambio di sguardi, la collaborazione o la distanza tra i due dona infiniti spunti di riflessione per l’aiuto.
L’attenzione a cercare materiali condivisibili da madre e figlio è fondamentale in quanto crea la possibilità, ma non certamente l’obbligo, di lavorare insieme e condividere lo spazio e il tempo, soprattutto nei casi in cui la vita abbia negato questo. I materiali dovrebbero anche rispondere alle esigenze dei temi per i quali i due sono lì. Alcuni esempi sono i sassi lisciati dal mare per il trauma, che danno il messaggio della possibilità di cambiare con il passare del tempo, di ammorbidire la pietra scheggiata del cuore spezzato dall’evento (vedi caso Perdita e malattia: La merla e l’uovo rotto). Nei casi di simbiosi gli spazi orizzontali, che sono i primi che il bambino conosce e nei quali può avventurarsi senza difese, possono essere arricchiti e sottolineati da strade di carta e palle di gommapiuma o di stoffa, così da rendere visibile la possibilità di un percorso altro rispetto a quello del sintomo che in quel momento ingabbia madre e bambino impedendo la crescita di entrambi (vedi caso Spasmo affettivo: L’ultimo cavallino bianco). Nei disturbi alimentari il collage dà la possibilità di realizzare lavori perfetti in poco tempo, con minimi contributi artistici, ma le parti ritagliate da offrire ai pazienti devono essere scelte accuratamente, preferendo quelle artistiche o i paesaggi naturali (vedi caso Disturbo alimentare e del sonno: Il barbagianni che non sapeva dormire).
I bambini creano con i materiali, noi osserviamo il loro lavoro che ci dà sensazioni spesse volte confutate da ciò che affermano: è importante non attribuire significati a quanto osservato poiché la comunicazione è sempre molto soggettiva.
L’uso dello spazio nei lavori può essere messo in relazione alla linea di attaccamento e a quella di separazione, le dimensioni verticali indicano separatezza e quelle orizzontali fusione, confusione, legame a due. Quando un bambino entra e si butta per terra mostra di voler essere abbracciato, se invece sta rigido e diritto mostra un timore verso il contatto: solo nello sviluppo omogeneo delle due modalità troviamo una normalità dello stare bene. Quando nel setting c’è anche la madre il significato di tutto questo può variare sensibilmente, ma l’apparente complicazione si semplifica nel ridisegnare il movimento e le interazioni tra i due nello spazio.
Dall’osservazione dei bambini autistici sono state desunte molte cose sui materiali morbidi e su quelli duri. I materiali morbidi e modificabili, dalla stoffa alla velina al cotone all’acqua, evocano l’esperienza materna, il contatto, l’accudimento. I materiali duri invece rendono un senso di confine, è una sensazione forte che però solidifica il discorso del contenimento. Nella linea della separazione il confine demarca l’interno dall’esterno. I materiali e gli oggetti duri come il martello, il filo di ferro, i legnetti, danno un’esperienza di reazione della linea di separazione. È necessario osservare che approccio ha il bambino con tutte le funzioni corporee e come reagisce a questo sua madre. Preferire materiali puliti può significare anche avere paura di attivare in modo troppo diretto alcuni organi. Questo significa che è possibile capire in che modo i pazienti sono in contatto con se stessi attraverso l’osservazione di come scelgono e usano i materiali artistici.

2. Perché un setting madre/bambino in arte terapia

I bambini danno molta più importanza a ciò che i genitori fanno, che a ciò che essi dicono.
(Marie von Ebner-Eschenbach) 

