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autore: Autore: Claudio Imprudente

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente

Con questo nuovo numero e una nuova casa editrice, “HP-Accaparlante” ha cambiato vestito, profumo e clima… E così lo faccio anch’io, rinnovando la mia ormai storica rubrica e proponendovi per cominciare uno scambio epistolare con un corrispondente d’eccezione, il giornalista Antonio Giuseppe Malafarina, tra i più amati autori di Invisibili, il blog del “Corriere della Sera” dedicato alla disabilità.
Un botta e risposta tra me e Antonio che ci racconta, tra vissuti personali e trasformazioni istituzionali, le evoluzioni dell’immaginario collettivo nei confronti dell’handicap e di come il nostro modo di affrontare la vita e di concepire la bellezza può ancora cambiare il destino di molti, dentro e fuori di noi. Grazie Antonio!

Caro Claudio,
comincio innanzitutto con il presentarmi. Chi sono io? Una persona, punto. In quanto tale ho le mie peculiarità, mi piace comunicare, conoscere, stare in mezzo alla gente, lasciarmi andare di fronte a un’opera d’arte come davanti al tetto di una casa o alla camminata di un bambino o di una donna. Mi piace il bello. Il bello vero, quello che non si ferma al solo impatto estetico. E se si ferma all’impatto estetico lo fa perché è sostanziale. Mi piace la sostanza e mi lascio andare dinnanzi alla poesia. E credo nell’universo. Nella forza della collettività, che è fatta di singoli. E in Dio, sono un credente praticante e critico. Non vedo perché le persone esteticamente brutte dovrebbero non piacermi e quelle brutte davvero, brutte dentro, mi suscitano disapprovazione. Che ne dici?
Ciao e alla prossima!

Caro Antonio,
la tua lettera mi ha colpito subito perché coglie un punto di vista molto importante legato alla cultura della disabilità ma soprattutto all’identità personale: lo sguardo, l’immagine, la nostra percezione del bello e di come questo ci condiziona nel nostro abitare. Sai, qui al Centro Documentazione Handicap di Bologna molti nostri colleghi convivono con disabilità acquisite, per malattie o incidenti, e spesso raccontano di come abbiano vissuto una vita prima e ne stiano vivendo un’altra adesso. Un cambiamento enorme e difficile ma a volte sorprendente. Cosa è cambiato nella tua vita dopo quel famoso tuffo?
Aspetto la tua risposta! Un abbraccio.

Eccoti Claudio!
Bella domanda la tua! Beh, ricordiamo che la mia tetraplegia è conseguenza di un tuffo venuto male quando avevo diciotto anni, nel 1988. Ero un ragazzo come tanti ma che credeva nella coerenza e concretezza dell’agire. Ti rispondo, allora, sottolineando una cosa che non è cambiata: il modo di affrontare la vita. Non mi sono mai perso d’animo. Ho sempre pensato di avere un ruolo nella società e di poterlo svolgere in qualche modo. A partire da questo presupposto ti dico, quindi, che dentro è cambiato poco anche se fuori è cambiato molto. Grazie a Dio ho avuto una famiglia che mi ha permesso di rendermi il più autonomo possibile quasi subito. Non posso fare quasi nulla da solo, ma ho dei genitori, degli amici e delle tecnologie che mi consentono di fare moltissimo. È cambiato l’ambiente intorno a me. È diventato impervio, ma io ci sono sempre dentro e vado avanti…
Ciao Ciao

Non male Antonio! Allora si potrebbe dire che il tuffo ti ha cambiato ma ha anche risvegliato dei nuovi lati di te, all’apparenza “invisibili”.  Tra l’altro, seguo sempre il vostro blog sul “Corriere della Sera”… Con Franco Bomprezzi eravamo carissimi amici, e anche con Claudio Arrigoni che ancora scrive fruttuosamente: salutamelo, è un amico, peccato che sia Interista… A questo punto però devo proprio chiedertelo, Antonio, perché sei “Invisibile”?
Aloha!

Ehi, grazie per i saluti a Claudio e per il ricordo di Franco. Concordo con te, due persone eccellenti a parte la passione nerazzurra… Mica tutti possono essere come te e il sottoscritto, milanisti… Invisibile io? Ma sai che non credo di esserlo mai stato? Per la gente, dico. Per strada mi si nota. Sui giornali e su internet mi si legge. Persino in televisione ho fatto parlare di me, quasi un quarto di secolo fa. E devo dire che so di fare un effetto strano. Tutto elegante in carrozzina, la gente più che provar pena, come per molti ahimè accade, si confonde. Questa cosa un po’ mi diverte. E un po’ mi fa arrabbiare: i pregiudizi e l’ignoranza voluta mi irritano. Sai per chi sono invisibile, a volte? Per le istituzioni. Per loro credo d’essere invisibile perché faccio parte di una fetta di popolazione ritenuta scomoda poiché meramente equiparata a un costo… E su questa batti un cinque mio caro!

Bella sfida Antonio…Come cavolo faccio ora a darti il cinque? Ad ogni modo concordo con te, io ho sempre pensato che la disabilità potesse essere una risorsa per non dire un valore aggiunto, dalla scuola alle istituzioni fino alla socialità. Ultimamente ho letto il tuo libro Intervista col disabile. Vademecum fra cime e crepacci della disabilità… Veramente molto interessante. A quasi otto anni dall’uscita del vostro lavoro credi sia cambiato qualcosa nella mentalità collettiva nei confronti della disabilità? Fammi sapere, sono curioso.

Grazie per i complimenti vecchio! Merito anche di Minnie Luongo che ha contribuito a realizzare il testo. Sì, alcune cose sono cambiate. Penso alla sessualità, ad esempio. All’epoca mi ricordo che facemmo fatica a trovare un esperto in materia che ne parlasse, oggi ci sono persino dei film. C’è un po’ più di correttezza nell’uso dei termini e questo significa che c’è maggior conoscenza della questione. C’è più spazio sui media e non si tratta più solo di programmi di nicchia trasmessi a tarda notte. Lo sport, poi: all’epoca era un tema che iniziava a essere trainante per tutto il movimento della disabilità (noi vi dedicammo gran parte del testo) mentre oggi è argomento assodato. E poi le barriere architettoniche: oggi c’è maggior coscienza che esistano. Anche l’accesso al turismo e ai beni culturali è migliorato, all’epoca trovare un villaggio turistico accessibile era una vittoria al lotto. Il processo d’inclusione avanza ma non sono tutti allori, e infatti siamo sempre qui a parlare di risorse che mancano, di accesso agli ospedali, di famiglie abbandonate, di vita indipendente che non c’è e di caregiver lodati e non sostenuti dallo Stato, per esempio. Ciò significa che se nella mentalità collettiva le cose si muovono, nell’apparato statale, che la rappresenta, il cambiamento è lentissimo. Davvero sempre delle belle chiacchiere quelle con te, amico mio… E permettermi di dire che conoscerti oltre la fama che ti precede è un piacere assoluto. Il più bel geranio che conosca. Una persona sensibile, acuta e intelligente. Un prodigio umano. Come tanti, più di molti.
Grazie,
Antonio.

Grazie a te caro Antonio, un geranio, come accenni anche tu, ha bisogno di tanti caregiver… Chi lo annaffia, chi lo mette al sole, chi lo coltiva, chi gli parla, chi ha il pollice verde, chi lo travasa… Mica facile fare il geranio! Eppure hai ragione tu, se le difficoltà in termini assistenziali restano, dal punto di vista culturale e relazionale un cambio d’approccio c’ è decisamente stato e su diversi livelli. Per arrivare a quello più ostico, l’apparato statale che tu citi: credo che anche oggi gran parte del lavoro sia ancora in mano nostra, non dobbiamo stancarci mai di comunicare, sia in presenza come faccio io con la mia tavoletta sia attraverso l’uso delle nuove tecnologie e della rete come voi di Invisibili. Alla nascita del vostro blog, uno spazio giornalistico interamente dedicato alla disabilità, con autori con disabilità e non, finalmente ospitato non da reti associative o riviste di settore ma dal più noto quotidiano nazionale, beh, insomma, non ho potuto che provare la sorpresa e la gioia che si provano di fronte a un cambiamento epocale. Riacquistare la familiarità con le istituzioni credo che sia un passo molto importante per noi e per le generazioni che seguiranno. Arrivarci può significare anche opporsi o ritornare a riaffermare diritti che sembravano acquisiti. Dalla nostra però più informazione, più integrazione e nuovi mezzi con cui giocare, anche in politica: la forza della creatività.
A presto Antonio e buona vita!
Claudio Imprudente

12. Il corpo: limiti e accettazione

L’esperienza di Claudio Imprudente
Credo di avere un buon rapporto con il mio corpo perché sento che sono il padrone del mio corpo, e non viceversa. Ovviamente, non è così scontato perché dietro c’è un discorso di accettazione della mia disabilità. Non è un percorso semplice, non è che una mattina mi sono svegliato e ho detto “Che bello avere un corpo disabile”, ma è un cammino lungo e ancora oggi non è finito. Poi presume la fiducia che ho ricevuto lungo la mia esistenza. La mia identità è un risultato di come gli altri mi vedono, certamente vedono un corpo imperfetto, ma vanno oltre all’imperfezione. Quindi questo andare oltre all’imperfezione mi ha fatto accettare il mio corpo. L’identità è un’alchimia di contesti che sono riusciti ad andare oltre al concetto di imperfezione. In fondo, quest’ultima esiste, è la perfezione che non esiste.
Il discorso dei limiti è molto affascinante perché tutti abbiamo dei limiti fisici e psicologici. Del resto c’è un solo uomo al mondo che corre in meno di dieci secondi i cento metri, quindi, tutti gli altri rispetto a lui sono limitati. Dico un esempio a caso, ma poi a me piace questa immagine: la nostra pelle è un limite del nostro corpo. Quando diamo una carezza c’è l’incontro tra il mio limite e quello dell’altro. La carezza provoca un piacere perché sono i due limiti che si toccano.
La disabilità è un limite più visibile, ma il concetto è sempre quello.

