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Autore: Nicola Rabbi

5.“Tutto esaurito!” Esperienze a confronto per una cultura come strumento di inclusione e civiltà

Possiamo ancora definire la cultura una passione d’élite? Quante sono le persone disabili che incontriamo a teatro sedute accanto a noi e non su un palco? È l’aspetto degli edifici e la loro promozione o sono piuttosto i pregiudizi dei visitatori a inibire l’accesso ai luoghi dell’arte? Quale può essere, in concreto, il contributo delle istituzioni e del mondo della formazione?
Interrogativi, urgenze e proposte in evoluzione, al centro, lo abbiamo visto, della riflessione più recente, che con noi hanno costellato anche il dibattito di “Tutto esaurito! La cultura accessibile strumento di inclusione e civiltà”, convegno ospitato lo scorso 30 novembre 2013 alla Mediateca di San Lazzaro di Savena, nell’ambito delle iniziative della Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità voluta dall’Onu e promosso dal Comune di San Lazzaro di Savena in collaborazione con la Cooperativa Sociale Accaparlante.
Condividiamo ora alcuni degli interventi che hanno accompagnato più da vicino nell’azione i nodi fondamentali delle nostre premesse, insieme ai partner del progetto “Cultura Libera Tutti” e alle istituzioni.
Alle voci preziose degli altri relatori presenti, abbiamo pensato di dedicare specifici approfondimenti sui prossimi numeri di “HP-Accaparlante”.
Un ringraziamento speciale a Saveria Arma di CulturAbile Onlus, che ha trascritto e proiettato in diretta gli interventi dell’intera giornata a favore delle persone con disabilità uditive.

5.1. Uscire dall’élite
di Maria Cristina Baldacci, assessore alla qualità della salute, politiche per la famiglia e diversabilità del Comune di San Lazzaro di Savena

Comincio subito con il ringraziarvi. Sono molto contenta di portare il saluto dell’amministrazione e condividere con voi il senso e il percorso compiuto in questi anni. Con questo convegno siamo arrivati a tirare le somme e, al contempo, a riaprire in una nuova ottica un tema centrale relativamente alla qualità delle nostre vite: la cultura come strumento di inclusione e civiltà, la realtà della cultura dunque e quella dell’accessibilità. Due realtà, queste, che potrebbero sembrare diverse e originate da due mondi lontani, perché l’accessibilità è stata percepita per tanto tempo e, forse lo è ancora oggi, come strettamente legata alle barriere architettoniche, per cui toglierle sembrava l’unica risoluzione al problema. Invece, partendo dal principio che accessibilità significa “accedere”, diventa indispensabile chiedersi dove, a chi e a che cosa, perché solo così capiremo che la realtà culturale è complessa, che comprende la vita di ogni persona e che ogni persona fa ed è cultura. Lo ribadisce il sottotitolo del convegno, “La cultura strumento di inclusione e civiltà”, che ci racconta come accedere alla cultura non sia più soltanto una questione di gradini, muri e vetri da togliere ma un’occasione utile a stimolare l’entrata in luoghi mai visitati nonostante le proprie fatiche esistenziali, tenendo quindi presente che una persona spesso si può trovare nella condizione di non avere voglia di partecipare a realtà culturali e socializzanti. In questo è emerso spesso pure un problema di contenuti e di linguaggio, considerando che anche alcune realtà culturali hanno fatto per molto tempo paura: soltanto il fatto di parlare di cultura, di teatro o di cinematografia teneva lontane persone con disabilità o che dichiaravano “non fa per me”, “non ho studiato”, “non lo capisco”. Fare arrivare i contenuti alle persone ha rappresentato quindi il passaggio successivo, nel quale rendere accessibili i luoghi della cultura ha implicato la necessità non di semplificare ma di far partecipare, rendere bello ciò che è già bello anche se spesso spaventa un po’. Molte persone, anche se non sono disabili nel senso tradizionale del termine, se non riescono ad accedere fisicamente o mentalmente alla cultura si sentono allontanate, perché non accolte. La sfida di questo convegno è dunque proprio questa: la cultura come strumento di inclusione e civiltà, una cultura capace di accogliere.
In questa giornata, negli interventi successivi al mio verranno affrontati molti punti di vista diversi, a partire dai luoghi che nella nostra città ospitano la cultura, dai musei ai teatri e ai parchi, luoghi capaci di rendere la persona portatrice di valori in se stessa, perché tutti noi siamo portatori di valori a prescindere da quanto ne sappiamo, ognuno con le proprie caratteristiche che ne fanno un valore aggiunto. Ecco allora che le persone con caratteristiche particolari, come il non essere originari dello stesso Paese e quindi non avere la possibilità di integrarsi per lingua, razza o, come si diceva una volta, per il colore della pelle, arricchiscono in realtà una cultura millenaria come quella italiana ma che attende di essere esplorata anche da nuovi soggetti, soggetti che fino a questo momento sono stati distanti perché hanno considerato tutto questo una realtà “accessoria”… Ci sono cose più importanti e più necessarie, si sente spesso dire, della cultura. Invece è proprio in queste occasioni che la cultura si rivela lo strumento ideale per far rinascere quelle persone che, per tanti motivi, sono in standby e che devono pensare all’integrazione personale a partire, ad esempio, dal lavoro. Insieme a loro ci sono le persone anziane, molto anziane oppure diventate anziane precocemente, persone che hanno avuto perdite di memoria o di capacità cognitive che possono invece trovare, con strumenti adeguati, la possibilità di rifiorire; “la bellezza salverà il mondo”, diceva qualcuno. La bellezza di una buona musica, di un bello spettacolo teatrale, di una buona passeggiata nel verde con dei contenuti può infatti far rinascere tutti noi.
Partire da questi presupposti rivitalizza anche quelle realtà che non si sono mai poste il problema di arrivare a tutti. Magari il problema era semplicemente il numero di persone che partecipavano ma non il bisogno di includere tutti questi soggetti. Negli ultimi 8-10 anni abbiamo costruito percorsi di integrazione per persone con disabilità fisica, psichica, cognitiva e motoria, così come per chi vive in
condizione di povertà. Avere la possibilità di accedere alla cultura significa partire anche da questo, uscire il più possibile dall’élite.
Questa è la sfida che ci siamo posti come assessorato e come amministrazione, tenendo presente che, se si è seminato un desiderio di accessibilità culturale, è proprio perché su questi temi abbiamo lavorato tanto e a lungo, e quando si arriva a poter discutere di cultura accessibile significa che forse, sulle altre realtà dell’accessibilità, qualche passo in avanti è stato fatto.

5.2. L’incontro con l’arte e lo sviluppo delle relazioni come processo di “life long learning”
di Veronica Ceruti, responsabile Mediazione Culturale e Servizi educativi dell’Istituzione Bologna Musei

La prima volta che sono entrata in un museo, non come visitatrice ma con un ruolo diciamo semi-professionale, è stato nel 1998, mentre stavo seguendo da tirocinante un percorso di formazione al GAM, l’ex Galleria d’Arte Moderna di Bologna. Da lì non ne sono più uscita, nel senso che da tirocinante sono diventata collaboratrice occasionale, il mio ruolo si è evoluto negli anni e attualmente sono responsabile della mediazione culturale e dei servizi educativi dell’Istituzione Bologna Musei. La situazione dal 1998 è notevolmente mutata e, nonostante ci si lamenti sempre dei tempi duri nei quali ci troviamo a lavorare, per quanto riguarda il tema dell’accessibilità al museo e al patrimonio culturale si potrebbe constatare che la situazione negli ultimi anni è sì cambiata ma in positivo. Un tempo il problema dell’accessibilità non ce lo si poneva neanche, o meglio ce lo si poneva a monte. Erano anni in cui chi lavorava nelle sezioni didattiche dei servizi educativi si sentiva ripetere sempre questa frase: “ma davvero dobbiamo avere i bambini nelle mostre e nelle sale espositive?”. Il discorso sull’accessibilità riguardava quindi addirittura quei soggetti, come ad esempio i bambini della scuola dell’infanzia o più piccoli della primaria, che ancora non erano (o perlomeno non da tutti) sempre benvoluti e accettati all’interno delle sale dei musei, perché facevano rumore, perché il museo doveva essere un luogo silenzioso per una fruizione di tipo contemplativo, un luogo riservato ai grandi… In quest’ottica il museo diventava facilmente il luogo del proibito perché chiacchierare al cospetto delle opere, sedersi in cerchio o entrare insieme dentro a un’ambientazione o a un’istallazione all’interno del museo era già visto come qualcosa di “avanguardistico” e trasgressivo rispetto al luogo museo. Le battaglie della generazione che hanno preceduto la mia e quelle della mia generazione di operatori museali sono state finalizzate proprio a permettere alle scuole e alle classi, alle nuove generazioni, di entrare dentro al museo e partecipare a delle attività, alla lettura e alla fruizione dell’arte. Questo è stato dunque il primo nuovo pubblico a cui sono state aperte le porte dei musei da parte di chi si occupava di mediazione culturale.
Sembra qualcosa di lontano ma, in realtà, rappresenta un passato molto recente e di battaglie ne sono state vinte tante perché sempre più musei hanno avuto al loro interno delle aree didattiche, dei servizi educativi che sono diventati dei veri e propri dipartimenti con sempre più figure professionali dedicate a fare da ponte tra il luogo museo, le opere d’arte, gli artisti e tutti i tipi di pubblico. Il ruolo educativo del museo è cresciuto, si è differenziato, sono nati anche a livello accademico e universitario dei percorsi formativi che hanno avuto come primo obiettivo quello di formare dei giovani a diventare e a essere degli operatori museali qualificati. Il museo si è così integrato sempre di più nel territorio, connotandosi come agenzia formativa che lavora con la scuola ma anche con altre realtà, enti e istituzioni che operano nel contesto educativo a livello sia nazionale che internazionale, grazie a importanti progetti europei di scambio, di buone pratiche o workshop, finalizzati proprio a sensibilizzare l’opinione, quella politica compresa, rispetto a queste tematiche. L’attenzione non è più stata focalizzata soltanto sulle scuole ma ha riguardato davvero ogni tipo di pubblico. Che cosa s’intende? Innanzitutto c’è un discorso legato all’età. I bambini non sono più gli unici destinatari ma dietro c’è un progetto di life long learning e di apprendimento lungo tutto l’arco della vita, anche per gli adulti, dunque, fino ad arrivare alla terza età e poi ci si è occupati sempre di più di quelle fasce soggette a una maggiore emarginazione rispetto ai luoghi della cultura per varie ragioni, da quelle legate alla lingua, concernenti quindi l’immenso fenomeno della migrazione, migranti di prima e seconda generazione, a tutte quelle fasce svantaggiate magari geograficamente, perché in ogni città esiste un centro, esistono delle periferie, delle zone e delle aree suburbane in cui i giovani, ma anche le famiglie e gli adulti, vivono per quartieri e raramente sentono il centro e i suoi luoghi come aperti a loro. Per questo ci si è spostati e si è usciti fuori dal museo, si è andati a comunicare l’arte e l’azione educativa anche al di fuori delle pareti dei musei, dei laboratori e delle sale espositive e si sono condotte delle azioni anche sul territorio, nelle piazze e nei quartieri. Assolutamente non ultimo il lavoro che riguarda l’accessibilità alle persone disabili, innanzitutto a partire dall’abbattimento delle barriere architettoniche e quindi finalizzato a rendere i musei accessibili ai luoghi dell’arte e della cultura dal punto di vista fisico e poi a livello di fruizione, dunque propriamente culturale, con attività di visita e di laboratorio che possano rendere l’incontro con l’arte un’esperienza veramente vissuta e partecipata anche per chi non ha le stesse possibilità di movimento e di azione degli altri. Laboratori pensati per includere insieme, che è la cosa migliore, lavorando senza ghettizzare ma sull’integrazione nel senso più vero del termine. Percorsi dunque pensati per essere fruiti da tutti, anche dalle persone con disabilità motorie e quindi sulla sedia a rotelle o che muovono a mala pena le mani o che fanno fatica a esprimersi verbalmente. Attualmente questa realtà risulta diffusa esclusivamente dove opero io. Sono a conoscenza dell’esistenza di progetti davvero eccezionali e di rilievo condotti anche da altri musei a livello nazionale e internazionale. A tal proposito
occorre ricordare, ad esempio, la realtà torinese così come fantastico è il progetto realizzato dal Castello di Rivoli, che ha redatto e pubblicato il primo dizionario d’arte contemporanea nella Lis, la lingua per i sordi, instaurando un rapporto strettissimo tra il servizio educativo di Rivoli e la comunità dei sordi di Torino per tradurre, attraverso uno specifico vocabolario fatto di gesti e non solo di parole, i linguaggi dell’arte contemporanea anche a chi non sente. Nell’arte contemporanea si parla spesso di “installazioni”, di “arte concettuale”, di “lavori polimaterici”, di “performance” e di “azioni con il corpo”. Mancavano i gesti per identificare questo tipo di lessico e, di conseguenza, per fare un giro, ad esempio, ad Artissimo o ad Arte Fiera anche con chi non sente… Ai progetti legati alla sordità si accompagnano tanti progetti rivolti ai soggetti non vedenti. Ci sono davvero persone all’interno dei musei che si sono dedicate a queste tematiche con passione e anche con umiltà, partendo magari dal presupposto che rappresentano mondi e realtà che non ci appartengono e in cui le esperienze che abbiamo fatto finora non sono sufficienti per instaurare un dialogo.
L’aspetto più importante, infatti, è proprio quello dell’incontro tra le persone e le professionalità, affinché possa esserci davvero uno scambio costruttivo e le reciproche specificità costruiscano dei progetti che non risultino efficaci solo sulla carta ma che consentano davvero l’accessibilità all’arte, alle poetiche e alle pratiche a tutti.

5.3. A partire dalle fonti
di Anna Dore, responsabile Servizi Educativi del Museo Civico Archeologico di Bologna

Sicuramente un museo archeologico è una realtà diversa rispetto a un museo d’arte moderna e contemporanea. L’archeologia ha bisogno di per sé di una mediazione importante perché, se davanti a un’opera d’arte c’è anche il riconoscimento immediato, di fronte a dei reperti archeologici è difficile vivere un momento di coinvolgimento emotivo. I reperti, certo, possono dire tante altre cose, che però hanno bisogno di una mediazione. Inoltre occorre sottolineare che un museo nato nel 1881, storicizzato in se stesso e quindi con allestimenti non facili, necessita addirittura di un’ulteriore mediazione.
Proprio per questo motivo, abbiamo cercato sin dal primo momento di ottenere un coinvolgimento del pubblico attraverso le nostre attività. L’esordio di queste attività si colloca alla fine degli anni Settanta, quindi esse possono essere annoverate tra le prime esperienze sperimentali di attività condotte con le classi. Vorrei citare a tal proposito questo pensiero, proposto a un convegno di qualche anno fa dal direttore della Galleria Nazionale, oggi direttore del British Museum, secondo cui “i musei perseguono il sommo ideale illuministico di cercare e trovare la bellezza e la saggezza”. Questa frase esprime molto bene la nostra concezione del museo, soprattutto in relazione al fatto che la nostra struttura contiene una grande parte della storia della città, insieme a collezioni che non derivano dal territorio di Bologna ma che raccontano come la città dal Seicento all’Ottocento abbia interpretato il rapporto con l’antichità anche rispetto alle ideologie, ai mutamenti politici e al riconoscersi in determinate fasi della storia. Stiamo parlando, di fatto, di un patrimonio che deve essere assolutamente restituito ai cittadini, che i cittadini devono sentire proprio, non come distante o solo per qualcuno, oppure come qualcosa di polveroso che attualmente non è in grado di trasmettere nessun contenuto alle persone.
Direi che questo ha rappresentato un impegno soprattutto negli ultimi anni, al di là dell’attività didattica e educativa di base, che è quella con le scuole, con il pubblico adulto, grazie a un insieme di visite guidate e di laboratori, che negli ultimi anni ci siamo preoccupati di estendere a tutti i cittadini.
Abbiamo organizzato varie iniziative, ad esempio progetti per le persone non vedenti, sia per le scuole che per gli adulti, insieme a un progetto sperimentale sull’intercultura, sfruttando alcuni aspetti caratteristici di Bologna, da sempre crocevia di una moltitudine di persone. Abbiamo cercato così di far vedere come anche nel 700-800 a.C. arrivassero in città merci, famiglie e invasori, che creavano rapporti a volte amichevoli, altre volte conflittuali con la città, che però mettevano a confronto culture diverse e determinavano una trasformazione culturale e talora etnica all’interno della città stessa. Questo progetto è stato offerto a classi con composizione variegata a livello di provenienza geografica e in qualche modo si sono condotti i ragazzi a conoscere una realtà che sembra nuova ma che, in realtà, è sempre esistita, quella per l’appunto di una Bologna multietnica. Una cornice dentro cui abbiamo ripercorso anche le storie delle loro origini e abbiamo fatto vedere che, se andiamo a ritroso nel tempo di qualche generazione, sicuramente avremo la possibilità di trovare qualcuno che aveva un nonno che veniva da un altro luogo, finendo così per creare sulle mappe delle ragnatele, delle reti sulla carta dei nostri spostamenti. L’idea era proprio quella di sfruttare il potenziale del museo in questo senso, dalla scoperta all’incontro fino all’integrazione. Sicuramente quello che vorremmo fare da questo momento in poi è strutturare questi interventi, che per ora rappresentano tutti aspetti sperimentali che devono essere condotti a un quadro di unità e stabilità dell’offerta e degli interventi. Secondo me, un contenitore per perseguire questa finalità può essere rappresentato proprio dal progetto nato dall’incontro dei nostri musei, e non solo, che ha portato al progetto “Cultura Libera Tutti”, che persegue come scopo precipuo lo sviluppo di una maggiore accessibilità delle nostre istituzioni culturali. A questo proposito vorrei soffermarmi soprattutto sull’incontro con Accaparlante perché, come dico sempre,“ci ha rovesciato la testa”. Questo incontro ci ha portati a adottare una prospettiva fondamentale, quella del fare insieme, che rappresenta quindi una prospettiva veramente inclusiva della persona con disabilità, con la quale si ha la possibilità di fare concretamente qualcosa, e che permetterla creazione di uno scambio d’esperienze reciproco. Io, ad esempio, non avevo mai avuto l’occasione prima di collocare il mio punto di vista fuori dal museo. Quando i membri di Accaparlante, in particolare il Progetto Calamaio, sono venuti a proporci di utilizzare il nostro patrimonio per la realizzazione di un percorso che prevedesse un ragionamento sulla diversità e sfruttare così le loro competenze professionali, anche con formatori diversamente abili, all’inizio non sapevamo cosa fare; poi abbiamo pensato a un patrimonio particolare del museo, il patrimonio di immagini sulla ceramica greca, rappresentato da vasi prodotti ad Atene nel VI secolo e ricchi di immagini. Su questi vasi Atene si palesa come “la città delle immagini”, immagini attraverso le quali mette in scena se stessa. In realtà, però, anche questo immaginario possiede dei filtri. Questi oggetti sono stati prodotti da Ateniesi per essere poi esportati, destinati a rivestire determinate funzioni e a essere utilizzati da una specifica committenza. Una delle funzioni principali del nostro laboratorio è il simposio, una festa di uomini, una riuione che si celebra dopo la cena in cui si consuma insieme del vino, un momento molto forte sotto il profilo relazionale, che è però dedicato solo ai cittadini ateniesi, ovvero agli uomini liberi adulti.
Gli studiosi hanno notato come buona parte della ceramica da banchetto possa essere interpretata come un confronto dell’uomo libero adulto con la realtà fuori da sé, quindi come incontro con l’altro che non è presente al simposio, incontro reso possibile perché la consumazione del vino, se praticata secondo specifiche regole, abbatte le barriere sociali e personali che la vita normale pone, rendendoci capaci di specchiarci nell’altro; di conseguenza il simposio viene definito come “lo spazio di sperimentazione del limite di se stessi”. Tutto questo, naturalmente, ha molto a che fare con la diversità e quindi con la disabilità. Vale lo stesso poi per tutto l’aspetto legato alla condizione femminile, per cui sui vasi si palesano donne aristocratiche come donne “diverse”, relegate ai margini, non solo le schiave ma anche le “cattive ragazze”, cioè le amazzoni, donne che vivono da uomini e che hanno escluso gli uomini dal loro mondo, usandoli solo per la riproduzione. In qualche modo, quindi, ci si confronta con questo aspetto che può essere deviante e pericoloso della donna. Qui abbiamo le donne “normali”, donne aristocratiche che devono essere belle per il marito, che praticano la musica e la cultura in uno spazio ristretto; all’opposto ecco le cattive ragazze, che ci introducono anche a un altro tipo di diverso: lo straniero. Di fatto l’uomo che celebra il banchetto si confronta anche con il diverso dal punto di vista dell’appartenenza alla città, città che vuol dire fondamentalmente “civiltà”.
I vasi ci conducono anche al confronto generazionale, un rapporto positivo con la generazione più giovane oppure il rapporto con la vecchiaia. Il gioco della sperimentazione dell’alterità viene portato poi al limite con le figure del mito, a metà tra l’umano e il felino, i satiri, che impugnano delle anfore, nelle quali è contenuto il vino puro. Chi celebra il simposio usa sempre il vino secondo gli insegnamenti di Dioniso, tagliato, ovvero diluito con acqua. Chi beve il vino puro viene considerato diversamente e si pone in questa zona grigia tra civilizzato e natura. Il vino è ciò che ti porta a sperimentare che questa diversità è anche dentro di te perché, se superi il limite, tu puoi diventare quello, puoi diventare il civilizzato che, nel contenitore della città e del tuo essere cittadino libero, ti connota. Tutti questi che ho citato sono esempi di forme di diversità a quel tempo reiette dalla società. Di tre cose ringraziava gli dei il filosofo Talete: “ringrazio gli dei di non essere nato bestia, donna o barbaro”, esattamente in quest’ordine. Così normalmente, aiutati dagli animatori con disabilità del Progetto Calamaio, dall’Atene del VI sec. arriviamo all’oggi, all’immagine viva e presente della disabilità, cercando di capire se siamo davvero così vicini a quell’immagine riflessa.