“Ciò che distingue i neonati umani da quelli di altri mammiferi è la sensibilità che il bambino possiede per l’interazione con altri umani” (18 pag. 42).
Sue Gerhardt, partendo da questo importante presupposto, narra appassionatamente della dipendenza del piccolo neonato dall’espressione facciale, ipotizzandone la nascita nei primati della savana africana, dove i progenitori dell’uomo avevano la necessità di intendersi silenziosamente, per non attirare l’attenzione dei predatori. Le esperienze con lo still-face, paradigma di faccia a faccia con volto inespressivo, espandono tali concetti dimostrando come in assenza di espressione facciale e dunque di empatica partecipazione della madre, vi sia un “fallimento per co-creare significati e formare stati diadici di coscienza” (1, pag. 55). Di fronte al volto inanimato della madre inizialmente i piccoli cercano di ripristinare il rapporto con lei attirandone l’attenzione, poi si isolano, diventano tristi e cercano dei metodi di auto consolazione come quello di succhiarsi il dito. È stato ipotizzato, nell’assenza di espressione facciale della mamma, un vissuto di pericolo che sfocia in quello di non credere di esistere più. Questa traumatica interruzione o in alcuni casi di assenza da sempre del rapporto visivo con chi dà la vita e il nutrimento, crea una sensazione di essere perduti che però non è irreversibile, anche se i ricercatori hanno dimostrato che gli orfani rumeni abbandonati nei loro lettini tutto il giorno “presentavano un buco nero là dove di fatto avrebbe dovuto svilupparsi la corteccia orbito-frontale” (18 pag. 47).
Se presa in tempo, l’assenza di espressione della madre tipica della depressione post partum ma anche di altre patologie, può essere contenuta all’interno di un setting che permetta alla relazione di essere nuovamente accolta.
Tale reversibilità è narrata dalla Gerhardt nella presa in carico di madri con i loro bambini. In particolare è trattato il caso di una donna in carriera, alla prima gravidanza e non più giovane, e di una bimba che quando lei si avvicinava si girava dall’altra parte. L’atteggiamento della piccola provocava nella madre una rabbia che sfociava in pensieri di infanticidio ma non sappiamo come e perché tale sistema si fosse innescato. In quel caso il contenimento terapeutico in setting madre/bambino aveva reso possibile alla madre di osservare le esigenze della piccola e i suoi segnali corporei e di rispondere semplicemente ad essi con azioni materne di accudimento. Questo in poco tempo aveva assicurato al rapporto un piacere reciproco (18 pag. 48).
Le molteplici esperienze in tirocinio, effettuate al Centro Nascite La Margherita di Firenze, a Neuropsichiatria Infantile e presso l’Associazione La Fonte di Settignano, svolte nell’arco dei quattro anni di formazione con setting arte terapeutico madre/bambino, hanno mostrato quanto tale contenimento sia possibile ed efficace attraverso l’uso dei materiali così che, come dice la Gerhardt, la madre possa trovare un luogo in cui rappresentare insieme al suo bambino ciò che non è in grado di dire (18 pag. 61).
In particolare la presenza di trauma, o patologie precedenti alla nascita del piccolo, ha potuto riportarmi, come terapeuta, all’osservazione del rapporto complesso e strettissimo che si crea nella mente della madre fin dalla prima idea di bambino, sul filo dell’immaginario e della quasi opposta realtà dei fatti, colma di cose da fare e intensità pratica del cambiamento.
Così nel tempo, dalla prima convinzione che in ogni situazione potesse essere efficace accogliere e dare un luogo terapeutico alla coppia madre/bambino, nel corso dell’esperienza in tirocinio la complessità di questo tipo di setting mi ha guidata verso una sfaccettatura di tipologie di rapporti e di relazioni che avrebbero dovuto essere accolte in modi diversificati. Come sempre la strada, attraverso la conoscenza soprattutto sul campo, si fa tortuosa e complessa, semplificando allo stesso tempo i punti focali delle questioni.
Nella trattazione di questo tipo di setting arte terapeutico, denso di presenza e bisognoso di una particolare cura e osservazione, è importante partire con notevole flessibilità, unitamente alla forte capacità di entrare nel setting senza memoria e senza desideri così come Bion insegna.
Quando un bambino giunge in terapia la richiesta è quasi sempre espressa da uno o più adulti. Lui si presenta con i genitori, i quali difficilmente condividono tale decisione in egual misura. Sta al terapeuta implicarli nello stesso modo poiché chi non si è fatto vivo all’inizio prima o poi entrerà, a volte in modo molto impattante, nel setting. Scrive Anna Michelini Tocci che accogliere i genitori significa accoglierli entrambi, se il terapeuta accetta di vederne solo uno l’altro remerà contro, sentendosi escluso, anche se è lui che si dichiara non disponibile. Molti terapeuti da sempre trovano utile considerare il triangolo della famiglia del bambino preso in carico e in particolare capire se la comunicazione avviene tra tutti e tre i vertici o no. Può succedere che uno dei componenti non esista, è accaduto un po’ così a Giuliana, la madre simbiotica del caso Spasmo affettivo: L’ultimo cavallino bianco.
Ma è anche fondamentale ricordare chi porta chi, poiché il bisogno del genitore non sempre può essere espresso direttamente. Francesca Koch Braschi parlando di suo figlio racconta: “Mi dicevano che se non lavoravo su di me non lo avrei potuto aiutare, che era il senso della mia esistenza che dovevo trovare […] conoscere le mie emozioni […] Il dolore di mio figlio era l’aspetto esterno di altri nodi esistenziali che io stessa non sapevo né volevo affrontare” (23 pag. 272).
Così, fino dalle prime esperienze di lavoro con i bambini, è necessario rendersi conto che la terapia sarà inefficace fino a quando non saranno accolti anche i loro genitori. Ma il dolore del bambino svia il terapeuta in questo senso ed è talmente forte e tangibile che spesse volte lo confonde. Scrive Nadia Neri: “Spesso la nostra storia, o le nostre carenze affettive, ci fanno scivolare inconsciamente a identificarci con il figlio, rischiando così di perdere i genitori” (23 pag. 42). Jung ci parla approfonditamente del ruolo del salvatore per cui i terapeuti si identificano con il genitore buono. Ma sappiamo che andrà accolto e compreso il genitore meno buono, quello complesso e ferito, cattivo, poiché è proprio lì che uscendo dal labirinto sarà chiara la via per aiutare il piccolo che si trova nel setting. Vedere i genitori insieme al piccolo consente al terapeuta di capire se il problema portato da loro è un problema anche per lui. Ma è importante soprattutto all’inizio raccogliere da essi solo le notizie strettamente necessarie in quanto spesso il bambino è molto diverso da come è descritto, così accade di dover lavorare troppo in seguito per prendere le distanze da quella immagine di lui che non è rispondente alla realtà.
Non dobbiamo mai dimenticare che i genitori fanno una grande fatica nel portarci i loro figli, perché non vogliono credere di non saperli aiutare. Scrive la Vallino che i bambini si aspettano dalla presenza e dalla testimonianza del terapeuta di poter essere rimessi in contatto con i genitori, e sottolinea la necessità che l’analista porti i genitori verso la comprensione dei problemi del bambino: “un importante risultato è stato condurre pian piano i genitori a farsi loro stessi attenti osservatori” (23,  pag. 245).
L’alleanza e il lavoro con il bambino si possono intraprendere quando si è già creata con il genitore, accogliere i genitori in terapia significa sapersi confrontare con i genitori interni del bambino, non accoglierli significa escludere un’importante parte del bambino stesso (23, pag. 204). Scrive Sue Gerhardt che “L’atteggiamento critico (verso i genitori ndr) non migliora la loro capacità di fornire risposte positive ai propri bambini” (18, pag. 31).
I bambini usano in modo spontaneo i materiali, l’ambiente e il terapeuta, alcuni vengono nel setting per giocare, altri per trovare un alleato contro i genitori, altri per tranquillizzarli. L’alleanza nasce con il tempo, ma è fondamentale poiché “la partecipazione del paziente è tanto creatrice del processo quanto quella del terapeuta […] una psicoterapia o una terapia istituzionale fallirà se il paziente non stabilisce un’alleanza positiva con il terapeuta aderendo al progetto di cura” (12, pag. 249).
Ciò che i bambini portano non appartiene al loro passato ma al qui e ora. L’alleanza terapeutica diviene dunque cooperazione.
Accade a volte di identificarsi con le aspettative onnipotenti dei genitori. Il bambino può essere portatore di aspetti ombra rimossi poiché i suoi sintomi possono esprimere dei conflitti familiari inconsci (23, pag. 190). Accade così che appena il bambino migliora venga immediatamente tolto dalla terapia poiché quel sintomo che ha subìto un’attenuazione risultava utile alla famiglia, al contorno del bambino. Ciò è più facile che non avvenga quando è presa in carico la coppia madre/bambino (vedi caso Fratelli: Una chioccia tre pulcini in cui l’interruzione sarebbe avvenuta molto presto se fosse stata presa in carico solo la figlia).
Esistono alcuni schemi strutturati per la prima seduta di arte terapia con un bambino, in cui si prescinde chiaramente dalla presenza del genitore. Sono schemi da cui poter partire, soprattutto in casi in cui vi sia la necessità di standardizzare per effettuare un lavoro di ricerca. Tali schemi vengono usati anche molto creativamente dagli arte terapeuti, come punti di partenza per trovare poi una strada personale, da adattare a ogni bambino poiché l’arte terapia va inserita sempre nel contesto relazionale. In particolare la fase della separazione, sottolineata da Avi Goren nella capacità che ha il piccolo di separarsi dall’elaborato artistico, risulta particolarmente intuitiva e complessa e va gestita in modo peculiare e flessibile rispettando le infinite soluzioni che i bambini trovano (vedi il saluto alla terapeuta in forma di anello nel caso Fratelli: Una chioccia tre pulcini).
Molti arte terapeuti sostengono la seduta libera poiché quella strutturata impedisce di osservare cosa avrebbe fatto il bambino se lasciato libero: scrive Moustakas che “i bambini hanno bisogno di sentirsi liberi per potersi esprimere senza riserve, paure e costrizioni, facendo cadere le difese” (20 pag. 39). La seduta libera, soprattutto per la prima valutazione, rende possibile ascoltare il piccolo senza avere già in mente una griglia, poiché l’obiettivo finale consiste nel favorire l’integrazione tra la dimensione non verbale e quella verbale.
Nello stesso tempo, nei setting madre/bambino, a volte l’enunciazione di un tema aiuta il terapeuta a dare sequenzialità alla seduta e a rendere leggibile la relazione. Nell’obiettivo terapeutico, è importante puntare sul cambiamento. In questo senso è molto rilevante come sono strutturati il setting e gli incontri, ed è necessario mantenere una certa elasticità per via dell’ambiente sufficientemente buono che dobbiamo offrire alla coppia presa in carico. 