Lettere al direttore

Buongiorno Claudio!
Sono Brunella e ti ho conosciuto a Belluno. Sono la preside di K. e voglio inviarti un soffio di gratitudine e un abbraccio.
Credo che anche grazie a te riusciremo a mettere in piedi una cordata per la piccola; il tuo esserci ha evidenziato a tutti che è possibile. Non so se ti hanno parlato di K.: è una ragazzina di origine marocchina, sveglia, tosta e molto dolorante. Porta con sé la disperazione di non poter camminare e l’anno scorso qualcuno ha dovuto toglierle ogni speranza, mentre a casa le dicono che ciò avverrà, se Allah lo vorrà…
Pensa che quando l’ho conosciuta faceva la quarta elementare e le era toccata in sorte un’insegnante di sostegno terrificante , impreparata e priva di qualunque voglia di mettersi in moto. Alle medie invece è stata molto fortunata perché siamo riusciti, tutti insieme e sfidando le logiche sindacali, a garantirle persone di cuore, disponibili oltre i commi contrattuali, docenti che non hanno remore a essere anche severi con lei e a chiederle prestazioni all’altezza delle sue potenzialità. Avrai già capito: K. è la mia alunna speciale ma sono molto preoccupata per lei e per il suo futuro.
Da una Belluno gelida e vagamente innevata ti giunga, come dicevo, un abbraccio tenero.
Brunella

Cara Brunella,
tanto per cominciare grazie per le tue belle parole. Non appena ho visto le splendide montagne di Belluno mi sono chiesto che fine avessero fatto le caprette di Heidi… e soprattutto chissà come la piccola protagonista della ben nota fiaba se la stesse passando con la pesante pedagogia della signora Rottermeier… Soprattutto ho pensato a Klara, la sua amica in carrozzina e alla loro relazione. Bella e profonda, ma forse, mi sono detto non un po’ troppo unilaterale? Heidi aiutava davvero la sua amica? E Klara in che modo aiutava lei? Con queste domande sono salito sul palco, aiutando i ragazzi dei licei di scienze sociali della città a comprendere come buonismo e filantropia non siano sufficienti per fare relazione e integrazione.
Per questo l’assistenzialismo non serve, serve reale voglia di confronto, guardarsi negli occhi e mettersi in gioco. Cose che spiego spesso, magari con altri esempi meno efficaci…
Tra i ragazzi, ad ascoltarci, c’era proprio lei, K., la ragazzina tosta e vivacissima di cui tu, Brunella, parli con tanta cura. Un’altra “Klara”, in fondo, anche se poco mitteleuropea e molto mediterranea. K. infatti è una ragazzina marocchina con disabilità che comunica con una tavoletta trasparente molto simile alla mia.
Osservandola e ascoltandola ho pensato al mondo. Ho pensato alle altre culture. E ho iniziato a immaginare l’handicap fuori dal contesto occidentale che viviamo e di cui parliamo sempre noi. K. non deve essere la tua alunna speciale, ma avere la possibilità e gli strumenti per poter esprimere il suo reale potenziale.
In bocca al lupo e buona vita.
Claudio Imprudente

Caro Claudio,
mi chiamo Maria Grazia e sono una fisioterapista. La mia storia con la tua famosa tavoletta è stata una vera e propria avventura. Ti ringrazio moltissimo del tuo aiuto perché quella che era solo un’intuizione da parte mia, si è dimostrata nel mio lavoro una grandissima opportunità per aiutare una mia giovane paziente. Con lei usiamo “la tavoletta magica” per la comunicazione in modo ottimale, in palestra durante la riabilitazione, per fare le parole crociate e per parlare con me attraverso la denominazione. Ora la mia paziente verrà trasferita in una struttura protetta ma se la porterà sempre dietro per la comunicazione. Una vera vittoria!
Grazie davvero, moltissimo.
Buona vita e buon lavoro
Maria Grazia

Cara Maria Grazia,
grazie a te! La tavoletta a volte ritorna… Non so se hai letto la notizia, uscita qualche tempo fa su Superabile… C’è stato un ragazzo, in Sardegna, terra a me molto cara, che ha seguito le mie orme, o meglio, quelle della mia tavoletta! Sto parlando di Paolo Poddu, ragazzo con tetraparesi spastica di 27 anni, socio dell’Associazione Bambini Cerebrolesi Sardegna, che comunica con gli occhi proprio attraverso una tavoletta nella quale sono indicate le lettere, che si è laureato con successo in Lettere con una tesi dal titolo “Trasporti aerei e disabilità”, divenendo così un operatore culturale per il turismo e realizzando il suo sogno.
Che soddisfazione! Ho conosciuto Paolo più di dieci anni fa e io già allora utilizzavo la “tavoletta magica”. Prendo atto con orgoglio che quel rendez-vous può avere cambiato il suo percorso accademico e professionale. Capitano momenti/passaggi, casuali o meno, che influiscono sulla qualità della vita, ma sta alla nostra abilità sfruttare queste occasioni, come faceva il mio amato Pippo Inzaghi sul filo del fuorigioco…
Questo riconoscimento accademico, oltre a dimostrare il coraggio, la qualità e la dedizione di Paolo, ci rivela come ancora nel 2012 gli ausili poveri (di cui la tavoletta è un esempio illustre) possano migliorare il nostro quotidiano, le nostre relazioni e le nostre attività professionali.
Ho scritto un messaggio a Paolo su Facebook. Oltre ai complimenti di rito, ho parlato del mio amore per le nuove tecnologie, tablet incluso… Ma ho promesso che non abbandonerò mai l’amata tavoletta!
Se non sbaglio, in fondo, tablet significa proprio tavoletta!
Che ne dici Maria Grazia?
Tanti auguri e continua così!
Claudio Imprudente

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente

Caro Claudio,
credo che la vicenda di Oscar Pistorius abbia sconvolto tutti, ma credo anche possa essere lo spunto per una riflessione. Tutti noi conosciamo la sua storia, il suo coraggio, la sua determinazione, tutti lo consideravamo un eroe. Ed è proprio questo lo sbaglio: indipendentemente dal fatto che lui abbia ucciso volontariamente la sua fidanzata o che sia vera la sua versione, quella di un tragico errore, resta comunque il fatto che lui ha sbagliato, e questo è innegabile. Se anche alla fine del processo si scoprisse che è stata una terribile fatalità, ai nostri occhi lui non sarebbe più lo stesso di prima. Il fatto è che troppo spesso abbiamo dimenticato che erano solo le sue gambe a essere fatte di titanio, il suo corpo, il suo cuore, la sua anima non erano fatti di metallo indistruttibile. Tutti abbiamo sempre dimenticato che lui è un ragazzo normale, e purtroppo anche una vicenda così tragica entra nell’ambito della “normalità”. Quanti casi purtroppo simili a questo si sentono ogni giorno… Le persone diversamente abili non sono per forza migliori dei normodotati, ed è giusto così. Trattarli come eroi li rende comunque diversi dagli “altri”, è un modo differente di discriminarli, pretendendo da loro sempre la perfezione. Oltretutto la cosa più triste è che nessuno pensa alla giovanissima ragazza uccisa dall’uomo che amava, o all’atleta che aveva tutto e che in un attimo ha rovinato la sua vita, ognuno di noi in questo momento è solo concentrato nella delusione che il suo gesto ci ha provocato.  Ci siamo sentiti traditi, come se la sua colpa non fosse di aver tolto la vita a un essere umano, ma quella di averci distrutto un mito. Pensa quanto siamo egoisti… Anche quando sento le varie interviste a Bebe, la ragazzina che tira di scherma nonostante le abbiano amputato tutti e quattro gli arti, ogni tanto mi chiedo se sia giusto additarla come esempio. In fondo è solo una bambina… Se un giorno dovesse scoprirsi fragile e non avesse più voglia di lottare, cosa succederebbe? Riuscirebbe a capire l’immenso valore della sua vita, indipendentemente da quello che ha fatto e quello che farà in futuro, o penserà di poter essere amata solo finché rimarrà un esempio per gli altri? Ripeto, è solo una bambina… Se da una parte è ovvio e normale ammirarli, sono la prima a farlo, dall’altra mi chiedo se sia giusto caricarli di una responsabilità così grande.
Un abbraccio,
Elena

Cara Elena,
la tua è solo una delle decine di lettere e-mail che mi sono giunte sul “caso Pistorius”. Lettere indignate, di rabbia, di delusione e di sgomento, voci di persone normodotate o con disabilità che avevano “adottato” un mito, ora ridotto completamente in frantumi come una stella in polvere. Quanto è accaduto è in effetti terribile, e fa male a tutti, al mondo dello sport e della disabilità e in primis, non dimentichiamolo, a Reeva Steenkamp e alla sua famiglia. Non mi interessa ora sviscerare le ombre della tragedia in sé, perché ogni giorno escono nuove notizie, sviluppi veri e falsi, cronachette che più che d’informazione sanno di gossip di cattivo gusto. Quello che mi interessa, piuttosto, sono le conseguenze culturali di tale gesto.
Un mito, dunque. L’uomo che aveva superato il limite della disabilità, che, pur senza gambe, qualche mese fa aveva sfidato e superato a Londra gli uomini più veloci del mondo. Mi domando se non sia proprio qui il punto critico. Non intendo fare un’analisi psicologica, non ne sono capace, mi chiedo solo se, dopo aver combattuto e oltrepassato il confine del riscatto dalla disabilità, il nostro atleta non sia stato in grado di gestire e riconoscere a se stesso che un limite esiste e esisterà sempre, per tutti, folgorato da quello che oggi appare un vero e proprio delirio di onnipotenza.
Quanto pesa, in questo senso, la responsabilità di essere dei leader? L’onere di essere degli esempi, di essere sempre perfetti, è così duro da gestire?
Sopportare questo ruolo non è affatto facile, bisogna davvero, imparare a dosare le forze, altrimenti si rischia di soccombere.
Parlo per esperienza, il binomio onere-onore è una responsabilità che, nel mio piccolo, sento spesso anch’io in molte situazioni. Nelle attività scolastiche tanto per cominciare ma anche nei convegni, durante le interviste… In questi casi sento il “dovere” di ponderare i miei atteggiamenti, di sbagliare il meno possibile per il ruolo che rivesto non solo per me stesso ma anche e soprattutto per gli altri.
Pensaci Elena, il rischio con la disabilità è in fondo sempre lo stesso: o sei uno storpio da buttare giù dal monte Taigeto o sei quasi una divinità. D’altronde lo scrivi bene tu nella tua bella lettera e lo sapevano bene anche i Greci, che, nei banchi di scuola, ci hanno regalato a riguardo due esempi perfetti.  Edipo, zoppo e bandito dalla nascita in previsione della sua colpa incestuosa, e Tiresia, l’indovino cieco portatore della verità del Fato. L’importante, al solito, è estremizzare.
Il confine è come sempre sottile, quasi invisibile ma c’è ed è palpabile.
Claudio Imprudente

La marcia delle tartarughe ninja

Quando ho accennato ai miei colleghi l’idea di scrivere un articolo su Leonardo, Michelangelo, Donatello e Raffaello devo ammettere che sono stato un po’ deriso. “Claudio, sono anni che scrivi su tantissimi argomenti, ma cosa c’entrano i grandi del Rinascimento italiano con i tuoi temi?”.
Vero. Amo l’arte, ma non posso improvvisarmi tuttologo.
Non mi avevano capito. Io volevo parlare delle tartarughe ninja.
Ammetto che fino a qualche giorno fa non conoscevo proprio nulla di queste quattro tartarughe mutanti, se non i loro nomi così affascinanti.
Poi una sera in pizzeria, seduto davanti a un bambino e a una quattro stagioni, sono stato “costretto” ad ascoltare le avventure e la storia delle tartarughe ninja e del loro maestro Splinter.
All’inizio ascoltavo distratto, poi lentamente (proprio come una tartaruga!), man mano che il bimbo spiegava la loro trama ho iniziato a pensare, a collegare… La vita ai margini, le lotte per la giustizia, una corazza come protezione, la collaborazione.
Non è che anche questi personaggi fantastici possono darci un contributo culturale? Non sono forse una metafora delle conquiste ottenute negli ultimi cinquant’anni di battaglie per un mondo più accogliente e inclusivo?
Io credo proprio di sì.
Partiamo dal loro contesto, da dove provengono: le tartarughe ninja vivono nascoste, nelle fogne, nel sottosuolo della città, lontane dagli sguardi della gente. Ovviamente ho subito fatto il paragone con il mondo dell’handicap.
Un mondo che spaventava, dunque tenuto nascosto almeno fino alla legge sull’integrazione dei primi anni Settanta. Quel mondo turbava così tanto da non dover essere nemmeno argomento di discussione. Poi qualcosa è cambiato.
È cambiata la mentalità, sia delle persone disabili che della collettività.
L’innovazione dunque è stata legislativa, ma soprattutto culturale.
Dopo tante battaglie così, la diversità non era più rintanata nel sottosuolo. Proprio come le tartarughe ninja, è uscita in superficie per mescolarsi nella società che non poteva più fingere di non vedere.
C’è di più. La metafora tartaruga ninja-disabilità offre un altro spunto interessante. La tartaruga ha una corazza con funzione protettiva, che le è indispensabile per vivere, per proteggersi fisicamente e psicologicamente dalle avversità.
Anche un disabile può avere la sua corazza: la sua carrozzina.
Questa ha una grande funzione difensiva e di sostegno, per resistere agli urti della vita, direbbe Luca Carboni. Un ausilio che dà sicurezza, quindi, sia dal punto di vista fisico che morale, sempre che venga interpretata non come una sfortuna o come un peso, ma come uno scudo. È quello che fanno le tartarughe ninja.
Tartarughe che combattono le battaglie per la giustizia, organizzate sotto la sapiente guida di un “coordinatore” ratto, che crede nel lavoro di gruppo e che ha fiducia nei suoi collaboratori (chiaramente prendo le distanze dai loro metodi di lotta…). Proprio come le molte associazioni che in questi anni hanno contribuito ad aumentare la consapevolezza delle abilità diverse.
Metafore potremmo trovarne ancora… Salutando i miei colleghi Raffaello, Michelangelo, Donatello e Leonardo vi invito a scrivere sulla mia mail claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook, alla ricerca di altre metafore…
Avanti… Marche!