5.4. Dal palco alla platea. Che differenza c’è?
di Cristina Valenti, docente di Storia del Nuovo Teatro presso il Dams di Bologna e direttore artistico Premio Scenario

Ragionare di accessibilità culturale nell’ottica di una comunità di pubblico partecipata e inclusiva porta a rilevare come il teatro sia, da questo punto di vista, assolutamente arretrato. In particolare proprio rispetto alla facilitazione dell’accesso per le persone in situazione di disabilità, laddove, invece, il teatro è un mondo ormai molto avanzato per quanto concerne l’accesso alla pratica artistica e teatrale da parte dei soggetti disabili. Vorrei partire da uno spunto che mi è stato offerto dal materiale sul progetto “La Quinta Parete”, un esercizio di scrittura creativa intitolato “Sconquasso: istruzioni per l’uso”, realizzato con i ragazzi disabili del Progetto Calamaio. Nello svolgimento di questo esercizio di scrittura creativa molto carino, i ragazzi hanno inventato (o forse non del tutto) situazioni paradossali legate all’accesso al teatro da parte di un pubblico non educato all’esperienza teatrale, costretto quindi a fare una vera e propria irruzione nello spazio del teatro, un’entrata connotata da molto rumore, poca eleganza e grande entusiasmo. Si tratta appunto di un esercizio di scrittura creativa, di una serie di flash, racconti di situazioni possibili ma assolutamente al limite, che però fanno riflettere, perché ci parlano di un pubblico “ineducato” e, quindi, di un pubblico la cui educazione deve passare necessariamente attraverso l’esperienza.
Ho riflettuto sul fatto che la condizione del pubblico ineducato, di questo particolare pubblico, è esattamente analoga alla condizione dell’attore ineducato, il nuovo attore cioè del teatro del disagio, che si avvicina al teatro senza essere in possesso di una formazione regolare, non apprezzato dal punto di vista delle tecniche e della formazione accademica; si tratta quindi di un attore che effettua un processo di elaborazione sulla propria competenza sul campo, attraverso l’esperienza, a partire da una in-educazione di base. Se è vero che il teatro ha scoperto di potersi nutrire di risorse straordinarie attraverso l’accesso all’esperienza artistica di attori portatori di un’esperienza inedita e, soprattutto, capaci d’inventare in scena linguaggi originali, allo stesso modo potrebbe accadere che proprio attraverso l’accesso di questo tipo di pubblico anche la platea riesca a scoprire una diversa autenticità. Il teatro ha sperimentato, attraverso l’accesso al fare artistico e teatrale di persone non attrezzate, quelle esperienze di autenticità del rapporto teatrale ma anche di imbarazzo che io ho ritrovato leggendo quei brevi esercizi di scrittura creativa. Che cosa si leggeva? Di un pubblico che faceva irruzione in uno spazio normalmente regolato da un’etichetta sociale-mondana che veniva a essere infranta, quindi un pubblico senza etichetta.
Questi dati relativi all’imbarazzo e all’autenticità li abbiamo ritrovati quando (per le prime volte almeno, perché ormai le esperienze sono andate avanti e, di conseguenza, possono dirsi mature, se non di eccellenza) c’era imbarazzo diffuso in platea. L’imbarazzo di fronte all’autenticità. Le due parole che ho voluto mettere in evidenza sono proprio queste: imbarazzo e autenticità. Perché? Perché anche in questo caso l’irruzione della vita vera sulla scena tendeva a produrre imbarazzo nello spettatore, per il fatto che a teatro lo spettatore è abituato a rapportarsi all’evento scenico attraverso la mediazione di una convenzione, a credere alla realtà di quello che è rappresentato a partire da una premessa: ciò che avviene sulla scena è una finzione per cui lo spettatore, per poter godere di quella finzione, deve condividere la convenzione secondo la quale la condizione dello spettatore è quella di credere a ciò che è finto. Cosa avviene quando sulla scena fa irruzione la realtà, la vita vera? La vita vera di soggetti non attrezzati alla finzione di se stessi, alla rappresentazione di se stessi, che portano in scena l’espressione di un disagio autentico, un’elaborazione personale di linguaggi desueti dal punto di vista dell’espressione artistica: ecco quindi emergere l’imbarazzo perché la vita non è rappresentata, anche l’esperienza del disagio non è rappresentata da attori tecnicamente attrezzati per fingere, ma è portata direttamente in scena senza mediazione. Questo è il teatro del disagio, il teatro delle disabilità. L’attore disabile è accolto senza mediazioni, direttamente in scena come portatore di un proprio linguaggio espressivo, di una propria esperienza artistica, unica, personale e originale. Da qui deriva l’imbarazzo dello spettatore convenzionale, che non si trova a condividere un’esperienza di finzione e rappresentazione, vedendo non una realtà riprodotta sulla scena ma la possibilità per queste persone di ricreare la propria vita sulla scena, di rappresentarla. È un passaggio molto importante perché occorre sottolineare che un teatro con le disabilità non solo è interessante ma trova anche tutta la sua legittimità nel momento in cui gli attori disabili non rappresentano la disabilità, non portano semplicemente in scena la loro condizione. Questo non sarebbe utile né interessante per loro e per il teatro, poiché invece il teatro ha molto da imparare dalla manifestazione di queste espressioni autentiche. Non sarebbe interessante per il teatro, dicevo, ma non sarebbe neanche politicamente corretto. In questo caso la visibilità sarebbe in qualche modo funzionalizzata al lavoro del regista; di conseguenza il soggetto disabile si troverebbe a costruire sulla scena una sorta di scenografia di un paesaggio umano anziché dare un contributo originale. Se ci pensiamo, tutti questi elementi fanno parte e devono fare parte di una riflessione che può riguardare lo spettatore disabile, per il quale non ci sono molte esperienze da portare e da riferire perché, come affermavo all’inizio, da questo punto di vista il teatro è assolutamente arretrato rispetto alle esperienze di mediazione. Credo, però, che alcune cose si possano dire per tenere insieme questa realtà che, come dicevo, non può comporsi della relazione tra attore e spettatore. Se dobbiamo parlare delle modalità di accesso al teatro delle persone con disagio, credo che le stesse considerazioni che facciamo per l’attore portatore di disagio debbano valere anche per gli spettatori.
Faccio una premessa. C’è e c’è stato soprattutto nel momento in cui queste esperienze sono nate, ormai qualche decennio fa, un dibattito alimentato dal quesito relativo alla legittimità del fatto di portare sulla scena la disabilità o comunque la condizione di disagio. Personalmente ritengo che l’accesso al teatro da parte delle persone disabili dovrebbe tenere in considerazione alcuni requisiti minimi. Credo che sia utile e giusto l’accesso al teatro, all’espressione teatrale di persone disabili, a patto che queste ultime abbiano la consapevolezza di stare recitando su un palco, e siano consapevoli di trovarsi di fronte a un pubblico, che il teatro rappresenti per loro una reale opportunità di raccontare qualcosa di sé e quindi di trasformare la propria condizione, uscire dall’oggettivazione del corpo malato e determinare la propria presenza sulla scena con un vantaggio dal punto di vista della riduzione non tanto del deficit, che non si può ottenere attraverso il lavoro artistico, quanto piuttosto dell’handicap come dato sociale. Nel momento in cui l’attore ha accesso all’espressione di sé attraverso il teatro, la percezione sociale dell’handicap si riduce perché l’attore disabile ha la possibilità di accedere a una diversa rappresentazione di sé e a una differente relazione con l’altro da sé. L’attore incontra l’altro nella sua unicità, nella sua originalità, nella sua storicità. Tutto questo va contro l’oggettivazione della malattia come processo che implica l’esistenza di un corpo malato. Ritengo che questi requisiti debbano valere anche in riferimento all’accesso al teatro da parte dello spettatore disabile, che deve avere una connotazione reale: entrare a teatro è infatti diverso dall’accedere al teatro perché l’accesso implica l’esistenza della consapevolezza da parte dello spettatore. Se ci pensiamo, sono gli stessi elementi che entrano in gioco. Lo spettatore disabile deve avere la possibilità di godere di facilitazioni e di mediazioni culturali che gli consentano di essere uno spettatore consapevole. Prima ho fatto riferimento all’attore consapevole; allo stesso modo sarebbe giusto parlare di spettatore consapevole, consapevole cioè di trovarsi a teatro, di entrare in relazione con uno spettacolo e quindi con un fatto teatrale che si basa su una serie di convenzioni, facendo diminuire così la percezione sociale del proprio handicap a partire dal rapporto con gli altri.
Desidero citare un intervento che ho ascoltato ieri, degno di nota sia per i contenuti espressi sia per il contesto in cui si è svolto, di Gherardo Colombo, ex magistrato che ha incontrato le scuole. È stato un incontro molto interessante. Colombo non ha fatto una comunicazione frontale, ma una riflessione condivisa e ha portato gli studenti a riflettere sul fatto che la libertà rappresenta un processo di acquisizione progressiva di competenze. Ha spiegato, partendo da nozioni di carattere giuridico, che un neonato è un individuo meno libero di un bambino di tre anni. Un bambino di tre anni è meno libero di un bambino di sei anni che, a sua volta, è meno libero di un adulto. Gli studenti delle classi di Bologna erano un po’ disorientati all’inizio perché di solito, facendo coincidere il concetto di libertà con quello di comportamento spontaneo, si pensa che l’infanzia sia il regno della libertà; invece lui ha spiegato che la libertà si acquista progressivamente a partire dalla prima infanzia in cui di fatto questa condizione non esiste. Un bambino di fatto non è neanche libero di esistere, di vivere, perché dipende totalmente da chi lo nutre. Il bambino diventerà libero attraverso un percorso di acquisizione di competenze nel momento in cui avrà la possibilità di esercitare il diritto di accedere a tutta una serie di competenze. La libertà va quindi concepita come percorso che si conquista attraverso la progressiva acquisizione di competenze.
Vorrei tornare al discorso da cui ero partita parlando del pubblico ineducato che entra a teatro senza comportarsi secondo i canoni del comportamento e dell’etichetta teatrale. Questo è il punto di partenza, occorre trovare una dialettica tra l’ineducazione come non appartenenza a schemi non particolarmente utili e l’acquisizione di competenze, perché la spontaneità di per sé non porta a un’esperienza libera, in quanto la vera esperienza libera è quella della consapevolezza. La spontaneità va educata e in questo senso occorre ricordare che un grande psichiatra del passato, Moreno, parlava di “educazione alla spontaneità”, che sembra una contraddizione di termini… La spontaneità può essere educata? La spontaneità va riconquistata come valore attraverso un processo di apprendimento che aggiunga competenze, senza però che queste siano in qualche modo addomesticate dalle convenzioni, che rappresentano filtri poco utili per il rinnovamento dell’esperienza artistica e per il libero accesso originale e consapevole del soggetto portatore di disagio. Credo che questo sarebbe il percorso da fare, partire dalla condizione di questo pubblico che può essere una risorsa per il teatro così come ha costituito una risorsa l’accesso di attori non educati dal punto di vista scolastico e accademico, per nutrire la relazione teatrale di nuova necessità di autenticità, di sviluppo di senso; però costruire anche le competenze affinché quell’esperienza sia davvero un’esperienza libera, non dipendente da una mediazione forte ma concepibile come un momento di trasformazione. A questo punto si potrebbe entrare in un altro tema molto intuitivo: sappiamo che l’accesso al teatro da parte di persone disabili attualmente avviene maggiormente attraverso gruppi, cooperative di aiuto che portano disabili a teatro. Si tratta indubbiamente di iniziative lodevoli, ma credo che si possa fare molto altro. Questi gruppi che portano le persone a teatro si preoccupano poco della qualità degli spettacoli, del modo in cui avviene la partecipazione delle persone disabili a teatro, eccetera. Questa è una modalità estremamente importante, ma come ci hanno insegnato le esperienze che abbiamo visto a livello museale è senz’altro una modalità da superare perché il dato della spontaneità di accesso va messo in rapporto dialettico con un altro percorso che è quello dell’acquisizione di competenze perché, senza le competenze, l’esperienza dello spettatore non può essere libera ma risulta dipendente da un soggetto terzo che, da una parte, la facilita ma, dall’altra, la filtra molto pesantemente rispetto all’accesso.

5.5. Tra edificio e piazza, tra entrata e uscita

di Nicola Bonazzi, drammaturgo e regista di ITC Teatro – Compagnia Teatro dell’Argine

Vorrei cominciare ricordando una parabola letteraria molto conosciuta, intitolata Davanti alla legge e tratta dal romanzo Il Processo di Franz Kafka. Un contadino persegue la Legge e spera di conquistarla entrando in un portone. Il guardiano del portone dice all’uomo che non può passarvi in quel momento. L’uomo chiede se potrà mai farlo e il guardiano risponde che c’è la possibilità che vi riesca.
L’uomo aspetta presso l’entrata per anni, tentando di corrompere il guardiano con i suoi averi; il guardiano accetta le offerte, ma dice all’uomo: “Lo accetto solo perché tu non creda di aver trascurato qualcosa”. L’uomo non tenta né di ferire, né di uccidere il guardiano per raggiungere la legge, ma attende presso il portone fino a che non sta per morire. Un attimo prima che ciò accada, chiede al guardiano perché, seppure tutti cerchino la legge, nessuno è venuto in tutti quegli anni. Il guardiano risponde: “Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo”.
Ho scelto questa parabola di Kafka perché, a mio parere, rappresenta bene la situazione del teatro, una situazione che se non altro dal punto di vista istituzionale rimane ancora piuttosto critica. Tra qualche anno, forse, non sarà più così perché succederà qualcosa di nuovo ma oggi resta l’idea d’inattingibilità della legge, la Legge con la “L” maiuscola verso il cui ruolo il guardiano non deroga mai.
Se noi sostituiamo la parola “teatro” a legge, al posto di guardiano mettiamo“gestore del teatro” e, ancora, alla parola contadino sostituiamo “cittadino comune”, uomo della strada per così dire, credo che avremo un quadro abbastanza fedele di quello che continua a essere il rapporto tra uno spettatore che non è educato al teatro o che ha difficoltà ad accedere al teatro e chi il teatro lo gestisce. Quando ho cominciato ad andare a teatro avevo circa 15 anni e trovare un mio coetaneo in platea era davvero un’impresa difficile. Penso che chi gestiva il teatro mi vedesse come una sorta di marziano! Allora sarebbe stato impensabile che un gestore di teatro facesse entrare tanti ragazzini di 15 anni per vedere uno spettacolo istituzionale in un teatro istituzionale. Anche l’edificio in cui aveva sede il teatro era piuttosto arcigno. Qualche tempo fa, per ragioni di lavoro, ho avuto modo di accedere agli uffici del Teatro Duse, teatro storico della città, per ritrovarmi immerso in un dedalo di corridoi angusti… Al di là della sacralità del palco, dunque, quello che ho trovato dietro è stato abbastanza “respingente”.
La maggior parte dei teatri poi restano purtroppo aperti solo nelle ore in cui si svolge lo spettacolo. Ancora oggi è difficile vedere i teatri pieni di ragazzi, se non nelle matinées dedicate alle classi, peraltro preziose e necessarie, ma sarebbe bello immaginare che questi spettatori, questi ragazzi, fossero spettatori assieme agli altri, spettatori che normalmente vanno a teatro la sera, spettatori potremmo dire “normodotati” perché il fatto di essere ghettizzati li rende in qualche modo emarginati, anche se loro sono fondamentalmente “portatori sani di giovinezza”.
Noi abbiamo tentato di aggirare questo problema inventando l’iniziativa “a teatro con un euro”, che dà a tutti i ragazzi la possibilità di entrare a teatro pagando per l’appunto soltanto un euro. Questa è una delle pratiche di accessibilità culturale rivolta ai ragazzi che abbiamo provato a mettere in atto come compagnia teatrale.
Un’altra misura è stata l’accoglienza di questo strano drappello rumoroso degli animatori con disabilità del Progetto Calamaio nell’ambito de “La Quinta Parete”. Ha rappresentato un’esperienza straordinaria non soltanto al momento del loro arrivo ma anche nel prosieguo della visione dello spettacolo, cioè durante la restituzione attraverso l’esercizio di scrittura di quello che loro hanno visto.
Inoltre insieme all’Associazione AGFA/FIADDA abbiamo realizzato un’altra iniziativa che permette agli spettatori con disabilità uditiva di vedere gli spettacoli seguendo dei sovratitoli; cito queste esperienze come piccole buone pratiche che abbiamo provato a mettere in atto presso ITC Teatro. Ogni volta che cito qualche esperienza personale rischio sempre di essere autoreferenziale, ma si tratta di un’esperienza che ha avuto inizio ora e su cui valeva la pena riflettere. L’accoglienza e l’accessibilità per quanto ci riguarda possono essere anche molto altro e, per spiegarmi meglio, vorrei citare una ricerca che è stata condotta in Inghilterra nell’ambito del sistema bibliotecario. Mi fa piacere citare proprio qui, alla Mediateca di San Lazzaro, questa esperienza perché questo è un luogo di grande accessibilità e il teatro per vivere deve sempre appoggiarsi ad altre esperienze. Antonella Agnoli nel suo libro Le piazze del Sapere (Laterza, 2008) ha condotto una riflessione sulle biblioteche a partire dalla richiesta di un quartiere londinese che aveva commissionato una ricerca per scoprire perché le proprie biblioteche erano luoghi deserti, luoghi in cui si recavano poche persone, luoghi dove avvenivano pochi prestiti, luoghi che non erano vivi. Da questa ricerca era emerso che questi luoghi erano percepiti come respingenti, nel senso che le persone non accedevano ad essi perché li sentivano lontani, freddi; addirittura, lo stesso nome library richiamava a un suo significato un po’ polveroso.
Noi a Bologna abbiamo Sala Borsa, esempio straordinario d’intendere il luogo Biblioteca come luogo aperto. In Inghilterra questi luoghi sono stati poi rinominati idea stores, in un’ottica meno respingente. Si tratta di luoghi pieni di servizi, luoghi che non hanno solo il libro come elemento centrale ma che offrono anche corsi di lingua per gli stranieri, per gli immigrati, e in cui hanno luogo, come nei musei, laboratori didattici per i bambini; occorre poi sottolineare che sono luoghi– e questo è molto importante – aperti quasi sette giorni su sette.
La situazione del teatro ovviamente è più arretrata. Pensate che il Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS) continua a erogare fondi solo sulla base delle repliche di spettacolo che vengono fatte, senza considerare assolutamente tutte le altre attività che gravitano attorno al teatro. Intorno ci sono invece attività straordinarie e importanti, attività di laboratorio, ad esempio, che accompagnano tutto il lavoro di formazione del pubblico, ma che non vengono valutate dal FUS. Anche su questi aspetti sta cominciando una riflessione per cui, probabilmente, queste voci inizieranno a essere valutate. La situazione del FUS è generalizzata ma per fortuna esiste qualche eccezione in Emilia-Romagna, Toscana, in Puglia dove si prendono in considerazione anche altre cose perché effettivamente il teatro sta cambiando e non è più soltanto un luogo dove si fa uno spettacolo e basta. Ritengo che questo sia molto importante e abbia anche a che fare con un’idea di formazione generale che vede il teatro sempre come un luogo esclusivo, snob, mentre occorre fare un passo in avanti, un clic che deve appunto venire dai teatranti che devono mettersi in relazione con gli altri, attraverso la relazione di cui si parlava prima, la condivisione alla quale facevano riferimento Veronica Ceruti e Anna Dore, partendo dal presupposto che la condivisione è fare qualcosa con gli altri. In questo senso, per noi “accesso” significa entrata, quindi presuppone la necessità di prendere in considerazione le modalità per facilitare l’entrata in un luogo. Però, se noi immaginiamo l’accesso anche come uscita da un luogo, prendendo in considerazione cioè le modalità in cui il teatro può uscire da se stesso e quindi dalle pareti di quell’edificio, ritorniamo allora all’idea di piazza, un’idea in qualche modo fisica ma anche metaforica, l’idea di fare del teatro non un edificio ma una piazza dove ci si incontra, dove hanno luogo delle relazioni, dove si scambiano delle emozioni. Il teatro è un luogo metaforico ma che deve andare incontro al proprio territorio, un luogo di incontro e un’azione che accompagna quell’incontro, un saluto, una stretta di mano, un abbraccio. L’accoglienza è anche questo. Ad esempio, l’accoglienza all’interno di un teatro comincia anche dal sorriso, dalla possibilità di smarcarsi da quell’atteggiamento arcigno che spesso la cultura si porta dietro e che colui che si sente il depositario della cultura ha, il guardiano della legge. Credo che qualcosa stia cambiando, poiché il teatro sta facendo i conti con una nuova parola che è “residenza”: non più l’idea di andare in giro a fare spettacoli ma l’idea di essere stanziale in relazione con il territorio in modo vivo. Credo che ci siano giovani artisti che si stanno facendo carico di questo. Ritengo anche che sia un percorso lungo, ma quello che si sta vedendo mi sembra molto interessante. Questo dà anche la possibilità di fare spettacoli migliori perché sono spettacoli che si nutrono di tutto questo, che si nutrono cioè della vita, dell’energia delle persone con cui si entra mano a mano in contatto. Se il teatro diventerà questo e se diventeranno questo anche la poesia e la letteratura, allora avremo un mondo migliore, scusate la retorica. Solo attraverso i tempi dello scambio e del contatto avremo una cultura per tutti e alla portata di tutti, che genererà benessere collettivo.

5.6. Per una politica dall’approccio culturale
di Roberta Ballotta, assessore alla qualità socio-culturale Comune di San Lazzaro di Savena

Come amministratrice mi sento piuttosto sicura nel ribadire le scelte che la nostra amministrazione sta facendo sul versante dell’accessibilità culturale, scelte coraggiose, scelte che richiedono anche un incrocio attento del denaro pubblico, perché per noi sono fondamentali le risposte che dobbiamo dare ai nostri cittadini, garantendo loro servizi di alta qualità e al contempo considerando l’aumento forte, in termini di presenza, di famiglie che al loro interno hanno dei ragazzi o degli adulti con problemi di disabilità.
Se da una parte siamo molto soddisfatti, dall’altra siamo molto preoccupati per la situazione economica in atto che rende estremamente difficile favorire dei processi di integrazione culturale e sociale. Occorre tuttavia precisare che noi partiamo da una situazione che implica la presenza di grandi vantaggi. Perché? Perché abbiamo istituti culturali, Mediateca compresa, che fanno cultura, integrazione e contaminazione. Sono in aumento i ragazzi e gli adulti che ci vengono a trovare chiedendo di partecipare alla nostra programmazione e progettazione culturale, tra cui sempre più associazioni che seguono persone con disabilità. Anche noi su questo faremo importanti riflessioni per cercare sempre di più di avere momenti di comunicazione culturale che risultino immediatamente intuibili. Oltre all’ITC teatro, di cui avete sentito parlare, che, grazie alla presenza di queste persone meravigliose che sono presenti da tanti anni nel nostro territorio, fa sì che ci sia sempre di più l’abitudine consolidata tra le famiglie e i cittadini a partecipare alle esperienze di laboratorio con le scuole e con realtà private, contiamo anche sulla presenza del Museo della Preistoria e dell’Archivio Storico. Insieme a questi pilastri c’è un altro istituto, che non è propriamente un istituto culturale ma che attraversa tutti noi della giunta su vari livelli. Sto parlando di Habilandia, centro polivalente di attività educative che Accaparlante conosce bene, che è un luogo meraviglioso, di grande inclusione per tutte le età e sul quale come amministrazione desideriamo mantenere una forte attenzione. Stiamo cercando di dare risposte a tutti i cittadini, tenendo conto delle difficoltà relative al bilancio, ma anche con grande apporto di ricchezza culturale. Sul nostro territorio, non so se mi sbaglio, credo che ci siano almeno 70 associazioni che quasi quotidianamente, in accordo con l’amministrazione comunale, praticano attività sociali e culturali che vengono svolte sia negli istituti culturali che citavo prima, sia nei centri sociali. Abbiamo infatti tre centri sociali in cui vengono organizzate iniziative rivolte all’infanzia.
In più ci sono le attività rivolte alle persone anziane e dei laboratori che aiutano tutti noi a pensare, a ritrovarsi, a leggere ad alta voce il giornale e anche a scrivere. Ora vorrei fare un passo indietro, tornando con la memoria ai tempi in cui lavoravo e dirigevo una biblioteca di quartiere molto innovativa, la “Biblioteca Ginzburg”, una delle prime biblioteche accessibili grazie al continuo confronto con l’amministrazione comunale. Memore di quest’esperienza abbiamo lavorato molto con l’area metropolitana. Stiamo facendo dei ragionamenti in materia di unione di comuni e di distretti culturali. Per noi è importante ricordare agli amministratori la necessità di far nascere e progettare istituti culturali che risultino accessibili per tutti, ritenendo l’accessibilità un diritto di cittadinanza. Lavorare a stretto contatto con persone con disabilità, averle come colleghi, mi ha aiutato moltissimo sia nel passato che nel presente. Credo che misurarsi quotidianamente e avere la capacità come amministratori di percepire e di avere questa attenzione all’apertura sia un elemento e un approccio culturale molto significativo, tra i più significativi che ci siano.