1. Premessa

A Rosaria, Angela, Elena, Federica, Giovanna, Mona Lisa, Simone
Preziosi compagni di viaggio.

L’arte è una bugia necessaria a scoprire la verità.
(Pablo Picasso)

Il contenuto di questa monografia nasce dal lavoro di ricerca da me svolto nel corso della formazione presso la scuola Art Therapy Italiana di Bologna. La raccolta delle esperienze riguarda in particolare l’interazione madre-bambino in molti dei suoi aspetti.
La monografia presenta due parti, una teorico-storica e l’altra sui casi. Ogni caso è presentato sinteticamente e approfondito in forma di racconto illustrato, quale strumento utile alla mia personale rielaborazione e comprensione di esso.
Ringrazio la scuola di Art Therapy, Rosaria Mignone per l’attento e accuratissimo lavoro di supervisione e i miei preziosi compagni di formazione.

Il richiamo della musica

“Diversità? In un mondo come questo la diversità è l’unica cosa che ci contraddistingue uno dall’altro… in ogni senso… per me non esiste alcun tipo di diversità”.
È così che inizia l’intervista a Maurizio Marras, artista nato a Genova nel 1969.
“La musica è il modo migliore che ho per esprimermi, per dire ciò che provo dentro, nel bello e nel brutto. È sicuramente un libero sfogo alle mie emozioni, ai miei sentimenti… Nelle mie canzoni cerco comunque di essere sempre molto ottimista, questo è per me il messaggio più importante da trasmettere. La musica mi ha aiutato e mi aiuta a vivere meglio e a superare i momenti più difficili”.
Una carriera che sembrava avviata verso un preannunciato successo… Invece Marras trova quello che lui stesso definisce una compagna fedele, la Sclerosi Multipla.
Le condizioni di salute costringono l’artista a rallentare progressivamente i suoi impegni e dal 1995, interrompe sostanzialmente la sua attività, limitandosi a saltuarie collaborazioni con altri artisti, sia in studio che in esibizioni live.
Nel 2001 l’incontro con il musicista/arrangiatore Enrico Pinna riavvicina Marras all’ambiente musicale, gli ridona energia e voglia di cantare: nasce così After the Innocence, un CD album di cover di brani più o meno famosi.
“Ho ricominciato a cantare e scrivere canzoni, questo mi dà la forza perché la sclerosi multipla non cancelli i miei sogni e le mie emozioni. Ho voluto raccogliere e interpretare le canzoni che hanno accompagnato tutti i momenti, belli e brutti, dalla mia adolescenza fino ad ora. Quindi mi propongo in questo lavoro discografico solo come interprete, e non come autore, perché penso che in queste canzoni sia racchiuso tutto ciò che provo…”.
After the innocence è il risultato di una maturazione, personale e artistica, raggiunta nel corso degli ultimi sette anni, e realizzata grazie all’aiuto e alla collaborazione di persone veramente “speciali”.
“La mia passione per la musica nasce a 13 anni e non mi ha mai abbandonato… Iniziai con le sigle dei cartoni animati. All’epoca non avevo ancora la sclerosi multipla… e non è mai cambiato nulla nel mio amore per la musica”.
Da ragazzino infatti inizia a frequentare il Centro Musicale Genovese sotto la guida di Nancy Mac Donald, “una cantante lirica che era in grado di fare qualsiasi cosa con la voce” dice Marras.
Già a 14 anni partecipa nel milanese ai suoi primi concorsi canori ed è ospite di emittenti radiofoniche e televisive regionali in varie parti d’Italia. Il debutto a livello nazionale nel 1992, con l’Lp Estensioni, che lo vede autore dei testi e interprete delle canzoni.
Seguono altri lavori, ottimi piazzamenti in concorsi nazionali, inviti in importanti trasmissioni televisive. Partecipa con ottimi risultati a concorsi e festival nazionali, tra cui “Oltre l’hit parade” festival organizzato da radio Babboleo, Il Secolo XIX, Sbeng Records e dal gruppo Bmg (A Bertelsmann Music Group), con inserimento nell’omonima compilation pubblicata nel ’93 da Sbeng Records/Bmg Ariola distribuita da Bmg Ariola, e “Winner Parade ’93” – trasmessa da Italia 1 nella trasmissione Unomania – Winner Parade, presentato da Federica Panicucci con inserimento nell’omonima compilation pubblicata da Polydor distr. Polygram.
“Le maggiori difficoltà che ho incontrato si possono immaginare… Un mondo difficile e crudele, soprattutto dopo l’arrivo della mia malattia… Forse la più grande difficoltà è stata quella di mettersi in  gioco. L’ho superata semplicemente essendo me stesso. Non è stato semplice, ma ho detto: questo sono io, con i miei problemi. Io vorrei scrivere e cantare canzoni.
La mia condizione ha influenzato tantissimo il mio percorso. Quando ho iniziato ad avere dei problemi ho cominciato a pensare: ma a chi può interessare qualcosa di me? Con tutti i cantanti bravi, belli e agili che ci sono… Ma adesso, dopo una certa maturazione personale e artistica, ho preso il coraggio di provare comunque…
Le persone a me vicine che mi avevano incoraggiato all’inizio, quando hanno cominciato a comparire i miei problemi mi hanno sconsigliato di continuare. Per un po’ l’ho fatto, ma il richiamo della musica è stato molto più forte. Io vado avanti!
La musica mi ha dato la possibilità di pensare meno alle cose tristi, mi ha dato serenità, a volte anche problemi… ma comunque sono qui”.
“L’impatto con il pubblico è stato comunque difficile, nonostante una certa sicurezza acquistata con varie esperienze, ma indubbiamente è un impatto molto positivo, solare, dove tutti mi hanno sempre fatto sentire a mio agio. La cosa fondamentale per me è capire e cantare i sentimenti di tutti come cosa positiva della vita, al di là di ogni problematica. I messaggi devono arrivare al cuore…
Di solito non mi piaccio mai quando riascolto le mie canzoni, ma è solo la voglia di poter fare meglio. Devo dire però che ho avuto delle soddisfazioni importanti e a volte inaspettate… Ho la sensazione, anche dalle dimostrazioni di affetto da parte di chi mi ascolta, che questi messaggi vengano recepiti…”.