Lettere al direttore

Caro Claudio,
buongiorno!
Mentre leggevo il tuo articolo sulle tazzine da caffè un po’ storte, non so perché mi è venuto in mente il guerriero Bruce Lee che disse: “Sii come l’acqua… svuota la tua mente, sii senza forma, senza limiti. L’acqua in una tazza diventa tazza, in una bottiglia diventa bottiglia. Sii come acqua amico mio!”.
E se l’acqua (o il caffè) prende la forma a seconda dell’involucro, diventa più importante la forma o il contenuto?
Un saluto sincero,
Silvia

Cara Silvia,
quando ho ricevuto la tua bella lettera mi sono chiesto se Bruce Lee conoscesse una mia vecchia poesia, scritta nel lontano 1983 quando l’Italia aveva appena vinto i mondiali e l’urlo di Tardelli riecheggiava ancora… […] Nella baia, un’onda/si appoggia sulla/terra/e subito ritorna in mare. […] Intanto il mare/continua diventare terra/e la terra continua diventare mare.
Questa poesia è stata scritta con una voluminosa Olivetti grigio-verde, la mia amica macchina da scrivere, fedele compagna di viaggio tra realtà e fantascienza che hanno portato alla scrittura della maggior parte delle mie immaginazioni e dei miei pensieri. Mi piace pensare che a ognuno di quei tasti ne sia rimasto attaccato uno… Al tempo scrivevo con il solo uso del mio naso, non c’erano i computer né tablet, né ipad… L’inchiostro diventava carta e la carta inchiostro, nel senso che l’inchiostro si modellava sulla carta e la carta si lasciava modellare con fluidità. È proprio quello che succede qui, con l’acqua-caffè di cui parli tu citando Bruce Lee e con le tazzine dell’uomo con i baffi che descrivevo io qualche tempo fa in un articolo pubblicato sul Messaggero di Sant’Antonio.
Bisogna imparare a diventare elementi plasmabili e adattabili, sia che questo riguardi la forma (la tazzina e la bottiglia per intenderci) o il contenuto (l’acqua e il caffè). La disabilità è un contenitore affascinante proprio perché ci chiama alla trasformazione, a farci cioè materie duttili a cambiare le nostre forme, a entrare di volta in volta in sagome e figure sempre diverse.
Bisognerebbe spiegare questo concetto a Bruce Lee, che, anche se per lui è difficile da comprendere, va comunque spiegato…
L’uomo con i baffi

Ciao Claudio, sono Francesca, una delle gemelle dell’articolo, meglio la gemella disabile.
Sono entusiasta dell’articolo pubblicato, perché hai perfettamente capito cosa volevo dire e non hai stravolto nessun significato.
Quando Federica torna dall’Università glielo faccio leggere e poi ti dico il suo commento.
A presto “collega disabile”
Francesca Aggio

Cara Francesca,
sono molto contento che l’articolo uscito su www.superabile.it ti sia piaciuto e che ti sia riconosciuta nelle mie parole. Riuscire a descrivere il complesso rapporto che esiste tra fratelli, soprattutto quando si parla di disabilità, non è cosa semplice e tu sei riuscita a farlo davvero con grande freschezza e immediatezza.
Mi piace per questo citare le tue parole quando, a proposito di te e della tua amata-odiata gemella Federica, scrivi: “Appeso al frigorifero in cucina c’è una calamita con su scritto: sorelle per caso, amiche per scelta. È proprio quello che penso, alcune volte ci riusciamo, altre un po’ meno…”.
A parte il fatto che io vado matto per le calamite e che ne ho il frigo letteralmente tappezzato, tante quante i miei avventurosi viaggi in giro per il mondo, questa frase mi ha colpito perché sintesi perfetta delle contraddizioni e dei contenuti più delicati di un tema così affascinante e importante.
Il rapporto simbiotico infatti che quasi sempre si viene a creare, nonostante ci si trovi, come tu sottolinei, a essere uniti un po’ per caso, spesso rischia di degenerare in gelosia da entrambe le parti. Amore e odio, iperprotezione e indifferenza in questi casi sono spesso faccia della stessa medaglia proprio come il nord e il sud dei magneti. Come poli magnetici cioè, ci si attrae e ci si respinge costantemente.
Così come tu aggiungi: “A volte creiamo insieme delle alleanze per combattere i nostri genitori, in due otteniamo risultati migliori, oppure ci diamo una mano a vicenda nella scelta dei regali per i rispettivi fidanzati. Ci capita anche di andare a passeggiare e chiacchierare”.
Il limite tra complicità e conflitto è talmente labile e sottile che, come ci insegna la vostra calamita, diventa una questione di scelta, con cui imparare a misurarsi insieme giorno per giorno.
Che dire? Grazie ancora una volta, Francesca, per le tue parole e per aver condiviso con noi la tua esperienza. Che ne dici, mi porti una calamita?
Claudio Imprudente

Lettere al direttore

Caro Claudio, mi chiamo Francesco Leone, ho 55 anni e sono un luogotenente in congedo dell’Arma del Carabinieri. A febbraio 2007 venni colpito da una tipologia di ictus che, sebbene in forma lieve, mi portò alla riforma per inidoneità al servizio.
Tenga presente che, dopo aver prestato servizio in varie località dell’Emilia Romagna e svolto missioni all’estero nell’ONU e nella NATO, ero stato destinato presso l’Ambasciata Italiana di  Buenos Aires. Il desiderio di impegnarmi nel sociale e lo spirito di avventura erano vivi in me fin da ragazzino e furono la molla che mi spinse all’arruolamento, proprio agli inizi degli “anni di piombo”, e mai si assopirono tanto che, superati ormai i 50 anni, aspettavo con trepidazione il trasferimento in Argentina per affrontare una nuova sfida.
Eppure fui ricoverato per alcuni giorni, in prognosi riservata, presso l’Ospedale di Forlì e, ben conscio di quanto mi stava accadendo e delle conseguenze che la patologia sofferta avrebbe comportato nella mia vita, rimasi comunque stupito quando il medico che mi ebbe in cura asserì testualmente: “i casi come il tuo sono rari, mi dispiace, sei stato sfortunato”.
Non riuscivo a capire con quale metro egli valutasse il termine “sfortuna” quando io ero in vita e non avevo subito gravi conseguenze. Col senno di poi, ho solo un rimpianto: immerso nella mia attività non aver provveduto a visite e cure mediche al primo insorgere di alcuni sintomi della patologia che ritenevo dovuti solo a “stress da lavoro”. Credo che, sebbene il Padreterno abbia per ognuno di noi un suo “progetto”, l’essere umano può, in determinati contesti e limiti, specialmente nelle piccole cose, prevenire e/o porre rimedio a eventi che gli possano creare danno. Mi lascio anche una valida giustificazione: ho pensato  agli altri e non a me!
Non mi sono infatti mai chiesto di chi fosse la colpa, né mi è mai passato per la testa di dare responsabilità a terzi, incluso Dio.
La colpa non è di nessuno. Questa è la vita! Mi ritengo fortunato, mi guardo sempre dietro vedendo situazioni umane e sociali molto peggiori delle mie e, sebbene sia un cattolico peccatore, ringrazio il Signore per avermi dato la possibilità di rimanere ancora al mondo, vicino ai miei cari.
Grazie per la sua disponibilità ad ascoltarmi!
Saluti,
Francesco Leone

Caro Francesco,
tanto per cominciare ti ringrazio di avermi scritto una lettera dove mi hai raccontato un pezzetto della tua storia.
Devo confessarti che quando ho letto la prima riga il pavimento sotto di me ha tremato e ho dovuto fare subito mente locale pensando se avessi mai commesso qualche furto o qualche frode o se, cosa più probabile, qualcuno mi avesse denunciato per offesa al pubblico decoro… Sai, in questi tempi nulla è scontato! Scherzi a parte, è quando ricevo lettere belle come la tua che ritrovo il senso del mio lavoro.
Ho un’altra confessione da farti. Nella mia vita, a dire il vero, ho avuto sul serio a che fare con l’arma, nel senso che anche mio padre era della polizia. Nelle tue parole così ho rivisto un po’ delle scene della mia infanzia, come per esempio il bel ricordo di mio padre che, pur essendo maresciallo di polizia, girava con la fondina vuota… A saperlo eravamo in pochi tant’è che dopo la sua morte non è stato facile trovarla per restituirla… L’aveva nascosta in un cassetto chiuso a chiave, di cui, ovviamente, nessuno era in possesso. Ma torniamo a noi. Sono d’accordo con te rispetto a quello che scrivi sul senso di colpa. Pur essendo un sentimento che può sorgere sul momento spontaneo non è imputabile né a te, né a nessun Altro. Quello che conta, caro Francesco, è proprio quello che hai fatto e stai facendo tu: reagire attraverso la vicinanza e la cura che per primo hai riservato ai tuoi cari. La qualità delle nostre relazioni è infatti il solo antidoto alle supposte “sfortune” che possono capitarci.
Che dire, grazie ancora per la tua testimonianza, la prossima volta però mi aspetto anche una bella barzelletta, ovviamente sui carabinieri!