5.7. Responsabilità. Sfide pedagogiche per il prossimo futuro

di Federica Zanetti, docente di Didattica e pedagogia speciale presso l’Università di Bologna, Facoltà di Scienze della Formazione

Parlare di accessibilità culturale mi sembra in questo momento molto importante, poiché rappresenta già un passaggio ulteriore, soprattutto in un periodo in cui rischiamo di fare dei passi indietro dal punto di vista istituzionale. Sembra una follia eppure stiamo perdendo il terreno che abbiamo conquistato in questi cinquant’anni di processi inclusivi. Credo che ci sia in atto una tendenza non tanto al rispetto delle diversità in senso generale quanto a una patologizzazione, a una categorizzazione. Ultimamente stiamo parlando molto di BES, bisogni educativi speciali e questo porta a far sì che ogni bambino con qualunque tipo di problema, di tipo linguistico perché proviene da un altro Paese, oppure un bambino che sta attraversando momenti un po’ complicati che lo portano a manifestare problemi comportamentali, diventi una categoria a sé.
Non so se questo vada in direzione di un processo inclusivo oppure se stiamo tentando di dare una risposta di tipo sanitario. In questo momento vedo un approccio, una lettura di tipo sanitario di tutti i problemi che la scuola presenta. Credo che impedire questo sia una responsabilità di tutti. Un altro filone su cui si sta lavorando in maniera ambigua e contraddittoria è relativo alla progettazione delle linee guida per l’adolescenza. Si dice che saremo un Paese finito se non punteremo su questa fascia di età, che presenta una grande vitalità anche nella sua conflittualità generativa, quindi si invita all’ascolto, si invita ad accogliere le sfide che nascono proprio da questa età. La complessità del momento si riflette in un doppio ordine di tendenza: da un lato andiamo a valorizzare progetti come “Cultura Libera Tutti”, che partendo dalla scuola arrivano alla formazione di insegnanti e professionisti, quindi un grande esempio di innovazione e creatività dal punto di vista educativo e informativo, e dall’altro è ravvisabile una patologizzazione di tutte le diversità che da risorsa si fanno unicamente problema.§
L’esempio di questa rete di confronto culturale è un grande esempio di sistema virtuoso che unisce e fa assumere a tutti delle responsabilità. Un virtuosismo contaminante che ho visto e vissuto in prima persona e che ci ha portati fino al momento attuale.
Un’altra responsabilità importante – lo vedo dal punto di vista scolastico e universitario per quanto riguarda soprattutto gli studi del mio dipartimento, quello di Scienze dell’Educazione – è di non mollare assolutamente sulle scelte didattiche; in questo caso parlo proprio di scuola e di relazione sul territorio, credo cioè che dalle scelte che vengono fatte nelle classi, nelle scuole, ci sia la risposta per un futuro che però si vive nel presente, un’utopia di qualcosa che non si raggiungerà mai ma che ogni giorno diventa pratica inclusiva. Tutto ciò che è stato raggiunto come scelte didattiche, che sono anche scelte di creatività, dove davvero ognuno può essere artista della propria disabilità, anche chi pensa di non avere una disabilità, nelle proprie difficoltà nell’affrontare il sapere, le conoscenze, in modo molto generale, nelle scelte che si possono fare nelle classi, nelle scuole, porta con sé una risposta a questa sfida. Anche quando faccio formazione con i miei studenti e con gli insegnanti, il mio invito è sempre quello di non pensare che le scelte che si fanno nelle strategie non abbiano una ricaduta; sono scelte e responsabilità allo stesso tempo e sono fortemente connotate, quindi fanno la differenza. Questa è la nuova sfida e rappresenta il modo che noi possiamo utilizzare per non fare passi indietro rispetto alla didattica, la pedagogia inclusiva nel senso più ampio del termine, e quello che risponde principalmente al mandato della scuola: se c’è una scuola inclusiva anche la società sarà inclusiva. Se la scuola perde terreno su questo, sarà difficile che anche la società non lo faccia a sua volta.

4. Rete “Cultura Libera Tutti”,La cultura non si subisce, si fa!

Fu nel 2009 con il Progetto “Ingresso Libero” che, in collaborazione con il Servizio Studenti Disabili dell’Università di Bologna e l’USSI-Disabili adulti dell’Azienda USL della Città di Bologna, la Cooperativa Accaparlante cominciò per la prima volta a unire il concetto di accessibilità a quello di “fruibilità”, intendendo con quest’ultima forme d’accoglienza di tipo relazionale indipendenti da limiti strutturali e barriere architettoniche. Così, fin dal principio, la fruibilità fu inserita dal team di Ingresso Libero, formato allora da studenti, educatori e professionisti con e senza disabilità, tra gli indicatori di qualità più importanti capaci di garantire, ai giovani disabili soprattutto, un accesso sicuro e piacevole al tessuto urbano e universitario, dai locali ai negozi fino ai centri sociali. Le informazioni, poi raccolte in un database tuttora consultabile sul sito www.ingressolibero.it, sono state corredate da commenti e suggerimenti frutto dei continui sopralluoghi sul campo effettuati dal gruppo e dagli utenti.
Negli ultimi tre anni la ricerca di Accaparlante è proseguita, estendendosi anche agli spazi normalmente deputati alla cultura. Ecco allora che musei e teatri in particolare sono stati nuovamente invasi dagli educatori e dagli animatori con disabilità della Cooperativa, che, pur riscontrando qua e là qualche ostacolo fisico, si sono subito posti in relazione e confronto con tutte quelle barriere relazionali che spesso si frappongono tra noi, e in questo noi ci sono anche le persone con disabilità, e l’opera d’arte stessa, aggiungendo questa volta all’impresa un elemento in più: l’incontro con l’ignoto, il limite e una buona dose di bellezza. Infatti, a mano a mano che la nostra presenza si è fatta strada tra quei luoghi inesplorati, che ora possiamo definire a tutti gli effetti “di casa”, quegli stessi luoghi e le loro ricchezze hanno inevitabilmente finito per contaminarci, in visione come in azione, fino a condurci a colloquio con le nostre più profonde intimità.
Un’opera, sia essa un quadro, un vaso o uno spettacolo, non è mai questione neutra, così come non lo sono le persone che ne fruiscono. Essa si colloca in un luogo preciso, come un teatro e un museo che sono fatti in un certo modo, in cui si respira una certa aria, in cui veniamo accolti con delle costanti, e spesso si rivolge, anche se quasi mai questo è nell’intenzione di chi l’opera la pensa e realizza, cioè dell’artista, a un pubblico nella maggior parte dei casi del settore. Se poi guardiamo al mondo dell’arte e del teatro contemporaneo, ci accorgeremo che il pubblico che fa esperienza dell’opera è spesso composto dalle stesse persone che quell’opera la promuovono, finanziano e comunicano. Un pensiero e una consapevolezza diffusi tra gli addetti ai lavori che hanno aperto discussioni e nuovi contesti di riflessione in cui, quasi per caso, è nato l’incontro di Accaparlante con l’Istituzione Bologna Musei, inizialmente il Museo d’Arte Moderna MAMbo e successivamente il Museo Civico Archeologico, mentre, contemporaneamente, su un altro piano, iniziava l’avventura con il Teatro ITC di San Lazzaro. Quella di “Cultura Libera Tutti” è un’esperienza d’incontro, e nel contempo un percorso e una proposta progettuale, che potrebbe essere racchiusa in tre parole chiave: impatto, immagine e corpo.
Tutto ebbe inizio quando il Dipartimento Educativo del MAMbo, diretto da Veronica Ceruti, ci chiamò per coinvolgerci in una visita guidata all’interno del museo, una visita quindi pensata per persone con disabilità. Noi abbiamo risposto subito positivamente con l’idea però di dare qualcosa in cambio, con lo scopo di partecipare all’incontro con l’arte con la persona con disabilità. “Che cosa vuol dire?”, si sono chiesti al MAMbo e “Come fare?”, ci siamo chiesti noi. Prima di tutto lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle attraverso una fase di conoscenza reciproca dove i due gruppi, quello numerosissimo del MAMbo di operatori, tirocinanti, tecnici e il nostro di educatori e animatori con disabilità hanno visto e testato personalmente le reciproche attività laboratoriali normalmente proposte nelle classi. Da lì sono stati rintracciati dei punti comuni che hanno contribuito a creare un laboratorio condiviso, un progetto europeo, una proposta rivolta alle scuole articolata in due step: una giornata prevalentemente condotta dal museo di visita alla collezione permanente con la nostra partecipazione attiva e una giornata in classe prevalentemente condotta da noi sulle consuete attività del Progetto Calamaio. Al centro, filo rosso del dialogo, una semplice rivelazione, o forse, un semplice dato di realtà: mettersi in relazione con un’opera d’arte contemporanea è come mettersi in relazione con una persona, un corpo vivo e sentimentale che sarà sempre diverso e altro da noi, perché non l’abbiamo mai visto, perché non lo conosciamo, perché ha delle caratteristiche precise e non conformi che a un primo impatto ci possono allontanare. Parlare di disabilità diviene allora il punto di partenza per parlare di diversità nel senso più ampio del termine e, al contempo, portare l’arte agli estremi delle sue inclinazioni.
Non distante successivamente l’aggancio con il Museo Civico Archeologico, con cui abbiamo elaborato un percorso simile, ridotto in una giornata, a partire dalla visione e dal racconto intorno ad alcuni vasi greci contenuti nella Stanza delle Antichità del Museo, vasi rappresentanti donne, barbari e schiavi, i simboli del “diverso” dell’Atene del VI sec. a.C. Partire dalle loro storie e dai loro ruoli ci ha permesso di lavorare con i bambini nel presente, in particolare sull’immagine sociale della persona con disabilità.
Nel frattempo con il Teatro ITC di San Lazzaro il lavoro si è indirizzato per lo più sul piano corporeo, con l’inserimento della persona disabile all’interno di giochi e attività legati all’improvvisazione che hanno così determinato un nostro spostamento in direzione del movimento e del contatto, grazie a una messa in relazione fisica ed empatica con l’azione dell’altro. Da qui la possibilità di farci coro, un coro di voci uniche e capaci di nuovi inserimenti, imprevisti e contaminazioni. Tra gli effetti dell’esperimento un inaspettato senso di comunità, che ha regalato a tanti momenti sia d’ascolto che di protagonismo, frutto anche di un precedente gioco di sguardi quando, da spettatori, abbiamo detto la nostra sul blog “La Quinta Parete” (http://laquintaparete.accaparlante.it), attraverso esercizi di scrittura creativa nati dalla visione degli spettacoli ospitati dal teatro e coadiuvati dall’incontro con artisti e critici teatrali “Ciascuno di noi scrive perché qualcun altro possa scrivere dopo” era il nostro motto.
Cos’è accaduto alla fine dei singoli percorsi? I soggetti hanno avuto la possibilità di confrontarsi intorno a un tavolo con la partecipazione di Federica Zanetti, docente di Didattica e pedagogia speciale presso l’Università di Bologna, Facoltà diScienze della Formazione, e hanno deciso di sperimentare insieme e  in prima persona un percorso di formazione di rete, che avesse al centro il rapporto tra arti e diversità da indirizzare a studenti, università, docenti e operatori culturali proprio sulla base delle affinità emerse nelle esperienze citate, di cui Accaparlante è stata tramite e capofila.
Questa la nascita della rete alla guida del progetto “Cultura Libera Tutti”, che da allora ha promosso sul territorio un corso di formazione articolato in quattro moduli, rivolto a insegnanti, educatori e mediatori culturali inseriti anche nell’offerta universitaria della Facoltà di Scienze della Formazione di Bologna come “Laboratorio di formazione professionale dell’educatore sociale e culturale” per l’anno accademico 2013/14. Parallelamente la rete ha offerto un percorso sperimentale per tutte le Scuole Primarie e Secondarie di I e II grado.
Tra gli obiettivi del progetto vi era quello di offrire alle diverse professionalità occupate nell’ambito dell’insegnamento, dell’educazione e della cultura specifici strumenti di formazione, al fine di potenziare il ruolo degli istituti culturali quali promotori di inclusione, favorendo dunque il dialogo, anche nel mondo dei più giovani, e promuovendo così la diversità non come limite ma come risorsa e strumento per la cooperazione sociale.§
Di seguito si riportano i percorsi che articolano la proposta formativa rivolta alle scuole e un manifesto d’intenti alle cui dichiarazioni hanno aderito altri soggetti del territorio tra cui: USSM (Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni di Bologna – Ministero della Giustizia), Associazione Fe.Bo. Archeologica, Senza Titolo Associazione Culturale, Pubblico. Il Teatro di Casalecchio di Reno, Associazione Tecnoscienza, Associazione AIPI.
Conclude il nostro excursus tra i luoghi dell’arte una testimonianza d’eccezione, quella di Emanuela Canale, volontaria del Servizio Civile Nazionale presso la Cooperativa Accaparlante, che in qualità di partecipante al progetto ci regala la sua personale esperienza di liberazione, tra gioco, domande, ironia e complicità.

4.1. “Cultura Libera Tutti”. Percorso educativo rivolto alle Scuole Primarie e Secondarie di I e II grado del territorio

Il progetto
“Cultura Libera Tutti” è un progetto di rete interdisciplinare, che offre un percorso sperimentale tra il mondo dell’arte e della diversità per tutte le Scuole Primarie e Secondarie di I e II grado del territorio.
Il progetto nasce dalla collaborazione tra la Cooperativa Sociale Accaparlante e le più importanti realtà culturali del territorio bolognese, come l’Istituzione Bologna Musei (in particolare il Museo d’Arte Moderna di Bologna MAMbo e il Museo Civico Archeologico) e ITC Teatro di San Lazzaro, e si incentra sull’accessibilità culturale, intesa come abbattimento delle barriere fisiche e relazionali che possono allontanare alcuni soggetti dalla fruizione di occasioni di conoscenza, espressione e creatività, creando condizioni di emarginazione.

La proposta
Successivamente a un corso di alta formazione interdisciplinare che nell’anno 2013-14 ha coinvolto più di 40 insegnanti, operatori sociali e culturali e alla creazione del “Laboratorio di formazione professionale dell’educatore sociale e culturale”, inserito nell’offerta formativa dell’anno accademico 2013-14 presso la Facoltà di Scienze della Formazione di Bologna, la rete “Cultura Libera Tutti” si rivolge ora alle Scuole Primarie e Secondarie di I e II grado del territorio.
La proposta, che ha preso avvio questa primavera, fornisce alle scuole la possibilità di scegliere fra 3 percorsi, tutti organizzati in 2 incontri di 2 ore ciascuno, uno presso le strutture culturali e l’altro presso la scuola con le attività del Progetto Calamaio. I primi venti percorsi hanno ricevuto il contributo di Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna e proseguiranno con la seguente formula nell’anno scolastico 2014-15:

• “Di-segni non convenzionali” MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, via Don Minzoni 14, Bologna

Il percorso intende indagare il segno nelle sue trasformazioni all’interno dei linguaggi artistici contemporanei e sperimentare il suo valore comunicativo, espressivo ed estetico attraverso una serie di esperienze laboratoriali che coinvolgono il corpo, il gesto e lo spazio.
La visione dei dipinti informali presenti nella Collezione Permanente del MAMbo diventa uno spunto per esplorare inedite modalità di esprimersi attraverso il segno, il colore e la materia.
Partecipano al percorso anche gli educatori e gli animatori con disabilità del Progetto Calamaio.

• “Io sono un altro, l’altro sono io”
ITC Teatro – Teatro dell’Argine, via Rimembranze 26, San Lazzaro di Savena (BO) o ITC Studio, via Vittoria 1, San Lazzaro di Savena (BO)

Il gioco della recita, attraverso le tecniche dell’improvvisazione e della drammatizzazione, è in una prima fase strumento di analisi dei comportamenti in possibili situazioni di vita quotidiana.
Nella valorizzazione di bambini e ragazzi come individui capaci di creare e di regalare stimoli a se stessi e a tutto il gruppo di lavoro, il teatro appare come un formidabile strumento per operare non solo in situazioni complesse o di difficoltà (ad esempio in casi di bullismo, difficoltà di rapporto tra bambini e ragazzi provenienti da culture diverse, inserimento di persone affette da disabilità fisiche e psichiche) all’interno delle scuole, ma anche in centri giovanili o di prima accoglienza per stranieri o simili. Partecipano al percorso anche gli educatori e gli animatori con disabilità del Progetto Calamaio.

• “Ringrazio gli dei di non essere nato barbaro: un percorso alla scoperta dell’altro a partire dall’iconografia della ceramica attica” Museo Civico Archeologico, via dell’Archiginnasio 2, Bologna

Il percorso pone al centro la scoperta dell’altro, del diverso, a partire dalle ceramiche greche delle collezioni del Museo, ricche di soggetti e scene figurate che portano in primo piano il tema della diversità e dell’alterità.
L’iconografia dei vasi risponde infatti alle categorie di chi principalmente ne faceva uso: il cittadino ateniese, maschio, adulto, libero, che li utilizzava nello spazio particolare del simposio, momento di socialità dedicato al vino, dono di Dioniso. Vengono quindi di volta in volta in primo piano le figure rispetto alle quali il protagonista del simposio si definiva per opposizione o diversità: la donna, lo schiavo, il giovane, il barbaro, ecc. Dall’antichità il percorso si sposta all’oggi e ci porta, attraverso un momento di animazione-dibattito, a riflettere sulle nostre categorie del diverso. Partecipano al percorso anche gli educatori e gli animatori con disabilità del Progetto Calamaio.

Affianca e conclude ogni percorso (da svolgersi a scuola):
• “Progetto Calamaio: incontri con la diversità a scuola”

Il percorso parte dal particolare approccio alla disabilità e, in genere, alla diversità elaborato negli anni all’interno del Progetto Calamaio della Cooperativa Accaparlante.
Nell’incontro diretto con le persone disabili le prime reazioni dal punto di vista emotivo sono la paura e la diffidenza. Accostarsi a una persona disabile suscita questi sentimenti perché la diversità, e non solo quella del disabile, costringe a uscire da se stessi per confrontarsi con l’altro e questo movimento verso l’esterno viene vissuto come perdita di una parte della propria identità.
Dalla paura si origina l’emarginazione di cui sono vittime non soltanto le persone disabili ma anche tutti coloro che si allontanano, in qualche modo, dalla “normalità”. E la paura genera anche il pregiudizio: un giudizio dato a priori su qualcosa di cui, per via della paura, non si è fatto esperienza diretta.
Riconoscere i pregiudizi, e capire che sono radicati in noi a causa della paura e non basati su fatti reali e concreti, è il primo passo da compiere in vista del loro superamento. In questo senso la conoscenza diretta con la diversità e la possibilità di sperimentarla in modo positivo e gioioso permettono di verificare e superare i propri pregiudizi e scoprire nelle persone disabili elementi positivi che contraddicono i nostri stereotipi anche grazie al contatto con l’arte.

Per informazioni e prenotazioni:
Patrizia Passini – Cooperativa Accaparlante
dal lunedì al venerdì 9.00-13.00 tel. 349/248.10.02 – 051/641.50.05
patrizia.passini@accaparlante.it

Da cosa nasce cosa…
Da cosa nasce cosa, si sa, e così è accaduto anche alla rete di “Cultura Libera Tutti”, che è stata chiamata a raccontarsi in diversi contesti, tra cui: “Tutto esaurito! La cultura accessibile strumento d’inclusione e civiltà”, convegno promosso da Accaparlante presso la Mediateca di San Lazzaro di Savena; “Il diritto dei bambini e delle bambine a una piena cittadinanza culturale”, seminario promosso dall’Università di Bologna – Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Comune di Bologna e Teatro Testoni Ragazzi nell’ambito delle iniziative della Settimana dei Diritti dell’Infanzia 2013; “Disabilità mentale e beni culturali – riflessioni e buone pratiche”, seminario di formazione nell’ambito di “Gradart” a Gradara; “Il
Teatro, i teatranti e gli spettatori”, percorso di ricerca e di studio sulla relazione che lega indissolubilmente i tre elementi (soggetti) costitutivi dell’evento teatrale con la compagnia Il Teatro delle Ariette, critici, operatori e altri spettatori.