Per saperne di più:
www.myspace.com/mauriziomarras

La danza-disabili: colori, luci, pennellate ed emozioni

La mia formazione, sia nell’ambito della danza che della psicologia, mi ha portato a cimentarmi nell’insegnamento della danza ad alcune persone disabili.
Le persone con le quali faccio questa attività hanno diversi gradi e tipi di disabilità, spesso anche abbastanza invalidanti sia sul piano fisico che mentale, che però non toglie l’entusiasmo con il quale cercano e aspettano il momento di “ballo”.
La danza è una parte fondamentale della mia vita e, per me, è paragonabile a un quadro di una corrente artistica, che si rifà a esercizi, precisione, coordinazione, linee, espressività e determinazione a pretendere il massimo.
Con i disabili di questo gruppo il lavoro che si fa è paragonabile a una corrente artistica che parte dagli stessi materiali, ma punta a un quadro il cui effetto è dato da accostamenti differenti, pur utilizzando gli stessi elementi di base.
Non si può dire che una corrente sia meglio dell’altra. Linee, colori, luci, ombre, pennellate… Elementi essenziali che si realizzano tramite tecniche diverse, che però riassumono l’espressione dell’artista e ne trasmettono in un modo o nell’altro quello che ha dentro.
Ciò che si ottiene in entrambi i casi lascia un’emozione, permette di cogliere qualcosa che, talvolta può essere riconducibile a un soggetto-oggetto ben definito e, altre volte invece a un’impressione più astratta, meno definita, che richiede che entrino in gioco modalità di mettersi in contatto con la tela e con l’espressività dell’artista partendo da un qualcosa di percettivamente istintivo.
Nell’attività con i ragazzi mi sento di partire da due estremi: da un lato i colori, quando sono ancora sulla tavolozza, e dall’altro l’effetto finale del quadro, quando guardandolo, a volte senza un motivo per così dire “conscio”, ci si emoziona. Ecco da cosa parto: colori primari ed emozioni.
In termini “danzerecci”: movimenti semplici e divertimento.
La mia lezione si svolge così: innanzitutto un saluto caloroso a tutti, uno ad uno, modulando lo scambio sulla base di chi ho davanti. Una delle cose più belle è il ri-trovarsi, così come il ripetere in modo quasi rituale battute o gesti di complicità e di affetto.
Dopodichè tutti in cerchio e via con la musica! (bella alta, deve dare energia!). Si parte a riscaldare tutto il corpo, cercando il più possibile l’isolazione delle singole parti, in modo tale da iniziare a sentirsi, percepirsi, ri-conoscersi. Ciò su cui premo durante il riscaldamento è che tutti provino a fare i passi. Mi avvicino a ciascuno di loro per aiutare ed eventualmente modulare insieme il movimento, chiedendo prima e poi cercando, con delicatezza non intrusiva, di guidare il loro corpo. Che soddisfazione quando, dopo qualche volta, riescono da soli!
Una cosa a cui tengo, forse con un’ottica più psicologica e psico-educativa, è solidificare la loro consapevolezza della parte destra e sinistra del corpo che, oltre a essere propedeutica alla creazione stessa dei movimenti, può permette loro di raggiungere una maggiore autonomia nella quotidianità. Successivamente decido gli esercizi e le coreografie da fare, in genere richiamando i passi fatti durante la lezione e lasciandomi guidare dal clima, dall’umore del gruppo e dal numero di persone presenti. Ai ragazzi in carrozzina riservo movimenti mirati a esercitare maggiormente resistenza, forza e allungamento, ovviamente calibrati sulla base delle loro capacità.
Quando poi arriva il momento del ballo libero, è un vero scatenarsi! Tutti in cerchio a incitare chi  (uno dopo l’altro) diventa il protagonista. Io porto in centro e ballo con ciascuno di loro, ma qui sono loro che possono avere l’inventiva e l’iniziativa! Io li seguo e accetto a specchio le loro evoluzioni, alcune volte guidandoli a variare eventuali schemi ripetitivi, altre stimolandoli a sperimentarsi  incentivati non solo da me, ma da un contesto meno richiestivo e più spensierato.
Alla fine c’è il momento del “respiro” dove ci rilassiamo respirando con calma, con l’obiettivo di riportare a livelli adeguati anche l’eventuale sovra-eccitazione data dal movimento, seguendo una musica pacata e proponendo movimenti più lenti e distensivi (ma non meno difficili da seguire!).
Ciò che trovo impegnativo nella mia esperienza è motivare i ragazzi al movimento: a un movimento consapevole (che lo rende già di per sé più preciso) e di continuare a esercitarlo anche mentre mi soffermo su ognuno di loro per aiutare nell’esecuzione.
Essenziale è dare punti di riferimento, metafore e rinforzare ogni piccolo risultato. Non solo per raggiungere la precisione del movimento, ma anche per arrivare a capire qual è l’obiettivo ideale, averlo in testa, oltre che davanti agli occhi. Senza dimenticare di cercare di divertire e divertirsi, di ironizzare e di creare un gruppo affiatato e collaborante.
Anche chi magari tende più di altri a “perdersi” e si isola un po’ in movimenti ripetitivi e poco finalizzati (come dondolamenti delle braccia o del bacino), risulta un ottimo spunto per la lezione, perché mi permette di richiamare esattamente quei movimenti e renderli adeguati e finalizzati. Riferendoli anche in modo scherzoso direttamente al diretto interessato (“e adesso il movimento preferito di…”), si riesce ad agganciare la loro attenzione e di conseguenza la loro partecipazione e “presenza” all’interno del gruppo.
Pur traendo molta energia e soddisfazione da quest’ora di ballo, non è facile seguire tutti, non è facile catturare e mantenere l’attenzione, la motivazione all’impegno e alla concentrazione, non è facile trovare passi fattibili e modellabili su tutti. Un elemento importantissimo per la riuscita di tutto ciò è la compresenza alla lezione di operatori-educatori che affiancano i ragazzi e aiutano a svolgere al meglio l’attività, spalleggiandomi nell’affrontare le difficoltà sia di attenzione che di movimento e mantenendo sempre alto il morale del gruppo.
Ed è così che si arriva a un quadro di movimenti, colori e luci che lascia, in chi osserva, un sorriso, una bella sensazione. Data forse da quel braccio che doveva essere teso ma non lo è? Data da qualche “inghippo” di gambe in più? Può darsi, ma rimane il fatto che risuona di entusiasmo e gioia, ed è piacevole lasciarsi risuonare ed emozionare da tutto ciò.