Caro Claudio,
ho letto nel “Messaggero di Sant’Antonio”, il suo scritto “Na’ tazzutella  e caffè”.
Io, prendo il caffè, quasi sempre in tazzulella di vetro, perché  mi piace così.
Alcuna volte, lo prendo con tazzine uguali  a quelle nella foto..
Claudio, mi dispiace, non so molto bene scrivere in italiano. Sono una donna spagnola del nord, la mia cittá si chiama Santander.
Sto imparando un po’ l’italiano, é una lingua che mi piace moltissimo, é bella bella.
Tutti i mesi, ricevo la rivista. Sono molto felice, quando arriva alla mia casa.
Molte parole non le capisco, però con il mio dizionario spagnol-italiano , vado imparandolo..
Aspetto con molta impaziensia la rivista di aprile.
Un saluto bello, ragazzo.
Marián

Olè! Dalla Spagna con furore! Che bello, cara Marián, ricevere una lettera d’oltralpe! Quando sento parlare spagnolo mi vengono in mente due immagini, o meglio, due tonalità di rosso, quelle del mantello del torero nella corrida (dove spero sempre che il vincitore sia il toro) con le sue grida, polvere e schiamazzi e la maglietta rosso-blu del grande attaccante del Barcellona Messi, che mi emoziona sempre con i suoi stupefacenti e sempre creativi goal!
Chissà se anche Messi, negli spogliatoi, si gusterà il caffè in tazzine come le nostre… Sì, proprio quelle dell’uomo con i baffi…
Io da quando le ho comprate non riesco più a farne a meno, benché alla vista apparentemente scomode e imperfette. Ma, come già raccontavo nell’articolo che hai letto, è bastato poco per rendermi conto che in realtà era proprio la loro forma sbilenca a renderle così comode e simpatiche. Una piccola metafora, questa, che ho scelto di usare per suggerirvi un modo semplice e immediato per guardare alla disabilità e scoprire che anche l’imperfezione, se creativamente usata, può trasformarsi non solo in qualcosa di utile ma anche in qualcosa di bello, non in senso estetico ma in termini di peculiarità e originalità
La disabilità dunque ci costringe a fare un passaggio culturale in questa direzione, dalla cultura della bellezza a quella dell’originalità, dall’inutilità alla specificità.
Infine ho gustato il mio caffè, con due cucchiaini di zucchero, in una di quelle tazzine, imperfetta, di colore rosso acceso… e devo dire che era davvero delizioso!
Un giorno, spero, mi offrirai un bel caffè in una tazzina rosso-blu!

Lettere al direttore

Gentile Claudio,
ricevere attenzione da lei è motivo di grande gioia. Da anni seguo quello che dice e scrive. Rischio una gaffe se attribuisco a lei la definizione di normodotati gravi? Non ho tempo adesso di verificare nella mia biblioteca ed è forte l’urgenza di scriverle…
Per la grande stima che nutro nei suoi confronti, per quello che le sue parole rappresentano per me e per tutte le persone che vivono l’esperienza della disabilità…
Con il disagio che si prova di fronte ai maestri, mi permetto di chiarire un punto sul quale lei stesso si è soffermato, invitandola a leggere fino all’ultima riga il brano “Farti fuori”. Il senso delle mie parole non è quello superficialmente ripreso da alcuni titoli di giornale. Non può sfuggirle che il senso di quel brano – e direi di tutto il libro – è ben diverso.
Non le chiedo di pensare, come io invece ritengo, che si tratti di un libro che parla d’amore. Però mi lasci dire, nel rispetto pieno delle sue convinzioni, che anche io, ogni giorno, sono contento che Moreno sia ancora vivo.
Le rinnovo la mia stima e ancora la ringrazio per le parole che ha voluto dedicarmi.
Un saluto cordiale.
Massimiliano Verga

Caro Massimiliano,
le sue parole mi hanno riempito di gioia e fra l’altro ieri era il mio compleanno.
La sua lettera non è arrivata a caso, la mia memoria è andata subito al rapporto che ho avuto con mio padre che mi ha lasciato quando avevo 15 anni. È stato un rapporto fondamentale nella mia vita. Era padre, fratello, amico: grazie a lui la mia fiducia è aumentata in misura enorme. Per questo oggi sento di poter affrontare a testa alta le sfide anche con i normodotati gravi!
Lei non si è sbagliato, quella definizione l’ho inventata io.
Sfogliando il suo libro Zigulì (Milano, Mondadori, 2012) ci si rende subito conto di quanto il suo sguardo nei confronti di Moreno sia volutamente crudo e spietato, come lei stesso ha dichiarato nelle varie presentazioni.
Le difficoltà che si incontrano in questi contesti familiari diventano nella sua riflessione dolorosamente evidenti e prive di ipocrisia.
Un altro particolare molto evidente è la maniera in cui scrive grazie a cui si intuisce che sono parole scritte di getto, con il cuore in mano, fondamentali in un’esperienza autobiografica.
Grazie, un abbraccio a Moreno e buona vita.

Carissimo Claudio,
ho letto la raccolta delle Lettere imprudenti sulla diversità. Conversazioni con i lettori del Messaggero di Sant’Antonio (Torino, Effatà Editrice, 2009) e sono rimasto stupito da… l’averci messo relativamente poco tempo! Come sai, uno dei più grandi handicap di cui soffro e contro cui combatto si chiama “agenda”: quella cosa che cerco quotidianamente di dilatare nel tentativo – ahimè, spesso vano – di farci entrare tutte le cose che mi piacciono e vorrei fare, e soprattutto gli amici. Ho buoni motivi per ritenere che il tempo sia la realtà più “elastica” che c’è, ma di un’elasticità ingovernabile; ti illude che si possa misurare suddividendolo in intervalli regolari, ma è sempre lui che domina la situazione, allungandosi e accorciandosi in disaccordo con le tue esigenze. E anche per scriverti questa lettera ho dovuto ritagliarmi del tempo a notte fonda: quasi l’unico tempo che riesco a prendere veramente per me.
Quella sera in cui mi hai regalato il libro ho capito che ti facesse piacere un mio riscontro, che naturalmente tenevo molto a farti sapere, e così eccomi qua.
Se ricordo giusto anche quella sera si parlava di agende e impegni (oltre che dell’esaudimento di una certa preghiera di Lollo, ma questa è un’altra cosa), e di come avrebbe potuto essere comodo possedere il dono della bilocazione, a condizione però di non farlo sapere a nessuno e utilizzarlo per stare in vacanza mandando a lavorare il proprio alter ego. Tu dicevi appunto di scrivere sul Messaggero anche per poterti ingraziare sant’Antonio – noto esperto sull’argomento – e farti spiegare come funziona il fenomeno miracoloso. Leggendo il libro ho proprio avuto l’impressione che quel dono tu l’abbia ricevuto davvero: una multilocazione che ti ha permesso di raggiungere molti e soprattutto di parlare la lingua di tutti: apparente paradosso per uno che… non parla.
E saltellando da un pensiero all’altro riflettevo sulla parola, e ho focalizzato che doveva essere proprio questo il motivo per cui Dio ha creato “dicendo”, e non “facendo” come noi avremmo intuitivamente preferito. Probabilmente per la stessa ragione Isaia profeta canta che “come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi risalgono senza aver infallibilmente fecondato la terra, altrettanto la Parola di Dio non ritorna a Lui senza prima aver prodotto l’effetto voluto”; e direi che è sempre per lo stesso motivo che Dio, fra le infinite cose che è e possiede, fa incarnare proprio il suo Verbo nell’umanità di Gesù Cristo.
A immagine e somiglianza del Verbo di Dio, anche la parola umana ha un grande potere, e se non può creare dal nulla, ha comunque un ruolo di collaborazione per perseguire l’ottenimento della salvezza. Ed è un ottimo strumento per diffondere la propria presenza e il proprio pensiero: quasi una bilocazione!
Aiutandomi con l’immagine evangelica per spiegare quello che voglio dire: alla luce di quanto fanno intendere le lettere dei tuoi lettori, con i tuoi articoli hai compiuto la stessa opera di quei quattro amici che hanno calato davanti a Gesù l’uomo paralizzato; e questa volta è notevole il fatto che sia proprio chi è paralizzato nel corpo a condurre i cuori di fronte a Gesù. Ma la parola (e credo soprattutto la Parola) ha operato il prodigio.
Il titolo del libro mi faceva ingenuamente pensare che le “lettere imprudenti” fossero i tuoi articoli (forse per via del tuo cognome), ma ho presto scoperto che i tuoi lettori/scrittori dimostrano di essere perfino più “imprudenti” di te, con lettere incisive e coinvolgenti. Vi si leggono amori e passioni, desiderio di verità, poesia e coraggio, e altro ancora: la Vita, insomma.
Ed emerge come quello scrivere sia espressione e occasione di libertà interiore; e anche qui mi sono chiesto se non sia che noi usiamo ancora la parola “penna” per indicare lo strumento per scrivere, proprio perché di penne sono composte le ali, e così in qualche modo vogliamo esprimere che lo scrivere ci libera e ci fa volare in alto.
Decisamente la “H” non è muta.
Non lo era mai stata, ma ci vogliono sempre i pionieri per svelare ciò che è così ovvio da sfuggire alla comprensione dei più.
Ti abbraccio.
A presto, tuo don Simone

Carissimo don Simone,
le tue parole sono state balsamo per me, grazie davvero.
Madre Teresa di Calcutta diceva: “Sono una matita nelle mani di Dio”. Una matita, un oggetto semplice, bello, delicato ma in grado di disegnare un mondo migliore. Io posso dire di essere una tavoletta trasparente nelle mani di Dio, certamente non in grado di disegnare questo mondo ma con la possibilità di raccontarlo e di narrarne le sue storie.
Davvero mi ha fatto un piacere immenso ricevere la tua lettera, ho apprezzato che hai centrato in pieno il mio obiettivo e questo mi ha fatto capire quanto a volte sia ancora bello e vario il nostro universo.
Ho letto diverse volte la tua lettera, sono parole che mi fanno sentire bene.
Meno male che ci siamo intrecciati in questo cammino che è la vita… un percorso che a volte ci fa sudare per la fatica ma spesso ci fa gioire e a cui, come direbbe un “filosofo” moderno della provincia di Modena, bisogna trovare un senso. Magari anche se un senso non ce l’ha.
Ti auguro una buona Resurrezione,
un abbraccio.

Lettere al direttore

Buongiorno signor Claudio,
Le scrivo per chiederle un consiglio. Ho letto sul sito di Accaparlante la lettera di una mamma di un bambino con QI di 78. Anche mia figlia è una bambina borderline, con lo stesso QI, 78 per l’appunto. Le è stato diagnosticato due anni fa, ma mi era anche stato detto che con questo punteggio, visto che il disturbo era minimo, non le spettava l’insegnante di sostegno. Durante le scuole elementari ha fatto un po’ di fatica, soprattutto con gli scritti mentre nell’orale se la cavava egregiamente. Ora frequenta la prima media, le difficoltà ci sono così come alle elementari soprattutto con gli scritti mentre con gli orali continua a prendere i suoi bei 7/8. La sua insegnante di Italiano, tuttavia, mi ha recentemente detto che la soluzione migliore sarebbe comunque quella di richiedere per lei la presenza di un insegnante di sostegno.
Mi piacerebbe avere un suo parere a riguardo, in particolare anche rispetto a quel “bollino” del quale parlava nella risposta alla lettera che ho citato all’inizio. Il mio pensiero riflette il suo, considerando anche il fatto che la bambina è in prima media, con tutti i risvolti dell’età. Da un lato sarebbe un bene per lei usufruire di programmi differenziati, perché mi rendo chiaramente conto della sua fatica, dall’altro mi continua a frullare in testa quel famoso bollino e penso alla reazione della bambina che si sentirebbe inferiore agli altri, a come verrebbe affrontata questa cosa nel gruppo classe vista sempre la particolare età, e penso anche al suo futuro lavorativo. Al di là delle difficoltà scolastiche, mia figlia non presenta infatti difficoltà nella vita quotidiana. La prego, mi dia un consiglio perché la confusione è tanta. Sostegno sì o sostegno no?
L.M

Carissima L.M, innanzitutto la ringrazio molto per la fiducia che mi dà nel chiedermi un consiglio così importante.
È sempre molto difficile, per me, dare dei consigli “giusti” in situazioni del genere e ho sempre un po’ il timore di fare considerazioni inappropriate.
Capisco molto bene il discorso che fa riguardo al bollino, credo anche che il problema relativo a questo argomento sia riferibile a chi si preoccupa di imprimere il termine bollino piuttosto che la persona stessa vittima dell’etichettamento. Cercare il più possibile di far sì che lo scomodo bollino possa diventare la risorsa intrinseca di sua figlia è un lavoro complesso ma che dà frutti soddisfacenti.
Tutti noi abbiamo un bollino addosso, c’è chi è magro, c’è chi è grasso, c’è chi è pelato e c’è chi è basso ma credo che in questo caso sia un atto di coraggio domandare aiuto tramite un’ammissione di deficit, piuttosto che finire vittima dello sguardo altrui dal quale ci si può riscattare. Ovviamente queste considerazioni lasciano il tempo che trovano e ognuno di noi è libero di decidere come agire. Vero è, però, e questo mi sento di ripeterlo e sottolinearlo, che il chiedere aiuto è il primo passo verso il miglioramento e verso la soluzione; la “mano altrui”, in questa situazione, ha, secondo me, una posizione prioritaria.
Un altro consiglio che mi sento di darle è quello di mettersi in rete e chiedere, informarsi con tutte le persone che come lei hanno avuto questo dubbio facendosi dire, consigliare e confortare da chi in prima persona ha vissuto la stessa confusione.