Il manifesto

L’accessibilità culturale per noi implica la possibilità di favorire un approccio alla cultura libero da quelle barriere architettoniche, fisiche, relazionali o legate alle competenze che rischiano di emarginare soggetti che, per caratteristiche personali (disabilità, limitata conoscenza della lingua, fragilità sociale, anzianità, ecc.), faticano ad approcciarsi con le realtà culturali del territorio e rischiano di essere fortemente esclusi dal godimento di occasioni di creatività, bellezza e conoscenza.
Realizzare l’accessibilità culturale vuol dire, quindi, diventare, attraverso la sperimentazione e la frequentazione dei linguaggi dell’arte e della cultura in generale, spettatori e cittadini partecipi del nostro tempo. Secondo questa logica è nata la rete “Cultura Libera Tutti”, una rete di lavoro reale e non solo nominale, perché basata sulla condivisione di un lavoro comune che ha permesso a tutti i soggetti coinvolti di allargare i singoli orizzonti lavorativi. La positiva collaborazione che la Cooperativa Accaparlante ha messo in atto attraverso percorsi specifici con MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, Museo Civico Archeologico e ITC Teatro – Compagnia Teatro dell’Argine ha fatto emergere la volontà di compiere un’azione più ampia e trasversale, che si è tradotta nella possibilità di costruire una rete significativa di realtà diverse ma impegnate culturalmente sul territorio e nella realizzazione sperimentale di un percorso formativo che ha come tema centrale l’accessibilità culturale.
Formarsi rispetto a questo tema significa per noi prima di tutto rivoluzionare realmente l’approccio alla diversità, acquisendo strumenti e metodologie, personali e professionali, che consentano di abbattere barriere e difficoltà, attivando relazioni e sinergie ricche di significato. Prima ancora degli aspetti tecnici l’ostacolo vero alla rimozione delle barriere fisiche, materiali e psicologiche è proprio la non conoscenza, la difficoltà di identificare nell’altro aspetti simili ai nostri, il riconoscimento che la diversità non è solo un elemento costitutivo dell’esperienza umana ma anche una fonte di apprendimento reciproco per una migliore qualità del vivere insieme.
Accessibilità culturale come superamento di quegli ostacoli che, troppo spesso, rendono inaccessibili le relazioni. Accessibilità culturale che mette al centro il patrimonio culturale come luogo privilegiato di incontro con l’altro.
Accessibilità culturale come valorizzazione della diversità, vista non più come limite ma come risorsa, non come ostacolo ma come opportunità, non come perdita ma come ricchezza.
Cooperativa Accaparlante/Centro Documentazione Handicap

Sottoscrivono il seguente manifesto:
Istituzione Bologna Musei
ITC Teatro dell’Argine – Compagnia Teatro dell’Argine
USSM (Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni di Bologna – Ministero della Giustizia)
Associazione Fe.Bo. Archeologica
Senza Titolo Associazione Culturale Pubblico.
Il Teatro di Casalecchio di Reno
Associazione Tecnoscienza
Associazione AIPI

4.2. Senza remore
di Emanuela Canale

“Cultura Libera Tutti!”. Ma non era “Tana libera tutti!”? A queste parole segue nel gioco la fine del cercarsi e del tentativo di raggiungere una meta senza essere trovati… Ma la cultura cosa c’entra? Perché e come libererebbe? Questi “tutti”, poi, chi sono? La cultura non è in un libro scritto? In un museo? In un’aula universitaria? In un teatro? Non è fatta da persone in giacca e cravatta “impegnate” a parlare da una cattedra o a vedere l’opera con il vestito migliore?
Se provassimo a rispondere in modo negativo a tutte queste domande, a chiudere un libro e incontrare gli altri, ci sarebbe cultura, si farebbe cultura, libereremmo la cultura e ci lasceremmo liberare da essa? Tutte queste domande hanno bisogno di una risposta, ma soprattutto hanno bisogno che si cerchi una risposta e che si percorra il cammino che ad essa conduce. Provare a incontrare gli altri è un buon punto di inizio, ma chi sono questi altri? E dove andiamo a incontrarli?
“Cultura Libera Tutti” propone di incontrarli al Centro Documentazione Handicap di Bologna, al teatro ITC di S. Lazzaro, al museo MAMbo e al Museo Archeologico, creando in questi luoghi spazi di incontro e di espressione che coinvolgano tutti. Questi incontri hanno qualcosa che assomiglia agli sguardi scambiati per strada tra passanti sconosciuti, che nell’incrociarsi si lasciano invadere dallo sguardo dell’altro e che, a volte, non riescono a lasciarlo andare via, voltandosi per non perderlo così in fretta. È un incontro tra pari, tra esistenze prive di maschere, che senza il bisogno di indossarle vivono gli spazi che si trovano a condividere insieme.
I partecipanti a questi incontri sono diversi: in numero, in età, in intenti, in abilità. Ci sono studenti che forse, all’inizio, credono ancora di dover prendere appunti di fronte a un insegnante che parla; educatori e insegnanti che non sono lì per insegnare ma per condividere a loro volta la propria esistenza e lo sguardo pronto a incontrare l’altro; animatori disabili che in questo spazio trovano la possibilità di un incontro autentico.
I luoghi sono luoghi di cultura: musei, teatri, biblioteche, ma non è questo che rende la cultura protagonista della liberazione, quanto piuttosto la possibilità che viene data a ognuno di esprimersi. Mettere nel mondo un senso, un segno, una verità, una modalità d’esistenza e lasciare che a questo si aggiunga il contributo espressivo di altri, che in modo libero ricevono e donano creazioni che completano arricchendole con il proprio senso, il proprio segno. Esprimersi è comunicare in questo spazio libero, fare arte nel senso più proprio, privo di tecniche, abilità, canoni.
E che cos’è la cultura se non questa creazione umana, messa nel mondo dalla semplice esistenza, dal senso trovato ed espresso, dal significato comunicato, dalle azioni compiute? Non c’è esistenza che stando nel mondo non faccia cultura, liberandosi prima di tutto da se stessa e dedicandosi a ciò che esprime e che finisce nello spazio libero in cui quell’espressione può prendere vita. Questo rende ognuno di noi accessibile in qualche modo; la cultura non detta ma fatta è un calderone pieno di ricchezze confuse, mescolate tra di loro in limiti insuperabili e espressioni lasciate sgorgare senza remore, nella libertà che il mondo autentico preserva e regala a ogni uomo.
La cultura libera tutti? La mia risposta è sì, tanto da aver scritto fin qui, in modo libero.

3. Dall’accesso alla pratica,dalla semplificazione alla partecipazione

Pensare che oggi le barriere architettoniche non esistano più sarebbe un’utopia di fondo oltre che una falsità. Le barriere permangono, anche nei luoghi della cultura più contemporanea segnalando talvolta discrepanze tra proposte e fattibilità, o più semplicemente una frequenza sporadica di determinati spazi da parte della persona con disabilità. Ciononostante la situazione è notevolmente migliorata e là dove le risorse ci sono aumenta di conseguenza l’attenzione nei confronti di tutte le eventualità. Parlare di eventualità significa ora parlare in termini impersonali di tutta quella vasta gamma di pubblici (bambini e ragazzi, anziani, stranieri, popolo della periferia) che sempre più frequentemente calcano questi luoghi su proposte mirate; tra questi ci sono anche le persone con disabilità che, con la loro presenza, prima di tutto corporea, aggiungono una variabile in più al loro sostare, generando intorno a sé una serie d’azioni non del tutto prevedibili a partire dall’entrata negli edifici.
La parola eventualità, come dicevo, è piuttosto impersonale e riconduce l’azione dell’operatore culturale, e di conseguenza del visitatore/spettatore, all’ambito delle sue funzioni pratiche.
In questo senso il passo successivo sarà proprio pensare in termini di prevedibilità, il che riconduce essenzialmente la questione al discusso problema del target. Il target è un’arma a doppio taglio, imprescindibile alla sopravvivenza dell’azienda culturale da un lato, alle cui leggi è costretta a sottostare in direzione di proposte progettuali che sempre più ci chiedono di offrire qualcosa di specifico a qualcuno di specifico, e riflessione di categoria dall’altro, in cui facilmente si rischia di incappare in quegli stessi pregiudizi ed etichette che si vorrebbero sfatare.
Nel caso della disabilità lo scontro con la realtà è al momento dell’incontro molto più forte e al contempo più immediato rispetto ad altri tipi di diversità perché “io è un altro”, come direbbe Arthur Rimbaud, e non solo rappresenta me stesso nell’altro ma è anche “il doppio della cultura”, secondo la definizione di Piergiorgio Giacché.
In questo senso le misure dell’eventualità, della prevedibilità e del target si riveleranno presto insufficienti a coprire lo scarto tra il nostro bisogno e quello dell’altro, ed è proprio lì, in quello scarto, che la cultura si colloca. Allo stesso modo è nel mondo degli opposti e dell’originalità, come sottolinea Marco De Marinis, che incontreremo la diversità:“Esistono due modi sbagliati (o facili, sbagliati in quanto facili) di rapportarsi con l’altro: rifiutarlo perché diverso o accettarlo negandone la diversità. Quello che bisognerebbe riuscire a fare, invece, è accettare l’altro proprio in quanto tale, in quanto diverso. Si tratta di un’operazione difficile che presuppone due gesti teorici apparentemente opposti ma in realtà fra loro complementari:
a. Il riconoscimento che ‘io è un altro’ (Rimabaud), cioè che l’alterità inizia già in noi, nell’io nel medesimo, come riconobbe Freud nella sua topica tripartita, e come oggi sottolinea fra l’altro l’anthropologie du proche di cui è porta-bandiera Marc Augé, il quale ha parlato di un’‘alterità intima o essenziale’ per alludere alle differenze di cultura interne alla persona.
b. L’ipotesi che, per converso, esista un fondo comune, transindividuale, transculturale, il quale ha a che vedere, per dirla rapidamente e sinteticamente, con il corpo da un lato e con lo spirito (o anima) dall’altro”.

Partire da questi presupposti ha permesso a chi si occupa di mediazione culturale di ripensare la diversità non più in termini di target ma in termini di specificità e originalità contaminanti per sé e per gli altri.
Dare forma allo scambio è stato il passaggio successivo che ha spostato la riflessione sull’entrata a quella sull’accesso, a come cioè rendere possibile alla persona con disabilità la fruizione dell’opera in termini sensoriali e di competenza.
Ancora oggi molte esperienze si fermano al primo passaggio, a come cioè favorire la fruizione dell’opera dal punto di vista visivo, uditivo o tattile consentendo ad esempio il contatto con l’opera stessa nei musei o inserendo sovratitolazioni all’interno degli spettacoli teatrali che, in alcuni casi, hanno finito per diventare parte dello spettacolo stesso con una propria autonomia artistica.
Numerosissimi sono i progetti che operano in tal senso e che riconducono quindi il concetto di accessibilità alla possibilità di comprendere appieno l’opera, innanzitutto dal punto di vista sensoriale.
Per quanto assolutamente necessarie, queste esperienze annunciano due rischi, gli stessi che Angelo Errani riconduceva alla scuola nel 2006:
“– Il rischio di un’enfasi dell’esperienza sensoriale, intuibile nella proliferazione di proposte delle più diverse attività, che tradiscono un’idea di supermercato degli apprendimenti;
– il rischio di un’enfasi della personalizzazione dei progetti formativi, che prefigura un futuro di percorsi in solitudine e di svuotamento della prospettiva dell’integrazione.
È più che mai importante ricordare che alla base di ogni esperienza culturale, accanto alle ragioni pratiche e insieme al riconoscimento che potrà esserci utile, c’è sempre lo stupore, c’è la meraviglia, nel senso letterale del termine, di rivelazione di bellezza”

Ancora una volta il target dunque e il rischio della ghettizzazione. Come fare allora ad abbandonarsi, come suggerisce Errani, non solo all’incontro con ma anche all’esperienza della bellezza secondo un approccio inclusivo e di ricaduta sociale? Una delle prime risposte è stata quella di favorire l’incontro con l’opera e gli artisti nella semplificazione del linguaggio e nella successiva realizzazione di attività creative che, prendendo spunto dalle forme e i contenuti dell’opera, rendessero la persona capace di esprimersi e di mettersi così in relazione a quei contenuti, di lasciare, come abbiamo evidenziato prima, un segno del proprio passaggio. Si tratta in questo senso di percorsi museali e teatrali pensati per persone con disabilità, che attualmente rappresentano la maggior parte di quelli presenti.
Tra gli ultimi esperimenti tuttavia non sono mancate proposte di percorsi pensati non più per ma con persone con disabilità, con l’idea ovvero di promuoverne la partecipazione (termine che compare tra l’altro tra i punti della Strategia europea 2010-2020) delle persone con disabilità, in termini non solo di ricezione ma anche di presenza attiva capace sia di relazionarsi con i contenuti sia di aggiungerne di nuovi.
Per farsi promotori di cultura tuttavia è necessario acquisire delle competenze, le quali passano attraverso la consapevolezza che, a sua volta, passa per la familiarità con un determinato tipo di linguaggio. Farlo è possibile e può condurre a esiti di bellezza, libertà e inclusività insospettabili all’immaginazione. È accaduto anche a noi, con e grazie ai protagonisti della rete “Cultura Libera Tutti”

2. Ponti o custodi? Mediare l’arte nei luoghi della forma

Se è vero che la cultura esiste come scambio sociale, essa palesa fin dal principio quel che c’è in mezzo: il mondo tra noi e gli altri. Dentro c’è tutto quello che ci fa paura: convenzioni, pregiudizi, rifiuti ma anche deviazioni, imprevedibilità, inconscio, perdita di controllo, affettività e sessualità. C’è anche tutto quello che ci aspettiamo e che regolamenta i nostri rapporti senza che ce ne accorgiamo. Sull’indicibilità di queste esperienze di confine l’arte trova il suo spazio vitale e ce le ricomunica in maniera nuova, nella dialettica dell’immaginario, andando a sovvertire le regole del riconoscimento, improvvisando, agendo sull’abbandono e sull’inibizione di presenze in movimento che si trovano a sfiorarsi e a scrutarsi a vicenda nello stesso luogo e nello stesso tempo.
In questo contesto prevalentemente istintivo s’inserisce la poetica della forma, sia in termini di estetica, e quindi in accordo e in dialogo con l’opera d’arte stessa, sia in termini di etichetta, ritualità e regole di comportamento. Dell’insieme formale fanno parte, ad esempio, il buio delle platee e delle sale cinematografiche, le file, il silenzio, gli applausi, il divieto di toccare le opere, le aspettative di un pubblico omologato che già si conosce al suo interno, tutti elementi che ancora connotano teatri e musei, cinema e biblioteche per esigenze più pratiche che morali, come la qualità della fruizione e la visibilità, che tuttavia condizionano inevitabilmente le modalità della nostra partecipazione. Se questo insieme di regole scritte e non scritte ha a che fare con qualche aspetto della zivilisation di Splenger e ci appare un po’ rigido, ci apre tuttavia al contempo a un altro aspetto della kultur che ci porta alle radici del fare artistico: la sacralità. Lo sanno bene in particolare i teatri e i musei. Nel teatro questo aspetto è molto forte e si esplicita durante la visione in termini di catarsi, ponendo su un piano paritario attore-spettatore. Nei musei, invece, la religiosità dell’atto accompagna il visitatore nell’intero percorso espositivo, dall’entrata all’uscita, così che ancora oggi molti spazi mantengono al loro interno un custode e un personale di sala che ci indicano il cammino da percorrere nei meandri delle esposizioni. Luoghi da attraversare dunque e luoghi da conoscere, dove la perdita d’orientamento è sempre in agguato, ma che tuttavia, con le sue regole, garantisce all’opera la fruibilità che merita e assicura un tempo debito alla visione, secondo lo schema di un vero proprio percorso a stazioni più o meno duttile.
La flessibilità di queste strutture dagli anni Sessanta-Settanta in poi è sicuramente cambiata: il teatro ha cominciato a toccare il corpo dello spettatore e il museo a renderlo addirittura parte integrante delle sue opere in un’ottica sempre più partecipe e performativa. L’arte ha così iniziato a ragionare all’interno del suo microcosmo e a dialogare con i suoi elementi costitutivi. Benché lo spettatore fosse al centro, nella nuova ricerca l’artista ha spesso desiderato ragionare di più sulla forma che sul contenuto, accrescendo in tal modo la distanza tra chi non aveva familiarità con un certo tipo di linguaggio e un pubblico più avvezzo a determinati tipi di esperienza. Fratture di campo che si inserivano e si inseriscono negli ambienti per inclinazione, preparazione, classe sociale, appartenenza a comunità che in quei codici interpretativi trovavano i riferimenti e le conferme della propria identità umana, civile e politica.
Ciò che non è mai cambiato, invece, è paradossalmente il ruolo dell’artigianato che, se da un lato permette ancora di riconoscere forma e contenuto come inseparabili, e quindi raggiungibili, dall’altro esplicita l’orizzonte di scambio. Una scenografia, un quadro, un’installazione che potenzialmente possono essere toccati con mano rendono infatti evidente ai nostri occhi il lavoro che c’è dietro la creazione, che finisce così per palesare il suo “interno d’artista”, la presenza della persona e della vita di cui ci ha lasciato traccia. Lasciare un segno della propria presenza è per tutti fondamentale e ciò vale anche per lo spettatore, il quale persegue la stessa affermazione identitaria dell’artista e di cui non esita a usare le rivelazioni per dialogare con le proprie ossessioni, accrescersi e riscoprirsi fino ad affezionarsi, non a caso, a certe opere piuttosto che ad altre. Favorire questo tipo di familiarità fino a farne forma di conoscenza e scoperta è oggi l’aspetto su cui si concentra di più la mediazione dell’operatore culturale e, di conseguenza, l’orizzonte di riflessione sulla cultura accessibile. L’opera d’arte abita in un luogo che la rende visibile ma che non la isola da sguardi indiscreti, anzi, sarà proprio verso e su quegli sguardi che essa lavorerà, non solo in direzione del coinvolgimento ma anche quale ponte per proseguire dentro e fuori dal museo e dai teatri la sua eco di cambiamento, non esitando a uscire da sé per andare a intercettare il suo pubblico e creare spaesamenti e divergenze in se stessa e nella società tutta. Non più mettere in mostra ma aprire relazioni, relazioni che crescono e si sviluppano nel tempo, per una cultura, per dirla con Francis Bacon,“georgica dell’anima”, in perenne rigenerazione e trasformazione di pari passo con chi la incontra.

1. Ciò che tiene insieme gli uomini

La cultura, sosteneva l’antropologa Ruth Benedict, è ciò che tiene insieme gli uomini. Affinché questa tenuta sia durevole e garantita nel tempo gli uomini hanno bisogno di riconoscersi gli uni con gli altri in tutti quei modi della vita associata che la cultura investe e che ancora oggi chiama “civiltà”. Civiltà e cultura dunque coesistono insieme e ci offrono al contempo rischi e possibilità. Da un lato ancora la zivilisation, la cristallizzazione delle norme, secondo la storica definizione di Oswald Spengler ne Il tramonto dell’Occidente (1918), dall’altro la più moderna kultur, intendendo con questa una civiltà che, per identificare se stessa, si accompagna allo sviluppo morale e intellettuale della persona. Il termine kultur trae la sua radice da cultum, supino del verbo latino colere, letteralmente “dedicare le proprie attenzioni a qualcuno o a qualcosa”. Dando per scontato che all’epoca la cura maggiore fosse per lo più rivolta alla coltivazione dei campi, la cultura passerà allora da res,“cosa”, ad “agricoltura”, finendo così per indicare un più completo procedimento che attraversa la crescita biologica della pianta (e poi del bambino), facendola passare dalla potenza all’atto. Su questa metafora la cultura latina ha costruito e ricondotto le proprie paideia, l’educazione, e humanitas, l’insieme cioè di tutte quelle qualità etico-morali che rendono l’uomo giusto, benevolo e aperto ai suoi simili, insomma un cittadino di alto livello.
Parlare di cultura accessibile significa oggi ritornare alle origini del discorso, per ripensare un termine che porta al suo interno passaggi e significati complessi, alle volte contraddittori, che ci conducono a rivedere dal principio il processo di accesso della persona disabile ai luoghi dell’arte e della socialità non tanto dal punto di vista strutturale, né di fruizione in termini sensoriali, quanto come partecipazione libera e consapevole, per chi entra e per chi accoglie, a un patrimonio di storia e di attualità comune di musei, teatri, cinema e biblioteche che ancora identificano il nostro modo di prendere (o non prendere) parte alla vita delle città. Negli ultimi tre anni la Cooperativa Accaparlante ha sviluppato la riflessione, già in atto sulla fruibilità che segue l’entrata materiale negli spazi, nell’incontro con alcune delle più vivaci e conosciute realtà culturali cittadine, tra cui l’Istituzione Bologna Musei, in particolare il Museo di Arte Moderna MAMbo e il Museo Civico Archeologico, il Teatro ITC e la Mediatica di San Lazzaro di Savena (BO). Ne sono nate pratiche e metodologie che per la prima volta hanno messo al centro la persona con disabilità, non come destinataria ma come partecipe e persino conduttrice di percorsi museali e laboratori teatrali. Tutto questo ci ha condotti nella teoria a un convegno,“Tutto esaurito! La cultura accessibile strumento di inclusione e civiltà”, promosso lo scorso 30 novembre con il comune di San Lazzaro presso la Mediateca in occasione della Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità e nella pratica a un progetto di formazione di rete,“Cultura Libera Tutti”, rivolto a insegnati, operatori, scuole e università, a partire dal quale vorremmo ora aprire una riflessione più generale sul tema, dall’attuale stato dell’arte sul territorio nazionale, alle basi per il futuro di un’accessibilità mediata ma non filtrata.

POESIE

Nel giusto mondo
ero in tram
e c’era questa ragazza carina
probabilmente straniera
probabilmente dell’est
con una sciarpa blu, probabilmente
forse nera

sicuramente soffriva
piangeva
aveva maldidenti
mal di denti
la sciarpa forse blu forse nera
se la teneva tutta avvolta nella faccia
sulla guancia tutta gonfia di male
faceva un freddo porco

stava in piedi attaccata al palo
tutti i posti erano occupati
le uscivano le lacrime
in silenzio

nel giusto mondo
mi sarei avvicinato
le avrei detto, ciao sono un dentista e ti aiuterò

nel mondo no
è scesa dopo cinque fermate
l’ho guardata allontanarsi 

in realtà ero io che mi allontanavo
in realtà era il tram con me sopra
in realtà tutto ciò accadeva tre anni fa

e questa cosa serve a chiederti scusa
a nome mio
e a nome degl’altri venticinque stronzi che manco t’hanno vista
(Guido Catalano in: Poesie nuove)

Fai sogni belli
fai sogni belli
non brutti
belli
non aver paura di chiudere i tuoi occhi
non farai più brutti sogni
basta coi sogni cattivi
adesso solo sogni buoni

sogna del mare e dei gatti
che non graffiano
che fanno le fusa

sogna di cioccolate
e di stelle candite
e della luna ventosa di notte

sogna solo bei sogni
sogna di volar via in alto
e di scendere giù in picchiata urlando
senza però sfracandarti al suolo

sogna bellissime cose
tutte cose bellissime, sogna
non quelle brutte e schifose
le cose schifose se ne stiano lontane lontane lontane

state lontani brutti sogni
io se vi avvicinate vi scaccerò via con parole
e pugni sul naso
non vi permetterò più di spaventarla

fai sogni di musiche marine
fai sogni di nuvole al sapore di meringa
sogna tutti i cieli
sogna di gnomi e boschi incantati
di draghi e maghi barbuti

fai sogni belli
basta brutti sogni
magari, una di queste notti
ti vengo a trovare
(Guido Catalano in: Poesie vecchie)

Un fiore vede la luna
un fiore vede la luna
“bella” dice
“bella bella” ridice
“bellissimamente bella”

si chiede
“potrei andarci?”
“potrei giungerci, lì, un giorno?”

no
lì no
tu no
(Guido Catalano in: Poesie vecchie)

www.guidocatalano.it

8. Un tassello accanto all’altro

Pensieri e riflessioni emersi direttamente dal  focus-group con i Coordinatori del Servizio di Assistenza Domiciliare delle cooperative che gestiscono il servizio.

La specificità di un servizio

C’è un aspetto che mi ha lasciato un po’ di perplessità nell’intervista fatta ai vari referenti dell’Azienda USL ed è legato al fatto che emerge una visione complessiva che, se da un lato rende conto della complessità della pluralità di servizi presenti, dall’altro fa perdere di vista la specificità di questo servizio territoriale.
Anche alla domanda “Se il servizio non ci fosse più che cosa succederebbe?” la risposta sembra più legata ai servizi che in generale l’Azienda USL eroga, quindi tutti i servizi. Questo mi rinforza nell’idea che ci sia bisogno di questo lavoro il cui intento è quello di dare visibilità a questa tipologia di servizio sul territorio perché, a parte le famiglie che vi usufruiscono, sembra quasi che la conoscenza sia legata agli stretti atti amministrativi che autorizzano il servizio, ma “il cosa c’è dietro” lo sanno in pochi.
È difficile entrare in merito del servizio di assistenza domiciliare (che comprende interventi di tipo assistenziale ed educativo), parlare delle problematiche di questo servizio e non in generale dei servizi relativi alla presa in carico di una persona con disabilità che hanno caratteristiche molto differenti (ad esempio i centri diurni, le case famiglie…) e che sono in un certo senso più visibili.
Da parte delle famiglie c’è invece un racconto preciso del servizio di assistenza domiciliare, come si svolge, cosa si fa.
È un servizio invisibile e mi accorgo della difficoltà con i nostri referenti pubblici a evidenziare l’incisività di questi interventi che invece incisivi lo sono.
Ne esce un quadro generale della situazione, anche le assistenti sociali hanno in mente tutta la globalità dei servizi e fatica a emergere la specificità; invece le voci degli operatori e dei familiari hanno ben presente qual è il servizio e quali sono le problematicità, i cambiamenti che il servizio può subire (da educativo ad assistenziale). Soprattutto le famiglie toccano con mano il servizio, sanno di cosa si tratta, indicano spesso con chiarezza il loro bisogni (ad esempio l’assistenza anche nei giorni festivi) e sono consapevoli del sollievo che questo servizio porta anche a loro.
Sicuramente gli operatori e la famiglia sono gli attori principali del servizio di assistenza domiciliare, è molto normale per loro entrare nello specifico del servizio. Le assistente sociali vedono l’utente all’interno del quadro complessivo dei servizi che quella persona riceve o potrebbe ricevere.
Questo servizio ha una sua parte di avvio quando l’assistente sociale incontra la famiglia e l’utente poi mi sembra che per i referenti Azienda USL esso si perda un po’ nel silenzio, se non per le parti che si possono percepire come problematiche.