Il Teatro Oltre il Silenzio: le avventure di un Pinocchio accessibile

Si può raccontare a teatro una favola accessibile a tutti i bambini, anche a quelli con problemi sensoriali? L’Associazione romana Li.Fra, nata nel 2009 dall’incontro tra diverse personalità appartenenti al mondo dello spettacolo e del sociale, ha risposto a questa domanda dando il via al progetto “Teatro Oltre il Silenzio”, che, in collaborazione con l’Associazione di Viterbo CulturAbile Onlus, ha utilizzato le tecniche di LIS (Lingua Italiana dei Segni), Respeaking (sottotitolazione in tempo reale), Audiocommento e Sovratitolazione, per portare a teatro la storia di Pinocchio. Le avventure del piccolo burattino di fronte a un pubblico integrato di bambini normodotati, non udenti e non vendenti.
Una ricerca inclusiva sperimentale, in Italia unica nel suo genere, su cui abbiamo intervistato Lisa Girelli, presidente di Li.Fra e Saveria Arma, presidente di CulturAbile.

Come ha preso avvio il percorso di Teatro Oltre il Silenzio?
LISA GIRELLI: L’origine di Teatro Oltre il Silenzio è stata quasi casuale perché nata da un’informale chiacchierata con un amico, Marco, anche lui teatrante e divenuto sordo a causa di un  incidente, durante la quale si lamentava con me del fatto di non poter più accedere, con la stessa frequenza e qualità, alla maggior parte dei prodotti culturali in circolazione nel nostro paese, sia che si trattasse di film o di spettatoli teatrali. Io e gli altri attori che ora fanno parte di Teatro Oltre il Silenzio eravamo già una compagnia con un proprio circuito e così a Marco è sembrato subito naturale lanciarci una sfida, quella cioè di provare a rendere i nostri spettacoli accessibili a tutti, con una particolare attenzione alle persone affette da sordità e cecità. Da lì è iniziata anche la sfida di Li.Fra e la collaborazione con strutture sanitarie, associazioni di volontariato e enti pubblici che ci ha permesso di sperimentare e produrre una serie di spettacoli inizialmente rivolti ad adulti normoudenti e non udenti, capaci di affrontare diversi generi e tematiche, dalla commedia brillante Il paradiso può attendere (2009) all’impegnativo e drammatico From Medea (2010).

Pinocchio. Le avventure del piccolo burattino è invece il primo spettacolo che Teatro Oltre il Silenzio rivolge ai bambini. Si tratta di una scelta legata alla vostra ricerca attoriale o, anche in questo caso, il seguito di un incontro?
LISA GIRELLI: Direi che si è trattata più che altro di una scelta naturale. Il gruppo lavorava già da tempo nell’ambito del Teatro Ragazzi e a contatto diretto con i bambini nei laboratori scolastici, così abbiamo semplicemente pensato di riadattare all’occasione un testo esistente a cui già ci stavamo a lungo dedicando.
In questo caso però, a differenza dei nostri primi spettacoli come From Medea, in cui l’integrazione tra la parte recitativa e tecnica era più essenziale, qui, grazie all’aiuto di CulturAbile abbiamo inserito e sperimentato l’uso di nuove tecniche e nuovi linguaggi, dalle tecniche di LIS (Lingua Italiana dei Segni) e Respeaking (sottotitolazione in tempo reale) a quelle di Audiocommento e Sovratitolazione, con l’aggiunta di fumetti e immagini, che ci hanno permesso di rendere accessibile lo spettacolo contemporaneamente a un pubblico di bambini non udenti e non vedenti.
L’obiettivo, per nulla facile, era quello di inglobare tutti questi linguaggi come un corpo unico nello spettacolo.

Una prova decisamente impegnativa, anche perché il teatro è già per sua natura l’arte accessibile per eccellenza, basti pensare al suo rapporto costitutivo con la comunicazione preverbale… Come sventare, in quest’ottica, il rischio della sovrabbondanza dei linguaggi in uno spettacolo come Pinocchio?
LISA GIRELLI: Questa è stata esattamente l’impasse in cui, inevitabilmente, i tecnici e gli interpreti di CulturAbile e gli attori di Li.Fra si sono maggiormente scontrati e su cui abbiamo cercato di trovare una mediazione condivisa, a rispetto della totale comprensione del pubblico da un lato e della qualità artistica dall’altro, che è fatta non solo di tecnica ma anche di evocazione e di poesia.
La vera forza di questo progetto è stata iniziare avendo tutte le carte in mano.
Tutti sapevamo che il teatro è già di per sé accessibile, che le sue componenti interne devono scontrarsi, che è dall’attrito che nascono le scintille e che solo alla fine si va a limare. Non bisognava, quindi, creare un di più. Ci sono voluti nove mesi di studio e ricerca, in cui ci siamo incontrati con chi la disabilità la vive di persona e con diverse associazioni, in particolare con CulturAbile, dove abbiamo conosciuto persone creative e aperte. Tutti hanno sposato completamente la natura del progetto, la necessità di non invadere il campo dell’altro e all’occorrenza di compensarlo. Dove per esempio la nostra voce non poteva bastare a dipingere l’opera per i bambini non vedenti sono state inserite delle cuffie, che davano loro la possibilità di ascoltare un commento narrativo e più descrittivo capace di orientarli al meglio nella fiaba e, allo stesso modo, dove non arrivava il sovratitolo per i bambini non udenti arrivava l’elasticità del corpo dell’attore.