 

Caro Claudio,
leggendo il tuo articolo nel Messaggero di S. Antonio di dicembre mi sono tornati alla mente due aneddoti. Il primo riguarda la trasmissione televisiva “Il testimone” in onda su MTV, in cui in una puntata il presentatore, Pif, intervista alcune persone affette da varie forme di nanismo. Un uomo affetto da acondroplasia racconta in modo molto ironico ma senza nascondere un pizzico di giustificabile irritazione, che quando parla con persone che non lo conoscono, queste si stupiscano che possa avere un’intelligenza normale, come se il suo mancato sviluppo osseo fosse in qualche modo riconducibile a un mancato sviluppo intellettivo e cognitivo. L’altro aneddoto riguarda una signora africana che ho conosciuto quest’estate, la quale mi raccontava che il figlio di una sua amica italiana una volta le ha chiesto “Perché sei marrone?”. Adoro la superficialità dei bambini! Un adulto avrebbe detto “nera” invece nell’aggettivo che ha usato quel bambino non c’è nessuna connotazione di carattere razziale, o peggio ancora razzista. Si limitano a vedere le caratteristiche oggettive, senza collegare a esse un giudizio critico. Molto spesso invece noi adulti tendiamo a fare finta di non vedere le differenze tra le persone in nome di una presunta apertura mentale, soprattutto quando queste differenze ci disturbano. Quando non è possibile far finta di non vedere le differenze facciamo finta di non vedere le persone, come è capitato che facessero con te. Un adulto vedendoti pensa che tu sia un vegetale, un bambino vedendoti viene a chiederti perché sei in carrozzina. Un adulto non ti chiederebbe mai perché sei in carrozzina con la giustificazione che teme di metterti in imbarazzo, come se tu in tutti questi anni non ti fossi mai accorto di essere disabile e il fatto che improvvisamente qualcuno te lo faccia notare possa sconvolgerti. È ovvio invece che l’imbarazzo c’è solo da parte di chi ti guarda senza conoscerti, e che quella di non metterti a disagio è solo una scusa. È comprensibile che a volte non sappiamo bene come comportarci di fronte a una persona che non conosciamo, ma se non iniziamo a chiedergli “perché” e a limitarci a notare solo le differenze reali, non arriveremo mai a capire una realtà diversa dalla nostra. Un esempio di come la percezione della diversità sia molto soggettiva lo porta spesso Alex Zanardi quando parla del suo bambino. Suo figlio è nato dopo l’incidente in cui lui ha perso le gambe e Zanardi racconta che al ritorno dal suo primo giorno all’asilo gli abbia chiesto “Ma perché gli altri papà hanno le gambe?” come se essere senza gambe fosse normale e tutti i papà degli altri bambini fossero strani.
Un forte abbraccio,
Elena

Carissima Elena,
grazie per la tua bella lettera e le tue parole. Ti volevo raccontare quello che mi è capitato. L’Università di Bologna mi ha conferito pochi mesi fa la Laurea honoris causa in formazione e cooperazione. Un riconoscimento che, come già scritto, per quanto indirizzato alla mia persona, ho subito interpretato come frutto di un lungo lavoro collettivo e, ed è questo che qui ci interessa, anche come parziale segno dei tempi (almeno dello sviluppo delle cose negli ultimi cinque decenni). Un disabile riconosciuto nelle sue capacità e nella sua professionalità. E il riconoscimento (dapprima come uomo, poi come singolo dotato di particolari abilità, ecc.) è il risultato di un processo, di una successione, un’evoluzione (certo, costruita dalle azioni e riflessioni umane) che mi sembrava innegabile, evidente. Ma, e questo passaggio dalla storia alla cronaca non deve sembrare inopportuno, dal giorno del conferimento della laurea mi è capitato, nella comunità di famiglie in cui vivo, Maranà-tha, di subire tre o quattro “non-riconoscimenti”, che mi hanno colpito e fatto dubitare: avventori occasionali che, pur vedendomi in giardino o nell’atrio d’ingresso, si sgolavano in cerca di qualcuno (che non c’era o non rispondeva) in grado di dare informazioni, senza nemmeno provare a interpellare me che ero lì a due passi e disponibile. Un salto indietro di trent’anni nel giro di una settimana… A ben vedere, la cosa si faceva involontariamente ironica perché chi chiama un qualcuno generico solitamente usa questa espressione interrogativa: “C’è nessuno?”. Mentre io ero fisicamente lì, un qualcuno c’era, anzi ero l’unico a esserci, presente, senziente, e non venivo affatto tenuto in considerazione come persona in grado di fornire delle informazioni. Di nuovo un’ironia dolorosa: proprio a pochi mesi di distanza da un riconoscimento accademico per le mie capacità formative e informative. Questo a segnare in maniera evidente quante contraddizioni possano coesistere non solo nel medesimo arco di tempo, ma anche nella stessa area geografica e probabilmente prodotte o rese manifeste da persone simili per cultura e grado di studio. Ma questo dato non ci spinga a riconoscere queste contraddizioni come una condizione immodificabile!

Risponde Claudio Imprudente

Mi piace molto poter mandare un saluto al mio geranio preferito…! Questa festa in occasione della sua Laurea Honoris Causa ci appartiene. È la sua giornata ma è la nostra giornata. Io Claudio me lo ricordo mentre mi faceva campagna elettorale in modo spudorato durante le elezioni a Cagliari del 2001, lasciando tutti a bocca aperta per la sua capacità comunicativa, per le cose che diceva, per aver detto davanti a tutti “io di lui non mi fido… ma di sua figlia sì!”. Insomma era un maestro e dava la linea non solo in campo educativo e sociologico ma anche politico. Poco tempo prima aveva “sconvolto” le certezze di 1000 persone che avevamo chiamato a un convegno, docenti, educatori, pedagogisti, professionisti in genere. L’avevamo invitato perché noi genitori eravamo convinti dell’effetto devastante che avrebbe avuto sulle sicurezze degli esperti, che classificavano i nostri figli disabili gravi come dei “poveretti”, che al limite potevano ambire a socializzare con l’aiuto da parte dei normali e che nulla avrebbero potuto dare… insomma più o meno dei vegetali. E dopo la sua “lezione” i professionisti ci avvicinarono un po’ imbarazzati, ma sicuramente edificati, e ci dicevano “Ma è possibile? Un disabile che ci fa una lezione di qualità? E con che autorevolezza… non si è mai visto”. Ecco, Claudio Imprudente, anzi dott. Claudio Imprudente: le tue lezioni hanno cambiato il corso delle cose e la vita di tanti in molti ambienti e in molti luoghi. Ci voleva “solo” il riconoscimento ufficiale, qualcuno che ti riconoscesse (complimenti all’Università di Bologna) quello che decine di migliaia di persone hanno potuto ricevere da te, diventando pubblicamente una persona da ammirare, da invidiare, dalla quale imparare… per questo, sommessamente, mi piace ripetere: questa laurea, tutta tua e legata al tuo genio creativo, ci appartiene, la sentiamo anche nostra, è come se in una botta sola si fosse realizzato il riscatto per nostri “gerani”, i nostri figli che vivono con noi, che spesso sono il margine e oltre di una società che tenta di rinchiuderli al di fuori della comunità sociale. Insomma, ci sentiamo orgogliosi di te ma anche con te! E ti diciamo grazie per questo tuo essere reciproco con noi e con tutto il mondo. Che meraviglia, geranio Claudio Imprudente. E se vuoi essere di solito innaffiato da una birra, mi dispiace, ma noi abbiamo solo il mirto per irrigarti! La Sardegna tutta ti festeggia.
Marco Espa – Vicepresidente della Commissione Sanità del Consiglio Regionale della Sardegna

Se conosci Claudio, non lo dimentichi più, verrebbe da scrivere: perché ti tira dentro nei suoi mille progetti, ti telefona con le richieste più strane. Ti fa telefonare, a essere precisi, perché non parla, non scrive, non cammina, non si muove: la sua vita è una vita fatta di “non” fisici.
Sta tutto il giorno su una sedia a rotelle, semisdraiato, perché il fisico si regge a fatica. Parla attraverso una lavagna in plexiglass trasparente, sulla quale sono scritte a caratteri cubitali consonanti e vocali.
Le fissa, una per una, formando le parole che una persona – seduta dall’altra parte della lavagnetta, seguendo i suoi occhi – verbalizza ad alta voce. Un esercizio difficile per chi è senza pratica, e che richiede pazienza, per lui e per chi lo assiste.
Ma ne ha Claudio, di pazienza; soprattutto con quanti erroneamente, vedendolo in “quello“ stato, pensano sia una persona infelice, e sono convinti che le persone come lui, beh, sì: sarebbe meglio che il Signore li avesse chiamati subito a sé.
Il suo segreto, in fondo, è uno solo: saper accettare. Dopo, tutto diventa più facile, anche se… Dio mio, quanta fatica per arrivarci!
Incontrarlo, vederlo, capirlo non è semplice. Ti colpisce quella sua enorme bocca, spesso spalancata per non so quale scherzo dei muscoli facciali, e comunque incapace di esprimersi. Una bocca che si mangia il resto del viso, una bocca che va per conto suo, come il corpo, che se ne frega degli ordini che arrivano dal cervello.
Quando uno sta insieme un quarto d’ora con Claudio si riconcilia anche con il Padreterno. Per dirvela giusta, quando vedo drammi come questo mi chiedo: perché un Padre che ogni mattina invoco come Padre, non dico possa volere ma anche solo permettere che un essere umano debba portare handicap pesantissimi e drammatici come quello di Claudio?
Però, dopo essere stato un quarto d’ora con Claudio, esco con il dubbio che l’handicappato non è lui ma sono io, perché la sua gioia di vivere, la sua creatività, la sua felicità mi rapiscono e mi fanno essere connivente di un progetto totalmente nuovo: che è il suo.
Ride con quella bocca grandissima e sconvolgente, socializza con tutti, compresi i bambini, organizza incontri in tutta Italia… È proprio vero che quando uno è felice può trasformare una carrozzina in un aquilone!
Don Mazzi

DottorevolissimevolMente!