La persona giusta nel posto giusto
Un aspetto delicato è che gli operatori dovrebbero essere ad hoc: uomo o donna, alta, grosso, con la macchina o no, giovane o più anziano, possibilmente non extracomunitario (questo fatto spesso viene visto come una penalizzazione). Deve avere determinate caratteristiche che sono legate alle esigenze della persona che riceve il servizio e della sua famiglia; l’assistente sociale appoggia le richieste delle famiglie, spesso è in balia di queste richieste e per non avere problemi nel futuro si cerca di accontentare il più possibile le richieste della famiglia.
Spesso il nostro compito è quello di trovare un compromesso, un equilibrio tra le richieste della famiglia e le tutele degli operatori anche tenendo conto del quadro normativo di riferimento, ad esempio la legge sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.
È la famiglia a dettare le caratteristiche dell’operatore ideale ma è anche il tipo di intervento educativo che determina la necessità di avere una figura con determinate caratteristiche.
Occorre fare un distinguo fra interventi educativi e interventi assistenziali.
Il confine fra le richieste di tipo educativo e assistenziale è sempre più fumoso; ci sono interventi che necessiterebbero di un intervento educativo dove per varie ragioni viene invece attivato altro.
Uno dei problemi è che spesso si pretende che un operatore socio-sanitario abbia le caratteristiche di un educatore. Gli obiettivi delle due figure professionali non sono però gli stessi; l’operatore socio-sanitario deve dare risposta ai bisogni primari delle persone e questo può significare anche accettare che ci sia una diversificazione delle persone che soddisfano questi bisogni e un livello di studi più contenuto; mentre per un intervento di tipo educativo è maggiormente coerente garantire una competenza alta e la continuità per la figura che interviene.

Il nostro? Un ruolo di mediazione
Il rapporto con il servizio pubblico è spesso difficoltoso nella fase di attivazione degli interventi che possono risultare estremamente frammentati. Per quanto riguarda gli interventi assistenziali facciamo fatica ad avere una periodicità degli incontri di valutazione e confronto sull’andamento, dato che si ritiene più semplice questo tipo di intervento rispetto ad altri, a meno che non succeda una crisi, un’emergenza; mentre per gli interventi educativi questo confronto è maggiormente cadenzato nel tempo.
Nelle interviste vengono fuori gli elementi che caratterizzano gli interventi domiciliari: la differente possibilità di spendere risorse, le difficoltà di interagire con i vari servizi, di lavorare in équipe. Per il nostro ruolo noi ci troviamo a gestire queste difficoltà e a rielaborarle all’interno delle nostre cooperative spesso in solitudine, ma soprattutto in un confronto con le famiglie che può essere, quando va bene tranquillo, quando va male anche molto duro.
I referenti dell’Azienda USL dicono che le risorse non sono usate in maniera sufficientemente equa in tutto il territorio, che ci sono utenti che hanno più servizi e quelli che ne hanno meno, e dicendo questo ci dicono tanto. Sarebbe bene che riflettessero un po’ di più su questo perché noi che lavoriamo su più territori vediamo come l’interpretazione del bisogno ha delle risposte diversificate, ad esempio per quanto riguarda l’accompagnamento nel tempo libero. È come se ci fosse un’ampia possibilità di definire in modo diverso di volta in volta le scale delle priorità.
Gli utenti spesso hanno dei piani di intervento incoerenti che vengono messi in discussione dopo l’attivazione, forse per un automatismo forte che ci può essere nella presa in carico, che spesso si concentra sulle domande “Si trova l’operatore?”, “Quando si parte?”, piuttosto che “Come si parte?”. Il “come” a noi interessa moltissimo.
Durante la prima visita all’utente, al di là delle informazioni che troviamo sulla scheda di attivazione, ecco che c’è un mondo da scoprire e spesso abbiamo davanti situazioni difficili e dure fino ai casi limite dove l’assistenza che era stata pensata non è possibile.
Il lavoro che facciamo con le famiglie è quello di tener conto che gli operatori non sono dei volontari ma figure motivate che hanno il diritto di svolgere il proprio lavoro in determinate condizioni. Questo può creare contrasto perché, ad esempio, noi tendiamo a proporre una rotazione delle persone per evitare affaticamenti e da parte della famiglia e della persona disabile ci sarebbe bisogno di continuità, di un componente sano nel nucleo familiare che tante volte è logorato e affaticato.
Noi dobbiamo continuamente tenere d’occhio gli operatori e le famiglie per rimandare loro l’idea che questo è un servizio, e questo comporta che si possa arrivare in situazioni di collisione che ci fanno far fatica. Quindi il naturale procedere del servizio è sostenuto da un impegno per mantenere insieme visioni diverse che è per noi molto impegnativo; è un procedere che necessita costantemente di fare il punto. Questa verifica con i referenti dell’Azienda USL non riesce a esserci tutte le volte che occorrerebbe, per cui noi coordinatori ci troviamo quando ci sono gli incontri di verifica a fare una lunga carrellata sui casi, su come le situazioni evolvono.
Gli operatori scontano il fatto di lavorare con persone in situazione di cronicità e non cambiamento, li porta ad avere degli scompensi, nelle interviste dicono continuamente di aver bisogno di un confronto e di un supporto e anche di avere maggior informazioni. Anche perché spesso sono loro a portare a noi informazioni più precise e dirette di quel contesto.

Per una presa in carico comune
Da una parte abbiamo referenti Azienda USL che non sono tanto consapevoli di questo servizio, dall’altra anche noi potremmo spingere di più quando ci rendiamo conto che in una determinata situazione non ci sono le condizioni per attuare un servizio domiciliare. Noi facciamo fatica a dire “Guarda che per come è strutturato quel servizio lì non serve”, soprattutto quando ormai c’è stato un accordo tra assistente sociale e famiglia e quando da parte di quest’ultima ci sono aspettative.
Anche da parte dei responsabili dell’Azienda USL comincia a delinearsi la convinzione che si potrebbe cominciare a lavorare per una presa in carico comune, che sarebbe davvero un grande passo avanti.
Noi ci troviamo a gestire un servizio che viene strutturato da qualcun altro e interveniamo in un quadro dove tutto è stato definito, e quando portiamo a conoscenza tutte le difficoltà che ci sono nel portare avanti il servizio inizia la contrattazione sia con le assistenti sociali che con la famiglia per vedere se è possibile migliorare.
Da quando siamo partiti dei passi avanti ce ne sono stati e dei riconoscimenti ci sono stati, per cui in virtù di questo noi oggi abbiamo un po’ più di margine per poter dire la nostra rispetto al passato. Anche in forza del fatto che le cooperative riescono a essere un soggetto unico attraverso la costituzione dell’ATI (Associazione Temporanea di Impresa) e possono fare fronte in modo compatto.
La presa in carico comune permette di rispondere meglio alle richieste, anche a quelle più frammentate o legate a situazioni di emergenza. Non si tratterebbe più di prendere un “pacchetto” chiuso da gestire ma di costruire insieme un pacchetto che tenga conto delle esigenze delle famiglie attraverso una lettura comune di queste esigenze.

BOX INFORMATIVO
Le Cooperative gestori dei servizi territoriali
Cooperativa sociale CADIAI
Via Boldrini 8 – 40121 Bologna
Tel. 051/741.90.01 
Fax 051/745.72.88
www.cadiai.it
info@cadiai.itResponsabile del servizio: Andrea Veronesi (a.veronesi@cadiai.it)

Cooperativa Sociale Società DOLCE
Via Cristina da Pizzano 5 – 40133 Bologna
Tel. 051/644.12.11
Fax 051/644.12.12
www.societadolce.it
info@societadolce.it
Responsabile del servizio: Antonella Caruso carusoa@societadolce.it 

EPTA Lavoro sociale
Via Paolo Nanni Costa 12/4a – 40133 Bologna
Tel. 051/38.87.60
info@epta.coop
Responsabile del servizio: Patrizia Stancanelli p.stancanelli@epta.coop

Cooperativa sociale A.D.A. (Assistenza Domiciliare Anziani) scarl.
Via Lame 116/ – 40122 Bologna
Tel. 051/52.00.95
Fax 051/52.23.12
Responsabile del servizio: Rosa De Gregorio rosa.degregorio@coopada.it

Cooperativa Accaparlante
Via Legnano 2 – 40132 Bologna
Tel. 051/641.50.05
Fax 051/641.50.55
www.accaparlante.it
coop@accaparlante.it

Responsabile del servizio: Luca Baldassarre luca@accaparlante.it

7. La realtà e i modelli: per un servizio che ascolta e dialoga

Intervista a Mara Grigoli, responsabile ArOA USSI Disabili Adulti del Distretto di Bologna, Azienda USL Bologna

Il modello organizzativo
Organizzazione
Il Servizio per i Disabili Adulti è all’interno del Distretto città di Bologna. Il Direttore del servizio è in staff con la direzione del distretto.
L’USSI (Unità SocioSanitaria Integrata) è presente nei poliambulatori della città con tre sedi, che si interfacciano con tutti i quartieri. C’è la possibilità di ulteriori punti di accoglienza sul territorio, per agevolare gli utenti con particolari difficoltà negli spostamenti .
Oltre al direttore e all’ArOA (Area Omogenea Assistenziale), il servizio ha un coordinatore e due amministrative.
Il numero complessivo degli utenti in carico alle quattro unità dell’Azienda è intorno a 1500.

Compito responsabile ArOA
Il compito dell’ArOA, figura di recente istituzione nella ASL, è quello di affiancare il Direttore dell’unità operativa e il responsabile SATeR (Servizio Assistenziale Tecnico e della Riabilitazione), nel governo dell’attività delle sedi territoriali, in termini di gestione del personale, di gestione delle risorse e di contenuti funzionali in modo che il servizio possa dare risposta al mandato istituzionale di cura e assistenza alle persone disabili.

Le sedi territoriali
Il Servizio è organizzato in équipe formate da assistenti sociali ed educatori, in cui è presente un coordinatore. Le assistenti sociali si occupano dell’area socio-assistenziale (assistenza domiciliare, contributi economici, strutture residenziali, segretariato sociale, ecc.), mentre gli educatori si occupano sia dell’area socio-educativa organizzando e gestendo gli interventi di socializzazione e tempo libero (interventi educativi individuali e di gruppo, attività sportive, laboratori e verifiche nei centri semiresidenziali) sia dell’area occupazionale (interventi propedeutici e di transizione lavorativa, mediazione e verifica dell’inserimento lavorativo e degli inserimenti in laboratori occupazionali, ecc).
Le assistenti sociali si occupano inoltre dell’accoglienza e istruttoria della presa in carico, che verrà sancita in una delle riunioni dell’équipe, alla presenza anche di un medico e all’occorrenza di uno psichiatra. In équipe si formula un primo progetto d’intervento con la costituzione di una mini-équipe sul caso, che ha il compito di formulare un progetto specifico e mirato, che verrà condiviso con l’utente e valutato periodicamente. Su ogni caso viene individuato il responsabile del caso, che generalmente è l’operatore che ha la parte preponderante dell’intervento e che ha il compito di tenere le fila degli interventi.

Filosofia del servizio
Un unico servizio cittadino
Il servizio risente ancora della recente unificazione ASL, che ha significato andare da quattro équipe territoriali che facevano capo a due diversi Distretti cittadini con autonomia organizzativa e di funzionamento, a un unico servizio cittadino che deve fornire in modo omogeneo su tutta la città i propri interventi secondo il principio dell’equità di accesso e risposta socio-assistenziale.
Da questo punto di vista alcuni protocolli e procedure sono molto chiari, si tratta di fare il passo in termini di progettualità, pensare a progetti trasversali alla città, realizzabili nei singoli territori ma pensati al livello centralizzato. 

Unità di valutazione multidimensionale
Come previsto dal Piano Sociale e Sanitario Regionale 2008-2010, il servizio va oggi verso la costituzione della UVM (Unità di Valutazione Multidimensionale), individuandone i componenti e stabilendone i compiti.
Per quanto concerne Bologna ci si sta orientando verso l’ampliamento dell’attuale équipe territoriale con la presenza, almeno una volta al mese, di altri professionisti (profili sanitari e sociali) con il compito di stabilire la presa in carico e formulare il primo progetto assistenziale o educativo.

Il supporto agli operatori
Ci siamo sempre adoperati sul versante del supporto agli operatori che lavorano nel servizio facendo in modo che i problemi riscontrati dagli operatori potessero essere presi in considerazione individuando dei percorsi per superarli, una risposta in termini formativi che aiutasse gli operatori a stare meglio nel servizio.
In questo momento è in atto una riorganizzazione aziendale che coinvolge il nostro servizio su più piani: il Distretto non gestirà più servizi, ma valorizzerà la propria funzione sia di interlocutore dei bisogni dei cittadini sia di garante di una risposta adeguata. La maggior parte dei servizi territoriali oggi gestiti nel distretto confluirà nel Dipartimento di Cure Primarie.

Per un coinvolgimento elevato degli utenti e delle famiglie
L’assistente sociale incontra la persona disabile e la sua famiglia e presenta all’équipe la situazione per come è stata letta, in modo da poter condividere con il resto dell’équipe un progetto possibile e anche il coinvolgimento di operatori di aree diverse. L’équipe dovrebbe essere il momento di ricomposizione del progetto sull’utente in carico.
In questo momento ci sono ancora delle diversità territoriali, per cui ciò avviene in maniera più fluida in alcune aree della città. Esistono ancora, per storia delle singole équipe, stili diversi con minore e maggiore flessibilità nella presa in carico dell’utente.
La direzione verso cui si vuole andare è la valorizzazione del progetto, per fasi da verificare strada facendo. Il coinvolgimento dell’utente in tutto questo dovrebbe essere elevato. Utente e famiglia devono essere informati e resi partecipi del progetto, così come ascoltati nel caso segnalino un dissenso o un disagio rispetto a quanto pianificato. Uso il condizionale perché questi sono dei presupposti professionali e anche formativi rispetto ai profili di assistente sociale ed educatore, poi c’è un “fare” quotidiano che a volte è schiacciante rispetto ai tempi necessari per costruire un progetto ponderato e vagliato in tutte le sue parti e componenti.
Se un’assistente sociale o un educatore hanno in carico un numero elevato (anche 100 persone) di persone disabili (che significa il nucleo familiare) nella pratica ciò si traduce nella necessità di sostenere le famiglie nei lori bisogni espressi in maniera molto chiara.
Ci sono casi che fanno lavorare moltissimo, per cui le équipe sono molto sbilanciate su questi casi; invece sarebbe importante riuscire a occuparsi in modo preventivo anche di situazioni meno critiche proprio per prevenire che si trasformino in vere emergenze.
Ritengo che questo non sia facile, bisogna ripensare al servizio e capire come spostare l’attenzione sul versante di chi, in qualche modo, è stabile per prevenire l’insorgere di situazioni problematiche. Non so se ci si arriverà mai, però è un cambio di paradigma.
Non è un problema solo del nostro servizio ma anche di altri. 

Supportare l’adultità
La Regione Emilia-Romagna parla prevalentemente di grave e gravissima disabilità, portando questa logica nella filosofia dei servizi come il nostro.
Probabilmente, anche dal punto di vista del pensiero, si è sbilanciati sulla grave e gravissima disabilità a cui è collegato l’ambito dei diritti: di cura, di salute, di assistenza, di benessere. In questo approccio si perde un po’ il concetto di adultità, col rischio di ridurre la persona al suo deficit. Noi lavoriamo anche con persone con disabilità medio-lievi, per cui riteniamo che il servizio debba investire per mantenere un’autonomia e una dignità più alta possibile della persona.
Com’è ovvio, investire sulle persone più giovani significa lavorare sul mantenimento delle capacità che il disabile ha, e quindi accrescere il livello della qualità della vita della persona e arrivare al ricovero in struttura molto più tardi negli anni. Recentemente la Regione Emilia-Romagna ha emanato delle linee guida rispetto alla costruzione del Piano di Benessere della Salute dove tra le priorità sull’area disabilità si parla in qualche modo della messa in discussione, della rielaborazione, del ripensamento dello strumento della borsa lavoro, nell’ottica di favorire un inserimento lavorativo delle persone con disabilità. 

Il servizio SAD (Servizio Assistenza Domiciliare)
Avvio e accoglienza
Il momento dell’avvio è quello più seguito, è un accompagnamento alla conoscenza delle problematiche dell’utente, che significa andare a definire i modi e i tempi dell’intervento. Quando quell’intervento parte, molto probabilmente “va con le proprie gambe”, e se va con le proprie gambe la periodicità delle verifiche può essere diluita nel tempo.
La cosa ottimale sarebbe riuscire a programmare nei tempi e nei modi possibili le verifiche senza aspettare che i problemi scoppino. Ovviamente c’é chi riesce a farlo puntualmente, chi invece riesce a farlo su alcuni utenti e meno su altri…
Paradossalmente la fruizione di una rete di servizi per lo stesso utente facilita la valutazione del monitoraggio, la comprensione di come sta andando.

Punti forti e criticità
Sul piano organizzativo, dove ci sono degli interventi molto articolati e che richiedono partecipazioni di altri servizi scontiamo il fattore tempo: il tempo di contattare un altro servizio, di fare una richiesta, una valutazione; per questo a volte quando gli enti coinvolti sono più di uno non siamo tempestivi nelle risposte. Da un lato abbiamo visto che è vincente coinvolgere diversi servizi, che sono implicati rispetto a una situazione poiché si pone l’attenzione sulla problematicità di quel momento e si invita ciascuno a fare la propria parte. Questo risulta strategico perché aiuta a costruire quell’auspicata rete dei servizi che porta a soluzioni non ottenibili da un unico servizio, e a stabilizzare le situazioni famigliari. Tutto questo comporta dei tempi più lunghi nell’erogazione del servizio con il vantaggio di una tenuta maggiore dello stesso.
Alcune consulenze che chiediamo ad altri servizi hanno bisogno di tempi: si sa, l’ente pubblico è una macchina lenta. Altro elemento importante sta nel come gli operatori si rapportano verso l’esterno: ci sono quelli più orientati a lavorare in una logica di rete, quindi a coinvolgere il più possibile i soggetti che in qualche maniera hanno a che fare con quell’utente, e ci sono quelli abituati a confrontarsi singolarmente, in un’ottica più duale (nel meccanismo a domanda risposta). Ovviamente questi due modelli di riferimento diversi sono presenti entrambi. 

La compartecipazione alla progettazione del servizio
Andare a rilevare il bisogno non è facile, poiché si deve entrare nella vita privata delle persone e delle famiglie come non lo è capire quale sia la soluzione da adottare.
Un altro elemento di difficoltà è tenere insieme la risposta adeguata al bisogno col contenimento della spesa. Molto probabilmente il momento in cui viene chiamato in causa il referente della cooperativa (il soggetto attuatore vincitore della gara d’appalto) è già un momento dove alcune cose con la famiglia si sono decise; in altri casi bisogna convincere la famiglia ad accettare un intervento che viene vissuto come invasivo.
Questa operazione viene svolta dall’assistente sociale informando e negoziando col nucleo la risposta ai bisogni che ha visto o che le sono stati presentati. Successivamente viene interpellato il referente della cooperativa che può proporre alcune modifiche, a patto che queste vengano sostanziate da motivazioni forti (ad esempio di carattere organizzativo, legate alle caratteristiche rispetto all’ambiente domestico in cui viene fatto l’intervento).
Altro snodo fondamentale è ottenere l’autorizzazione economica all’intervento: sia per la tempestività della risposta che per la presenza delle risorse necessarie. L’iter prevede la predisposizione del progetto (sopralluogo presso la famiglia, rilevazione del bisogno, coinvolgimento del tecnico di riferimento della cooperativa o del soggetto attuatore) completo dell’indicazione dei tempi e modi di svolgimento dell’intervento nonché del preventivo di spesa relativo. Rispetto a questo gli operatori, nella prassi, agiscono in modo differente: qualcuno azzarda un contatto informale con la cooperativa prima di avere l’autorizzazione a procedere. Qualcun altro invece, per accelerare i tempi, presenta un progetto standard salvo trovarsi in difficoltà nel momento della gestione, visto l’impossibilità di adattare la spesa autorizzata al reale bisogno effettivamente riscontrato. Tendenzialmente di solito si creano le giuste sinergie tra la famiglia, il servizio e la cooperativa che gestisce per trovare le soluzioni più idonee e superare le difficoltà.

Il benessere degli utenti
Io rappresento un punto di osservazione un po’ critico rispetto a questo tema, nel senso che a me arrivano le questioni più controverse e problematiche, quelle dove per qualche ragione c’è uno scontento nei confronti del servizio, di quello che il servizio ha fatto o di come lo fa, di quello che può dare o meno; però se penso alle 1500 persone che abbiamo in carico mi viene da dire che poi non ne incontro così tante di situazioni veramente esasperate. Tutto sommato il servizio riesce a venire incontro ai bisogni dei nuclei famigliari con disabili; probabilmente in alcune situazioni con soddisfazione delle famiglie, in altre c’è un accontentarsi di quello che si riesce ad erogare. È difficile andare a misurare il benessere perché significa entrare dentro a parametri legati non solo al servizio e ai suoi operatori ma anche alla percezione del nucleo familiare. Ad esempio, la rappresentazione del “benessere”, è molto diversificata e sono molti i livelli. Per alcune famiglie il benessere è “mi faccio carico del disabile con tutto l’affetto e l’amore di cui sono capace e con quello che posso mettere come famiglia” e chiedo al servizio di darmi quel pezzo di cui sono carente, perché sono in difficoltà, faccio fatica, perché non ho risorse, perché ho proprio bisogno di avere una risposta rispetto a temi come il tempo libero, l’andare al lavoro, l’assistenza domiciliare.
Ci sono, invece, altri nuclei familiari che sono in una situazione di ambivalenza rispetto al congiunto disabile; per tante ragioni non ce la fanno più quindi sarebbero anche favorevoli a un allontanamento dalla famiglia. Il servizio può essere d’aiuto a trovare delle modalità che possano consentire invece una permanenza del disabile presso quel nucleo supportandolo in modo che la situazione non sia così pesante. Ci sono nuclei che hanno un’idea del bisogno come “tutto mi è dovuto”: mi è dovuta la riabilitazione, l’azione di cura, l’aromaterapia, ecc… e inseriscono tutto questo in una domanda al servizio pubblico; è ovvio che rispetto a questo concetto di benessere l’ente pubblico non darà mai risposte sufficienti.
Probabilmente ci sono nuclei che si limitano nelle richieste, come quelli che richiedono in eccesso rispetto a quello che il servizio può dare. L’equilibrio forse sta nel mezzo: il servizio offre il supporto che riesce e le famiglie ci mettono del proprio. Su 1500 utenti in carico, la maggioranza sta in questo cuore centrale. Ci sono situazioni estreme: alcuni non si sono mai rivolti al servizio o magari lo hanno fatto quando il disabile è diventato anziano, mentre avrebbero potuto usufruire di tutta una serie di aiuti che potevano garantire un maggiore benessere a loro stessi oltre che al disabile.