Cecità e sordità presentano problematiche differenti come avete fatto dal punto di vista teatrale a lavorare su entrambe?
SAVERIA ARMA: Abbiamo lavorato insieme su due fronti, quello della sovratitolazione e dell’audiodescrizione in modo non tradizionale.
Di solito queste tecniche forniscono un’informazione asettica ed esente da commenti e giudizi mentre noi, all’opposto, abbiamo cercato di audiocommentare non in un’ottica soggettiva ma narrativa, cercando cioè un equilibrio tra descrizione e narrazione. Si tratta di un metodo che unisce la tecnica di Respeaking (sottotitolazione in tempo reale) a quella dell’audiocommento e della sovratitolazione tradizionali. In Italia è un metodo ancora poco conosciuto mentre molto diffuso negli USA. Per quanto riguarda i bambini ciechi pur avendoli dotati delle comuni cuffie, abbiamo introdotto un altro personaggio, un vecchio nonno che fa da voce narrante. In questo modo l’aspetto descrittivo così come quello evocativo è stato affidato agli attori che hanno lavorato sul copione e sulla descrizione delle battute. Il grillo parlante, invece, è un personaggio che con il suo corpo parla e al contempo descrive utilizzando parte degli strumenti della LIS (Lingua Italiana dei Segni). In questo modo non si isola il bambino cieco e al contempo si dà un valore aggiunto a chi ci vede, agendo come un vero e proprio strumento di integrazione per i bambini disabili e normodotati.
Il lavoro sulla sovratitolazione è stato più semplice, anche se ha dovuto tenere conto di vari aspetti come per esempio il ritmo, dovendo adattarsi al tempo di lettura dei bambini che è sempre diverso da quello degli adulti. Inoltre a ogni personaggio è stato assegnato un colore che ne ricalca la personalità e intorno a lui disegna un’atmosfera, una tecnica diffusa per i non udenti già utilizzata da Li.Fra in From Medea.
I fumetti cui accennava Lisa, oltre che cartelli e insegne, fanno parte del tentativo di arricchire il sovratitolo creandovi intorno un contesto fantasioso, che così si trasforma in un elemento scenico oltre che di scrittura.
Oltre al grillo poi, anche gli altri attori accompagnano la loro recitazione con linguaggio dei segni, anche se non è il linguaggio dei segni vero e proprio. La LIS, infatti, lo dice il nome, non è un linguaggio ma una lingua dove non si parla di “gesto” ma di “parola-concetto”.
Quello utilizzato in Pinocchio è piuttosto un “linguaggio segnato” dove il mimico non corrisponde direttamente alla parola. Inizialmente per gli attori è stato molto complesso interagirvi perché sono passati da un condizionamento espressivo forte dato che, per vocazione, la Lingua dei Segni è molto teatrale.

Quali sono state le reazioni dei bambini disabili e quali quelle dei normodotati?
LISA GIRELLI: Un po’ di paura c’è sempre, sia per chi aveva bisogno di strumenti accessibili che per chi non ne aveva bisogno. Superata la prima parte i normodotati non si accorgevano più di nulla e si sono abbandonati completamente allo spettacolo. Per arrivare poi a rompere appieno le barriere, facciamo in modo di essere molto presenti in platea, i bambini sono seduti per terra e noi siamo lì, che passiamo in mezzo a loro e li stimoliamo anche dal punto di vista tattile con diverse sorprese…
Ricordo poi un episodio. Durante una replica a Seregno (MI), un bambino sordocieco nel momento in cui è entrata in scena la Fata Turchina si è alzato e ha cominciato a girare lentamente su se stesso come in una danza sognante. Questo è accaduto perché i bambini sordociechi percepiscono subito i cambi di atmosfera e ci restituiscono immediatamente la loro percezione.

SAVERIA ARMA: Per quanto riguarda lo spettatore udente, da parte dei bambini scaturisce subito una grande curiosità mista a un desiderio di emulazione con una partecipazione emotiva molto ampia.
Più che i bambini tuttavia il problema sono gli adulti che restano ambivalenti o prevale un senso di fastidio o una grande apertura nei confronti di una nuova possibilità espressiva.
Il processo di integrazione non si è ancora concluso, così come alcune questione tecniche, come capire dove il sovratitolo può essere il corrispondente del segno o ometterlo…
La sfida è oggi quella di portare parallelamente avanti questo tipo di lavoro, da testare di volta in volta su pubblici sempre diversi.

LISA GIRELLI: Il vero lavoro comincia adesso!

Per informazioni:
Lisa Girelli
Associazione culturale Li.Fra
Via Ostiense 71/A
00154 Roma
Tel./fax: 06/99.70.57.56
lisagirelli@yahoo.it
www.lifraweb.com

Saveria Arma
CulturAbile Onlus
Via dei Maratoneti snc
01028 Orte (VT)
info@culturabile.it
culturabile@gmail.com
www.culturabile.it 

Disabile? Che scandalo!