In quanti siamo ancora capaci e desiderosi di guardarci intorno, di assumere la fatica di analizzare ciò che accade e capire come viene visto, letto, commentato e raccontato dai Più e dai Meno?
Claudio è riuscito nell’immane sforzo di riabilitare o meglio ribaltare il valore del negativo…!
Interpretando la sintassi quantitativa, muovendosi sulla scala numerica della vita a destra e a sinistra dello zero… Ha saputo guardare e far guardare oltre il Meno, oltre la superficie dell’Intero.
Valorizzando le Virgole della quotidianità, le ha sottoposte a una lente prima mai usata, dimostrando che non ci sono solo i Numeri ma anche le Virgole…
Virgola: quel piccolo, silente, leggero segno che, nel leggere l’umano, ti fa prendere il respiro fondamentale per discutere, raccontare, ragionare, vivere e… non sopravvivere!
Grazie Claudio, col tuo leggere le Virgole ci indichi che la pausa, il silenzio, il prender tempo…
ci fanno dialogare, comunicare, relazionare con l’Altro di tutti.
Le “tue” virgole urlano l’importanza del prendere ossigeno dalle differenze per non dimenticare l’importanza universale d’interconnettere valori.
Grandi Meno fanno tanti Più.
Meno male che Claudio c’è!
Ma.Ca.&Co. (Malvicini, Caramella & Compagnia cantante)

Cari,
quante emozioni quel giorno, a Rimini. È stato un momento storico in cui la cultura dell’integrazione ha avuto modo di mostrare le sue potenzialità ed essa stessa, si spera, abbia fatto un balzo in avanti. Anzi, per rispondere al trio Ma.Ca&Co., 1,3 passi in avanti…
Emozioni intense, dicevo, ma siccome l’uomo è capace di dimenticare pressoché tutto, ho conservato tutte le lettere che mi sono state scritte prima e dopo la cerimonia di consegna della laurea: quando i ricordi si saranno affievoliti, quelle saranno lì a rinfrescarmi la memoria.
Sarà comunque difficile dimenticare “lo scandalo” che ha provocato quest’evento di confronto tra i diversi mondi della conoscenza: quello metodico delle biblioteche e dei laboratori e quello provocato dalle zone interiori dell’uomo. Così come ha concluso Ivano Dionigi, il Magnifico Rettore dell’Università di Bologna, lo scandalo è “il frutto dell’essere meraviglioso e tremendo che è l’uomo”, in grado di creare, grazie alle intrinseche e sottovalutate risorse personali, l’energia atta a inciampare e provocare così come abbiamo fatto in questi trent’anni di lavoro sull’integrazione con il Progetto Calamaio. E tu, caro Marco, avevi visto giusto: i gerani possono diventare educatori!
Grazie a tutti voi, ricordate di innaffiare i gerani e di non inculcare, ma coltivare!

Lettere al direttore

Essere testimoni credibili non basta: serve un lavoro…

Salve signor Claudio,
le scrivo dalla Calabria. Ho 37 anni e sono affetto da amiotrofia muscolare spinale II.
Sono tetraplegico.
Abito in un piccolo comune e mi conoscono, ammirano, compatiscono e vogliono bene tutti.
Sto chiedendo da tempo all’amministrazione comunale un lavoro e finalmente “pare” che ci sia in progetto l’apertura di uno sportello per affrontare il problema del disagio giovanile.
Si sono presentate a casa due signore (una che lavora a contatto con le carceri minorili, l’altra un’assistente sociale) e vorrebbero usare la mia situazione come esempio da dare ai ragazzi. Vorrebbero fare un vero e proprio servizio giornalistico su di me.
Secondo lei è giusto?
Vorrei un consiglio su cosa fare.
Grazie.
Spero diventeremo amici.
Romano.

Caro Romano,
intanto grazie per avermi scritto. Mi ha fatto molto piacere.
Allora, vengo subito al dunque: credo che tu debba cogliere questa opportunità e, cogliendola, dare ad altre persone l’occasione per avvicinarsi a un mondo che probabilmente conoscono poco o male. Capisco o immagino i tuoi dubbi: non si tratterà di fare di me una sorta di esempio, guida, di oggetto-spettacolo e, in quanto tale, male interpretato, compatito, ecc.? Questo rischio c’è sempre, e lo vivo spesso direttamente, tenendo continuamente incontri, lezioni, interviste. O anche, più semplicemente, nei rapporti di amicizia. Ti faccio un piccolo esempio. Un caro amico, che vive però lontano da Bologna, qualche tempo fa mi ha scritto una lettera molto bella nella sua ingenuità. In sostanza, mi chiedeva perché le altre persone disabili che aveva avuto modo di incontrare e frequentare non gli restituissero le stesse “soddisfazioni” che gli davo io. Ecco le sue parole, un estratto dalla lunga lettera che mi aveva spedito:
“Ho accompagnato allo stadio due disabili! È una cosa che ho già fatto altre volte. È una bella cosa, per carità, mi piace, però ieri mi è capitato di fare questo pensiero: la diversabilità, quando è vissuta come un handicap, è proprio una sofferenza! E mi sono trovato triste nel provare sofferenza nello stare con loro perché ho visto sofferenza in loro! (si chiamano Patrizio e Vincenzo…) (non so bene che problemi abbiano di preciso, ma sono tutti e due in carrozzina perché non possono camminare…). Parlano tranquillamente (sbiascicando un po’ le parole), ma mi sembra che comunque siano un po’ ‘indietro’ di testa… Non lo so, mi è capitato di pensare a te e a come mi sento quando sto con te, e mi sono reso conto che è una cosa diversa!
Per quanto tu fisicamente sia conciato peggio, non c’è paragone per quel che riguarda il vivere!
A star loro vicino avverto proprio un senso di ‘sofferenza traspirante’ che mi pervade e contamina… Non lo so, è strano, però cavolo mi fanno pena!”.
Al mio caro amico non ho potuto che far presente che capivo molto bene quello che intendeva dire e che, a livello ideale, lo condivido appieno. Anzi, direi che è quello per cui mi batto e mi sbatto da trent’anni, la creazione e condivisione di un’immagine differente della disabilità che, tra le (tante) altre cose, passa anche per un impegno diretto da parte delle persone disabili rispetto alla rappresentazione che “proiettano” fuori di sé… un modo, non secondario, per incidere sull’immaginario e le idee altrui.
Con una indicazione, però, molto importante, un suggerimento per guardare le cose in modo più consapevole: a stare con me si corre il rischio di non conoscere la realtà più diffusa tra le persone disabili e nel mondo che sta attorno a loro, si corre cioè il rischio di non entrare in contatto con le condizioni di vita più “vere” delle persone con disabilità.
Spesso, appunto, il rischio è che le persone mi prendano come modello… ma è un falso modello, comunque non rappresentativo.
Con questo non voglio assolutamente dire che, quindi, nelle occasioni di confronto e di lavoro in pubblico parlo di “aria fritta” e che quello che dico sia irrealizzabile: ma la mia condizione (fisica, mentale, sociale, lavorativa…) “fa testo” fino a un certo punto. Mi dà, certo, la possibilità di dire agli altri che esistono le risorse (in senso lato) per pensare a condizioni migliori, lavorando a livello politico, culturale, ecc.
Insomma, in un certo senso la serenità e il modo in cui vivo la mia vita “disabile” potrebbe essere un orizzonte da raggiungere, perché è vero che sono riuscito a costruire un’esistenza serena e non sofferente. Ma, appunto, è una condizione da raggiungere, da costruire e non dobbiamo commettere l’errore di provare tristezza per chi ancora vive con tristezza la sua condizione, altrimenti dal circolo non si esce.
Questo, quindi, è un piccolo rischio che hanno corso tante persone che hanno passato tempo e hanno lavorato con me nel corso degli anni e capisco cosa intendi nella tua lettera, caro Romano.
Credo, però, che il gioco che ti hanno proposto le due misteriose signore valga la candela, se gestito e giocato con intelligenza e, non lo nego, furbizia, da parte tua. Devi valutare che senso le persone che vogliono coinvolgerti intendono dare al servizio, se è quello di interrogare gli altri su alcune questioni o puntare “solo” al cuore, ossia a una cosa dal respiro breve. Poi, una volta considerata la bontà delle intenzioni, starà a te compiere il passo che ti porterà a ragionare sul generale a partire dal particolare, ovvero dalla tua persona e dalla tua esperienza di uomo con disabilità. A proporre non un modello, ma un testimone e un narratore consapevole e dallo sguardo sottile e lungo.
Dimmi se queste poche parole ti sono d’aiuto. Aspetto una tua risposta per continuare il confronto su una cosa che, lo capisco, solleva dei dubbi da parte tua e non è affatto innocente né semplice.
Grazie ancora e buona vita.
Un caro saluto.
Claudio

Caro Claudio,
grazie a te per avermi risposto. Spero tanto che inizi tra noi un lungo e proficuo scambio di impressioni.
Io per natura ho un carattere timido e introverso. Ma questo, col tempo, ho cercato, e cerco sempre, di “combatterlo”, forse proprio in forza dell’essere “diversabile”. Cioè, provo a spiegarmi: forse l’essere disabile mi ha condizionato portandomi ad accentuare la timidezza. Poi, per una sorta di orgoglio o di contrasto, per qualche tempo vedevo il dover espormi come un modo per dimostrare e dimostrarmi che non mi facevo condizionare dal mio handicap.
Adesso, ti confido, non mi interessa più. Non vorrei sempre dover combattere per “dimostrare che”. Accettare serenamente il mio handicap vuol dire vivere serenamente il mio essere un diversabile. Non un genio, né un fenomeno da circo che si sente addosso o la curiosità o la compassione degli altri… quando va un po’ in giro.
Vorrei precisarti meglio la questione di cui ti parlavo nella e-mail precedente, così da darti un quadro più chiaro. Io credo che in loro (nelle persone che mi hanno proposto la cosa) ci sia della buona volontà di usare la mia storia per far capire a chi ha quindici anni, magari circondato di ogni bene e che è insoddisfatto, come il mio vivere possa dare qualche insegnamento.
La tua riflessione, le tue parole, il tuo consiglio mi sono utilissimi.
Però vorrei precisare che non ritengo di esser nulla di “speciale”, sono uno come tanti, ho pregi e difetti, vizi e virtù, ho i miei giorni di nervosismo e di serenità, i miei hobby e le mie passioni come quelli di tanti. Tutto qui… Non so cosa se ne possa tirar fuori.
Poi, caro Claudio, mi preme pure sottolineare un altro punto. Io voglio un lavoro! Non voglio solo esser presentato agli altri, ma mi serve un posto. So usare il computer e spero che questo progetto sia basato su quello, dare lavoro.
Per sette estati (due mesi all’anno) sono stato inserito in un progetto per il quale ho fatto lavoretti col pc. Poi l’estate scorsa non vi sono stato inserito, nonostante un’assicurazione circa l’esserne parte.
Beh, intanto ti ringrazio e ti terrò informato.
Grazie e a presto.
Romano.