Fare a meno del servizio?
Assolutamente no. Il bisogno reale è molto più variegato e articolato rispetto a quanto il servizio è in grado di rispondere. Non si tratta quindi solo di una questione meramente economica, ma anche di ripensare la filosofia stessa del servizio nella sua capacità di fornire risposte a questa tipologia di bisogno. Se mi viene richiesto un servizio di assistenza domiciliare per alzarsi al mattino e un supporto psicologico per affrontare una situazione traumatica, nella maggioranza dei casi sono in grado di rispondere solo al primo, poiché rispondente maggiormente al nostro mandato istituzionale. L’ente pubblico ha dei parametri entro cui stare che sono di gestione di denaro pubblico e quindi può arrivare solo fino a un certo tetto di risposta. Siamo fortunati perché c’è il fondo per la non-autosufficienza che ha consentito al servizio USSI di affrancarsi da una posizione deficitaria a una posizione dignitosa nel dare risposta ai bisogni, espressi dalle famiglie e dagli utenti. Quindi l’auspicio è quello di riuscire a mantenere questa risposta dignitosa e di potersi permettere anche qualche progetto che vada incontro a quella domanda non evasa. Ma ci sarebbe da ragionare sul bisogno che resta inevaso: è davvero primario, o un bisogno secondario?  

BOX INFORMATIVO
Servizi dell’Unità SocioSanitaria Integrata (USSI)
Le attività che coinvolgono il Servizio dell’Unità Socio Sanitaria Integrata (USSI) sono riconducibili all’assistenza, alla riabilitazione e all’integrazione sociale delle persone con disabilità adulte del territorio dell’Azienda USL di Bologna.
Per garantire la loro piena attuazione e soprattutto risposte integrate, appropriate e maggiormente adeguate ai bisogni degli utenti, il Servizio collabora con le diverse istituzioni, associazioni, cooperative ed enti che si occupano di persone con disabilità.
Il Servizio elabora progetti e programmi personalizzati e diversificati in relazione ai bisogni dell’utente e della sua famiglia, alle situazioni d’emergenza/urgenza, al tipo di servizio da attivare e accompagna le famiglie nell’utilizzazione dei vari servizi.

Che tipo di prestazioni offre?
Il Servizio USSI mette a disposizione degli utenti attività in diverse aree:
– servizio sociale professionale, che consiste in un supporto alla persona e alla famiglia nei vari percorsi di accertamento dell’handicap e dell’invalidità, in quelli che riguardano la fruizione di prestazioni sanitarie e/o riabilitative, e altri;
– area socio-educativa e di integrazione sociale, elaborazione di progetti individuali o di gruppo per attività di tipo sportivo e di tempo libero, attività motorie e di animazione sociale, interventi educativi individuali e di gruppo;
– area di transizione al lavoro, che consiste nella realizzazione di progetti individuali, di formazione d orientamento al lavoro, sviluppati anche attraverso “borse lavoro” ed esperienze di transizione, attivati in collaborazione con l’ufficio “inserimento disabili” del Centro per l’impiego della Provincia di Bologna;
– area assistenziale, per la permanenza presso il domicilio attraverso l’attivazione di aiuti nell’abitazione relativamente alla cura della persona e aiuti per la vita di relazione;
– inserimento in strutture riabilitative, come Gruppi Appartamento, Centri Residenziali o Diurni.

A chi è rivolto il Servizio?
Si possono rivolgere all’USSI Disabili Adulti le persone con disabilità con un’età compresa tra i 18 e i 64 anni residenti nel territorio del Comune di Bologna.

Come si accede al Servizio?
Chi si rivolge per la prima volta al Servizio deve fissare un appuntamento presso il Polo di riferimento per il suo Quartiere di residenza. Solitamente la prima accoglienza è effettuata dall’assistente sociale referente per il territorio.

6. Il servizio di assistenza domiciliare: la voce degli operatori

Servizi, Fascino, Cura, Esperienza, Gratificazione, Sollievo, Alleviare, Missione, Indipendenza, Autonomia, Aiuto, Benessere, Identità, Crescita reciproca, Passione, Conoscenza: queste le parole che danno significato al lavoro.

Gli operatori seduti in cerchio ascoltano e raccontano, dal loro punto di vista, il servizio di assistenza domiciliare così necessario, prezioso e nascosto. Provano con una parola per ciascuno a definire il senso più forte del loro mestiere, si costruisce così una lista che tocca vari registri del lavoro.
In questo primo giro di parole troviamo una ricerca di significato rispetto all’agire quotidiano. Questa ricerca per alcuni va verso una definizione di obiettivi possibili per la persona disabile, destinatario primo dell’intervento – promozione di autonomia e indipendenza, aumento delle situazioni di benessere – mentre per altri si dilata a un’idea di aiuto più ampio che comprende l’intero contesto familiare verso cui si cerca di dare sollievo e di alleviare le fatiche.
Ancora, altre parole scelte (fascino, esperienza, gratificazione, crescita reciproca, passione, conoscenza) mettono in primo piano la centralità del concetto di cura educativa, una cura cioè che non è né esclusivamente tecnica né una teoria di cui impadronirsi, ma è una relazione, un atteggiamento personale e contemporaneamente un fare che si impara facendo. 

Quale idea di cura
Dalle parole degli educatori è possibile, quindi, entrare in modo più preciso dentro l’idea di cura che sostiene il loro ruolo e orienta le azioni nella quotidianità.
Sono parole che concretizzano alcuni dei significati che molti studiosi hanno privilegiato nel tentativo di dare una definizione che aiuti a comprendere cosa si può intendere per cura e lavoro di cura.
Un primo significato è riferito al fatto che la cura consiste in molteplici attività finalizzate a sostenere il benessere. Queste attività vengono agite non per il o sul soggetto interlocutore, ma con lui, nel suscitare la partecipazione attiva dell’azione di cura, verso un obiettivo di benessere condiviso.
Questa centralità della compartecipazione emerge con estrema consapevolezza nelle riflessioni proposte, dove l’idea di cura si lega a un lavoro di vicinanza e ascolto della persona, delle sue difficoltà ma soprattutto delle possibilità potenziali.

Ritornando al concetto del prendesi cura per me è molto importante l’ascolto, un ascolto partecipe, ascolto tutto quello che dice il ragazzo, aiuto il ragazzo a sviluppare le parti sane”.

“Prendersi cura degli utenti per me è cercare di guidarli verso una riscoperta delle parti buone, sane”.

“Bisogna rendere la persona consapevole più per le cose che riesce a fare rispetto a quelle che non riesce a fare, anche se è disabile non è detto che non abbia delle potenzialità, anche se sono diverse, o vengono nascoste, o non espresse e a volte la famiglia non aiuta”.

Il concetto di prendersi cura cambia da utente a utente. Per me prendersi cura degli utenti significa cercare di capire e sostenere quello che loro vogliono, a prescindere dalla famiglia, sostenere e filtrare le loro aspettative: un po’ come nella commedia dell’arte si cambia maschera a seconda della necessità”.

“Lavoro nel disagio mentale, per me prendersi cura della persona significa prendere in considerazione la persona globalmente e lavorare sulla disabilità per riuscire a reinserirla all’interno della società”.

L’ultima frase riporta come centrale un altro significato forte attribuibile alla cura; significato che si collega a quell’insieme di attività e attitudine che hanno a che fare con l’attenzione per il benessere di una o più persone dentro un contesto che ha sempre una ricaduta in termini sociali.
Il benessere individuale, infatti, è un bene sociale; l’incapacità di prendersi cura di se stessi genera sempre non solo ansia e fatica personale ma paura e insicurezza a livello collettivo.
In questo senso il ruolo educativo degli operatori ha, tra le sue funzioni principali, quella di sviluppare collegamenti e comunicazioni, l’operatore diventa mediatore fra la persona disabile e il mondo. Esemplari le parole di un partecipante al focus:

“Ho un’immagine pensando al caso che seguo, è quella di un estremo isolamento, intorno a loro, una sorta di barriera nei confronti di tutto, vedo la possibilità di farli uscire dall’isolamento, aprire la famiglia all’esterno. Mi ricordo questa immagine: entravo in casa e oltre a chiudere la porta chiudevano anche il cancello a chiave, poi si doveva fare lo sforzo di riaprire il cancello”.

I servizi di intervento domiciliare costruiscono il loro senso e la loro utilità proprio nel poter essere ponte fra gli ambiti di vita della persona disabile, ambiti troppe volte separati e non comunicanti. La capacità che gli operatori hanno risiede, appunto, nel riuscire a stare in equilibrio fra istanze diverse (famiglia, servizi, persona) per trovare lo specifico del proprio intervento che possiamo definire come un accompagnamento leggero e costante per aumentare le possibilità che la persona disabile sia riconosciuta, anche a livello sociale, per le sue parti adulte e capaci.
Inoltre gli interventi assistenziali o educativi si realizzano nelle relazioni, ma l’obiettivo non è far sì che il soggetto si affezioni o interessi all’operatore, bensì al mondo esterno.

“Cerco di aprirgli la strada, di fargli vedere che c’è un mondo, la relazione con i familiari per me è problematica”.

“Per me significa essere il filtro tra l’utente e la società, l’esterno. Prendersi cura dell’utente significa affacciarlo nel migliore modo possibile al mondo esterno affinché lui si possa sentire a suo agio e far avvicinare la società alla diversità”.

Il sostegno a un benessere possibile passa attraverso l’instaurarsi di una relazione che aiuti la persona disabile a entrare in rapporto con le sue potenzialità, a partire da ciò che è. 

“Cerco di lavorare per fare in modo che la persona con disabilità si veda non come malato ma come persona; la persona con disabilità vive sospesa tra la consapevolezza/peso della propria ‘malattia’ e la voglia/possibilità di liberarsi di questo ‘pre-concetto’.

Le possibilità di un cambiamento nascono da un atteggiamento educativo disponibile a entrare anche in punta di piedi nel mondo dell’altro, accettando in termini non valutativi la situazione personale e familiare che è il dato di partenza, spesso duro, con cui gli operatori si confrontano.

“Per me prendersi cura è accompagnare una persona che ha dei problemi, è stabilire una relazione”.

“Per me prendersi cura è una responsabilità, è entrare nel loro mondo, capire tutte le cose che loro fanno, come lo fanno”.

La pesantezza delle situazioni con cui ci si confronta fa sì che il senso della cura che si presta lo si ritrovi anche nelle possibilità di alleggerirne il peso, e questo chiama direttamente in causa il rapporto con la famiglia.

“Alleggerirli e cercare di distrarli, di distoglierli da tutti i problemi del quotidiano, dare questo sollievo anche alla famiglia; l’intervento è indirizzato sì all’utente ma anche alla famiglia”.

Così come tante volte viene affermato per i servizi alla prima infanzia, accogliere e lavorare con una persona disabile o in difficoltà significa confrontarsi costantemente con la famiglia d’origine, svolgendo spesso anche con quest’ultima un’azione importante di rassicurazione e confronto.

“Quando arriviamo noi siamo la valvola di sfogo per i genitori dell’utente che seguiamo (per esempio lo sfogo di un ausilio che non va bene), ascoltiamo entrambi, i genitori dell’utente e l’utente stesso. Alcune volte riusciamo a tranquillizzare i familiari, altre volte no”.

“Occorre sostenere il ruolo dei genitori in questo compito, nell’accettare un figlio disabile, e attivare anche nella famiglia le risorse utili per far sì che l’individuo possa crescere”.

È importante la comprensione che emerge dalle riflessioni degli operatori su come la relazione con la famiglia segna l’intervento che si sta mettendo in atto. La famiglia non è mai una variabile neutra e diventa risorsa che supporta il percorso o, spesso, elemento che giocando in difesa non è capace di attivarsi come presenza collaborativa.

Siamo comunque ancora davvero lontani da quell’idea di “essere insieme” per il soggetto disabile, di quell’alleanza fiduciosa che è alla base di una presa in carico condivisa e percepita da tutte le parti come utile e positiva.

“A volte può capitare che i genitori ti vedono come un aiuto per quelle ore in cui stai con il ragazzo, e così loro possono fare altre cose e dedicarsi ad altro; in altri casi invece il genitore stesso ti vede e sta lì, ti osserva sempre, controlla se stai facendo quello che lui vuole”. 

“Quando si lavora sul domiciliare si può provare a cambiare le abitudini che la famiglia usa cercando comunque di non invadere i loro spazi; purtroppo la ricettività da parte delle famiglie è spesso nulla nonostante il tentativo di incentivare a fare più uscite, o creare una rete di relazioni sociali utili al ragazzo”.

Gli aspetti positivi
Gli aspetti percepiti come maggiormente positivi dagli operatori sono raggruppabili in due grandi aree che riguardano due nodi profondi delle professioni di aiuto e cura.

Lavoro in équipe
La prima è quella identificabile con il supporto insostituibile costituito dal lavoro in équipe. 

“Un aspetto fortemente positivo è dato dal lavoro di équipe con una supervisione psicologica. 

Vi sono due riunioni al mese dove il coordinatore fa il quadro della situazione. Rispetto all’organizzazione interna nostra mi trovo abbastanza bene, nel senso che dal punto di vista di comunicazione sia dal punto di vista orizzontale che verticale va benissimo. Anche con l’équipe ho un buon rapporto, con gli educatori dell’ASL va bene, c’è attenzione e cura”.

Questa funzione risulta tanto più valida rispetto agli interventi come quelli di assistenza domiciliare che vengono assolti da una sola figura in un contesto di grande coinvolgimento relazionale; diventa quindi essenziale poter contare su di un gruppo di riferimento che, in modi e tempi diversi a seconda delle scelte organizzate, appoggino gli interventi praticati attraverso la condivisione, lo scambio informativo e la rielaborazione degli snodi significativi. Quando questo avviene c’è il riscontro positivo da parte degli operatori e il riconoscimento del valore.

Relazione, gratificazione,
La seconda area di positività mette in gioco ciò che torna indietro in termini non solo di risultati delle prestazioni ma di significato più ampio attribuito al sostegno che si dà alle persone e ai nuclei familiari. L’assistenza domiciliare è un terreno in cui la qualità delle azioni si alza se si inseriscono in un circuito di scambio relazionale in cui anche chi “aiuta” percepisce la comprensione da parte dell’altro e riceve apprezzamento. In questo senso anche il proprio lavoro può essere vissuto come un’opportunità di crescita reciproca.

“Tra gli aspetti positivi, ci sono le gratificazioni, il fatto di seguire un progetto, il fatto di aiutare le persone ed essere ringraziati per questo”.

“Gli aspetti positivi rispetto all’utente riguardano l’aspetto della relazione, sento che c’è uno scambio umano, sento che c’è un apprezzamento sia da parte dell’utente sia da parte della famiglia”.

“Un aspetto positivo è l’autonomia”.

“L’aspetto positivo: opportunità di fare il lavoro che faccio”.

E quelli negativi
Le aree critiche che emergono dalle riflessioni possono essere raggruppate in tre filoni di riferimento.
Difficoltà di veder riconosciuto il proprio specifico ruolo professionale
Il primo si riallaccia al tema del riconoscimento del profilo professionale di chi opera nel campo dell’assistenza domiciliare, riconoscimento che si muove sempre sul doppio livello di una definizione di specificità del campo di azione, da cui deriva anche la possibilità dell’autorevolezza del ruolo, e della motivazione a ricoprirlo in termini professionali investendo quindi non solo su “cosa si fa” ma anche sul “come lo si fa”.

 “A volte non siamo riconosciuti come professionisti, siamo visti come delle persone che vanno a aiutare in casa, e in casa i familiari ti danno delle imposizioni”.

“Un servizio alla collettività è quello di legittimare la nostra figura, tante volte ancora siamo l’amico, il volontario. Vogliamo fare capire alla società chi siamo e cosa facciamo, anche se rispetto a 30 anni fa la visione della nostra figura è cambiata, non c’è paragone”.

“Io sono un operatore socio-assistenziale, con funzioni anche educative, e lamento il fatto che la cooperativa non dedica dovuto tempo agli operatori per riordinarsi le idee, sfogarsi”.

“Un altro aspetto negativo della cooperativa è quello che quando ci sono i colloqui di ammissione si tende a sottovalutare la motivazione personale”.

Carenza di incontri/comunicazione/informazione

Il secondo filone riprende la considerazione che l’intervento professionale di assistenza domiciliare corre più di altri il rischio non solo della solitudine ma anche della separazione e frammentazione rispetto a una presa in carico più complessiva. Questo dato amplifica il bisogno di raccordare il proprio intervento all’interno di un quadro più ampio e di ricevere/fornire informazioni prima e durante l’intervento; le considerazioni degli operatori su questa specifica area informativa-comunicativa la descrivono ancora come carente e necessaria di ulteriore cura.

“Ci sono pochi incontri, poche riunioni, poche formazioni”.

“Si pensa che questi pochi incontri con i referenti siano causati dalla mancanza di tempo materiale”.

“La difficoltà principale è quella di interfacciare professionalità diverse, a me manca molto il contatto con lo psichiatra, abbiamo chiesto un confronto ma dall’altra parte c’è un muro”.

“Si sente la mancanza di riscontri con gli assistenti sociali e gli psicologi, o se avvengono sono molto altalenanti”.

“Manca una informazione dettagliata e approfondita sul tipo di patologia che si va a trattare”.

“C’è differenza fra gli utenti domiciliari sui quali spesso ci sono lacune riguardo al quadro clinico e utenti residenziali sui quali la struttura possiede dei fascicoli dettagliati quanto, spesso, incomprensibili”.

Scarsità di risorse
Il terzo filone si inserisce nel tema più ampio della necessità di supporti e risorse maggiori rispetto a quanto il dato economico-politico è oggi in grado di garantire.

“Un’altra cosa che mi dà fastidio è riferita all’ASL, in quanto il ragazzo che seguo ha bisogno di quantità di cose in più, però tagliano i fondi, e loro sono costretti a tagliare, nel senso che avrebbe bisogno di due educatori ma devono fare i conti con il budget e perciò tagliano”. 

“Tra le carenze del servizio si può citare un fatto pratico: mancanza di mezzi di trasporti. Nel mio caso si possedeva una sola macchina, perciò era contesa da tutti. Cito inoltre il problema del personale, delle volte non ci sono le sostitute”.

“Rispetto al sostegno psicologico alla famiglia, penso anche io che ce ne sia poco, penso che serva un sostegno terapeutico preciso, perché poi altrimenti si arriva al collasso e ciò si riversa sull’utente. C’è bisogno di sportelli di ascolto, non deve essere l’educatore che fa da psicologo”.

“La cooperativa di cui faccio parte è piccola, ci sono spesso emergenze, c’è un flusso continuo di gente che viene e che va, per malattia, o per maternità”.

A ulteriore rinforzo integriamo anche la sintetica e significativa risposta data alla domanda “Se ne aveste il potere che cosa cambiereste del vostro servizio? 

“Maggiore formazione per gli educatori, maggiori mezzi, maggior stipendio”.

Si può fare a meno del servizio?
In conclusione proviamo a chiudere il cerchio delle riflessioni riportando le risposte maggiormente condivise all’ultima domanda posta nei focus-group che richiedeva agli operatori di fare lo sforzo, impegnativo ma sempre utile, di mettersi nei panni degli utenti: “Secondo voi gli utenti potrebbero fare a meno del vostro servizio, del servizio che fornite?”.

“Non potrebbero farne a meno, l’utente ha bisogno, il nostro servizio è utile per il raggiungimento dell’autonomia, per il potenziamento delle capacità, questo servizio serve, non ne potrebbero fare a meno in questo momento, in questa fase storica”.

“Togliere questo servizio sarebbe negativo per l’utente, traggono benefici dal servizio, come il sostegno all’autonomia”.

“Quando l’utente inizia a interagire con un servizio è difficile poi che ne faccia a meno.   

È vero che ci sono casi e casi, perché esistono casi di handicap gravi, i quali dovranno fare riferimento a noi sempre, a vita, noi dovremmo esserci sempre”.

“Dipende dalla coerenza del progetto”.

“Il servizio è utile, c’è un reale bisogno ma l’obiettivo dovrebbe essere quello di rendere autonomi l’utente e la famiglia”.

“C’è comunque differenza se il bisogno è di tipo assistenziale, quindi continuativo o di tipo educativo e quindi temporaneo con finalità ultima di restituire l’utente a una condizione di totale o parziale autonomia”.

“In linea di massima il servizio fornito viene inteso dagli utenti o come necessario da un punto di vista operativo-pratico quindi indispensabile, oppure vantaggioso perché migliora la qualità della propria vita e quindi difficilmente rinunciabile”.

5. Le famiglie raccontano: “Crescere” insieme

Il servizio
Ricevo il servizio di assistenza socio educativa domiciliare dal settembre 1992.
Mi sono rivolto al servizio per il trasporto e il rientro al lavoro dopo l’incidente che ho avuto nel marzo del 1991. Io lavoro come medico presso l’Igiene Mentale, e avevo bisogno di un operatore che potesse stare con me e aiutarmi negli orari lavorativi, per non impegnare infermieri e colleghi che lavorano con me. Le prestazioni partivano da casa mia; il primo operatore non sapeva guidare, e quindi avevamo un autista che mi accompagnava e ci veniva a riprendere. Inizialmente c’era un orario ridotto, di 3 giorni la settimana, per un totale di 4/5 ore al giorno compreso il viaggio.
Le prestazioni del servizio sono state concordate con le referenti del servizio; hanno fatto un progetto ad hoc di rientro lavorativo part-time (3 giorni la settimana con orario parziale), e l’hanno concordato con la mia responsabile.
Oltre al servizio di assistenza (socio-educativa) domiciliare residenziale fruisco di altri servizi che riguardano gli ausili, ogni tre mesi vado a Corte Roncati, per sacchi da letto e da gamba per l’incontinenza urinaria – è una fornitura dell’ASL per invalidi che non rientra nel progetto personalizzato. Per il resto mi organizzo per conto mio.

Le risposte, gli adattamenti, i cambiamenti
La risposta che ho ottenuto è stata quella che mi aspettavo di ricevere.
Il servizio si è adattato alle mie esigenze, e mi sono sempre chiesto se è lo stesso per tutti o se il fatto di lavorare in sanità come medico è stato in qualche modo un privilegio.
Il servizio negli anni si è anche modificato innanzitutto per gli orari, se non erro nel 1999 il servizio è stato esteso a 6 ore al giorno, dalle 8 alle 14, per 5 giorni la settimana. Il mio orario di lavoro attuale verte su 4 ore e 20 minuti lavorativi dal lunedì al venerdì, e con il trasporto si arriva alle 6 ore. Una volta al mese, il venerdì, partecipo come medico specialista alla Commissione Invalidi Civili, e quindi l’orario del servizio si sposta dalle 11.30 alle 18.30 per coprire la riunione e la Commissione. Altri interventi differenziati riguardano l’aggiornamento obbligatorio, 8/10 volte l’anno, in sedi diverse in altri Comuni della provincia.
Tutte queste necessità lavorative sono coperte dal servizio.
Inoltre, visto che la mensa ha delle barriere, l’operatore ha la mansione di andarmi a prendere il pasto con un contenitore termico e aiutarmi a consumarlo in ambulatorio.
Oltre all’aumento di orario, l’operatore di ora inoltre guida anche il furgone per il trasporto, e questo è una facilitazione.
Gli operatori sono cambiati in questi anni, ne ho avuti una decina, ma ho sempre mediato con la coordinatrice del servizio di assistenza domiciliare della cooperativa che gestisce il servizio per avere un operatore con determinati requisiti. Siamo a contatto con il pubblico, quindi ho sempre richiesto persone con buona presenza, capacità di relazione e un livello di studio (studenti universitari o laureati) tale da consentire di aiutarmi nelle operazioni lavorative, e il fatto di essere medico mi ha probabilmente agevolato.
Nei primi anni ci sono stati dei problemi legati alla necessità di capire di che tipo di supporto sul lavoro avevo bisogno, ma poi, una volta “cresciuti insieme”, le scelte degli operatori sono state sempre molto mirate. Nel tempo, infatti, è stata garantita una sempre maggiore professionalità, nel senso che l’operatore sa usare il computer e può così aiutarmi nell’espletamento tecnico del mio lavoro, come l’inserimento dati, la battitura delle cartelle cliniche e delle relazioni o la ricerca di informazioni.