Ancora una volta lo spunto di riflessione mi viene suggerito da un fatto di cronaca. “Non vorrei mai che mio figlio vedesse bambini handicappati, potrebbe rimanere traumatizzato”, questo avrebbe detto una mamma, giornalista, ad alcuni colleghi, parlando del figlio che frequenta l’asilo nido. Sì, l’asilo nido: nell’età, dunque, in cui si è vere e proprie “spugne”, che raccolgono tutte le informazioni e gli stimoli nuovi che provengono dal mondo circostante. Quella dovrebbe essere l’età migliore per imparare la convivenza col “diverso”, per farlo divenire “normale”. Nel modo più naturale che esiste, ovvero nel processo di apprendimento del mondo circostante di un bambino piccolo. Io stesso vedo come i figli dei miei amici, in mia presenza, si divertano in modo del tutto spontaneo ad arrampicarsi sulla mia carrozzina, sulle ruote, non mostrando il minimo stupore o imbarazzo per la mia “trasparente diversità”, anzi, comportandosi con una tale spontaneità che conferma le teorie rousseauiane del “buon fanciullo”. Questi bambini percepiscono la diversità come una semplice caratteristica, senza darne un giudizio di valore. Solo col tempo, la vita in una società che ne condiziona il giudizio li porta a formulare categorie differenti, che li conducono a una classificazione più superficiale di categorie diverse di individui. Non credo che, in questo caso, si tratti della volontà di una madre di risparmiare traumi al figlio. Sono paure profonde, dovute, come lo sono molte paure immotivate, all’ignoranza. Questa mamma tenta di esorcizzare qualcosa che teme, probabilmente perché non lo conosce. Ritengo che si possa definire una forma di vergogna alla Sartre. In una società che ci impone il falso mito della perfezione, estetica e non solo, l’uomo non si scontra più solo con la propria coscienza, ma con una forma di coscienza collettiva. È il confronto con uno stereotipo artificiale che ci causa timore, senso di inadeguatezza, paura per tutto ciò che si discosta dal canone socialmente riconosciuto. La vergogna di sé e del prossimo può essere costruttiva se giustificata da un comportamento che si scontra con la nostra coscienza, che è quella che governa il nostro agire retto. Certamente, per non farci fuorviare, la coscienza deve essere correttamente istruita, altrimenti diviene un metro di giudizio dell’azione completamente falsato. Ma se la coscienza è retta, essa giudica per il meglio. Quando, invece, la nostra coscienza incontra il giudizio altrui, se è debole e poco allenata al giudizio proprio, si fa fuorviare da una serie di timori. Come dice Sartre, l’Altro irrompe con forza offuscando l’orizzonte libero dell’Io, della coscienza riflessiva. “Con l’apparizione di altri, sono posto in condizione di portare un giudizio su me stesso come su un oggetto, perché come oggetto mi manifesto ad altri”. La vergogna per Sartre è dunque riconoscimento: “Io riconosco di essere come altri mi vede”. Guardando con gli occhi di un bambino, invece, capiremmo davvero come la diversità non sia percepita come un limite dall’uomo, per sua natura. La diversità è quanto di più innato possa esserci: se pensiamo alla natura, vediamo come la biodiversità sia stato l’elemento che ha garantito cibo ed energia in tante zone della Terra, permettendo di salvaguardare specie vegetali e animali che, altrimenti, l’appiattimento genetico avrebbe reso deboli e portato all’estinzione. Anche il linguaggio che, pian piano, i bambini apprendono, favorisce il definirsi del concetto di diversità. Infatti, un linguaggio diverso è espressione anche di una diversa visione della vita. Nella Bibbia, per dire che Adamo riceve da Dio il dominio sulle altre creature terrestri, si legge: “Dio, il Signore, avendo formato dalla terra tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo, li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati, e perché ogni essere vivente portasse il nome che l’uomo gli avrebbe dato. L’uomo diede dei nomi a tutto il bestiame, agli uccelli del cielo e ad ogni animale dei campi; ma per l’uomo non si trovò un aiuto che fosse adatto a lui” (Genesi 2:20-21). Anche nell’antica Grecia il nome aveva un significato particolare. Nominare le cose significava dare ordine al mondo, conoscere le cose, classificare i concetti. Le divinità si potevano invocare solo se se ne conosceva il vero nome. Nell’Antico Testamento Dio non è nominabile, proprio perché non è conoscibile, l’uomo non può “farlo suo”. Gesù cambia il nome di Simone in Pietro, quando questi diviene suo Apostolo. Ancora oggi, anche in alcune zone d’Italia, si usa chiamare le persone con un nome che non è lo stesso di quello registrato all’anagrafe, per “ingannare” gli spiriti malvagi, invidiosi della felicità umana. Dunque, quando un bambino impara il nome che viene comunemente dato alla disabilità, allora ne percepisce l’esistenza. Finché non gli si impone un nome per definire la diversità, anche se percepita, il fanciullo non la considera comunque come qualcosa di anomalo. Anche perché, nei termini generici di “disabilità” e di “handicap” c’è un mondo intero di diversità. Raramente una disabilità viene chiamata col suo nome, proprio perché, appunto, non la si conosce. Si generalizza, segno di grande superficialità nell’approccio. Ogni persona è diversa, ma lo è anche ogni disabile: nessuno ha le stesse caratteristiche di un altro, sia esso “normodotato” o affetto da handicap. Dunque, che radici ha lo “scandalo” visto da questa mamma? Skàndalon significa ostacolo, inciampo. Per questa mamma l’handicap del compagno di asilo del figlio costituiva evidentemente un ostacolo morale. Nell’antica Roma, la pietra dello scandalo si trovava di fronte alla porta maggiore del Campidoglio. Dovevano sedercisi sopra coloro che avevano contratto dei debiti e non erano in grado di onorarli, dunque dovevano cedere tutti i loro beni ai creditori. Fatta questa pubblica ammenda, la colpa era ritenuta estinta e dal quel momento i creditori non potevano più rivalersi su di loro. Fu Giulio Cesare, si dice, a introdurre questo tipo di pena per sostituire una delle Leggi delle XII tavole che autorizzava i creditori a uccidere o ridurre in schiavitù il debitore. La carrozzina è come la pietra dello scandalo: l’handicap, in tutta la sua trasparenza, denuncia senza falsità e omissioni una condizione, una debolezza umana. Le persone “normali” hanno limiti talvolta ben più gravi, ma quasi sempre meno evidenti. Non siedono sulla pietra dello scandalo, dunque i loro limiti passano inosservati. Ma non per questo essi sono sanati: se non hanno nome, significa che non sono noti, non che non esistono. Dunque sarebbe opportuno che, fin da piccoli, i bambini si rendessero conto che ciò che più si teme è ciò che non si conosce, non ciò che è sotto gli occhi di tutti: chi non si nasconde ha in sé tutta la forza della schiettezza, dunque non può fare paura. I genitori che tentano di nascondere tutto ciò ai figli, questi sì, fanno paura.

Keith Haring (non) ha il senso del limite

“Il mio disinteresse verso i prodotti finiti e  le ‘affermazioni definitive’ illustra quest’idea”.
(K. Haring, Diari, Milano, Piccola Biblioteca Oscar Mondadori 2010, p. 39)

Il perimetro
“Sto sperimentando fisicamente il perimetro di un certo spazio. Dopo che ho segnato un certo spazio e creato un bordo, o dei confini, sono fisicamente consapevole dei miei limiti. Ho creato i miei confini e il mio spazio. Poi inizio a lavorare da una certa area e ci costruisco sopra finché ho riempito o preso in considerazione tutto lo spazio precedentemente delineato”.
(K. Haring, Diari, Milano, Piccola Biblioteca Oscar Mondadori 2010, p. 37)

Niente, come il concetto di limite, può descrivere meglio l’arte di Keith Haring.
Limite come spazio circoscritto, come contenitore, come opportunità.
A partire dalle esperienze artistiche che vedono Haring riempire di disegni le metropolitane newyorchesi.
“Non ricordo come ho iniziato a fare disegni nella metropolitana. Ricordo quando ho iniziato, ma non il perché. Ricordo solo un pannello perfettamente vuoto che sembrava il posto ideale per realizzare un disegno così ho comprato un gessetto e mi sono messo a disegnare”.
(Christina Clausen, L’universo di Keith Haring, documentario, Italia, Francia 2007)

Quasi come se l’atto fosse più importante del contenuto, un’energia incontenibile lo spingeva a riempire quegli spazi vuoti con segni semplici ma che catturavano l’attenzione dei passanti.
Nel pubblico e nella verifica immediata del valore del suo lavoro si trova una delle motivazioni che lo muovono a continuare nonostante il rischio di venire arrestato o multato.
Le persone che incontrava per strada o in metropolitana, in fondo, difficilmente entravano in un museo, in questo modo Haring riusciva a portare il museo da loro, allargando il limite della fruizione artistica.
Alle persone che gli chiedevano perché lo facesse rispondeva che non era per soldi bensì perché tutti potessero goderne.
Quel disegno, in fondo, riempiva un vuoto, fisico e culturale.