Icone di libertà, Il messaggero di Sant’Antonio, Settembre 2015

Papa Francesco ha più volte parlato di schiavitù e delle forme in cui si palesa nel mondo come nella quotidianità. Mi chiedo spesso se la disabilità possa o meno rientrare in una di queste forme… E se invece fosse paradossalmente un’icona di libertà? Come si può essere liberi nella diversità? E come i genitori, o più precisamente il padre, di un bambino con disabilità possono scoprirla nella relazione che li lega e darle spazio?
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Qualche mese fa avevamo parlato di come nella relazione padre-figlio le difficoltà, ormai non più solo competenza materna, possano inaspettatamente condurre entrambi in un orizzonte diverso, fatto di complicità ma soprattutto di esplorazione dentro e fuori di sé. La libertà è terreno comune, ma è anche un campo personale in cui ci avviciniamo all’espressione di pari passo con il cambiamento. Il tema della libertà, quando si parla di una persona con disabilità, è naturalmente legato all’autonomia, alle occasioni di scelta, ma non solo, dipende anche dai servizi, dai diritti, dal contesto e dal tipo di disabilità…

Come può fare allora un padre a crescere un figlio libero? E a sentirsi libero? Se ne è parlato a lungo nell’ultimo numero monografico di «Hp-Accaparlante», storica rivista del Centro Documentazione Handicap di Bologna, dedicato questa volta al ruolo del padre con il divertente titolo «Astropapà – Il ruolo paterno tra stereotipi del passato e identità future».

A ben vedere, la prospettiva si può ribaltare. Dipende da che cosa intendiamo quando parliamo di libertà, al significato più profondo e «agito» che le attribuiamo. Cito a riguardo proprio le parole di un papà: «Che cosa è la libertà per me? Non è solo un concetto giuridico di matrice pseudo occidentale. La libertà passa per la ricchezza delle relazioni. Qualunque persona privata di relazioni non è libera, anche in un contesto nel quale potenzialmente sembra essere padrona delle proprie scelte. E la condizione biologica delle persone non è indice di potenziale poca libertà, anzi… È più libera una persona con disabilità gravissima, anche cosiddetta intellettiva, inserita in un contesto familiare o comunitario ricco di relazioni e inclusivo, o una persona che per anni è costretta a lavorare “liberamente” in un contesto non desiderato, umiliante, solitario, solo per poter sopravvivere?». Certo, queste sono domande che stimolano la riflessione e spingono il dibattito a un confronto provocatorio, ma le provocazioni aprono la mente.

Anche gli eventi con cui è cominciato il nostro nuovo anno hanno portato alla ribalta il tema, perché, di fatto, è il pilastro su cui, nel bene o nel male, si fondano le nostre vite. La disabilità ci obbliga a uscire dagli schemi e dalle definizioni e a metterci fisicamente di fronte al nostro pensiero di libertà. Una persona che non si può muovere o che non può parlare che immagine ci trasmette? Eppure la libertà, come ci racconta questo papà, non è un fatto d’immagine, ma una faccenda che riguarda l’azione, qualcosa che si muove, che è e che crea relazione. Perché, come dice Giorgio Gaber, «la libertà non è star sopra un albero / non è neanche avere un’opinione / la libertà non è uno spazio libero / libertà è partecipazione» (La libertà).

E voi state sopra o sotto gli alberi? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.

 

Vivere (e mangiare) facile! , Il messaggero di Sant’Antonio, Maggio 2015

«O mia bela Madunina che te brillet de lontan / tuta d’ora e piscinina, ti te dominet Milan». Così cantava il ritornello della nota canzone popolare, perché «Milan l’è un gran Milan»! Anche durante la crisi e le controversie politiche che l’hanno coinvolta negli ultimi anni, la città natale di Enzo Jannacci rimane la capitale economica del nostro Bel Paese, nonché il catalizzatore ufficiale delle novità estere; una metropoli affascinante e dalle mille difficoltà, ora messa a ferro e fuoco dal grande evento dell’Expo 2015. Un appuntamento, quello dell’Esposizione universale, che ha sconvolto la planimetria della città – già costretta a ripensarsi tra vecchio e nuovo dalle diverse giunte – e che ora condizionerà, non necessariamente in negativo, gli spostamenti di molti, comprese le persone con disabilità. Grazie all’impegno di tanti, non ultimo quello del mio caro amico Franco Bomprezzi, che se n’è andato lo scorso dicembre, l’accessibilità all’Expo è stata, infatti, resa possibile e con una certa eco. Un crocevia di volti, di ruote e di originalità renderà la situazione movimentata, e per questo ancora più ricca e interessante. Anche la disabilità finirà così per «esporsi» in un contesto di quotidianità da un lato e in un’occasione di respiro internazionale dall’altro. Una bella conquista.

La mia mente ritorna a quando da bambino, nei ridenti anni Sessanta, mi recai con i miei genitori in visita a Roma. Anche là (come oggi a Milano) c’era un bel crocevia di figure da tutte le parti del mondo. Io ero una di quelle e mi sembrava normale passeggiare in mezzo a loro. Se non che in albergo, al momento del pranzo e della cena, fui «invitato» con la mia famiglia a mangiare in camera, così da non turbare gli altri ospiti della struttura… Questo episodio oggi – in pieno clima Expo 2015 – mi fa sorridere. Che dire? A distanza di oltre mezzo secolo il cibo è più o meno lo stesso e i sapori sono simili (pur con tutti i mutamenti climatici e non solo, e le nuove tecniche di coltura): a essere cambiati sono, però, il contesto e l’immagine collettiva legati alla disabilità. Ce lo dimostra anche il gruppo di persone (con disabilità e non) che ha partecipato alla costruzione di «Expofacile», un piano per rendere accessibile lo spazio dell’evento e l’intera città a ogni tipo di turisti e visitatori.

La prima Esposizione universale si tenne a Londra nel 1851. Nata per aprire gli orizzonti alla scoperta scientifica, la Great exhibition puntava anche a migliorare la qualità della vita e ad alimentare il gusto della meraviglia. Centosessantaquattro anni dopo la tradizione prosegue. Pur con tutte le contraddizioni che i grandi eventi portano con sé, credo che la spinta originaria di Expo 2015 ci conduca anche verso qualcos’altro: dalla scoperta alla fiera delle vanità, dal commercio al confronto su dati di realtà. Tutto questo è parlare di integrazione e accessibilità. L’Esposizione universale di Milano è un grande salotto dove gustare ogni cibo…

E voi, preferirete mangiare al chiuso o all’aperto?
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.

 

Se la vasca è lunga un giorno…, Superabile, Aprile 2015

 "Voglio restare tutto il giorno nella vasca con l’acqua calda che mi coccola la testa/ un piede fuori che s’infreddolisce appena, uscire solo quando è pronta già la cena/ mangiare e bere sempre e solo a dismisura senza dover cambiare buco alla cintura…". La vasca di Alex Britti è lunga un giorno intero… E guarda caso è proprio così che si chiama l’iniziativa promossa dalla Polisportiva Masi di Casalecchio di Reno (BO), "Una vasca lunga un giorno", una staffetta in acqua aperta a tutti, che domenica 19 aprile vedrà la partecipazione del Centro Documentazione Handicap di Bologna e di molte altre realtà socioeducative e sportive del territorio.

Appuntamento alle ore 11 con le Prove Subacquee di Taoufik Msallemi e Alessandro Lana (istruttori HSA) a cura della Coop. Accaparlante per consentire, anche a chi ha una grave disabilità o è alle prime armi, di cominciare a immergere la testa sott’acqua fino a scoprire, per chi se la sentirà di continuare, l’emozione di nuotare all’aperto tra le meraviglie del mare. A seguire, alle ore 14 le Prove di Canoa a cura di Canoa club Bologna e CSI, ancora una volta esploratori di noi stessi, tra gare, limiti, nuove tecniche e prove da superare. Per finire, tutti fuori dalla vasca per un momento di festa, alle ore 18, con l’estrazione dei biglietti della Lotteria della Solidarietà, i cui proventi saranno destinati alle iniziative di Casamasi.

Non mancherà il divertimento anche per i più piccoli, alle ore 16.30 al Parco del Blogos ad ascoltare le avventure di "Cucciolo", favola animata a cura di Coop. Accaparlante e co-condotta da educatori e animatori con disabilità.

Tante le altre iniziative in programma che potete trovare qui, a seconda dei vostri gusti acquatici.

Mi raccomando, non fate i pesci fuor d’acqua!

Io, nel frattempo, continuerò a fischiettare nella vasca…

E voi avete mai provato a mettere la testa sott’acqua? Che cosa avete scoperto? E se finite per bere sott’acqua… Pago io!

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook. (Claudio Imprudente)BOLOGNA – "Voglio restare tutto il giorno nella vasca con l’acqua calda che mi coccola la testa/ un piede fuori che s’infreddolisce appena, uscire solo quando è pronta già la cena/ mangiare e bere sempre e solo a dismisura senza dover cambiare buco alla cintura…". La vasca di Alex Britti è lunga un giorno intero… E guarda caso è proprio così che si chiama l’iniziativa promossa dalla Polisportiva Masi di Casalecchio di Reno (BO), "Una vasca lunga un giorno", una staffetta in acqua aperta a tutti, che domenica 19 aprile vedrà la partecipazione del Centro Documentazione Handicap di Bologna e di molte altre realtà socioeducative e sportive del territorio.

Appuntamento alle ore 11 con le Prove Subacquee di Taoufik Msallemi e Alessandro Lana (istruttori HSA) a cura della Coop. Accaparlante per consentire, anche a chi ha una grave disabilità o è alle prime armi, di cominciare a immergere la testa sott’acqua fino a scoprire, per chi se la sentirà di continuare, l’emozione di nuotare all’aperto tra le meraviglie del mare. A seguire, alle ore 14 le Prove di Canoa a cura di Canoa club Bologna e CSI, ancora una volta esploratori di noi stessi, tra gare, limiti, nuove tecniche e prove da superare. Per finire, tutti fuori dalla vasca per un momento di festa, alle ore 18, con l’estrazione dei biglietti della Lotteria della Solidarietà, i cui proventi saranno destinati alle iniziative di Casamasi.

Non mancherà il divertimento anche per i più piccoli, alle ore 16.30 al Parco del Blogos ad ascoltare le avventure di "Cucciolo", favola animata a cura di Coop. Accaparlante e co-condotta da educatori e animatori con disabilità.

Tante le altre iniziative in programma che potete trovare qui, a seconda dei vostri gusti acquatici.

Mi raccomando, non fate i pesci fuor d’acqua!

Io, nel frattempo, continuerò a fischiettare nella vasca…

E voi avete mai provato a mettere la testa sott’acqua? Che cosa avete scoperto? E se finite per bere sott’acqua… Pago io!

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook. (Claudio Imprudente)BOLOGNA – "Voglio restare tutto il giorno nella vasca con l’acqua calda che mi coccola la testa/ un piede fuori che s’infreddolisce appena, uscire solo quando è pronta già la cena/ mangiare e bere sempre e solo a dismisura senza dover cambiare buco alla cintura…". La vasca di Alex Britti è lunga un giorno intero… E guarda caso è proprio così che si chiama l’iniziativa promossa dalla Polisportiva Masi di Casalecchio di Reno (BO), "Una vasca lunga un giorno", una staffetta in acqua aperta a tutti, che domenica 19 aprile vedrà la partecipazione del Centro Documentazione Handicap di Bologna e di molte altre realtà socioeducative e sportive del territorio.