I punti di forza, le criticità
In tanti anni non ho da muovere un appunto, il servizio è stato sempre molto efficiente. Inoltre gli operatori hanno sempre assicurato puntualità, discrezione e educazione, e in generale alta professionalità.
In passato, non più di 8 o 10 volte in questi anni, è successo che, per indisposizione dell’operatore, io mi trovassi “scoperto” la mattina, e questo implicava dover trovare al momento qualche amico che potesse accompagnarmi e venirmi a prendere, e comunque gravare durante le ore di servizio sui miei colleghi. Poi, da circa sei mesi, un operatore della cooperativa funge da supervisore rispetto agli operatori, e oltre al mio operatore fisso ci sono due “jolly” che all’occorrenza vengono contattati la mattina e nell’arco di mezz’ora possono arrivare come sostituti. Questo sistema mi mette al riparo da spiacevoli “sorprese” mattutine.
Oggi posso dire che il servizio risponde al mio bisogno in modo completo.
Senza il servizio dovrei pagare direttamente un operatore, oppure il mio colf potrebbe accompagnarmi la mattina, ma poi dovrei gravare sui miei colleghi – per un giorno un infermiere può vicariare, ma oltre diventerebbe un disservizio per la struttura. La mia possibilità di lavoro è strettamente correlata al fatto di avere con me un operatore.

Il futuro
Il servizio di cui fruisco per come è adesso è perfetto, non vedrei come possa migliorare.
Sono molto preoccupato per i possibili tagli a tutti i livelli. Se c’è bisogno di tagli, sarebbe insensato farli nei servizi erogati a disabili, ad anziani o all’infanzia. Tagliare sul piano della sanità o dell’aiuto alle persone più deboli è un controsenso folle e assurdo.
Vedo che anche in ambito sanitario sempre più cose vengono delegate a cooperative (ad esempio le pulizie), per cui credo che sia nella natura delle cose. Se effettivamente questa modalità implica un risparmio, perché all’Azienda costa meno pagare una cooperativa che avere dei dipendenti a tempo pieno, e se il servizio erogato è buono come quello che ho io, credo non ci sia niente da eccepire.
Il problema è se la qualità del servizio viene a cadere – io però ho sempre avuto operatori di cooperative, e della decina di operatori che ho avuto solo con uno ho avuto difficoltà, perché era il meno affidabile e il problema di essere “scoperto” la mattina è capitato la maggior parte delle volte con lui, e comunque oggi con il nuovo sistema non sarebbe più un grave problema.

4. Le famiglie raccontano: Mettere le relazioni al centro delle organizzazioni

Il servizio tra bisogni e risposte
Riceviamo il servizio dall’autunno 2006. I bisogni erano quelli di una figura educativa che aiutasse C. a fare un passaggio nella vita quotidiana dopo la maturità conseguita a luglio.
C. ha avuto un grave peggioramento nell’ultimo anno della scuola superiore rispetto ad alcune competenze e c’era il problema di cosa farle fare. La scuola era stata un momento di aggregazione magari difficile ma di aggregazione: a scuola incontrava gente, aveva un insegnante di sostegno… Invece a settembre di quell’anno sarebbe stata sola, isolata dal contesto sociale. Per cui si è ipotizzato insieme a una educatrice di costruire un intervento personalizzato visto il tipo di handicap che si era sviluppato, con l’aggiunta del fatto che in quell’anno lei aveva smesso di parlare. Non era opportuno inserirla in un centro per attività diurne e si è ipotizzato quindi un intervento totalmente educativo che all’inizio doveva essere di 80 ore mensili in modo che C. potesse fare tutta una serie di attività che si stavano identificando: prendere contatti con l’Università, seguire una disciplina, conoscere dei ragazzi, ecc.
Poi i servizi, nella figura dell’assistente sociale di riferimento, ci hanno fatto la proposta di dirottare le ore educative in ore di assistenza di base (senza che nessuno avesse mai visto C. o avesse contatti con la neuropsichiatra), cosa che noi non abbiamo assolutamente accettato perché nel 2006 non c’era una necessità conclamata di un’assistente di base mentre a noi interessava che C. potesse potenziare ancora quello che lei poteva fare in termini di relazioni e di attività varie.
Ci sono stati una serie di incontri difficili e complessi che hanno portato alla mediazione di 40 ore di assistenza di base e 40 ore di intervento educativo, più 6 ore di intervento educativo fatto con l’educatrice del materno infantile per dare continuità all’intervento in modo che C. non si trovasse improvvisamente in un contesto nuovo.
Il passaggio dal servizio del materno infantile all’handicap adulto è un buco nero perché mentre nel materno infantile c’è un’interazione molto forte fra neuropsichiatra, famiglia, terapista, scuola, quando si passa all’handicap adulto c’è una tabula rasa, non c’è passaggio di consegne.
Nel caso di C. lei è stata aiutata dal fatto che l’educatrice che la seguiva in 4° e 5° liceo conosceva bene il servizio handicap adulto, per cui è stata lei a tenere i contatti e a fare un po’ di passaggio di consegne.
È proprio un passaggio traumatico quello dal servizio del materno infantile all’handicap adulto. C., dopo un esame di maturità anche più brillante di tanti suoi compagni “normali”, è passata a essere una persona disabile adulta senza alcuni diritti di riabilitazione.
In tutti i protocolli c’è scritto che se una persona ha delle capacità residue occorre intervenire per mantenerle e potenziarle, dove è possibile.
Manca l’informazione sui diritti, nessuno ti dice: “i tuoi diritti sono a, b, c, d”. Bisogna rosicchiare una cosa alla volta; la motivazione, che è prevalentemente economica, è quella di non dare niente che costi tanto. A noi hanno detto che gli interventi educativi costano di più di quelli assistenziali e quindi tendono a privilegiare un intervento che non sia educativo. Accanto al dato economico, c’è anche una pregiudiziale ideologica, c’è quasi una preclusione a pensare che una persona disabile adulta, anche se ha solo diciotto anni e un giorno, non debba più imparare niente.
Nel 2006 noi non avevamo assolutamente bisogno di qualcuno che la “lavasse e la stirasse”, c’era bisogno di qualcuno che la portasse fuori di casa, che la interessasse, per questo per noi la mediazione a cui si era arrivati è già stata una mediazione pesante.
Se ci fosse una buona comunicazione istituzionale sarebbe possibile ricostruire la storia della persona, con il suo percorso precedente e non solo fermarsi all’osservazione del dato presente. È veramente un grosso buco quello del passaggio dall’età infantile all’età adulta, almeno per i casi più complessi che hanno delle involuzioni, dei cambiamenti.

L’adattamento del servizio
Noi non siamo ringiovaniti, C. ha una situazione che il suo neurologo definisce di “alti e bassi”, non è un peggioramento globale. Ha un quadro complesso ma non ha mai un settore che in assoluto peggiora. Non avendo una diagnosi precisa anche i medici ci dicono che bisogna basarsi sull’osservazione del suo stato perché nessuno sa dire cosa le succederà. Dimostra sempre curiosità, voglia di vedere, conoscere. Questo per dire che di interventi educativi ne ha ancora bisogno.
Allo stato attuale, rispetto al bisogno che C. e noi manifestiamo, la risposta che l’ASL ci dà è adeguata, anche se spesso ci sono problemi di organizzazione dell’ultimo minuto, ad esempio la disdetta del pullmino poco tempo prima dell’avvio dell’attività (il che significa non solo non fare l’attività, ma anche non potersi organizzare in altro modo).

Valutare il servizio
Quando iniziano interventi che prevedono la presenza di persone che arrivano e in un qualche modo invadono la tua privacy c’è sempre un periodo di adattamento, molto faticoso. Il primo momento è emotivamente molto pesante, la tua privacy non esiste più, le persone arrivano e vivono della tua vita ed è una cosa che bisognerebbe provare per capire quanto è pesante dal punto di vista emotivo.
Poi pian piano tu impari a relazionarti con le persone e le persone con te, e diventa più tollerabile e a volta anche piacevole e, per certi versi, se la relazione con C. funziona, di grande aiuto e sollievo.
Ci vuole rodaggio e pazienza da parte di tutti ma poi qualitativamente è un intervento che dà aiuto. Per una persona che ha un deficit e dipende dagli altri, relazionarsi solo con il padre e la madre è una cosa mortifera, avere altre persone che si occupano di te in modo diverso, che ti portano fuori in altri contesti è un sollievo per la persona stessa.

Aspetti da migliorare, da cambiare
È tutto un lavoro fatto di relazioni prima che di organizzazione. Di tecnico c’è l’organizzazione dei trasporti che di solito è regolare, per il resto il servizio è un servizio di relazione. Una volta che si è stabilito, nell’incontro annuale cosa è andato bene e cosa eventualmente va modificato, il tutto va avanti di ruotine. Gli aspetti negativi possono essere quelli iniziali legati alla relazione fra C., le persone che si occupano di lei e noi; poi, imparato un meccanismo comunicativo accettabile per tutti, occorre che tutti quanti impariamo a collaborare perché se questo non succede la persona che resta schiacciata è C.
L’appuntamento annuale viene fissato dall’assistente sociale, poi c’è un incontro ogni tre mesi circa; gli incontri sono stati più frequenti nel momento iniziale. Per questo tipo di servizio l’organizzazione ci sembra funzionale. Ovviamente gli educatori si incontrano mensilmente con l’assistente sociale per discutere dell’andamento dell’intervento.

Si può fare a meno del servizio?
Teoricamente sì, ad esempio nei mesi estivi in vacanza non c’è né assistente di base né educatrice, il mese di agosto è ridotto a un terzo e tutta la settimana di ferragosto non c’è nessuno. Nel tempo potrebbe essere pesante per due cose; la prima è legata al fatto che C. ha bisogno di relazionarsi con persone giovani che la portano fuori e che non devono essere la madre e il padre. Senza la figura dell’educatrice bisognerebbe trovare qualcuno che possa fare questo tipo di attività. La seconda, legata alla figura dell’assistente di base, riguarda le energie disponibili: io adesso sto bene, ma se non dovessi più riuscire a sollevarla dovrei avere qualcuno che mi aiuti, e nel tempo qualcuno che ti sostituisca almeno in alcune giornate e in alcune fasce orarie anche per poter avere dei propri spazi personali di ricarica, altrimenti alla fine non si è utili a nessuno. Quindi si può fare a meno del servizio, ma a tempo, cioè per un periodo limitato di tempo.

Suggerimenti
Avendo coperti cinque mattine e due pomeriggi non possiamo certo lamentarci. Una cosa che a me manca è poter avere ogni tanto un intervento serale perché è difficile organizzarsi autonomamente, non possiamo certo chiamare una normale baby-sitter. Avere un servizio serale, per esempio due volte al mese non sarebbe male. O anche un sabato o una domenica al mese. Certo tutto è migliorabile. Avere spazi per sé è un bisogno prioritario. Noi fino a quest’anno ci siamo alternati dandoci spazi reciproci di ricarica, e sono momenti che ti bastano per tirare di nuovo il fiato per altri sei mesi. Vista la situazione non lo abbiamo neanche proposto ai servizi ma io mi sto attivando per vedere se c’è qualche tipo di alternativa anche fuori del servizio.

Il servizio come legittimo diritto?
Il nostro bisogno continua a esserci e mi sembra invece che si stia andando verso il taglio delle risorse; il ragionamento che abbiamo fatto è che se un servizio come questo costa allo Stato tot di euro, se questa stessa persona fosse messa in una istituzione costerebbe 3 o 5 volte tanto. Quindi anche in un’ottica economica questo servizio fa risparmiare lo Stato sociale, e mi sembra che sia un tipo di settore che vada potenziato e non tagliato.

3. Le famiglie raccontano: Il servizio è frutto di un adattarsi reciproco

Il servizio: incontro e aspettative
Ricevo il servizio di assistenza domiciliare dalla fine di settembre 2008, poco dopo che sono venuta a casa alla fine di agosto, dopo aver avuto un incidente con la macchina contro un pullman francese, ed essere stata in coma.
Ci siamo rivolti all’assistente sociale che ci ha detto che c’erano degli operatori disponibili. (G.)
Non ci siamo rivolti direttamente ai servizi, è stata l’assistente sociale che ci ha proposto una soluzione, perché io e lei siamo da soli, non abbiamo una famiglia numerosa cui appoggiarci, e se io esco lei non può rimanere da sola.
Ci è stata fatta una proposta che ci andava bene, legata ai suoi impegni per le terapie, ed è saltato fuori un programma di orario. Gli operatori vengono martedì mattina dalle 9 alle 12 e giovedì dalle 9 alle 12 e dalle 15 alle 18. Non avevamo esperienza di servizi in precedenza.
Non avevamo aspettative, anche ora non abbiamo idea di cosa ci si possa aspettare. Lei va fuori con queste ragazze, e a volte va tutto bene, altre meno. (P.)
Ci sono sempre due operatrici, una fa le due mattine e l’altra il pomeriggio, non cambiano mai. (G)

Adattamenti, cambiamenti, innovazioni
Certe volte i giorni cambiano, o li cambiamo noi, in base per esempio a esigenze come le visite mediche. A volte i giorni cambiano quando le operatrici, che fanno l’Università, hanno gli esami. Oppure, il giorno cambia per uscite particolari, ad esempio il sabato per andare a fare un giro in mercato. (P.)
In questi mesi il servizio è rimasto lo stesso ma sono cambiata io, nel rapporto con le operatrici. All’inizio mi piaceva sempre G., l’operatrice che fa il pomeriggio, e avevo qualcosa da ridire con D. che fa la mattina; adesso, all’inverso, con D. ci siamo conosciute e i nostri caratteri accettano che si può cambiare e ci si può adattare, mentre G. è molto lineare, e se segui la sua linea va benissimo, ma se ti allarghi un po’ ci sono dei contrasti. (G.)
Se fosse ampliato, ad esempio in ore serali, si potrebbe andare al cinema tranquillamente. Poi, se ci fosse qualche ora in più rispetto alle tre ore di adesso, si potrebbe fare qualcosa di più e di meglio –per esempio a me piaceva andare in balera il pomeriggio, ma con solo tre ore consecutive non ci riesco. E poi, all’inizio del servizio lei era appena uscita dal coma, oggi va molto meglio e con l’assistente sociale si pensava di lavorare un po’ di più, ma mi rendo conto che già adesso lei arriva il giovedì sera in uno stato di forte stanchezza. Comunque, stando in città con le tre ore si riesce a fare abbastanza, sarebbe peggio se abitassimo fuori Bologna. Dipende molto dalle aspettative che si hanno. (P.)
Non dipende da me, ci sono tante cose che si potrebbero fare, ma va bene così, perché nel tempo che ho devo riprendere a fare tante cose che prima facevo, come cucinare, scrivere, stirare, fare i lavori di casa, e poi i giorni che non ci sono le operatrici devo fare gli esercizi di calligrafia. Quindi, ho tante cose da fare e il tempo adesso è quello che è, e quando ci sono le operatrici o quando ho altri appuntamenti non ci riesco. Alla sera dopo cena, mentre prima facevo tante cose ora sono stanca, quindi le situazioni per me stanno ancora cambiando. (G.)

Gli aspetti positivi
Adesso la posso lasciare da sola anche mezza giornata, ma all’inizio ci doveva essere qualcuno perché non potevamo abbandonarla mai, e quando venivano le operatrici, dopo un minuto, dopo magari quattro chiacchiere con loro, toglievo il disturbo, perché dovevo andare a sbrigare delle faccende, e sono tante. Adesso, specie il pomeriggio, ne approfitto anche solo per andare a fare quattro passi, ma all’inizio, soprattutto la mattina, era una cosa utilissima.
Io non ho provato servizi diversi, e inizialmente non sapevo neanche che questo servizio potesse esistere, quindi non so quale sia il “livello zero” né se il “convento poteva passare di più”, ma con questo servizio mi trovo bene.
Di tutto si può fare a meno, ma è un servizio molto comodo, perché anche se ormai capita che vada fuori lasciandola sola a casa, sono sempre un po’ sul chi vive, mentre per le tre ore con le operatrici sono tranquillo. (P.)

Gli elementi critici
Il giovedì lei ha le operatrici sia mattina che pomeriggio, e questo impegno intenso la stanca molto, magari si potrebbe spostare una mattina o il pomeriggio ma non ci sono molte possibilità. (P.)
Ormai ho imparato che il giovedì non posso fare niente delle faccende di casa, e il mercoledì mi regolo, anche perché altrimenti loro ci potrebbero essere solo due volte o il sabato mattina. Mi è capitato di parlare con il mio ex-ragazzo, e lui dice che il mercoledì mi lamento e sono agitata per il giovedì perché è molto pesante, devo fare tante cose nella “pausa pranzo”, e quindi sono già stanca per il giorno dopo. (G.)
Non so se questo servizio possa essere richiesto come un diritto, e poi non conosco la situazione in altre città d’Italia o anche fuori dal Quartiere San Donato. Tutte le cose costano, e questo servizio è frutto di scelte dei servizi sociali che probabilmente altrove sono diverse. (P.)

2. Le famiglie raccontano: Fare le cose in due

L’incontro con il servizio
Da due anni abbiamo una ragazza, in precedenza avevamo avuto un’altra ragazza per tre anni, quindi sono circa cinque anni che usufruiamo di questo servizio. A. comunque è seguita dai servizi sociali da quando è nata fino a oggi, che sta per compiere 37 anni.
A. va a lavorare in un laboratorio protetto qui vicino; inizialmente ci andava da sola, poi è diventata cieca e quindi per circa un anno, nel 1995/96, l’abbiamo tenuta a casa. Poi A. ha ripreso a lavorare, ma alla mattina l’accompagno io e a mezzogiorno la vado a prendere, può fare solo le tre ore del mattino perché la ditta ha una mensa esterna e servirebbe una persona per portare solo lei.
L’operatrice viene tutti i lunedì pomeriggio per tre ore, dalle 15 alle 18. In effetti l’esigenza di questo servizio, per seguire Antonella a casa, era stata segnalata dall’Istituto Cavazza, e parlando con l’assistente sociale è emersa questa possibilità. L’orario è stato concordato direttamente con l’operatrice, che ci è stata segnalata dall’assistente sociale, sulla base della sua disponibilità.
L’operatrice viene a casa a insegnare varie cose ad A., dal portarla fuori al cucinare o fare alcuni lavori di casa, che non fa quando glielo chiedo io. Ad esempio, ultimamente sono andate spesso in Sala Borsa, dove A. può toccare i CD e sfogliare i libri. In cucina stanno meno, perché ad A. piace solo fare i biscotti. Altre volte, quando A. non vuole fare nulla, si mettono a sedere e parlano.

Intorno al servizio di assistenza domiciliare
Il lunedì sera A. esce con amici del gruppo di volontariato San Donato; il giovedì pomeriggio fa danzaterapia; una volta alla settimana, il venerdì, sabato o domenica, va fuori con ANFFAS, ad esempio al bowling, al cinema o in pizzeria. Inoltre, una volta al mese A. va all’Istituto Cavazza per circa due ore a fare attività manuali come lavorare la creta – prima ci andava una volta la settimana per imparare il Braille, ma non ci riesce perché non ha abbastanza sensibilità manuale.
Poi, una volta ogni mese/mese e mezzo circa, usciamo tutti insieme con l’AUSER di San Lazzaro, ad esempio a mangiare fuori, e siamo una quarantina tra genitori e ragazzi disabili.

Vivere il tempo a casa
Non ci sono stati problemi con l’operatrice, è capitato solo una volta in due anni di spostare la giornata perché avevamo un impegno di lunedì; qualche volta è capitato che lei avesse un esame e non potesse venire di lunedì, ma ha sempre cercato di recuperare alla sera, magari andando a mangiare una pizza.
Le attività le decidono ogni settimana per quella dopo, ad esempio se il lunedì seguente vogliono fare i biscotti la settimana prima vanno al supermercato per fare la spesa. Comunque l’operatrice si basa su quello che vuole fare A. e non le impone nulla. Più o meno, comunque, in questi due anni le attività sono rimaste le stesse.
Ad A. piace uscire, tranne che nelle “giornate no”, piuttosto che lavorare in casa, e in questo il servizio sa adattarsi alle situazioni.
Non ci sono elementi negativi, solo A. a volte ha dei momenti di chiusura in cui non c’è verso di farla parlare o fare cose. Della ragazza noi possiamo solo dire bene, tra l’altro è laureata in psicologia.
Il servizio risponde al bisogno, se aumentassero le ore per A., che ha già tanti impegni, non riuscirebbe a soddisfare tutti i bisogni. Quando andava al Cavazza tutte le settimane, venne un professore da Roma e disse che per A. l’impegno era eccessivo, per cui poi abbiamo diradato anche le visite al Cavazza.
Fare a meno del servizio sarebbe un dispiacere, soprattutto per A., perché quando usciamo, ad esempio per fare la spesa, spesso la prendiamo con noi, ma quando è da sola in casa si mette a sedere con la televisione, oppure ascolta la musica o la radio – in casa è autonoma –, ma quando non ne ha voglia rimane a non fare nulla.

I bisogni tra diritti e limiti
Gli altri servizi dovrebbero essere obbligatori e a carico dello Stato. Ci sono persone che usufruiscono di molti servizi, noi invece nulla; ad esempio non abbiamo mai chiesto il servizio di trasporto, perché lo consideriamo un obbligo nostro, ma vedo ad esempio che dove A. lavora c’è gente con le macchine ma che viene trasportata con i pullmini.
D’altra parte non ci siamo mai fatti avanti per il servizio, perché il pullmino scarica le persone davanti al luogo di lavoro, mentre A. bisogna seguirla dentro, portarla all’armadietto e aiutarla a vestirsi.
Non abbiamo mai chiesto nemmeno i buoni taxi, però sarebbe un servizio che secondo me dovrebbe spettarci. Anche nei servizi per il tempo libero, che A. frequenta con volontari, lo Stato dovrebbe intervenire, però la situazione è che i Comuni stringono, lo Stato non dà niente, e quindi è difficile che si garantiscano i servizi per il “divertimento”. Un’altra cosa da migliorare riguarda gli abbonamenti agevolati dell’ATC, adesso abbiamo fatto l’abbonamento ad A., ma l’accompagnatore deve pagare, mentre secondo me chi l’accompagna dovrebbe essere esente, o meglio dovrebbero essere esenti tutti e due, e lo stesso per l’uso dei treni.
Nei primi anni di A. noi eravamo all’oscuro di tutti i servizi; solo dopo le associazioni come ANFFAS ci hanno dato delle indicazioni, anche se forse ci vorrebbe una associazione unica con voce in capitolo, perché spesso ci sono delle indicazioni contrastanti dalle diverse associazioni. Comunque, una volta era peggio, c’era meno organizzazione, c’era solo il servizio del Comune e magari si ottenevano indicazioni sbagliate; oggi, appoggiandosi a esterni, le cose funzionano meglio e in maniera più veloce.