Il rapporto con il pubblico rimase sempre l’orizzonte della sua arte.
“Definire la mia arte equivale a distruggerne lo scopo. L’unica definizione legittima è la ‘definizione individuale’, l’interpretazione individuale, un’unica risposta personale che può solo essere considerata in quanto opinione. Nessuno sa qual è il significato definitivo della mia arte perché non c’è”.
(K. Haring, Diari, Milano, Piccola Biblioteca Oscar Mondadori 2010, p. 36)

Le opere di Haring si possono coniugare solo alla prima persona singolare.
Parlano un linguaggio universale, comprensibile a tutti però in modo assolutamente personale, soprattutto perché, come dice lui, la sua arte non ha significato se non quello che ognuno di noi gli attribuisce.
Attraverso le sensazioni provate, l’identificazione o il rifiuto dei modelli proposti e per ciò che producono negli spettatori che le guardano.

“I miei dipinti, di per sé, non sono importanti come l’interazione tra le persone che li vedono e le idee che portano con sé quando non sono più in presenza del mio lavoro – i pensieri e le emozioni che ho provocato in loro come risultato del loro contatto coi miei pensieri ed emozioni visti attraverso la realtà fisica di immagini/oggetti”.
(K. Haring, Diari, Milano, Piccola Biblioteca Oscar Mondadori 2010, p. 39)

Rischiando a modo suo
L’evoluzione artistica di Keith Haring è descritta, involontariamente, nei diari nei quali raccoglie pensieri e riflessioni. È tra quelle parole che l’ho incontrato e conosciuto, che ho cominciato ad amare il suo modo di essere artista, i suoi dubbi e le sue affermazioni, è lì che ho seguito, con interesse da esploratore, il tema del limite come filo conduttore della sua vita.
Prova ne è anche ciò che scrive nel 1977 e che apre la collezione dei suoi diari.
Dopo aver scorrazzato in autostop per tutta l’America, torna a Pittsburgh e si iscrive all’università per poi, poco dopo, trasferirsi a New York.
Scrive, il 29 aprile 1977:
“Questo è un momento triste… è triste perché sono di nuovo confuso, o forse dovrei dire ‘ancora’? Non so quello che voglio né come ottenerlo. Mi comporto come se sapessi quello che voglio e sembra che mi stia muovendo rapidamente in direzione della meta, ma quando arrivo al punto non so neppure cosa sia. Credo che dipenda dalla paura. Ho paura di sbagliare. E credo di aver paura di sbagliare perché mi confronto continuamente con gli altri, con le altre esperienze, con altre idee. Invece dovrei guardare a tutte queste cose in prospettiva, senza far paragoni. Continuo a mettere la mia vita a confronto con un’idea o un modello di vita completamente diverso. Invece dovrei fare affidamento alla mia vita soltanto, perché ogni esistenza ha aspetti positivi e negativi. Ognuna è autonoma, l’unico merito di chi si è guadagnato la mia ammirazione o ha suscitato in me il desiderio di imitarlo è stato quello di avere corso un rischio, rischiando a modo suo. È cresciuto attraverso diverse situazioni e ha toccato picchi di felicità e infelicità. Se cerco continuamente di modellare la mia vita su quello di qualcun altro, finisco per sprecarla riproducendo le cose per puro e vacuo spirito di accettazione. Ma se vivo la vita a modo mio e faccio in modo che gli altri [artisti] mi influenzino solo come riferimenti esterni o come punti di partenza, posso costruire una consapevolezza ancora maggiore invece di restarmene qui inattivo”.
(K. Haring, Diari, Milano, Piccola Biblioteca Oscar Mondadori 2010, p. 3)

Il rischio, come limite da affrontare, sul quale correre per superarlo e dimostrare la propria unicità, facendosi influenzare senza copiare. Le forti amicizie che Haring ha instaurato con Andy Warhol, Basquiat e molti altri artisti della scena underground newyorchese, pittori o graffitari, musicisti o breaker, insomma chiunque potesse fornirgli uno stimolo creativo sono il segno di una continua ricerca di relazione e difesa dell’autonomia, di dipendenza ma anche di un forte bisogno di libertà. Sensazioni contradittorie dell’uomo Haring, che rappresentano la colonna vertebrale, l’ossatura sulla quale si costruisce l’Haring artista.

Lo “Sperma demonio”

L’AIDS colpì anche lui.
Negli anni ’80 tutti avevano a che fare con la “malattia del sesso”, direttamente o indirettamente.
Keith Haring era figlio legittimo di quegli anni e non si era mai risparmiato, tantomeno nel rapporto con le droghe e una certa libertà sessuale.
Finì per avere un confronto diretto con il vero limite che ognuno di noi deve affrontare, la morte.
Fin dalla nascita tutti noi sappiamo che prima o poi moriremo, però è come se ne diventassimo realmente consapevoli solo nel momento in cui leggiamo la data di scadenza.
È per questo che gli ultimi lavori dell’artista si pongono l’obiettivo di informare rispetto al tema della malattia. Terrore, paura, rischio, “non può più esistere il sesso anonimo” dice.
Sintesi di una vita, questo periodo esplicita la caratteristica che più mi affascina di Haring, la sua generosità, il suo essere tutto, per tutti. Generoso nel regalare disegni, nel donare il suo tempo, nel pensare all’altro, pubblico o individuo. Generoso nel non chiudersi nel suo limite ma nel renderlo sempre più ampio e accogliente.

“Dopo averci scioccato per salvarci, Haring combatte la depressione con un lavoro forte e commovente… sfida il terrore. Ci mostra che la continuità va cercata nello spirito della sua arte e non nel suo corpo destinato a morire”.
(Keith Haring, Diari, Milano, Piccola Biblioteca Oscar Mondadori 2010, p. XXV)

Generoso anche nei doni che ci fa.
Non lui al centro bensì la sua arte, le sue opere, le sue idee, le sue intuizioni.
E un pensiero lungo e largo, che parte da ieri e arriva a domani, che si occupa dell’altro e che rende eterna, illimitata, la sua vita.

“Giunto a questo punto, c’è qualcosa che avresti voluto fare e non hai fatto?
Sì: dei disegni sulla sabbia. Disegni nel deserto. Disegni come quelli nelle Ande. Li saprei fare bene. E un parco per bambini… Ho dato vita a una fondazione che avrà abbastanza denaro per costruirlo. È un dono che voglio fare a tutti i bambini di New York”.
(Keith Haring, L’ultima intervista, Milano, Abscondita, 2010, p. 84)

Un conto è amare un artista e scrivere di lui.
Un altro è scrivere di lui e, per questo innamorartene.