Appuntamento alle ore 11 con le Prove Subacquee di Taoufik Msallemi e Alessandro Lana (istruttori HSA) a cura della Coop. Accaparlante per consentire, anche a chi ha una grave disabilità o è alle prime armi, di cominciare a immergere la testa sott’acqua fino a scoprire, per chi se la sentirà di continuare, l’emozione di nuotare all’aperto tra le meraviglie del mare. A seguire, alle ore 14 le Prove di Canoa a cura di Canoa club Bologna e CSI, ancora una volta esploratori di noi stessi, tra gare, limiti, nuove tecniche e prove da superare. Per finire, tutti fuori dalla vasca per un momento di festa, alle ore 18, con l’estrazione dei biglietti della Lotteria della Solidarietà, i cui proventi saranno destinati alle iniziative di Casamasi.

Non mancherà il divertimento anche per i più piccoli, alle ore 16.30 al Parco del Blogos ad ascoltare le avventure di "Cucciolo", favola animata a cura di Coop. Accaparlante e co-condotta da educatori e animatori con disabilità.

Tante le altre iniziative in programma che potete trovare qui, a seconda dei vostri gusti acquatici.

Mi raccomando, non fate i pesci fuor d’acqua!

Io, nel frattempo, continuerò a fischiettare nella vasca…

E voi avete mai provato a mettere la testa sott’acqua? Che cosa avete scoperto? E se finite per bere sott’acqua… Pago io!

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook. (Claudio Imprudente)BOLOGNA – "Voglio restare tutto il giorno nella vasca con l’acqua calda che mi coccola la testa/ un piede fuori che s’infreddolisce appena, uscire solo quando è pronta già la cena/ mangiare e bere sempre e solo a dismisura senza dover cambiare buco alla cintura…". La vasca di Alex Britti è lunga un giorno intero… E guarda caso è proprio così che si chiama l’iniziativa promossa dalla Polisportiva Masi di Casalecchio di Reno (BO), "Una vasca lunga un giorno", una staffetta in acqua aperta a tutti, che domenica 19 aprile vedrà la partecipazione del Centro Documentazione Handicap di Bologna e di molte altre realtà socioeducative e sportive del territorio.

Appuntamento alle ore 11 con le Prove Subacquee di Taoufik Msallemi e Alessandro Lana (istruttori HSA) a cura della Coop. Accaparlante per consentire, anche a chi ha una grave disabilità o è alle prime armi, di cominciare a immergere la testa sott’acqua fino a scoprire, per chi se la sentirà di continuare, l’emozione di nuotare all’aperto tra le meraviglie del mare. A seguire, alle ore 14 le Prove di Canoa a cura di Canoa club Bologna e CSI, ancora una volta esploratori di noi stessi, tra gare, limiti, nuove tecniche e prove da superare. Per finire, tutti fuori dalla vasca per un momento di festa, alle ore 18, con l’estrazione dei biglietti della Lotteria della Solidarietà, i cui proventi saranno destinati alle iniziative di Casamasi.

Non mancherà il divertimento anche per i più piccoli, alle ore 16.30 al Parco del Blogos ad ascoltare le avventure di "Cucciolo", favola animata a cura di Coop. Accaparlante e co-condotta da educatori e animatori con disabilità.

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Io, nel frattempo, continuerò a fischiettare nella vasca…

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Appuntamento alle ore 11 con le Prove Subacquee di Taoufik Msallemi e Alessandro Lana (istruttori HSA) a cura della Coop. Accaparlante per consentire, anche a chi ha una grave disabilità o è alle prime armi, di cominciare a immergere la testa sott’acqua fino a scoprire, per chi se la sentirà di continuare, l’emozione di nuotare all’aperto tra le meraviglie del mare. A seguire, alle ore 14 le Prove di Canoa a cura di Canoa club Bologna e CSI, ancora una volta esploratori di noi stessi, tra gare, limiti, nuove tecniche e prove da superare. Per finire, tutti fuori dalla vasca per un momento di festa, alle ore 18, con l’estrazione dei biglietti della Lotteria della Solidarietà, i cui proventi saranno destinati alle iniziative di Casamasi.

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Appuntamento alle ore 11 con le Prove Subacquee di Taoufik Msallemi e Alessandro Lana (istruttori HSA) a cura della Coop. Accaparlante per consentire, anche a chi ha una grave disabilità o è alle prime armi, di cominciare a immergere la testa sott’acqua fino a scoprire, per chi se la sentirà di continuare, l’emozione di nuotare all’aperto tra le meraviglie del mare. A seguire, alle ore 14 le Prove di Canoa a cura di Canoa club Bologna e CSI, ancora una volta esploratori di noi stessi, tra gare, limiti, nuove tecniche e prove da superare. Per finire, tutti fuori dalla vasca per un momento di festa, alle ore 18, con l’estrazione dei biglietti della Lotteria della Solidarietà, i cui proventi saranno destinati alle iniziative di Casamasi.

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Mi raccomando, non fate i pesci fuor d’acqua!

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Appuntamento alle ore 11 con le Prove Subacquee di Taoufik Msallemi e Alessandro Lana (istruttori HSA) a cura della Coop. Accaparlante per consentire, anche a chi ha una grave disabilità o è alle prime armi, di cominciare a immergere la testa sott’acqua fino a scoprire, per chi se la sentirà di continuare, l’emozione di nuotare all’aperto tra le meraviglie del mare. A seguire, alle ore 14 le Prove di Canoa a cura di Canoa club Bologna e CSI, ancora una volta esploratori di noi stessi, tra gare, limiti, nuove tecniche e prove da superare. Per finire, tutti fuori dalla vasca per un momento di festa, alle ore 18, con l’estrazione dei biglietti della Lotteria della Solidarietà, i cui proventi saranno destinati alle iniziative di Casamasi.

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Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook. (Claudio Imprudente)BOLOGNA – "Voglio restare tutto il giorno nella vasca con l’acqua calda che mi coccola la testa/ un piede fuori che s’infreddolisce appena, uscire solo quando è pronta già la cena/ mangiare e bere sempre e solo a dismisura senza dover cambiare buco alla cintura…". La vasca di Alex Britti è lunga un giorno intero… E guarda caso è proprio così che si chiama l’iniziativa promossa dalla Polisportiva Masi di Casalecchio di Reno (BO), "Una vasca lunga un giorno", una staffetta in acqua aperta a tutti, che domenica 19 aprile vedrà la partecipazione del Centro Documentazione Handicap di Bologna e di molte altre realtà socioeducative e sportive del territorio.

Appuntamento alle ore 11 con le Prove Subacquee di Taoufik Msallemi e Alessandro Lana (istruttori HSA) a cura della Coop. Accaparlante per consentire, anche a chi ha una grave disabilità o è alle prime armi, di cominciare a immergere la testa sott’acqua fino a scoprire, per chi se la sentirà di continuare, l’emozione di nuotare all’aperto tra le meraviglie del mare. A seguire, alle ore 14 le Prove di Canoa a cura di Canoa club Bologna e CSI, ancora una volta esploratori di noi stessi, tra gare, limiti, nuove tecniche e prove da superare. Per finire, tutti fuori dalla vasca per un momento di festa, alle ore 18, con l’estrazione dei biglietti della Lotteria della Solidarietà, i cui proventi saranno destinati alle iniziative di Casamasi.

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Appuntamento alle ore 11 con le Prove Subacquee di Taoufik Msallemi e Alessandro Lana (istruttori HSA) a cura della Coop. Accaparlante per consentire, anche a chi ha una grave disabilità o è alle prime armi, di cominciare a immergere la testa sott’acqua fino a scoprire, per chi se la sentirà di continuare, l’emozione di nuotare all’aperto tra le meraviglie del mare. A seguire, alle ore 14 le Prove di Canoa a cura di Canoa club Bologna e CSI, ancora una volta esploratori di noi stessi, tra gare, limiti, nuove tecniche e prove da superare. Per finire, tutti fuori dalla vasca per un momento di festa, alle ore 18, con l’estrazione dei biglietti della Lotteria della Solidarietà, i cui proventi saranno destinati alle iniziative di Casamasi.

Non mancherà il divertimento anche per i più piccoli, alle ore 16.30 al Parco del Blogos ad ascoltare le avventure di "Cucciolo", favola animata a cura di Coop. Accaparlante e co-condotta da educatori e animatori con disabilità.

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Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook. (Claudio Imprudente)

 

Eravamo quattro amici al bar, Superabile, Aprile 2015

Sono passati ormai diversi mesi dalla scomparsa di Franco Bomprezzi. Con questo articolo Claudio Imprudente desidera ricordalo così com’era, uno dei suoi quattro grandi amici e punti di riferimento con cui cambiare la cultura della disabilità tra conquiste, risate e un buon caffè.

Oggi mi sono svegliato con un’immensa voglia di fischiettare…Ma come si fa a fischiettare? Beh, si prende una canzone a caso, direte voi, ma il caso non esiste…E così ho cominciato a pensare a "Quattro amici al bar" di Gino Paoli.

Quattro amici che ogni giorno si incontrano a fine giornata nello stesso bar, per il protagonista della canzone dei veri punti di riferimento, o forse ancora di più, dei modelli ispiratori, compagni di chiacchiere e bevute e di idee con cui cambiare il mondo.

Subito la mia immaginazione è andata nella saletta di un bar e mi sono chiesto chi fossero per me quei quattro amici. Ve li cito non in ordine di comparsa ma di scomparsa: Rosanna Benzi (1991), Enzo Aprea (1995), Alberto Fazzioli (1997) e Franco Bomprezzi (2014).

Ricordo Rosanna che dall’alto del suo polmone d’acciaio si pavoneggiava del suo nuovo colore di capelli, perché voleva essere sempre in ordine e non apparire sciatta…Ma chi era Rosanna? Aveva un vizio…"Il vizio di vivere".

Accanto a lei Enzo Aprea, il classico ex sessantottino, che ripeteva continuamente gli aneddoti delle sue avventure come inviato della Rai…"Vi ho mai detto di quella volta che…"

Sulla sinistra, un po’ in angolo, Alberto Fazzioli, già sudaticcio per l’emozione di essere lì tutti insieme a contarla su, che ascoltava attento e che non si sarebbe mai dimenticato di ogni nostra parola, sognava insieme a me di fondare un posto strano…ai limiti dell’utopia e dello scandalo, un posto dove stare bene, divertirsi, dare un calcio al pallone e cambiare la cultura della disabilità: il Centro Documentazione Handicap.

E infine, avvolto da almeno tre sciarpe dell’Inter con una foto di Giacinto Facchetti c’era Franco Bomprezzi, lui voleva fare l’uomo invisibile ma non ci riusciva!

Eccoli lì i miei quattro amici, i miei modelli ispiratori che mi hanno accompagnato nella vita tra discussioni, scoperte, lotte e conquiste e che hanno smosso le coscienze dell’opinione pubblica con le loro personalità.

Che dire? Non mi resta che continuare a fischiettare…"Eravamo quattro amici al bar/che volevano cambiare il mondo/destinati a qualche cosa in più/che a una donna ed un impiego in banca/si parlava con profondità/di anarchia e poi di libertà/tra un bicchier di coca ed un caffè/tiravi fuori i tuoi perché / e proponevi i tuoi farò…".

E voi, siete bravi a fischiettare? Tanti Auguri… anche di Buona Pasqua! Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)