1. Introduzione

A cura di Giovanna Di Pasquale e Luca Baldassarre

Nel pensare, insieme ai responsabili del servizio di assistenza domiciliare delle cooperative e consorzi che, raccolti in una ATI (Associazione Temporanea d’Impresa), gestiscono oggi interventi di questo tipo nella realtà bolognese, abbiamo avuto in mente per questo approfondimento due punti di attenzione.
Il primo riguarda l’obiettivo che ci siamo proposti e che può essere riassunto dall’idea di contribuire alla conoscenza di questo servizio importante ma nascosto nelle pieghe della quotidianità e dalle mura domestiche, un “tesoro nella dispensa” per l’appunto.
Gli interventi sul territorio, direttamente svolti a casa delle famiglie e degli utenti, hanno come riferimento di fondo l’importanza di consentire alle persone di rimanere quanto più possibile nei propri contesti di vita, condizione, questa, che viene interpretata come un indicatore essenziale di qualità. Questo dato però, se assunto in modo dogmatico, può favorire la comparsa di una sorta di schermo opaco che fatica a far emergere non solo di cosa è fatto questo servizio, ma anche le qualità organizzative e relazionali che deve avere per rispondere in modo efficace ed efficiente alle esigenze e richieste di chi del servizio fruisce o potrebbe/dovrebbe fruirne.
Il secondo punto di attenzione richiama più direttamente il modo con cui abbiamo attraversato questo ambito e che ha cercato di mettere  in primo piano la voce diretta e quotidiana degli attori del servizio stesso. Il nostro è stato quindi un percorso di ascolto e raccolta di descrizioni, riflessioni, valutazioni portate da famiglie, utenti e operatori, soggetti questi tutti coinvolti operativamente nel rendere effettivo il servizio. Con strumenti diversi (interviste per famiglie e utenti; focus-group per gli operatori) si sono costruiti racconti che, crediamo, permettono di entrare dentro alle situazioni facendo venire a galla aspetti positivi e difficoltà.
Accanto a queste voci due contributi che si pongono in un’ottica di complementarietà rispetto agli altri. L’intervista a Mara Grigoli, responsabile ArOA USSI Disabili Adulti Azienda USL Bologna, delinea un quadro complessivo entro cui si attuano gli interventi di territorialità e indica anche le direzioni che, dal suo osservatorio, caratterizzano l’impegno dell’Azienda USL; dal focus-group condotto con i coordinatori del Servizio di Assistenza Domiciliare delle cooperative che gestiscono il servizio proponiamo una serie di riflessioni e pensieri che il gruppo ha portato dopo aver letto i materiali realizzati nella ricerca (materiali più ampi di quelli disponibili in questa monografia) e avere “reagito” alla luce del proprio ruolo ma anche esperienza e sensibilità.
A tutti loro va un ringraziamento non formale per l’effettiva disponibilità a mettersi in gioco in un dialogo a distanza che, al di là di quanto accade sulle pagine di una rivista, rimanda a quella necessità intrinseca di mettere in comune i punti di vista, accettando l’esistenza di opinioni anche diverse come un valore aggiunto per i servizi che si pongono al fianco delle persone.

4. Famiglia e scuola: alcuni esempi di contesti di integrazione in Italia

a cura della redazione

Parlare in generale della situazione italiana riguardo al tema dell’inclusione delle persone disabili è un compito forse arduo alla fine di una monografia che ha raccontato la fatica e la passione di altre realtà per raggiungere livelli di integrazione sempre più soddisfacenti. Alcuni italiani potrebbero lamentare che anche nel nostro paese l’integrazione delle persone disabili non è poi così avanzata e che sicuramente si potrebbe attuare qualche azione in più. Eppure, leggendo le storie dei Balcani torniamo indietro di trent’anni, e nello stesso tempo siamo presi dalla vertigine della velocità con cui questi paesi stanno lavorando su temi, quali l’inclusione, che appartengono alle nostre battaglie culturali da sempre. Uno sguardo anche all’Italia dunque è indispensabile. Per noi del Centro Documentazione Handicap e della cooperativa Accaparlante, è stato fondamentale confrontarci con la nascita di altri Centri educativi e di documentazione, scoprire linee di pensiero in comune e vedere come determinate esperienze abbiano portato a cercare gli stessi nostri risultati. Abbiamo pensato perciò, per concludere, di chiedere ad alcuni nostri colleghi con disabilità, che sono inseriti in contesti di inclusione lavorativa e di integrazione sociale presso la nostra cooperativa, di raccontare, con parole loro, i vissuti personali in due contesti di integrazione specifici: la famiglia e la scuola. Ci siamo soffermati solo su queste due parole-chiave, senza prendere in considerazione temi come il lavoro o il tempo libero, perché tutto il filone dei Balcani ci ha portato a parlare delle famiglie, della scuola, degli insegnanti. Pensiamo che queste esperienze, di persone che oggi hanno tra i 25 e i 40 anni, possano essere una buona “memoria storica” sull’integrazione nel nostro paese, sul modo di approcciare la disabilità in maniera personale e istituzionale. I racconti che proponiamo, in forma anonima, vengono riportati rispettando il modo in cui sono stati scritti, senza correzioni da parte nostra. 

Primo racconto
Contesto familiare:
Io da bambina e da ragazza ho avuto e ho tuttora un carattere molto ribelle e testardo, quindi sono stata un carattere molto difficile da gestire, comunque i miei genitori mi hanno dato un’educazione autorevole e sono stati sempre coerenti nelle decisioni che prendevano per me anche quando io mi impuntavo e facevo le bizze. Per esempio: io facevo dei capricci per avere una cosa, mio padre mi diceva di no in continuazione e io insistevo per averla, oppure continuavo a piangere, insomma, se c’era qualcosa che io volevo e non c’era verso che io la smettessi, io potevo piangere fin che volevo ma lui non me la dava. Faccio un esempio: qualche volta poteva capitare che io non avessi voglia di andare nella struttura diurna dove vado ancora ora due volte alla settimana, ma questo non cambiava niente perché lui mi portava ugualmente. Io adesso che sono più matura, dico che sono stata cresciuta in una maniera buona, perché se fossi stata educata in una maniera permissiva a quest’ora forse sarei una delinquente!
Invece per quanto riguarda la mia disabilità, i miei genitori e mio fratello Riccardo, soprattutto mio fratello Riccardo, l’aveva presa molto male perché si aspettava una sorellina che camminava senza un appoggio, senza bisogno di un ausilio. Ma con il passare del tempo i miei genitori e mio fratello e i miei parenti di Padova si sono rassegnati. Anche se sotto sotto avrebbero ancora il desiderio che io camminassi.
I miei genitori e mio fratello mi amano, e soprattutto mio papà, per lui ero la sua principessa.
Contesto scolastico:
Alle elementari mi sono trovata bene, sia con le bidelle che con i miei compagni, per loro ero una di loro, una compagna. Anche per la scuola in generale, per le bidelle ero una cara scolara, per le insegnanti ero e sono ancora una cara alunna. Quando qualche tempo fa ho incontrato le due mie maestre delle elementari durante un percorso che ho fatto in una scuola elementare a Ceretolo mi hanno fatto una gran festa. Direi che tutti avevano accettato sia me che la mia disabilità.
Alle elementari avevo un’educatrice che mi voleva fare imparare solo a usare l’orologio che poi alla fine non l’ho imparato! E invece alle scuole medie mi ricordo che a parte uno, tutti gli altri mi prendevano in giro. Quello forse era l’unico compagno di classe intelligente. Però c’erano quattro miei compagni delle medie che mi prendevano in giro perché non riesco a camminare da sola, senza un ausilio. E mi dicevano: “Guarda quella ragazzina che non cammina!”. Poi mi guardavano in un modo molto sciocco, ridendo di me senza farsi vedere dalle insegnanti. Si capiva bene che mi prendevano in giro per la mia disabilità. Le insegnanti dicevano che erano stupidi, e lasciavano correre, il preside cercava di consolarmi, solo una professoressa in terza media disse a quelli che mi prendevano in giro: “O la smettete di prendere in giro la Tiziana che non cammina oppure vi mando dal preside”.
Per quanto riguarda noi come classe fortunatamente eravamo molto legati e quindi io mi sono fatta due amici veri. Comunque a parte la mia poca integrazione scolastica, io penso che la integrazione può essere una cosa molto positiva, perché ognuno facendo l’integrazione si può creare anche nuove amicizie.
Una mia esperienza di vita è che quando ero piccola tipo sette anni andavo al capo solare e mi ricordo che c’erano due ragazzini che mi prendevano in giro, continuandomi a provocare, dicendo delle parolacce: ogni volta che mi vedevano con la carrozzina elettrica mi trattavano come se io fossi stata ancora più disabile di quella che sono.
In quarta superiore avevo una educatrice che in poche parole era un disastro perché mi faceva venire i magoni, mi faceva soggezione e mi faceva venire i sudori freddi dalla soggezione. In questo modo io dicevo che aveva un modo brutto di insegnare.
Lei pensava di farmela pagare usando tutte queste cattiverie, lei in poche parole adorava farmi star male e farmi soffrire. Facendomi studiare agitatissima. E poi io cercavo di aiutarla e lei mi diceva “non prendere iniziative”.
Ho avuto problemi con i trasporti, perché mi portavano prima delle otto e un quarto allora anche questa è stata una cattiveria perché mi accompagnavano a scuola e mi lasciavano da sola.   

Secondo racconto
Contesto familiare:
Sto  bene con la mia famiglia, perché sono così disponibili ad aiutare a me nei momenti di difficoltà.
E quando mi fa la doccia, due volte alla settimana che, prima al Centro Bernardi e dopo mio fratello che con uno sdraio di plastica, mi aiuta mio fratello a farmi la doccia, con lo shampoo e il bagno schiuma, e una spugna col sapone per la pancia e le gambe a lavarmi il corpo col sapone.
E dopo vestito a puntino o la mamma o il papà mi portava  fuori a fare un giretto e andare in centro a guardare le vetrine e ogni tanto a fare shopping per il centro commerciale a comprare il giaccone per me perché quando vado fuori nei pomeriggi quando è sotto zero!  E vado fuori, per Porta Santo Stefano a vedere le vetrine che dopo se mi piace e la vedo che con un mio operatore, me le compro un paio di scarpe che all’angolo della porta, che quando ci sono i saldi che prima le provo e dopo se mi vanno bene, me le compro a metà prezzo!
E dopo quando mamma e papà possono andiamo nei centri commerciali, che, un paio di volte alla settimana, a fare un po’ di spesa, perché il frigo piange e noi abbiamo tanta fame!
E poi ci sono gli operatori che due volte a settimana mi portano fuori di pomeriggio che o al cinema o al ristorante o in pizzeria che andiamo a mangiare fuori che così mamma non cucina, cucina solo il papà perché ha fame.
Contesto scolastico:
A 6 anni ho iniziato ad andare alla Scuola Elementare “G. Pascoli” di Bologna.
Andavo a scuola a piedi con la mamma che mi teneva per mano, all’andata andavo al ritorno invece con la mamma di un compagno in maggiolone blu chiaro.
A quell’epoca ero normodotato.
La mia classe era al secondo piano ed era frequentata da un mucchio di bambini e bambine.     Andavo a scuola a piedi. Nella scuola “Giovanni Pascoli” c’era un’aula molto grande, su un piano rialzato c’era la cattedra e una sedia, con una persona molto buona, come un pezzo di  pane.
Lì per lì, il primo giorno che l’ho vista, mi sono preso paura, dopo l’ho conosciuta la maestra Bortolotti e grazie a lei e alla mia buona volontà ho imparato a leggere e scrivere, e poi ho iniziato con i temi e le poesie di Giovanni Pascoli e Ugo Foscolo.
Dopo le elementari e le medie sono andato alle scuole superiori “Aldini Valeriani”, andavo all’ITIS che fortuna che c’era il 13 e dopo il 19, l’autobus di una volta a due piani, e dopo mi hanno comprato il vespino. Andavo a scuola per far lo studente e imparare cose nuove per il futuro, così una volta fuori dalla scuola… che cosa devo fare? Booo!
E menomale che c’è il papa che è attuale che tramite un colloquio con foglio carta e penna divisi in gruppi di tre io risultavo il più idoneo a essere il più idoneo nel mondo del  lavoro.
Che prima, sono andato a fare uno stage con il treno su a Mestre con due o tre professori bravi per imparare e io con un mio collega andiamo fuori ad aggiustare la fabbrica, e gli uffici, che sono collegati fra di loro. E quando, imparando, mi rendo autonomo ed esperto, vado nelle fabbriche e negli uffici, dove hanno bisogno di me, nei momenti di difficoltà!

Terzo racconto
Contesto familiare:
È proprio nel contesto familiare che (il mio è caratterizzato da un rapporto molto complicato, a tratti quasi impossibile per me… ma il fatto che ne parli così non indica assolutamente che me ne stia lamentando; lo dico perché questo è semplicemente il mio vissuto personale viste le notevoli per non dire totali differenze caratteriali esistenti nel mio ambito familiare) ho trovato il maggiore “input” ad andare avanti nella mia ricerca della “normalità” perduta…
Vorrei poi parlare delle dinamiche fortissime createsi fra me e il resto della family: a partire da mio fratello che da personaggio alquanto riservato, schivo e taciturno quale era prima del mio incidente ha cercato di includermi maggiormente nei suoi giri e nelle sue peregrinazioni, oltre che cercar di capirmi maggiormente, mantenendo pur tuttavia una certa riservatezza; a mia sorella che invece (nonostante sia in e abbia passato un periodo non facile, c’è però da dire anche che lei è perennemente così nella sua vita) ha cercato di rispettare la mia dignità in maggior misura, anche se credo che per lei sia stato un colpo più duro che per gli altri (anche se lei non lo ammetterà mai…); per non parlare di mio padre che nonostante sia un egocentrista nato ho ri-scoperto abbia un sincero affetto nei miei confronti, che prima forse davo più per scontato. E per concludere, (è una mia piccola mania lasciare il meglio per ultimo, o dulcis in fondo) in questo caso parlerò del bellissimo rapporto instaurato con mia mamma, con lei in quanto avevo e ho tuttora un rapporto dolcissimo e davvero incoraggiante (già prima dell’incidente ero in ottimi rapporti con lei, ma adesso che siamo diventati confidenti riusciamo a capirci molto meglio e in maniera più approfondita).
Inoltre voglio narrarvi del bellissimo rapporto che abbiamo con Geova Dio. Lui ci unisce tutti e tre nella pura adorazione e perdona amabilmente e amorevolmente ogni nostra mancanza nonostante il clima pesante esistente in casa (è per questo che a Lui vanno il posto d’onore e le mie lodi più sincere e sentite).
Fra di loro, per i miei familiari penso sia stata una bella tegola in quanto prima ero parecchio meno esigente, pignolo e molto più indipendente (è d’obbligo dirlo) tanto che riconosco quanto sia impossibile a volte sopportarmi, ma nonostante questo loro, integerrimi, hanno continuato a essere al mio fianco. Di questa cosa ne sono molto fiero e felice (detto tra noi, penso d’aver seminato bene e questo ne è l’atteso raccolto).
Contesto scolastico:
Prima di partire devo dirvi che le scuole le avevo già terminate all’epoca dell’incidente a cui va la firma come autore della mia disabilità, quindi non posso parlare di prima persona; detto questo il periodo scolastico l’ho vissuto in maniera molto conflittuale, in quanto ero sempre visto come il diverso e denigrato, schernito a motivo della mia fede in Geova Dio, ma in modo incosciente sentivo l’importanza di quel periodo (l’ho sempre affrontata in modo scontato, e sinceramente, un po’ superficiale).
Con alcuni miei compagni mi trovavo davvero in sintonia, con altri lo ero molto meno, ma penso che questo sia nella norma. Nella mia esperienza scolastica ho visto che chi era affetto da una disabilità veniva trattato con rispetto, dignità e venire coinvolto nelle attività scolastiche relative alla classe (ad esempio, nelle gite fatte dalla nostra classe era d’obbligo coinvolgere anche chi era affetto da deficit, noi inoltre come classe eravamo molto solidali e vicini verso chi aveva dei disturbi). 

Quarto racconto
Contesto familiare:
Mi hanno ostacolata i limiti di orario e di una giornata alla settimana dati da mio padre, per le uscite serali. Mia madre inoltre non si sentiva di avere gente in casa, bambini in casa, i bambini fanno fare fatica e alle feste di compleanno fanno sempre una gran confusione e dopo non aiutano neanche. Diceva: “Mi tocca fare tutto a me! Già io faccio fatica e questo non mi va! Neppure i genitori mi aiutano a mettere a posto, i genitori che potrebbero farlo, non mi aiutano né padre né madre”. Per questo non se la sentiva di avere compagnia!
Non avendo avuto gente in casa non ho mai avuto la possibilità, il piacere di studiare con l’aiuto dei miei compagni, se non a scuola, ma a casa no, di conseguenza sono rimasta per anni in  casa a studiare e a fare i compiti da sola, per un confronto o uno scambio con i compagni dovevo aspettare il giorno dopo, cioè di essere a scuola, questo non ha facilitato la mia integrazione.
Da parte di mia nonna che ho avuto in casa, ogni volta che qualcuno di estraneo suonava alla porta per entrare a casa nostra, chiunque avesse tentato di avvicinarsi a lei, lei era piena di pregiudizi.
L’atteggiamento di iperprotezione che la famiglia ha nei confronti di familiari con deficit non facilita l’integrazione.
Contesto scolastico:
Io ho fatto le scuole normali, dalla materna in su, anche se con difficoltà, sono andata alle scuole elementari a 7 anni, il programma scolastico era come quello di tutti gli altri tranne una materia, ginnastica fisica, per la quale era scritto “Esonerata”.
Mi cambiavano le maestre del mattino ogni anno e questo non ha facilitato, certo era una difficoltà generale che si ripercuoteva anche su di me; ogni anno si ricominciava a spiegare! Ogni anno mi cambiavano anche le maestre d’appoggio: cosa che preoccupava molto i miei genitori, ricordo ancora le lunghe lotte con il direttore, i lunghi discorsi tra i miei genitori e le insegnanti che sono durati molti anni nei quali si discuteva proprio sul ruolo e i compiti dell’insegnante sia quella di ruolo appunto sia di sostegno.
Il problema era il direttore scolastico alla fine dei tre mesi di prova atti a stabilire se io fossi in grado di intendere e volere; diceva: “Ma capisce? Ma parla? E la testa ce l’ha?” Sì!
Coi miei compagni mi sono trovata bene, anche se non giocavano mai con me, tranne una! Con gli altri non è che si litigasse ma non mi facevano neanche dei grossi favori! I favori, non potevano farmeli dicevano loro! O forse non volevano! Che cosa ci posso fare? Mica li potevo obbligare?! Non ci posso fare niente! Secondo me non era una questione di cattiveria!
Ma piuttosto di “Non sono pratico, sono impacciato! Sono ignorante nel vero senso della parola! Di svogliatezza, dovrei ma non voglio, non ho voglia di imparare! Non mi va di mettermi lì ad imparare! Uff, sinceramente non sono neanche abituato a farlo! Che noia, che stress non finisce più! Sinceramente non mi piacciono molto queste cose, per cui non mi va di farle, mi va di stare sul divano a riposarmi! Sinceramente mi va di farne altre! Per la verità quelle cose mi stanno antipatiche!”.
Mi hanno fatto scrivere prima con la mano destra: facevo dei punti e delle linee. Volevano correggermi, a quel punto gli ho detto: “Fatemi provare con la sinistra! Vedrete che vi stupirò: Scommettiamo!”. A quel punto gliel’ho dimostrato: “Che ne pensate? Riesco a scrivere?”. “Sì, in effetti ha ragione, a scrivere ci riesce! Però!”. A quel però si è presentato un problema dell’interpretazione del linguaggio scritto. Ho visto subito le loro facce che c’era qualcosa che non andava! A quel punto gli ho detto: “Non preoccupatevi di questo ci devo capire io, ci devo studiare io!”. Gli insegnanti mi hanno chiesto: “Quando noi dobbiamo correggere i compiti se dobbiamo giudicarti, valutarti, come pensi di fare?”. “Si può sempre migliorare!”. “Come pensi di fare? Come pensi di risolverlo? Di affrontarlo?”. “Non lo so, ci dovrò studiare!”.
Si è posto un problema della “Sottovalutazione e Sopravalutazione”, problema che deve essere portato avanti e risolto direttamente dalla persona con deficit, con i suoi tempi lunghi, per questo, deve essere affrontato prima degli esami, prima della fine della scuola dell’obbligo.
Poi ho fatto una 2° quinta elementare, ho dovuto ripetere l’anno perché nella 1° quinta che ho fatto mi sono operata quindi non ho potuto seguire le lezioni. Alcuni compagni della 2° quinta me li sono portati dietro anche scuole medie inferiori.
Alle scuole medie inferiori con le compagne ho chiesto la gentilezza di prendere appunti e quello l’hanno sempre fatto come favore ma mi sono trovata un po’ peggio; alcune volte ho letto in loro dei sentimenti di risentimento di rabbia e di rivalsa le une verso le altre poi venivano da me con   comportamenti e movimenti a scatti di rabbia e di nervosismo, scatti di paura o di nervosismo? Io tutto questo l’ho capito, gliel’ho sempre letto in faccia!
Prima della mia entrata alle scuole medie inferiori è stato affrontato da mio padre in accordo con me il problema delle barriere architettoniche! È stata fatta la scuola nuova mentre l’ascensore è stato fatto in un secondo momento, a scuola già iniziata, per cui io e i miei compagni maschi abbiamo dovuto affrontare il problema delle barriere architettoniche perché alcune aule erano al piano superiore; il professore di Educazione Tecnica e di Fisica mi portava su e giù per le scale gradino per gradino giorno per giorno a come un sacco di patate, mentre i miei compagni portavano la mia sedia a rotelle!
Alle superiori ho scelto la scuola professionale En.A.I.P. come percorso privilegiato per trovare lavoro prima! Biennio professionale! La materia principale Gestione aziendale. Ho imparato il funzionamento del computer, il modo di “ragionare” del computer di rispondere alle nostre domande (che sono i comandi che noi diamo al computer), di selezionare immagazzinare catalogare informazioni di qualsiasi tipo.
Ho imparato l’esistenza dei registratori di cassa presenti in tutti gli esercizi commerciali come sono fatti e il loro funzionamento, come è fatto l’assegno, a compilarlo, la girata e dove vanno fatte le firme.
La calcolatrice, la macchina da scrivere prima quella manuale con scarsi risultati. I tempi erano gli stessi, la lentezza c’era comunque… Cosa era che cambiava? La fatica! I tasti troppo  duri! Ben presto ci siamo decisi per quella elettrica, quella manuale non ero in grado di usarla!
L’uso del computer il vecchio Olivetti M24 mi ha permesso di intravedere uno spiraglio per raggiungere risultati molto grossi, verso la soluzione di un problema di comunicazione scritta: per appunti personali non solo, mi ha permesso di vincere il mio annoso problema: scrivere riscrivere le stesse cose 2 o 3, o addirittura 4 volte, trasformare la mia calligrafia incomprensibile, ovvero l’ha resa più facilmente interpretabile decifrabile e traducibile da tutti in qualcosa di scritto in qualsiasi lingua, immediatamente comprensibile da tutti.